Divulgare la scienza: in ricordo di Piero Angela

In ricordo di Piero Angela trascriviamo letteralmente l’articolo/intervista “Divulgare la scienza“, a firma Giancarlo De Leo per Poliziamoderna, rivista ufficiale della Polizia di Stato, pubblicata il 01/03/2012.

Autore di fortunati programmi di informazione, Piero Angela, uno dei protagonisti del calendario della polizia, parla di sè e di come vede il futuro della televisione

Uno dei volti televisivi più noti e popolari presso il grande pubblico, considerato il “divulgatore scientifico” per eccellenza della televisione italiana, Piero Angela è il protagonista del mese di marzo del calendario della Polizia di Stato. Vero pioniere dell’informazione radiotelevisiva (il suo programma SuperQuark, in onda dal 1995, è il punto di riferimento nel campo dei documentari scientifici, storici e naturalistici), autore di molti libri – alcuni dei quali tradotti in inglese, tedesco, francese e spagnolo – venduti in milioni di copie, racconta a Poliziamoderna la sua esperienza professionale rispetto alla televisione e ad alcuni temi di attualità.

Nell’immagine di marzo del calendario lei è ritratto accanto alla Lamborghini e all’aereo P180, due mezzi adibiti anche al trasporto di organi. Lei è a conoscenza di questa attività della polizia? Cosa pensa della donazione di organi in Italia?
Ne ero a conoscenza e penso sia un merito per la polizia. Riguardo questo punto credo che in Italia ci sia ancora molto da fare soprattutto in termini di corretta comunicazione. Sull’argomento circolano infatti molte chiacchiere infondate, veicolate con estrema leggerezza da personaggi famosi, che purtroppo arrivano a milioni di persone. In questo senso, una volta commesso un grosso danno, risulta difficile ripararlo; la smentita di un serio scienziato non ha mai l’eco di una corbelleria firmata da un personaggio popolare. Voi della Polizia di Stato difendete i cittadini dai malfattori e dalle truffe, noi giornalisti cerchiamo di difenderli dalle false informazioni: una missione parallela che ci rende in qualche modo affini e che in fondo credo “legittimi” anche la mia presenza nel vostro calendario.

La sua passione non è sempre stata solo il giornalismo, sappiamo che uno dei suoi amori giovanili è stata la musica, in particolare quella jazz. Cosa c’è in comune tra questi suoi interessi?
In effetti da giovane sono stato un musicista dilettante con potenzialità professionali. Ho fatto anche dei piccoli tour suonando in giro per l’Italia facendo parte di trii e quartetti che si esibivano nei jazz club. Una esperienza di cui ho fatto tesoro nel mestiere di giornalista. Il linguaggio della musica mi ha insegnato i cambiamenti di ritmo, di intensità, le variazioni sul tema e le digressioni che tuttora utilizzo nelle mie comunicazioni per non apparire – appunto – monocorde. È assolutamente essenziale, per ogni divulgatore, non annoiare mai chi guarda e ascolta, a maggior ragione se gli argomenti trattati sono molto seri.

In una televisione generalista è possibile mantenere un’identità riconoscibile? SuperQuark o Ulisse potranno migrare verso qualche canale tematico per non correre il rischio di essere confusi con programmi che non hanno alcuna validità scientifica?
Come giornalista per me è assolutamente naturale rivolgersi ad un pubblico che sia il più vasto possibile, anche per stimolare l’attenzione di chi non si orienterebbe autonomamente verso i temi che proponiamo. In fondo è proprio questa la funzione del divulgatore: dapprima far sorgere un interesse e poi aumentare il livello di consapevolezza del “normale” telespettatore relativamente ad un tema che altrimenti rimarrebbe circoscritto a pochi addetti ai lavori o cultori della materia e del tutto ignoto ai più. Per questo stesso motivo non vedo il futuro di Superquark o di Ulisse in palinsesti specializzati: questi canali potrebbero essere utili soprattutto agli studiosi e agli appassionati di questo o quell’argomento, ma corrono il rischio di diventare dei club per pochi, delle vere riserve indiane mediatiche.

