Nel quarto superiore del simbolo della Marina Militare compare il Leone di San Marco, secolare simbolo della città di Venezia e della sua antica Repubblica. Detto anche “Leone Marciano” o “Leone Alato”, è la rappresentazione simbolica dell’evangelista san Marco, raffigurato in forma di leone alato. Altri elementi osservabili sono l’aureola, il libro e una spada tra le zampe in varie combinazioni
La simbologia del Leone di San Marco deriva dalla leggenda secondo la quale un angelo sotto forma di leone alato si presentò al Santo, naufragato in laguna, proferendo le parole: «Pax tibi Marce, evangelista meus. Hic requiescet corpus tuum» (Pace a te, Marco, mio evangelista. Qui riposerà il tuo corpo) preannunciandogli che in quel luogo, un giorno, il suo corpo avrebbe trovato riposo e venerazione. Il libro, associato al Vangelo, ripropone spesso le parole del leone: «PAX TIBI MARCE EVANGELISTA MEVS».
Numerose le interpretazioni simboliche riguardo alla combinazione tra spada e libro:
il solo libro aperto è ritenuto simbolo della sovranità dello Stato;
il solo libro chiuso è invece ritenuto simbolo della sovranità delegata alle pubbliche magistrature;
il libro aperto e la spada non visibile a terra è ritenuto simbolo della condizione di pace;
il libro aperto con la spada impugnata sarebbe invece simbolo della pubblica giustizia.
il libro chiuso con spada impugnata, è infine ritenuto simbolo di stato di guerra;
Altri elementi significativi, infine, il leone poggia le zampe anteriori sulla terra e quelle posteriori sull’acqua: particolare riferimento al saldo potere di Venezia sulla terra e sul mare.
In un tempo come questo, amareggiato, ferito e sconvolto da una guerra che appare tanto assurda, che nella crudezza di tante immagini ci riporta a una delle realtà tra le più terribili e sconvolgenti dell’Uomo che si volge al male, alla violenza, all’odio, alla barbarie, a ciò che lo trascina verso il disumano, quando non nel diabolico, può forse far bene il realismo, la triste verità di un film come “UN’OMBRA NEGLI OCCHI” (su Netflix).
Un film realmente superbo, che sarebbe riduttivo considerare semplicemente un “film di guerra”. Una storia che prende le mosse da un avvenimento realmente accaduto a solo un mese dal termine del secondo conflitto mondiale [*] e che ci racconta di vita, di amori, di fede, di dubbi e conflitti tutti interiori e di come la guerra, possa sconvolgere tutto in un solo istante. Di quanto ci sia di assurdo, di crudelmente beffardo, di inumano, di spietato, di cieco e tragico, in qualsiasi conflitto armato.
Di come poco cambia se il fuoco sia “amico” o “nemico”, di come raramente “il fine giustifichi i mezzi”, di come con assoluta certezza, indicibili sofferenze verranno inflitte ai piccoli e agli innocenti, anche laddove l’obbiettivo fosse raggiunto.
Un racconto che non vuole per forza indicarci un nemico, qualcuno da odiare o da distruggere pensando così di ottenere giustizia, tanto che è chi doveva essere amico che causerà il danno maggiore.
Ma in un tempo sospeso in cui tutto sembra crollare assieme agli edifici, un tempo in cui pare “Dio abbia lasciato cadere la matita” (bisogna vedere il film per comprendere questa metafora), l’Uomo ancora una volta, spinto dalla profonda ribellione verso il male e la morte, sa ritrovare in sé la forza, le risorse, la profondità d’animo che alla tragedia non consente la parola “fine”. Che al Male non lascia l’ultima parola. Là dove lacrime e sorriso si mischiano in mezzo alla polvere e al sangue, là dove disperazione e speranza combattono ad armi pari e l’epilogo non è certo.
Questo è uno di quei film che vanno ben oltre lo spettacolo, che parlano al cuore pur colpendo allo stomaco.
[*] A seguire la breve ricostruzione storica della tragedia raccontata dal film, ma conviene tralasciarne la lettura se si vuole godere appieno della storia, lasciandosi coinvolgere dalla scoperta di quanto dovrà accadere.
Il 21 Marzo 1945 la Royal Air Force britannica, dopo numerose richieste e dietro l’insistenza della resistenza Danese, decide di dare il via all’operazione “Cartagine” che aveva come obiettivo il bombardamento del palazzo Shellhus, allora sede delle Gestapo a Copenaghen dove venivano reclusi e torturati diversi membri del movimento di resistenza Danese e si conservava un nutrito schedario che metteva a rischio (così si riteneva) l’esistenza stessa della resistenza.
Parteciparono 20 bombardieri “Mosquito” in tre ondate da sei velivoli ciascuno (più due ricognitori) che nonostante le perdite (6 aerei e 9 membri dell’equipaggio) raggiunsero e praticamente rasero al suolo la sede della Gestapo.
Disgraziatamente, uno degli apparecchi, dopo aver urtano un edificio (lo Shellhus era situato nel pieno centro cittadino) si andò a schiantare nelle immediate vicinanze della scuola cattolica di lingua francese “Giovanna d’Arco”. I fumi e le fiamme lavatesi dallo schianto, trassero in inganno più di uno dei piloti della RAF, che sganciarono il loro terribile carico di bombe proprio sull’istituto, causando così la morte di 39 tra insegnati e inservienti e 86 bambini oltre a numerosi feriti.
A distanza di poco più di un mese, il 25 Aprile del 1945, verrà dichiarata la fine di quello storico conflitto.
Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti. Appassionato di Design e Fotografia.
Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.
Ho sempre cominciato a leggere l’odissea dal quinto libro. Quando Odisseo, che è stato per molti anni fermo sull’isola di Ogigia, al centro dell’oceano, infelice sposo della dea Calipso, può finalmente prendere il largo per tornarsene a casa sua.
Odisseo è già stato per mare, ovviamente. Ha vagato per anni, di isola in isola, ma stavolta è tutto diverso.
È la volta ‘buona’.
Lo capiamo subito.
È la sua seconda volta. Seconda vita. Seconda opportunità.
La seconda vita è quando stacchiamo alcuni fatti dal continuum del passato e li cominciamo a vedere come una partita che si è svolta. L’abbiamo persa. Era un gioco di cui non conoscevamo le regole, neanche sapevamo di giocare una partita!
Incontriamo una persona, rispondiamo a un messaggio, accettiamo un invito… siamo come gli ubriachi: non possiamo sapere che sviluppo avranno quei semplici gesti. Così Odisseo, ogni volta sbarca su un’isola – che può fare? Ha sete e fame – gli viene incontro qualcuno: è un cannibale? Una maga? Lo catturerà? Lo avvelenerà? Lo accoglierà con delicatezza?
Non può saperlo. Non possiamo. Procediamo a tentoni. Facciamo amicizia, cambiamo lavoro, lèggiamo un libro; ma non distinguiamo un giorno dal precedente, non sappiamo che cosa stiamo iniziando: abbiamo appena conosciuto il nostro migliore amico o la persona che ci distruggerà, il lavoro della vita o l’esperienza più atroce che mai consoceremo?
La prima vita è quella dell’esposizione, della nudità, del fallimento in agguato…
Ma impercettibilmente impariamo, giorno dopo giorno, isola dopo isola, e quando abbiamo un po’ di tempo cominciamo a vedere i fili invisibili che legano le cose fatte, i dettagli che ci sfuggivano, il disegno si svela e … ha senso!
A quel punto vorremmo rigiocare la partita! Stavolta sceglieremmo con cura il campo, anticiperemmo le mosse dell’avversario, risparmieremmo le forze per quegli ultimi minuti concitati, entreremmo sulle gambe dell’attaccante che segnerà a porta vuota (meglio un rosso che un goal allo scadere)
E però non è possibile.
Quante vite abbiamo?
Tante.
Quella fatta di ciò che ci è capitato, e quella che abbiamo plasmato secondo un’idea che ci siamo inventati di ciò che siamo, che vogliamo. La seconda vita inizia quando scegliamo, quando distinguiamo nel flusso degli accadimenti uni spazio per la scelta.