Pensa che la televisione generalista rischi di perdere il pubblico più giovane?
È incontestabile che i giovani si stiano allontanando dalla televisione, dirigendosi sempre più verso altri terminali come i tablet e gli smartphone: ma è vero che anche loro continuano a guardare la tv, magari veicolata da Internet, sul proprio pc. Poi ci sono i tanti anziani – e la popolazione invecchia sempre di più – che non si servono delle nuove tecnologie e rimangono fedeli alla televisione tradizionale. Se si guardano i dati di ascolto delle trasmissioni televisive si vede che il bacino di utenza complessivo in realtà è aumentato, in particolare le ore quotidiane di fruizione pro capite – si arriva ad una media oltre quattro ore –, e questo è un dato veramente rilevante. È da tenere presente poi che purtroppo nel nostro Paese è il tubo catodico a tenere banco rispetto per esempio ad altre attività come la lettura. Per molte persone il piccolo schermo è rimasto l’unico gancio culturale disponibile e proprio per questo l’offerta dovrebbe essere sempre più aperta, strutturata e stimolante. Al contrario la moltiplicazione dei canali meramente tematici rischierebbe di condizionare la scelta dello spettatore solo sull’argomento che gli interessa, fiction o trasmissioni calcistiche o altro, impoverendo il ventaglio di informazioni che potrebbe ottenere. Detto questo, sicuramente in un contenitore generalista ci può essere il rischio di confondere l’utente con proposte solo in apparenza somiglianti. Non resta che confidare nella maturità dello spettatore e nella sua capacità di discernimento. D’altra parte, ognuno è responsabile in toto per i propri prodotti e personalmente posso garantire solo per i miei… per concludere in leggerezza, vogliamo infine dire che “il mondo è bello perché è vario?”

Lei è tra i fondatori del Cicap (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale) un’organizzazione per promuovere un controllo sui fenomeni scientificamente inspiegabili. In una società dove spesso sedicenti maghi e veggenti approfittano delle persone psicologicamente deboli quanto valore ha l’affermazione di George Santayana “lo scetticismo è la castità dell’intelletto”?
La speculazione a discapito dei creduloni è assolutamente reale e si manifesta in forme più o meno gravi, l’oroscopo ne costituisce l’espressione più diffusa e meno dannosa. Purtroppo, per contrastare efficacemente il problema ci vorrebbe una campagna di informazione collettiva con numerosi testimonial qualificati e conosciuti. Personalmente, anche come scrittore, sono molto impegnato in questo senso, (ndr: ha scritto anche un libro sull’argomento :Viaggio nel mondo del paranormale e ha una rubrica fissa: “L’altra campana” sulla rivista Scienza e Paranormale), ma la mia voce è sempre stata piuttosto isolata.

Lei è anche autore di numerosi libri che spesso approfondiscono gli argomenti trattati nelle sue trasmissioni. Che ne pensa delle nuove tecnologie applicate all’editoria? Legge anche i libri in formato digitale sui tablet o sugli e-book reader?
Sono assolutamente consapevole dei vantaggi offerti dalle nuove tecnologie come l’economicità, il risparmio di spazio, di peso e la conseguente disponibilità di una intera biblioteca in pochi centimetri quadri, ma ritengo che questi strumenti siano perlopiù destinati alle nuove e alle nuovissime generazioni, i cosiddetti “nativi digitali”; personalmente continuo ad apprezzare maggiormente la tradizionale carta stampata, facendo parte della generazione dei “nativi gutemberghiani!”.

data pubblicazione articolo originale: 01/03/2012

link articolo originale sul sito ufficiale di Poliziamoderna; Divulgare la scienza (poliziadistato.it)




Evitare di sentirsi soli.


di Valentina Serafin 

Ho osservato una continuità di comportamento tra chi prima si lamentava per i vaccini e il green pass e oggi sostiene le ragioni della guerra e di Putin.

Sono arrivata a leggere addirittura che le immagini di guerra trasmesse dalle TV e dai social fossero finte, con l’obiettivo di distrarre l’attenzione dal Covid, o addirittura, che la guerra sì, c’è, ma è stata voluta da Putin per liberare il mondo dal DeepState e dal Satanismo, così come aveva tentato di fare Trump durante il suo mandato. Il complottismo, come si vede, è senza limiti e chi lo coltiva non si preoccupa di contraddirsi in continuazione.

Quello che, però, è sempre più evidente, è la continuità di azione tra coloro i quali prima manifestavano contro il vaccino e il tentativo di ridurre i contagi (negando l’esistenza del Covid) con quelli che oggi negano la responsabilità di Putin per la guerra, addossandola tutta alla NATO.

Ciò che appare chiaro è che il passaggio da NO VAX a SÌ PUTIN è un approccio ai problemi del mondo che mostra una preoccupante continuità, e che si sta sedimentando nell’opinione pubblica.

Il rischio a lungo termine è che il sistema di credenze, malleabili, delle folle anti-lockdown e complottiste potrebbero trasformarsi in azioni antigovernative a prescindere dall’evento stesso.

Sto parlando di una sfiducia diffusa in tutto ciò che appare come “mainstream“e, per quanto siano lodevoli e sempre da incoraggiare l’anticonformismo e la capacità critica, qui noto qualcosa di diverso, cioè il desiderio di sentirsi controcorrente sempre e comunque.

Il pensiero comodo, banale, quindi facilmente sposabile, è che se la TV o i giornali dicono una cosa, allora deve essere vero l’esatto contrario. 

Certo, a volte questo succede, soprattutto nei regimi dittatoriali; come avviene in questo momento in Russia, per esempio, le immagini della distruzione provocata dai bombardamenti su Mariupol vengono denunciate dalla TV russa come effetti della ritirata ucraina, che si lascerebbe terra bruciata alle spalle.

Pensare, però, che questo avvenga sempre e comunque, soprattutto in una democrazia come la nostra, dove la libertà di stampa è garantita dalla costituzione e dalla pluralità della stessa, è oggettivamente un po’ troppo.

Un pregiudizio che rende totalmente ciechi e non disposti a valutare alternative, di fronte a qualunque tipo di evidenza verificabile e dimostrabile.

Credere che sia vero solo ciò in cui si vuol credere è una forma di ottusità, innegabilmente efficace, che disarma l’interlocutore, anche se questo è mosso dalle migliori intenzioni e dalla totale disponibilità a spiegare il suo punto di vista.

Quale può essere il motivo di tanta ottusità? Il fatto di sentirsi emarginati, senza voce, minacciati dalla diffusione dei valori di uguaglianza, parità e antirazzismo?

Oppure, tra loro, c’è un antisistema ad oltranza e una diffidenza totale verso l’informazione tradizionale?

Molti sono, e questo lo insegna la storia, manipolati per secondi fini, a loro stessi ignoti. Diventano un mero strumento per ottenere altri risultati, di cui loro pagano solo le conseguenze e raramente raccolgono benefici.

La manipolazione di sentimenti e ragioni, che rende possibile l’aggregazione tra persone che normalmente si detesterebbero: dall’estrema destra all’estrema sinistra, dai sovranisti ai liberalisti, dai fanatici religiosi ai cultori di chissà quale altra disciplina.

Chi è disposto a credere alle fantasie di complotto, passa con disinvoltura da una teoria all’altra: basta convincersi di avere capito tutto, di essere più furbi della massa e assurgere a “paladini del pensiero libero”.

Il passo è breve.

Ma in realtà, convincersi che tutti mentano, siano ciechi o sottomessi al potere non significa essere pensatori liberi, è solo un’altra forma di ingenuità.