La decima isola per Odisseo è quella giusta, perché non ha più niente: non navi, non compagni, nemmeno vestiti. Ha solo le sue capacità: la sua intelligenza e la sua parola fluente.
Quando Odisseo parlava, ci dice Omero, tutti stavano in silenzio, meravigliati, e le sue parole erano come fiocchi di neve che scendono dal cielo e ricoprono ogni cosa.
Immagine straordinaria! E che dobbiamo rivivere con lo sguardo mediterraneo e la pelle temprata dal sole e dal sale di chi vive in mare.
Ma anche senza quelle straordinarie capacità, quando una vita si presenta come storia e distinguiamo un tema, un inizio, uno sviluppo di fatti, un senso… questa è già la seconda vita, in cui la prima appare ormai come ritaglio, la sua casualità riscattata, il suo tempo riguadagnato, la sua oscurità chiarificata.
Possiamo ormai, come Odisseo alla corte dei Feaci, dire chi siamo. Qual è la nostra casa. La nostra anima gemella. Non quelle che la sorte o il caso ci hanno assegnato, ma quelle scelte, strappate alle contingenze, desiderate con ardore in tutti i porti e in tutti i mari solcati, nell’ora “che – dice Dante – volge al disìo ai navicanti ‘ntenerisce il core”.
Erano le tre del pomeriggio mentre mi si allentava la mandibola guardando alla TV quella che sembrava la versione alla Blair Witch Project di un film di Michael Bay.
Un grosso buco, da cui usciva fumo nero, piazzato poco sotto la cima di una delle Torri Gemelle, quella con l’antenna.
“Un incidente?” – pensai-.
A smentirmi arrivò un aereo da fuori l’inquadratura. Dritto, orizzontale. Si schianta. Forte. Veloce. Esplode. Un buco di fuoco sull’altra Torre, quella senza antenna.
Non era un incidente. E non era neppure un mockumentary. Era reale. Stava succedendo adesso.
Trascorsi il resto della giornata incollato alla televisione. Vidi gli incendi divampare, le persone ridotte a puntini neri lanciarsi dalle Torri, nel pomeriggio le Torri collassarono inesorabili e precise, come nei filmati dei crolli controllati.
Vidi i pompieri, la polizia, il groviglio di travi di acciaio, detriti di calcestruzzo, la polvere sbiancava i volti in preda al panico, i cavi elettrici come arterie recise. In serata, altrettanto inesorabile, crollò anche il Building WTC 5.
Andai a dormire tardi, mentre i cronisti mostravano frammenti di discorsi di George W. Bush, ci spiegavano che si era trattato di un attentato terroristico ad opera di Al-Qaida, ennesimo gruppo terroristico islamico dal nome a me incomprensibile, di stanza in Afghanistan. Avevo 20 anni all’epoca, a stento sapevo dove si trovasse l’Afghanistan, sapevo solo che era una delle ex-repubbliche socialiste sovietiche e che il nome Al-Qaida mi suonava incomprensibilmente uguale a quello di tutti gli altri innumerevoli gruppi di fanatici religiosi medio-orientali, Fatah, Hamas, Hezbollah, chi vattelapesca sciita e chi come-si-chiama sunnita. Cinquanta sfumature di odio.
Andai a dormire dopo aver assistito agli effetti fisici del potere della religione, ormai storia antica in Occidente, che tornavano a farsi sentire dopo oltre duecento anni dall’Illuminismo.
Da allora sono passati 20 anni; nel frattempo, oltre a imparare dove si trova l’Afghanistan, ho imparato anche che le religioni monoteiste, le tre cosiddette “del libro”, nascono essenzialmente per normare e regolamentare comunità eterogenee e distribuite su vasti territori, attraverso l’utilizzo di una narrazione suggestiva. Nel caso dell’ebraismo la legge religiosa serviva a conservare, e tenere insieme dal punto di vista delle tradizioni e prassi, una comunità frammentata e sparsa per tutto il mondo conosciuto, la cui priorità era il mutuo e vicendevole soccorso in territori perennemente stranieri. Nel caso del cristianesimo, e del cattolicesimo soprattutto, la legge religiosa serviva alla diffusione del culto stesso, ovvero funzionale alla moltiplicazione del clero e alla sua accumulazione di ricchezza e consolidamento del potere, centrale e locale (lo stesso fenomeno che avviene nelle grandi aziende, solitamente quelle ad azionariato pubblico, quando si moltiplicano le scrivanie dei dirigenti). Nel caso dell’Islam, la legge religiosa era funzionale a supportare la conquista indiscriminata, essendo la cultura dei popoli medio-orientali per motivi di scarsità di risorse locali, votata al saccheggio e alla conquista di territori più prosperi (la stessa cosa la facevano i Vichinghi, altra cultura radicata in un territorio climaticamente ostile).
Le società occidentali classiche, quelle greco-romane politeiste, erano di gran lunga più laiche di quanto noi siamo riusciti ad essere dal XVIII secolo in poi; a tenerle unite e renderle omogenee era solo la legge e non, come attuato dalle religioni cristiane e musulmane, la narrazione della legge. Basti pensare a quanto fosse inclusivo e rispettoso l’atteggiamento della Roma imperiale nei confronti delle culture locali delle proprie colonie, di certo molto più di quanto lo siano stati i Gesuiti in America latina nel XVI e XVII secolo, per non parlare invece dei Saraceni nel Mediterraneo ai tempi in cui noi ci godevamo il nostro Medio-Evo.
La religione monoteista nasce sostanzialmente per risolvere il problema di “omogeneizzare” usi e costumi di numerose ed eterogenee comunità, ciascuna con stratificazioni storico-culturali profondamente diverse, al fine di consolidare la gerarchia di potere. E per far bene questo lavoro devi disporre di tre cose: leggi chiare da imporre, una storia suggestiva con cui convincere e delle scuse con cui tacitare qualsiasi obiezione. Ovvero prassi, promesse e dogmi.
La solfa è sempre la stessa : la divinità è antropomorfa, il suo concept è creato dagli uomini a propria immagine e somiglianza e viene pertanto istintivamente accettato. In quanto antropomorfo predilige chi rispetta le leggi riportate nel testo di riferimento, riservandogli un posto speciale dopo la morte; per tutto ciò che non si riesce spiegare (anche compreso il perché dovrei accettare tutto ciò o perché me la passo così male nonostante faccia il bravo) la risposta è semplice: è la misteriosa volontà di dio (in altri termini “è così perché lo dico io”).
Questo risulta il modo più efficace di inculcare norme e comportamenti nelle menti degli uomini che, a causa della consapevolezza della propria finitezza, hanno terrore della morte, sono sollevati all’idea che se rigano dritto e fanno ciò che gli si dice avranno un posto in prima fila nel regno dei cieli (o nella janna, o nell’Eden) con gran gioia di chi così si garantisce decenni o secoli alle redini del potere (prelati, imam o altri santoni).
Peccato che un orafo tedesco di nome Gutenberg, verso la metà del 1400, abbia inventato la stampa a caratteri mobili e abbia così avviato lo scardinamento, almeno in Occidente, del primato culturale (in realtà meramente tipografico) della religione cattolica, rendendo possibile la divulgazione anche di testi differenti da quelli approvati dal consiglio vaticano.
Tuttavia l’uomo rimane essenzialmente lo stesso, nonostante la rivoluzione illuminista, l’affermarsi delle scienze empiriche, lo sviluppo commerciale, le scoperte geografiche, i prodigi della tecnica, egli non ha ancora sconfitto la paura di morire.
A partire dal XVIII secolo però il suo orizzonte di soddisfazione delle aspettative si è accorciato; mentre i suoi omologhi servi della gleba o uomini liberi di qualche secolo addietro riponevano tutte le aspettative nella vita oltre la morte, adesso le sue aspettative si sono imborghesite, e stavolta vuole godersela preferibilmente prima della sepoltura.
In questo modo tutte le nuove idee liberali, filosofiche, scientifiche ed economiche tipiche del tardo illuminismo, vanno a riempire il vuoto lasciato dall’ormai demodé religione cattolica, assumendone così le stesse forme – prassi, promesse e dogmi- nelle forme dell’idealismo (soprattutto di stampo Hegeliano e Marxista).