Esiste una soluzione? Il percorso è di tipo culturale, di educazione, di mentalità, un processo lungo che richiede l’impegno di istituzioni e singoli cittadini.

Respingere disinformazione e falsità richiede innanzitutto la capacità di mettersi in discussione, di saper ascoltare il disagio di chi si sente lasciato indietro.

Ricordiamoci che siamo tutti esseri umani, che ognuno di noi è fallace, e ha pregi e difetti; possiamo e anzi dobbiamo avere opinioni diverse, ma contestualmente abbiamo il dovere di impegnarci con costanza a saperle sostenere con civiltà ed educazione, con l’obiettivo di trovare un punto comune, di armonia, di contatto.

E’, forse, l’unico modo che ci rimane per evitare di sentirci soli.


Valentina Serafin collabora con PIUATHENA ed ha una esperienza pluriennale come Presentatrice, Conduttrice TV e Speaker radiofonica, acquisita collaborando con le più importanti realtà del settore.




1969 S.H.A.D.O. – UFO, eros e tecnologia.

di Redazione Online

Probabilmente la maggior parte dei fan dei vari STAR WARS e STAR TREK (e degli Spin-off , prequel e sequel ) non conoscono la serie che può essere considerata la prima, unica ed irraggiungibile in un epoca in cui la TV nelle case era ancora in bianco e nero, tranne rare privilegiate eccezioni.

Certo, bisogna avere oltre i 50 anni, oppure essere davvero dei cultori del genere,per ricordare ed amare UFO -SHADO ideata e prodotta in Gran Bretagna nel 1969 da Gerry Anderson. 

La serie, a suo modo rivoluzionaria per temi e impostazione, fu una sorta di concept che servì in seguito alla successiva produzione di SPAZIO 1999 che ottenne altrettanto successo tra i fan di fantascienza.

Le marionette di Stingray e Thunderbirds (1964)

Ventisei puntate totali, evoluzione cinematografica delle marionette di Stingray e Thunderbirds (1964) il format si avvaleva di una fantastica colonna sonora del musicista inglese Barry Gray ed era ambientata nel futuro ,allora prossimo (1980) , con ambientazioni visionarie e per quel tempo avveniristiche.

La trama era semplice e lineare: siamo nel 1980, la Terra è minacciata da una razza aliena che rapisce e uccide gli esseri umani e li usa come ricambi per sostituire parti del loro corpo. Un’organizzazione militare altamente segreta viene istituita nella speranza di difendere la Terra da questa minaccia aliena. Questa organizzazione si chiama SHADO (Supreme Headquarters Alien Defense Organization) e opera da un luogo segreto sotto uno studio cinematografico. Oltre a gestire una flotta di sottomarini, l’organizzazione disponeva di una base lunare (Moonbase), nonché un satellite di allerta precoce che rilevava gli UFO in arrivo. Gli UFO potevano essere distrutti nello spazio dagli Interceptor , lanciati direttamente da Moonbase o da uno dei sottomarini.

Nessun super eroe nell’organizzazione, guidata dal Comandante Straker (interpretato sempre dall’attore Ed Bishop, sia nella fiction, come nei film realizzati dalla serie per il cinema) ma persone normalissime, quasi degli impiegati , con tutte le caratteristiche delle persone comuni, con annesse le loro fragilità, paure e vite normali.

La caratteristica particolare era data dal fatto che la natura e le origini  degli Alieni invasori non era mai svelata, fatta eccezione per alcuni indizi lasciati qua e là nelle varie puntate. Non si trattava comunque di Rettiliani o umanoidi grigi, ma persone del tutto simili a noi, fatta eccezione per il fatto che vivevano immersi in una soluzione liquida all’interno delle loro tute, il che dava loro un colore verdognolo.

In linea con i tempi per quanto riguarda la rivoluzione sessuale che in quel periodo modificava i tradizionali codici di comportamento, il look del personale della Base Luna aveva forti ed esplicite componenti erotiche, un perfetto mix misto tra lo stile Swinging London e quello che si pensava fosse l’abbigliamento del  futuro. 

A rappresentare questo aspetto affatto secondario nella serie, il character del Luogotenente Gay Ellis, interpretato dall’attrice e modella inglese Gabrielle Drake, esempio fulgido di bellezza britannica del periodo: personaggio, disincantato e disinibito, caschetto di capelli viola e abito argento con minigonna d’ordinanza, comune a tutte le soldatesse della base lunare della S.H.A.D.O.

Malgrado ci fossero stati precedenti illustrissimi in campo letterario e cinematografico, mai un simile prodotto con un simile soggetto era approdato ad una televisione generalista e quando questo accade, fu una grossa novità.
Gli alieni di “UFO” erano, infatti, malvagi, determinatissimi, grandi conoscitori dei nostri punti deboli, militarmente e politicamente parlando, e solo con altrettanta determinazione e ferocia sarebbe stato possibile contrastarli.

Arrivati sulla terra dal loro pianeta morente per mezzo di piccole astronavi, velocissime, a forma di disco rotante, una sorta di trottole sibilanti che emergevano dall’oceano, dove avevano costruito delle basi sottomarine.

Chi conosce questa serie, perché l’ha vista a suo tempo in Tv o perché l’ha saggiamente recuperata in Dvd (ci sono in commercio due meravigliosi cofanetti con le versioni integrale di tutti e 26 gli episodi, restaurati dai tagli fatti a suo tempo dalla nostra RAI nazionale), non può non apprezzarne le molteplici intuizioni e previsioni in ottica tecnologica.

Le numerose innovazioni ipotizzate, di fatto, hanno anticipato la realtà che viviamo oggi. Il cercapersone, il cellulare, l’aria condizionata in auto, i Personal Computer, ma soprattutto Internet (il progetto ARPANET, nacque proprio  nel 1969) che ha come data di nascita ufficiale il 1983!




The Ferragnez.


La [non] recensione di Cristiana Caserta_

The Ferragnez mi sono piaciuti.

Ovvio. Sono fatti per piacere. Sono un prodotto. Come un pacchetto di patatine. Sapidità, croccantezza, grassi: chi lo produce sa il fatto suo e ci mette dentro tutte quelle cose che ti terranno con le mani dentro al sacchetto anche se non hai fame, anche se sai che fanno ingrassare e il loro apporto nutrizionale è irrilevante.

No. Ovvero: forse.

È vero che ci sono tutti gli ingredienti per tenere lo spettatore davanti al video il tempo necessario. Montaggio: le scene durano un secondo meno del giusto, ti lasciano col desiderio di vedere meglio qualunque cosa tu stia vedendo: una villa sul lago, una strada di Milano, un interno. Fotografia: nitida, lucente. Ti lascia un ricordo di rosa e di azzurro. Di cameretta per bambini. Di città a misura. Niente di troppo moderno né di troppo antico. Giusto. E di giusta distanza, anche. La telecamera non invade con primi piani, né si allontana con campi lunghi. Se sceglie, sceglie di non scegliere. Di non interferire. Sceneggiatura: sapiente. I fili narrativi si alternano e si intrecciano, senza stancare. Il jingle vintage, in stile telefilm anni ’80, impacchetta il tutto come quelle belle scatole rosse di Cipster o di Ritz che ci portavamo nelle gite scolastiche e in cui finivano cento manine appiccicose (poi ‘pulite’ sui sedili dei pulman).

Cioè, la serie amplifica proprio il modo in cui Ferragnez hanno costruito la loro immagine negli ultimi due anni.

A misura di Chiara. Rassicurante. Classica, a suo modo. 

Bionda. 

The blonde family.

Ma l’ingrediente più giusto sono loro: i personaggi. Croccanti.

Sono ricchissimi, giovani, belli e di successo. Quindi non proprio ‘personaggi’. Perché il ‘personaggio’ deve avere qualcosa da raccontare. 