Il più grande sforzo di laicizzazione della cultura Occidentale dai tempi dell’Impero Romano si risolve così nella nascita delle ideologie.
La solfa è sempre la stessa : il modello ideologico/politico/economico è antropomorfo, il suo concept è creato su misura dagli uomini che vi riversano le loro aspirazioni terrene, che verranno puntualmente soddisfatte qualora siano rispettate le condizioni di base del modello stesso. Qualora questo non accada, la colpa sarà dell’esecutore e giammai del modello, eventuali dissensi ed eterodossie prevedono la tacitazione forzata o il ludibrio pubblico o accademico.
Tutte le ideologie sono accomunate dalla promessa della realizzazione di una società perfetta, prospera e senza rischi, in pratica il vecchio Paradiso/Janna/Eden ora non è più ultraterreno ma realizzabile hic et nunc; dobbiamo solo essere tutti d’accordo e se non sarà proprio un paradiso daremo la colpa a qualcuno che non ci sembrava troppo convinto e ricominceremo con ancor più convinzione.
Dio, nella sua essenza, è solo il nome che diamo a quella casualità che domina buona parte delle nostre esistenze, offrendoci opportunità ed esponendoci a rischi; l’altra parte delle nostre esistenze, quella in cui cogliamo le opportunità o tentiamo di mitigare i rischi, si chiama libero arbitrio.
Secondo le ideologie novecentesche, dio (la casualità) è superato dal modello ideologico stesso (che si fonda su una promessa realizzabile, ovvero predittivo, dall’esito certo), a patto che ciascuno aderisca ai pre-requisiti del modello stesso, ovvero che lo si accetti incondizionatamente, ovvero che ciascuno rinunci al libero arbitrio.
Il perché sia i precetti religiosi quanto le costrizioni ideologiche facciano così rapida presa nelle menti umane, credo sia facile da spiegare.
L’uomo conserva sempre e comunque l’istinto di auto-conservazione animale e al contempo deve convivere con la consapevolezza della propria finitezza. Vuol dire che ha coscienza della impredicibile casualità che domina la sua vita e, mediamente, è maggiormente terrorizzato dai rischi a cui potrebbe essere esposto di quanto non sia ingolosito dalle opportunità che gli si possono presentare.
L’osservanza dei precetti religiosi lo illude di garantirsi una vita prospera nell’aldilà mentre le rinunce imposte dall’ideologia lo illudono di garantirsi una vita sicura nell’aldiqua. Con grande gioia di tutti i ministri di fede, imam, commissari, segretari di partito, gerarchi, duci e ducetti che di volta in volta tengono le redini della gerarchia.
La tradizione cristiana, con il libero arbitrio, ha consentito all’occidente di potersi emancipare dalla religione stessa, pur sostituendola successivamente con le ideologie; ci sono voluti circa quattro o cinque secoli per emancipare parzialmente l’occidente dalle credenze e ancora oggi c’è tanto da fare sul piano della laicizzazione istituzionale, sia religiosa che ideologica.
La tradizione islamica, che in luogo del libero arbitrio prevede la sottomissione, invece incorpora in un unico colpo sia la religione che l’ideologia e pertanto è, sostanzialmente, ferma al palo uguale a sé stessa da parecchi secoli.
Nel caso dell’occidente a trazione cristiana, il processo di emancipazione dalle credenze è agevolato dall’alfabetizzazione diffusa.
Nel caso dei paesi a trazione musulmana, vista l’impossibilità di sostituire le credenze con le ideologie in quanto queste ultime già incorporate nella legge religiosa e, soprattutto tenuto conto dell’elevato tasso di analfabetismo, è praticamente impossibile pensare di poter emancipare una roba del genere nell’arco di un ventennio (ma neppure nell’arco di mezzo millennio).
Quel giorno, l’11 settembre 2001, ho quindi assistito allo scontro – fisico – di due retaggi storici molto diversi e, allo stato dell’arte, totalmente inconciliabili tra loro.
Simbolicamente sembravano la classica forza inarrestabile che si scaglia contro il classico oggetto inamovibile, solo che qui non siamo nel mondo dei simboli e lo scontro si è risolto con esplosioni, crolli e tanti morti.
Il giorno dopo il crollo delle Torri Gemelli, la narrazione era già abbondantemente all’opera.
George W. Bush parlava di guerra al terrore, “Non dimenticheremo”, il volto di Osama Bin-Laden, il ricercato numero uno, era su tutti i canali, ad una prima occhiata del tutto identico al classico arabo con barba e turbante uscito da un’edizione illustrata delle Mille e Una Notte, ma senza tappeto volante.
Quella stessa notte, scoprì più tardi, non ero stato l’unico a dormire poco.
Oriana Fallaci aveva scritto di getto “La Rabbia e l’Orgoglio” mettendo in parole il pensiero (e soprattutto il sentimento) di molti di fronte all’accaduto; J.M. Straczynski in quella stessa notte aveva buttato giù la sceneggiatura del n. 36 di Amazing Spider-Man, infondendo negli eroi superumani lo stesso shock, il senso di impotenza, il dolore, che molti semplici umani su entrambe le sponde dell’Atlantico stavano provando.
Potere della narrazione polimorfa. Quella cosa che ha preso il posto, nell’immaginario collettivo occidentale, dell’ideologia.
In Occidente la fine della Seconda Guerra Mondiale aveva, in via ufficiosa, decretato il declino delle ideologie, almeno del fascismo e del nazismo. Per il comunismo ci vorrà qualche decennio in più, del resto l’Unione Sovietica era tra i vincitori, quindi alcuni orfani ideologici avevano ancora un modello di società perfetta cui aspirare salvo poi scoprire, dopo la caduta del muro di Berlino, che quella società perfetta era costata circa 15 milioni di morti e non era riuscita neppure ad inventare gli assorbenti igienici per le donne.
Nei fatti a decretare il declino delle ideologie fu in realtà la diffusione della televisione.
Non dimentichiamo che l’ideologia aveva solo sostituito nell’immaginario collettivo il ruolo che fino all’Illuminismo ricopriva la narrazione religiosa.
Per colmare quel vuoto, per saziare la fame umana di credere in qualcosa, occorreva qualcosa di nuovo, una narrazione che ancora una volta veicolasse regole e portasse promesse, ma stavolta senza commettere l’errore del dogmatismo.
Quindi occorreva non una sola narrazione centralizzata, ma tante narrazioni apparentemente diversificate.
In questo modo la pluralità delle narrazioni avrebbe consentito di eludere l’imbarazzo del non-spiegabile senza più ricorrere al dogma, bensì rimandando ad un’altra narrazione, complementare o antitetica.
In pratica, a partire dagli anni ’50, è stato liberalizzato il mercato delle narrazioni e, di conseguenza, si è aperta a tutti la possibilità di scalare, in maniera stavolta non cruenta, la gerarchia di potere, rendendo così la capacità economica equipollente al potere costituito.
Le prime narrazioni sono state quelle veicolate da chi ereditava il potere politico, da Hollywood a Cinecittà, dalla narrazione anti-comunista a quella anti-fascista, l’importante era stabilire il primato culturale dello status quo vigente, stigmatizzando i demeriti altrui e romanzando i meriti propri.
In quegli anni gli italiani, che in meno di due secoli erano passati dal predominio culturale religioso cattolico a quello fascista (con intermezzi liberali di cui molti ancora oggi faticano a ricordare figuriamoci a coglierne il significato), ora guardavano golosamente Lascia o Raddoppia, sperando di parteciparvi per rimpinguare le proprie finanze (aggirando così la fatica dell’ascensore sociale), acquistavano i vinili dei cantanti di Sanremo, facevano la fila al cinema per vedere i film americani e acquistavano gli abiti dei divi, si indebitavano per acquistare la 500 o una casa di nuova costruzione.