E che possono raccontare? 

Serie analoghe, tipo i Kardashian, hanno giocato con ingredienti da junk food: pettegolezzi, litigate, ostentazione del lusso, vacuità estrema. Decine di altri prodotti hanno seguito l’esempio fino a saturazione meritando la messa alla berlina di tutto l’ambiente finto-vip vero trash in Don’t look up.

Ferragnez fa una scelta (necessariamente) diversa. 

Va a scavare nella psicologia dei personaggi e trova momenti di verità. 

[Ora, bisogna dire che lo snobismo assoluto di quelli che la ‘cultura’ l’hanno appiccicata in fronte come un tatuaggio fake, di quelli che vanno via con l’acqua, nega in genere che l’interiorità possa albergare all’interno di jeans strappati ed essere espressa con eloquio non propriamente vario e padrone di tutti i modi e tempi verbali. E bisogna aver frequentato molte aule scolastiche – da adulti – per sapere che ovviamente non è così. Ha la stessa ricchezza interiore di un pensoso critico cinematografico in giacca di tweed un diciottenne tatuato o una bionda che appella tutti con: “amore!”]

Certo, per giustificarla, sia la ricerca che la trouvaille psicologica, bisogna – nei Ferragnez – che ci sia lo psicologo e il set adatto (come se senza il professionista ad hoc, non si fosse in grado di auto-scavare dentro di sé) ma comunque…

Momenti di verità. Verità che affiorano in mezzo a tutti quegli ingredienti ‘blonde’ che abbiamo detto prima. Verità che la cinepresa non capisce e la regia non traduce. Lasciate grezze. 

Federico che è incapace di godersi il successo di Fedez. Ci arriva attraverso troppa insicurezza, troppi errori, troppi dubbi. E quando arriva, è già stanco. Non si fida. Né di sé stesso né dei propri risultati. Li sente scarsi. È impacciato nell’universo blonde di Chiara. Vorrebbe a volte essere altrove. Si presta a parlarne con lo psicologo, si sforza di rendere accettabile, positiva, presentabile la sua (in)sofferenza. Parla del suo essere stato bullizzato. Ma lo sforzo di normalizzazione resta. 

Come se chiedesse alla telecamera e a noi spettatori di confermargli che sì, è ‘normale’ sentirsi così!

Chiara: solare, quieta, solidale, generosa, attiva, equilibrata, paziente. 

Ansiosa, a volte, e spaventata dalla sofferenza psicologica del marito. Ma un’ansia fattiva e laboriosa. La sera di Sanremo manda il figlio a dormire dai nonni per concentrarsi nello spingere i suoi followers a votare il marito. Come darle torto? Avrei fatto anch’io così. 

Arriva seconda.

Come ti senti quando lui è così?” – chiede lo psicologo (e allude ai frequenti momenti down di Federico). 

Come quando avevo quattordici anni” – risponde Chiara di getto (e la telecamera non va ad indagare con un primo piano, a riprova della casualità). 

Cioè – si scopre – alle prese con la separazione dei genitori, cioè sgomenta nella scoperta della fragilità altrui, lei che sembra fatta davvero di un’altra sostanza. Non molto terrena. Inconsapevolmente celeste. Laura e Beatrice. 

Troppa. Per Federico, ma un po’ per tutti. Infatti, gioca spesso di rimessa. Attenta a non urtare gli altri con troppa perfezione. Si inventa qualche insicurezza. Capisce che serve. 

Finto? Vero? Ben confezionato? Non saprei. 

Tenero. Come lo sono a volte i ragazzi (e anche gli adulti) quando scoprono che c’è il mondo di fuori e c’è il mondo dentro e che quel mondo è complesso e diverso in ciascuno; e, una volta trovata questa loro e altrui interiorità, se la rigirano fra le mani perplessi, senza sapere bene cosa farne. 