Il potere era liberalizzato. I potenti e gli aspiranti potenti avevano trovato il modo più efficace per consolidare le loro posizioni, non più con l’imposizione fideistica né con quella ideologica, non con violenza e prevaricazione ma offrendo a tutti un catalogo vastissimo di favole a cui credere; invece di dilapidare finanze nazionali per imporre la propria visione, oggi si vedevano invece remunerati per le narrazioni che andavano propinando.
La narrazione mainstream è così divenuta la cifra culturale dell’Occidente post-bellico, un capolavoro di pluralismo che, in mezzo a tanto materiale di terz’ordine, ha generato tuttavia numerosissimi esempi di rilievo ma che, sostanzialmente, ha distrutto il tetragono paradigma della fissità culturale che aveva caratterizzato i secoli precedenti.
La diffusione di internet e dei social network, a partire dall’anno 2000, ha ulteriormente liberalizzato il mercato delle narrazioni, scardinando il primato di televisione e cinema, rendendolo democraticamente accessibile a chiunque abbia qualcosa da dire, indipendentemente se trattasi di balle belle e buone o di analisi approfondite e circostanziate.
La narrazione mainstream, compresa anche quella della contro-cultura degli anni ’70 che di fatto era talmente diffusa da essere mainstream esattamente come la televisione pubblica, fino agli anni ’90 aveva sempre un azionariato di supporto di cui si limitava ad essere espressione propagandistica.
L’avvento di internet ha invece ribaltato i ruoli creando uno spazio, quello della narrazione polimorfa, dove andare a pescare idee da cooptare.
Quindi, invece di proporre al pubblico narrazioni da acquistare, faticose da confezionare secondo i dettami dell’azionariato di supporto e ancor più faticose da rendere appetibili per il pubblico, perché non andare a raccontare al pubblico direttamente quello che vogliono sentirsi dire, visto che ce lo scrivono loro stessi?
Geniale.
Perché invece di spremerci le meningi per azzeccare ciò che vuole che piace al pubblico e vuole l’azionariato, non pescare ad arte tra quelle idee compatibili, già pronte, che sembrano più popolari per poi rivenderle a tutti?
Dal 2010 in poi è stato infatti possibile, a patto di disporre di un po’ di soldini, dire all’azionariato di potere esistente cosa piaceva al pubblico, che a sua volta poteva efficacemente dire al pubblico cosa doveva piacergli.
Una manna per gli aspiranti gruppi di pressione emergenti: chiunque può oggi mettere in circolo una balla qualsiasi, con un investimento minimo guadagnarsi qualche migliaia (o milione) di visualizzazioni, per poi farsi cooptare il contenuto da un esponente di potere (mediatico o istituzionale) che a sua volta lo renderà narrazione ufficiale, senza tener conto che magari si trattava di una panzana colossale.
La solfa è sempre la stessa: questo racconto è corretto e fondato perché soddisfa il tuo bias di conferma (invece di promesse io ti offro certezze, cioè quelle che già possiedi ), unica regola per poter rimanere nel nostro circolo di illuminati è contrastare con ogni mezzo a tua disposizione qualunque parere differente (invece di regole a cui sottostare io ti offro un popolare ruolo di araldo della verità, ti faccio direttamente prelato), in caso di dubbi o di domande aspetta il sequel, o il prossimo post, dove troverai altre “verità e indizi” per saziare il tuo bias di conferma (invece di dogmi io ti offro un fantastico piano di fidelizzazione, una forma di dipendenza culturale).
Ora, tenuto conto che il grosso della gente smette di avere dubbi e di imparare cose nuove tra i 25 e i 30 anni, e che da quel momento trascorrerà il resto della sua vita alla forsennata ricerca delle mitiche parole “Hai ragione!” immaginiamoci gli effetti devastanti che la narrazione polimorfa può avere nei confronti di masse di persone che votano, che lavorano, che consumano e che interagiscono mutuamente fra loro.
E che, nonostante la proliferazione delle fonti scritte, s dimostrano sempre più pigri e refrattari a leggere più di due frasi subordinate.
La Babele polimorfa di internet, in cui è possibile sentire sedicenti esperti di economia che parlano di corbellerie euro-scettiche, milioni di utenti che condividono il negazionismo anti-semita, migliaia di persone che organizzano convegni per mostrare le evidenze a sostegno della teoria della terra piatta, esponenti politici convinti che ai vertici bancari vi siano i Rettiliani.
Tutte narrazioni che fanno leva sul bisogno innato dell’essere umano di credere in qualcosa; tutte narrazioni che, per la loro essenza di latrici di “verità fideistiche” sono intrinsecamente divisive.
Una volta ero convinto che il laicismo avesse un valore intrinseco.
Ritenevo che l’emancipazione dalle credenze religiose nell’ambito delle decisioni, soprattutto quelle che hanno impatto fuori dalla propria sfera individuale, fosse un presupposto necessario per qualunque forma di progresso.
Evidentemente mi sbagliavo.
Perché il laicismo collettivo che auspicavo presupponeva a sua volta una generale presa di coscienza, una cultura, una preparazione e un criticismo che la maggior parte delle persone semplicemente non ha.
In assenza di questi pre-requisiti, il tramonto della religione (un tempo oppio dei popoli) ha solo generato un vuoto enorme nelle menti delle masse.
L’alluvione di informazioni che ci travolge da oltre 50 anni ha poi riempito nelle menti di massa quel vuoto lasciato dalla scomparsa della religione, che è stata via via sostituita dell’ideologia politica, dall’ortodossia lealista-istituzionale, dal complottismo, dalle bagatelle mediatiche.
Per ritrovarci oggi a vivere in un mondo composto da masse di estremisti assortiti, con a disposizione un catalogo sconfinato di argomenti (più o meno futili) su cui prendere bellicosamente posizioni antitetiche. Alla faccia della maieutica Socratica o della certezza dialettica Hegeliana.
Per farvi capire quanto sia forte il potere della narrazione, provate oggi a ribadire in pubblico un fatto reale, supportato da dati concreti come questo: l’Italia e la Spagna sono i Paesi Europei con il minor numero di “femminicidi”, sia in valore assoluto che come percentuale della popolazione.
Eppure, se ci si azzarda a profferire una simile affermazione, ci si espone al linciaggio pubblico.
Questo avviene perché, in oltre un decennio, sono tantissime le aziende operanti nel cosiddetto terzo settore che hanno trovato ampi spazi di crescita e remunerazione proprio veicolando una narrazione che prevede di classificare il fenomeno come strage.
Queste aziende, negli ultimi 15 anni, sono cresciute creando posti di lavoro, effettuando investimenti e generando un volume di affari notevole (basti pensare che nel mio comune, di poco più di 100.000 abitanti, l’Accordo Quadro triennale stipulato nel 2016 con una di queste ONLUS prevedeva una remunerazione di circa € 100.000 annui a fronte del servizio d counseling psicologico e del gazebo Codice Rosa da installare presso l’Ospedale), un tale giro economico ha bisogno di essere continuamente alimentato pena la sua palese insostenibilità, attraverso la pressione politica e la veicolazione della narrazione stragista.
Basti pensare che un fenomeno statisticamente ben più rilevante, quello delle morti sul lavoro che si aggirano nell’ordine delle 1.000 unità annue, non gode di alcuna popolarità nell’immaginario collettivo poiché narrativamente poco veicolato, in quanto la sua narrazione non è cooptata da nessun azionariato di riferimento operante sul mercato, essendo la problematica appannaggio dei sindacati (che non operano in regime di libero mercato e che comunque non sarebbero capaci di agire di conseguenza) ed è chiaramente in conflitto con interessi economici dal maggior peso specifico che sono tranquillamente in grado di tacitare, o di far ignorare ai media mainstream, la narrazione stragista.
Il potere democraticamente eletto non può prescindere dagli effetti di massa della caotica narrazione polimorfa, ciò vuol dire che quella tecnica nata proprio per legiferare e consolidare la gerarchia di potere (la narrazione) nella sua attuale forma polimorfa è in grado di modellare l’indirizzo del potere poiché, essendo più rapida della narrazione mainstream, riesce a scovare nuove nicchie di malcontento laddove nessuno dei narratori mainstream aveva pensato di guardare.
Così accade che le deliranti cazzate scritte a ruota libera contro il signoraggio bancario diventino elementi di campagna elettorale, gli sfoghi complottisti per spiegarsi come mai non si è diventati ricchi come promesso dalla pubblicità diventano agenda di partito (o di “movimento” che suona meno elitario), inneggi al duce che “ha fatto tante cose buone e faceva andare i treni puntuali” (i treni all’epoca erano semplicemente molti di meno), fino ad arrivare ai pareri pseudo-scientifici dei no-vax che spesso non riescono neanche a mettere in ordine decrescente le percentuali di rischio.
La narrazione religiosa offriva una vita prospera nell’aldilà, la narrazione ideologica offriva una vita sicura nell’aldiqua, la narrazione polimorfa offre un po’ di popolarità e uno sfogo immediato dei propri rigurgiti oggi stesso.
L’uomo, nel suo intrinseco bisogno di credere in qualcosa, ha drasticamente ridimensionato le sue aspettative, passando dalla beatitudine eterna ad un pugno di like.
La narrazione mainstream degli Stati Uniti, per cercare di accaparrarsi nicchie di consenso, ha via via rimodulato la sua reazione agli attentati dell’11 Settembre, passando dal proclama di vendetta “Non dimenticheremo” alla più hollywoodiana “Guerra al terrore”, per poi trasformarla (quando i consensi repubblicani hanno cominciato a scemare) nella ben più nobile e sofisticata “Esportazione di democrazia”. Facendole fare poi un rassicurante salto tecnologico col cambio di presidenza, in cui Obama, eroe del popolo, non volendo mollare il medio-Oriente (evidentemente la Clinton e Kerry hanno ancora molti affari in sospeso da quelle parti, tra smercio di uranio impoverito ed emancipazione dell’Iran dai combustibili fossili in chiave nucleare) iniziò ad utilizzare intensivamente i droni nella regione: per il pubblico si trattava di un videogioco in fondo, in cui nessun militare americano rischiava la pelle. Infine con Trump, che oggi sembra un seppur esecrabile esempio di coerenza, ci si decide ad iniziare il tanto atteso disimpegno militare NATO dell’Afghanistan, da attuarsi secondo una road-map che prevedeva il raggiungimento di precisi obiettivi di stabilità (politica ma soprattutto militare) da parte del paese prima di ritenerlo sufficientemente e democraticamente autonomo.
Tuttavia, nei 20 anni di narrazioni presidenziali, la narrazione polimorfa, con il suo portato di manichee divisioni e di violente polarizzazioni antitetiche, ha colpito ben più profondamente delle conferenze stampa dalla Casa Bianca.
Lo slogan politico statunitense post 11 settembre è passato dall’essere un atto che “Non dimenticheremo mai” ad una situazione in cui semplicemente “qualcuno aveva fatto qualcosa” (Ilhan Omar, membro Democratico della Congresso USA, 23 marzo 2019).
L’esportazione della democrazia, la guerra al terrore, il primato dei valori moderni liberali, l’ascensore sociale a trazione capitalista, la conciliazione di libertà e sicurezza, tutto cancellato, rimangiato, abiurato pur di rosicchiare nuove nicchie di consenso, pescando dal mare del malcontento polimorfo in vista delle presidenziali 2020.
Infine, pur di cancellare al più presto gli effetti delle scelte presidenziali precedenti (tra cui c’erano anche quelle di Obama), il neo-eletto presidente Joe Biden offre lo spettacolo di un’America cento volte più inesistente sul piano internazionale di quella di Trump : disimpegna le truppe di stanza in Afghanistan con una ritirata rapida e raffazzonata, nessuna road-map, nessuna milestone, nessun obiettivo di stabilità. Fuori, via, tutti, subito, tranquilli lasciate dietro basi, armamenti, tanto i nostri fratelli afghani sono ormai al sicuro, ci lasciamo dietro uno stato laico, stabile e democraticamente determinato.
Ai talebani, che nel frattempo se ne stavano rintanati nelle loro caverne e di sicuro avevano parecchie entrature nel governo democraticamente eletto di Ashraf Ghani, sono bastati quattro giorni per riprendersi quello che la missione NATO aveva faticosamente e dolorosamente costruito in 20 anni.
A suggellare il tutto, i discorsi di Biden all’indomani della conquista talebana di Kabul sembrava un’imitazione anacronistica dei discorsi di George W. Bush, la narrazione ufficiale ha cortocircuitato dopo aver tentato di inseguire la narrazione polimorfica per 20 anni, ritrovandosi ad usare le stesse parole e le stesse “giustificazioni” di quando era cominciata l’occupazione NATO e da cui i Democratici avevano promesso di prendere le distanze. O più probabilmente, il discorso gli è stato scritto da un social media manager che, come la maggior parte delle persone, non ha memoria storica.
Di sicuro la democrazia non si esporta, di sicuro non si crea un aspirante ingegnere se si regala un Lego Technics ad un bambino di 3 anni che sa solo scavare la sabbia con pala e secchiello.
È simbolico che di fronte al più preoccupante evento internazionale di quest’anno, dalle nostre parti la Babele pubblica discuta animatamente di altrettanti, ben più futili, estremismi.
Tipo gli estremisti no-vax che danno addosso agli ortodossi del vaccino (e viceversa, spesso da entrambi gli schieramenti non si sanno mettere in ordine decrescente le percentuali di rischio).
I crociati della libertà che danno addosso ai lealisti del Green Pass (e viceversa, spesso da entrambi gli schieramenti nessuno ha mai letto Tocqueville, Locke e neppure il nostrano Einaudi).
Gli antifascisti che danno addosso ai fascisti (e viceversa, spesso da entrambi gli schieramenti nessuno saprebbe individuare neppure le date o i presupposti storici dei fenomeni).
Oppure le femministe integraliste che danno addosso agli storicisti patriarcali (qui invece nessun viceversa, pena il linciaggio pubblico, o secondo alcuni la carcerazione preventiva).
Il laicismo da solo non basta a garantire il progresso, ci vuole molto altro, ci vogliono anni di curiosità e preparazione.
La maggior parte di noi evidentemente ha ancora solo bisogno di credere strenuamente in una puerile favola che li veda sempre rigorosamente nella parte del buono (noi) in lotta contro il cattivo (loro).
Una volta per schierarsi dalla parte dei “buoni” bastava un sacramento, o una conversione o un diritto di nascita.
Oggi, per schierarsi fieramente dalla parte dei “buoni” e imbracciare le armi contro i “cattivi”, basta leggere qualche post su internet.
In un simile contesto, è facile capire perché gruppi estremisti religiosi abbiano ancora così tanta presa in molte aree del pianeta, perché i loro valori integralisti sono, in realtà, ancora in larga parte condivisi dalla popolazione in virtù di secoli di stratificazione “culturale” a senso unico. Il loro oscurantismo è tetragono, solido, si fonda sull’ignoranza e sulla fame di credenze, non accetta compromessi e grazie all’analfabetismo diffuso è graniticamente autoreferenziale.
D’altro canto, è altrettanto facile capire che il combinato disposto di pluralismo indiscriminato unito alla becera democratizzazione della narrazione, in assenza di meccanismi individuali di salvaguardia intellettuale, ci rende estremamente vulnerabili e a perenne rischio di radicalizzazione su qualunque questione, anche le più puerili.
A noi occidentali sono state regalate le barchette con cui navigare il mare della narrazione polimorfa ma, purtroppo, la maggior parte naufraga perché le bussole per orientarsi nella navigazione restano a pagamento, costano impegno e preparazione.
I talebani trovano più efficace negare direttamente che il mare esista, che l’unico orizzonte culturale possibile sia quello, ben più circoscritto e controllabile, di una caverna afghana.