Nell’attesa, fanno una foto e la postano su Instagram.


Cristiana Caserta_

LinkedIn Top Voice 2020; 

Scrivo, studio, insegno materie con le tecnologie, sono pratica di formazione, giornalista free lance, multipotenziale.




Gli stupidi ben informati.

Emilio_Gomariz

di Valentina Serafin 

La libertà di informazione è, bene o male, garantita da costituzioni e da leggi.

I media che ricoprono il nostro pianeta, con le loro reti, si dichiarano liberi, ma lo sono davvero, oppure sono in catene? Non è, di fatto, ipotizzabile una rivoluzione democratica, né una politica degna di tale nome, se non si affronta la situazione complessa della comunicazione.

Parlare di punto di non ritorno potrebbe sembrare eccessivo, eppure il nostro Paese si trova, oggi, ad un livello assolutamente insufficiente, se parliamo di qualità e libertà dell’informazione.

Senza una vera libertà in questo settore nevralgico, non ci può essere vera democrazia.

Naturalmente, non stiamo parlando di mancanza di libertà di espressione o di parola, condizione propria di regimi totalitari che, grazie a Dio, non ci riguardano, ma i vincoli sono sempre più virtuali, invisibili, tali da condizionare il pensiero comune, indirizzandolo.

La libertà di espressione, così come la conosciamo oggi, in questa forma, è il frutto di lunghe lotte, che hanno assicurato ai giornali e ai media di poter stampare, trasmettere, informare in modo (apparentemente) libero.

Certo, questa libertà è garantita dalla Costituzione e dalla Legge, ma sempre di più in una forma simbolica che, con il tempo, si è andata modificando, rimodellandosi su esigenze editoriali e di partito.

Oggi, la platea di strumenti informativi è impressionante. A volte, può sembrare anche eccessiva, vista la quantità di dati a disposizione e come questi vengano modificati a proprio uso e consumo. Ma se ognuno di questi strumenti è anche in piccola parte “non libero”, la somma totale, poi, diventa preoccupante, perché si rischia di cadere in un conformismo illiberale.

L’opinione pubblica è spesso considerata dominatrice e onnipotente, giudice ultimo, senza possibilità di appello. Ma, in effetti, e allo stesso tempo, questa è quotidianamente condizionata, in modo subdolo, dunque possiamo certamente dire che è manipolata. Questo accade perchè esiste una condizione di oligopolio con una concentrazione limitata di grandi realtà editoriali, irraggiungibili dalle minoranze ideologiche, che, essenzialmente, sono rese inermi da questo strapotere.

Il lettore, lo spettatore e l’ascoltatore, che vengono dichiarati “protagonisti”, in realtà sono ridotti a soggetti passivi ed inconsapevoli.

Non hanno alcun diritto.

I risultati della cosiddetta “libertà d’impresa mediatica” sono insignificanti.

L’opinione pubblica, il lettore, il cittadino, si difendono come possono e arretrano: abbandonano progressivamente gli strumenti più “difficili” e soggiaciono a quelli più “facili”. Vanno sempre meno in edicola ad acquistare i quotidiani e si consegnano inerti e inoffensivi di fronte alla tv, assimilando improbabili notizie che gli si accavallano nella mente in un turbine di realities, “Grandi Fratelli”, serie tv e news accomodate.

In una società che rivendica (giusti) diritti per qualsiasi minoranza e categoria, nessuno ha mai pensato di garantire i diritti dei lettori e ascoltatori?

Il “lettore”, inteso nel senso più ampio del termine, oggi, di fatto, non ha sufficienti garanzie sul prodotto che acquista e quelle poche che ha sono disattese.

Eppure, questi sono consumatori di una merce ben più delicata di altre, perché condiziona la salute mentale e democratica.


Valentina Serafin collabora con PIUATHENA ed ha una esperienza pluriennale come Presentatrice, Conduttrice TV e Speaker radiofonica, acquisita collaborando con le più importanti realtà del settore.