Andrea Avolio è un millennial DOC. Nato nel 1981, è cresciuto negli anni ’90 illudendosi che il futuro apparteneva alla sua generazione e che tutti si sarebbero arricchiti (compreso lui). Si è laureato nel 2006 in Ingegneria Elettronica e ha iniziato a lavorare in contemporanea con la peggiore crisi economica degli ultimi 80 anni. Attualmente rientra a pieno titolo nelle statistiche sulla sua generazione perché, a dispetto della sua ininterrotta stabilità lavorativa, non dispone di alcuna liquidità finanziaria. La cosa non lo turba minimamente perché la sua vera aspirazione è diventare un eclettico (termine obsoleto, oggi si dice tuttologo) ed è a buon punto perché ha già raggiunto il livello di qualunquista finemente edotto. E’ un supernerd, colleziona comics, ama i blockbuster e il buon cinema, adora la musica prog (in tutte le sue declinazioni) ma nell’intimità ascolta il metal, legge libri che solitamente vendono poco, è un estimatore di vini, distillati e abiti stilosi (soprattutto scarpe e pochettes), unico sport praticato è la contemplazione a livello agonistico, è un liberale convinto, è sufficientemente curioso da riuscire ad imparare cose nuove anche dopo i 30 anni e pare addirittura che riesca a convincere parecchie persone circa le sue competenze in ambito filosofico, economico, politico ed esoterico, ritiene che il lavoro specializzato sia sopravvalutato, è aconfessionale, detesta la gente perché preferisce gli individui, parla fluentemente inglese, sa cucinare, pulire la casa e possiede la patente B.
Come tutte queste cose possano coesistere senza aver mai subìto un TSO resta un mistero.
I Cimiteri – “dormitori” nell’etimologia dal greco: [koimeterion] luogo dove si va a dormire – sono certamente anche “luoghi della memoria”, memoria per chi ritrova un caro estinto, un figlio, una moglie, una madre, ma anche memoria di un tempo terreno ormai andato, non solo per chi lì “riposa”, ma anche di un tempo storico e artistico ormai irrimediabilmente passato.
Lo sono in particolare i cosiddetti “cimiteri monumentali”, storici, talvolta enormi di altrettanto grandi città, dove ritrovare, ma anche ammirare, tombe che risalgono ai primi del ‘900, se non ad anni antecedenti.
Perché ammirare? Perché troviamo tombe e opere scultoree (arte funeraria) realizzate con rara maestria, per quello che al tempo era un vero e proprio mestiere che dava lavoro a molti “maestri” e “discepoli”, garzoni di bottega che lavoravano in veri e propri “atelier”.
Maestria di bozzetti, modelli e poi sculture, che purtroppo è andata perduta nel tempo, per un cambio di paradigma, di mentalità, della legge della domanda e dell’offerta, in un tempo il nostro, certamente molto standardizzato e appiattito anche nell’arte funeraria.
Un tempo quello andato, in cui per una famiglia generalmente benestante (questo va detto), era importante lasciare un segno imperituro della vita e delle opere del “caro estinto”. Segno anche di uno “status sociale”, non scevro di una certa ostentazione. Lo si comprende non solo dalla sontuosità di certe tombe, ma anche dagli epitaffi, talvolta mini-biografie che ancora oggi decantano le “opere buone” di chi ci ha lasciato, ma al contempo sono, vorrebbero essere, segno dell’amore, della stima, della gratitudine, di chi è rimasto a piangere il lutto.
Non di meno sono segno di un afflato verso la “vita oltre la vita”, la speranza, la fede, il fato, Dio e i suoi Angeli. Sono opere intrise di tristezza, di dolore, ma anche di certezze, di speranza, di misticismo.
Se ci si sofferma sull’inevitabile incuria, sul deposito della polvere quasi indelebile che crea sulle figure un effetto “al negativo”, come una luce che sembra partire dal basso, più che dall’alto, ci si rende conto ancor di più del tempo trascorso e che ormai morti sono anche coloro che questi morti hanno sepolto…. eppure quel “monumento” è lì, a richiamare la nostra attenzione su una vita di cui nulla conosciamo tranne ciò che l’epitaffio riporta e sulla bellezza e la simbologia di quell’opera di maestria.
Sono luoghi, incredibili, densi di un silenzio avvolgente, di una sacra pace, di una straniante solitudine, affascinanti per chi come me, ama la fotografia, e già prima luogo di “studio”, quando frequentando il Liceo Artistico, ci si spostava presso un cimitero vicino, per avere più “materiale” da ritrarre che non fossero solo gli ormai logori soggetti della gipsoteca dell’istituto.
Questo, o perlomeno anche questo, è l’affascinanteCimitero Monumentale di Staglieno, presso Genova, alla cui visita vi invito e le cui foto da me scattate (solo alcune), qui vi propongo. Struggente, la sezione delle tombe dei fanciulli morti in tenera età, anch’esse decorate da piccole sculture.
Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti. Appassionato di Design e Fotografia.
Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.
Ciò che sta accadendo in Afghanistan è terrificante, ma non si può imporre la democrazia e il rispetto dei diritti umani con la forza. È una contraddizione in termini.
In questi giorni siamo diventati tutti esperti di geopolitica e siamo pronti ad urlare il nostro sdegno per il fallimento dell’Occidente. Ma cosa sappiamo realmente dell’Afghanistan, del suo popolo, della sua cultura e della sua storia millenaria di invasioni e dominazioni? E soprattutto… pensiamo veramente di conoscere le reali motivazioni che hanno spinto le potenze straniere, come gli Stati Uniti e prima di loro l’Unione Sovietica, ad invadere questo paese?
Siamo onesti e ammettiamo la nostra ignoranza e impreparazione.
Su una cosa però abbiamo il dovere morale di agire.
Difendere i diritti delle donne afghane.
Come? È questa la vera domanda.
Come possiamo aiutare queste donne perché possano esercitare i loro diritti fondamentali e non sottostare alle restrizioni imposte dalla sharia, o meglio alla sua interpretazione fortemente limitante della libertà e dignità femminile?
Possiamo esprimere la nostra rabbia e preoccupazione, firmare petizioni, perfino manifestare. Ma basterà per cambiare le cose?
L’Afghanistan è un crocevia strategico dell’Asia centrale e gli interessi economici sono fortissimi. Chi si siederà al tavolo con i talebani – la Cina, la Russia ma anche gli USA e l’Europa – sarà più interessato a portare a casa accordi commerciali che garanzie per il rispetto dei diritti umani.
La nostra debolezza sta nel nostro stesso stile di vita, nel nostro modello di sviluppo ancora basato sulle fonti energetiche non rinnovabili e sulle materie prime preziose, quanto rare, diventate indispensabili per garantire quella prosperità alla quale non siamo disposti in alcun modo a rinunciare.
Il prezzo della nostra agiatezza saranno altri a pagarlo.
A quel tavolo saranno soprattutto uomini. Uomini che governano, uomini che comandano, uomini che detengono il potere politico ed economico.
Ma tutti questi uomini hanno una cosa in comune. Hanno una madre che ha donato loro la vita e li ha cresciuti. Hanno una moglie o una compagna al loro fianco. Hanno figlie che possono studiare, lavorare e realizzarsi pienamente perché libere di cercare il loro posto nel mondo.
E se tutte queste donne facessero sentire la loro voce?
Se la loro voce si unisse a quella di tutte le altre donne per dire basta alle discriminazioni, alle violenze, alle sopraffazioni, alle violazioni dei diritti? E lo facessero con una tale forza e convinzione da non poter essere ignorate da quegli uomini che stanno per sedersi e decidere le sorti del nostro mondo?
Mai come ora, le donne sono chiamate a dimostrare di essere unite, risolute e determinate per garantire il diritto delle afghane e di ogni donna a vivere liberamente.
Madri, mogli, compagne, figlie, sorelle. Facciamo sentire la nostra voce nelle nostre case, nelle nostre famiglie, prima ancora che nelle piazze fisiche e virtuali.
Nota della Redazione: l’articolo scritto da Giuliana Caroli è presente anche sul suo profilo Linkedin, e invitiamo a visitare e commentare questo ed altri argomenti che Giuliana condivide quotidianamente.
Naturalmente abbiamo avuto la sua disponibilità a pubblicarlo, ed inserirlo nell’ambito di una rubrica che porta avanti i diritti delle donne, avviata la scorsa settimana con “Niente da celebrare” e che intendiamo portare avanti con continuità , determinazione e forza.
Desideriamo ringraziare anche Anna La Tati Cervetto che ci dà sempre disponibilità delle sue illustrazioni e che, come sempre ma in questo caso ancora di più, si è dimostrata pronta e disponibile a supportare questa “missione”.
Giuliana Caroli, classe 1965, lavoro in una grande cooperativa di servizi come Responsabile Comunicazione, ma mi porto come bagaglio una lunga esperienza in ambito consulenziale e formativo.
Scrivo di ciò che conosco e di ciò che mi appassiona. Coltivo la curiosità e alimento le relazioni positive. Detesto l’indifferenza e l’irresponsabilità.
A cosa aspiro? A fare la differenza: per qualcuno, per il pianeta.
Lo scorso 15 Luglio si sono celebrati i 115 anni dello storico e prestigioso marchio di auto italiane, LANCIA .
Si è riproposto all’attenzione l’ultimo logo del marchio, che non è una vera novità dato che risale al 2007, ma forse siamo talmente disabituati a vederlo, che può apparire novità di oggi
Lancia ha una importantissima storia di #design automobilistico e notissima tradizione di auto sportive. Chi non conosce o non ricorda la Stratos disegnata da Gandini per Bertone, nata dall’evoluzione della Dreamcar Stratos Zero del 1971. Concept veramente avveniristico per quegli anni e che personalmente mi ricorda i bozzetti di Syd Mead, designer e illustratore americano scomparso nel Dicembre 2019. La Stratos motorizzata Ferrari, vincerà 3 Campionati del Mondo Rally (1974, 1975, 1976) e numerose altre gare e importanti piazzamenti. Anche non considerando un modello tanto stratos…ferico (se mi è concesso il gioco di parole), cosa dire della Lancia Fulvia Coupé disegnata da Piero Castagnero (che si ispirò pare, ai motoscafi Riva del tempo) o della Lancia Delta nelle loro versioni HF? Auto che definiremmo “iconiche” e che tali rimangono.
Dobbiamo quindi temo stendere un velo pietoso sui modelli generati dagli ibridi “Lancia-Chrysler” (più Chrysler che Lancia), nati da dinamiche aziendali che poco hanno a che fare con l’ormai centenaria storia del marchio e non possiamo che rimanere perplessi oggi, quando come ignari nuovi potenziali clienti, affascinati dalla storia rievocata, cercando la “gamma” Lancia sul sito del Marchio, troveremmo ben… due modelli! In realtà due varianti del medesimo modello, la ormai anch’essa storica Ypsilon, che per quanto la si rimaneggi, attualizzi e vivacizzi, rimane un modello nato nel 2003 e che vede la Seconda Serie datata all’ormai lontano 2011(!) che in questi anni non ha visto altro che cambio di livree, allestimenti, accessori.
Che dire? Accanimento terapeutico, minestra riscaldata e continuamente ri-scodellata? Certo possono sembrare conclusioni dure, ma è proprio il fulgido passato che rende più gramo l’attuale presente. Si prospetta un futuro pienamente elettrico per la Ypsilon, ma auguriamoci non si tratti solo del propulsore e ancor più che si possa vedere una rinascita, una nuova fioritura di modelli che questo Marchio merita, perché è un pezzo di Storia dell’Automobile che non è conosciuto solo qui in Italia, assolutamente no.
Con questo primo articolo intendiamo indagare, proporre riflessioni e approfondimenti alle innumerevoli e diversificate proposte del mondo del Design che rappresenta, insieme ad altre forme di Arte, una eccellenza italiana [e non solo].
Vi rimandiamo inoltre al link qui sotto dove troviamo ulteriori proposte, casi studio, e progetti innovativi che meritano maggiore attenzione e approfondimento.
Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti. Appassionato di Design e Fotografia.
Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.
“Sono sacre le mie origini, in me è parte della creazione. Ribelle, desiderio degli uomini mi sono fatto catturare. Servo della vita o strumento degli dei, vivo oggi imprigionato tra mani candide consacrate che al crepuscolo di un giorno stabilito per devozione, liberano la mia forza in falò che illuminano la notte, purificando fedeli chini dinnanzi alla mia luce, al mio calore.
Profano è il mio nome se a liberarmi è una mano vestita di fuliggine mossa da occhi celati da una maschera che tra la folla incita alla danza.
Mio è il potere di invadere sguardi e consumare sentimenti sfidando il tempo. Fulmineo come l’ardere di un campo di grano in estate tra il calore del sole e l’alito del vento. O lento, sotto la cenere, memore chioma di quercia ora sottili grigi capelli. Puoi sentire il mio calore poggiando la mano al centro del cuore, un calore lieve e persistente più forte del freddo della morte.
Ardo tra le mani di chi scrive, dipinge, scolpisce, suona strumenti. Coloro, invado l’aria, sfreccio velocemente nella mente e nei cuori di chiunque lavori con passione. Di chi sogna e spera in un futuro migliore.
Io amo ascoltarlo ardere nel camino, e mi sento parte del suo mondo, se pur piccola, come la fiamma di una candela.
Come fuoco”
Forse questo non è il modo più ortodosso per accingersi ad affrontare un argomento così delicato come quello degli incendi in Sardegna. Ho scelto di citare me stessa, di usare le parole con le quali poco tempo fa descrivevo un aspetto della mia isola, un’isola dove il fuoco non sempre richiama alla mente immagini di morte e terrore, ma è sinonimo di cultura e tradizione, d’amore e passione. Tra quelle parole non posso negare vi sia un’immagine vivida di distruzione, un campo di grano in fiamme, una quercia, sono metafora d’amore ma sono anche quanto di più vicino alla brutalità del fuoco, all’immagine di sofferenza che ogni sardo porta nel cuore soprattutto in questi giorni, da quando il Monte Ferru è rimato vittima del fuoco, un fuoco che a distanza di una settimana ancora arde ed ha distrutto più di 20.000 ettari di bosco.
Non è facile affrontare un argomento che tocca l’anima in prima persona, nel quale è impossibile trovare una giustificazione, un argomento che ha i tratti vividi di una piaga dolorosa, una ferita sempre aperta che quando sembra potersi rimarginare, viene ravvivata, resa sempre più ampia e profonda perché è la mano dell’uomo a volerlo, perché esistono esseri umani che godono nel vederla “sanguinare”.
L’impiego del fuoco in ambito agropastorale in Sardegna così come in tutte le regioni del mondo dedite a questa vocazione, risale ad epoche molto remote: esso veniva impiegato come strumento per la creazione o pulitura dei campi, o per il rinnovo dei pascoli. Non meno importante è sempre stata la sua funzione sacrale, un connubio di rispetto e riverenza che l’uomo da sempre, dedica a questo elemento della natura, riconoscendone la sua forza e la sua vitale importanza tali da forgiare l’identità culturale di interi popoli, tra i quali appunto, il popolo sardo. Il fuoco in Sardegna è parte essenziale della cultura e delle tradizioni legate ad un paganesimo mai estirpato impregnato di saggezza e rispetto per la vita e per la natura.
L’incendio invece è sempre è stato un male endemico dell’isola, attribuibile totalmente o in parte a pratiche colturali radicate sia nel mondo contadino che in quello pastorale: l’incendio è “appiccato abitualmente dai pastori per ripulire i pascoli, per fertilizzare e migliorare il cotico erboso, o per favorire il ricaccio dei giovani polloni delle essenze arbustive invecchiate, e per narbonare; od ancora causato accidentalmente dai contadini con l’abbruciamento delle stoppie.”
In Sardegna l’incendio venne considerato un delitto e come tale perseguito da precise norme fin da epoca giudicale. La Sardegna nel Medioevo era divisa in quattro Giudicati, ognuno col suo sovrano, il suo parlamento, il suo esercito e le sue leggi. L’insieme delle leggi prende il nome di Carta de Logu perché “su logu” (il luogo) era il territorio dello stato dove queste leggi arano in vigore.
La Carta de Logupromulgata prima del 1392 dalla Giudicessa del giudicato d’Arborea Eleonora De Serra Basche governò in nome dei figli minorenni, Federico e Mariano V D’Arborea tra il 1383 ed il 1403, consta di 198 articoli dei quali cinque contenuti nella terza sezione sono gli Ordinamentos de fogu(Ordinamenti del fuoco) dal cap. XLV (45) al cap. XLIX (49) e sono atti a disciplinate, reprimere e punire in materia di incendi.
Nello specifico è interessante notare come al capitolo XLV (45) si punisca l’incendio di natura accidentale con ammende di £ 25 e il rimborso dei danni provocati. Il capitolo XLVI (46) punisce l’incendio doloso di case e il capitolo XLVII (47) l’ incendio di terreni coltivati prevedendo pene molto più severe: la pena di morte nel primo caso “… e siat juygadu dellu ligari a unu palu, e fagherillu arder…” ovvero: “il colpevole venga legato al palo e fatto ardere ”, mentre nel secondo caso sancisce che “… e si non pagat issa… saghitsilli sa manu destra…” letteralmente: “ e se non paga gli si tagli la mano destra”, qualora l’incendiario non fosse stato in condizioni di risarcire il danno cagionato
Altre norme della Carta de Logu riguardavano la prevenzione degli incendi, come “il divieto di bruciare le stoppie prima dell’8 settembre e l’obbligo di provvedere alla difesa del villaggio e delle aree coltivate mediante apertura di fasce parafuoco (sa doha) entro il 29 giugno (Santu Pedru de Lampadas), pena, in caso contrario, il pagamento di un’ammenda di soldi 10 per abitante del villaggio.”
Si evince una forte consapevolezza del reale e terribile impatto che gli incendi nel tempo avevano sulla conservazione dei boschi, percepiti come ricchezza della collettività e come tali, oggetto di tutela. Nelle aree boschive tuttavia l’uso del fuoco colturale era di fatto accettato o tollerato, e dal fuoco, impiegato come strumento colturale, facilmente potevano originarsi degli incendi che divenivano incontrollabili ardevano per settimane intere e distruggevano superfici forestali vastissime. Si prevedeva così, anche “la pena in solido per il villaggio..” nell’eventualità che il colpevole non venisse individuato (istituto detto incarica): i Giurati del villaggio erano tenuti ad eseguire le indagini e a provvedere alla cattura dei colpevoli entro 15 giorni, “…pena una multa di £ 30 per il villaggio grande e di £ 15 per il piccolo, oltre a 100 soldi a carico del Curatore.”
La preoccupazione per gli incendi non si estinse in epoca giudicale. Nel Parlamento del Duca di Gandia, don Carlo Borgia conte di Oliva (1612-1614), venne prevista una “pena di due anni di galera a chi avesse appiccato fuoco nelle zone ove si erano praticati innesti di ulivi”, inoltre “si raccomandava che i prelati minacciassero la scomunica a carico degli incendiari.” I provvedimenti erano atti a proteggere beni considerati fonte di ricchezza, le piante che col loro prodotto potevano concorrere ad accrescere il reddito dell’isola affrancandola dalle importazioni d’olio di oliva dalla Andalusia. Successivamente, sotto Filippo III di Spagna (1578-1621), si prese ulteriore coscienza della pericolosità e della vastità del fenomeno e si cercò di reprimerlo con norme idonee, quale quella contenuta nelle Prammatiche spagnole al capo XI del titolo 42, che ripropose “l’istituto della responsabilità collettiva nel caso che gli autori dell’incendio fossero rimasti ignoti. […]”
Con la Carta Reale 29.8.1756, in epoca sabauda venne introdotto il “divieto di impiegare il fuoco per eliminare la vegetazione e coltivare nuove terre” o per “procurare pascoli più abbondanti”. Col Pregone del 2 aprile 1771, n. 66, si fece divieto “d’accensione di fuochi sotto le piante o nelle loro vicinanze (art. 68), pena il risarcimento dei danni e l’ammenda di scudi 25”.
Venne inoltre prescritto “ l’obbligo per “i passeggieri, che faranno fuoco nelle montagne, dove sogliono soffermarsi.” di spegnere il fuoco stesso prima di abbandonare il sito, ” pena un’ammenda di lire 25, oltre il risarcimento dei danni.”
L’insieme di queste norme manifestano l’attenzione delle istituzioni verso un evento che non finiva di produrre ingenti danni al patrimonio boschivo. Tali norme ciò nonostante, venivano osservate solo in parte; come nella Gallura, dove infrangere sistematicamente i divieti connessi all’accensione dei fuochi nella stagione estiva, era motivo da parte del feudatario per esigere un “balzello suppletivo” denominato capretta di fuoco (oveja de fuego) consistente nella corresponsione di una capra in cambio del permesso di accendere fuochi in tutte le stagioni. Vittorio Emanuele I, col Regio Editto riguardante gli incendi del 22.7.1806, oltre a reiterare le norme in uso sopra elencate, introdusse due importanti novità riguardo il divieto di metter fuoco nelle terre nel periodo estivo e prima dell’ 8 settembre:” la perdita, a carico del trasgressore, della superficie coltivata e del suo frutto, a favore del Monte Granatico e l’obbligo di munirsi di apposita autorizzazione del Giudice del luogo per impiegare il fuoco dopo l’8 settembre “. Introdusse inoltre il divieto di pascolo per un anno sui terreni oggetto d’incendio in violazione di legge, “..sotto pena di sei scudi per ogni capo di bestiame”. “[…] il Codice di Carlo Felice (Leggi civili e criminali del Regno di Sardegna) prevedeva ” la pena di morte per chiunque avesse appiccato dolosamente il fuoco a case, magazzini od altri edifici entro o contigui al popolato (art. 1958) o a case o capanne abitate (art. 1959), e la galera a tempo a chi volontariamente avesse incendiato piante in piedi o atterrate e a legne e legnami ammassati o in catasta, nonché a vigne, oliveti e coltivi. […]”
Ma non tutti incendi erano dovuti a cause colturali. Molti erano espressione del malessere del mondo rurale che attraverso modifiche legislative si vedeva “derubato” di consolidati o supposti diritti, spesso secolari. Ne sono un esempio gli effetti dell’Editto delle chiudende, le ripercussioni che si ebbero a seguito delle tagliate eseguite sui boschi di roverella negli anni ’30 e ‘40, oltre alle reazioni dopo la metà XIX secolo, nel mondo rurale in conseguenza dei mutamenti intervenuti nell’organizzazione della proprietà terriera.
Uno sguardo alla storia, un veloce excursus può aiutare almeno in parte a capire per quale motivo il problema degli incendi, non conosca ancora una fine e non venga relegato definitivamente al passato. I tempi sono cambiati e le leggi si sono evolute abbandonando il risvolto drastico e disumano della pena di morte o il taglio della mano. La stessa evoluzione a livello umano non ha accompagnato però alcune menti insensibili che nascoste sotto la maschera di presunti diritti, o sotto quella altrettanto ignobile della vendetta, del “dispetto”, per poter “lavorare” o per denaro liberano la potenza del fuoco contro l’habitat che li nutre e permette di respirare. Niente giustifica questo gesto, niente ne crea il diritto e niente dovrebbe alimentarne neanche il solo pensiero.
Quale gesto è più deplorevole del muovere la mano contro chi inerme non si può difendere, piante ed animali. E poco importa se talvolta a perire tra le fiamme è carne umana. Tra il 1945 e il 2013 a causa degli incendi in Sardegna sono rimaste uccise 67 persone ed altre 17 sono rimaste ferite in modo grave. Tra questi, il 28 luglio del 1983, 9 persone persero la vita e 15 rimasero gravemente ferite nel rogo della collina di Curraggia a Tempio Pausania (SS), mentre cercavano di strappare al fuoco, case alberi ed animali. La loro vita per la vita, così i miei occhi vedono quel sacrificio umano che niente ha insegnato così come la pena di morte, così come il taglio della mano.
Per i boschi e per la natura è impossibile non provare gli stessi sentimenti, le stesse emozioni e sensazioni di fronte alla devastazione del fuoco. Credo ci voglia coraggio come per togliere la vita ad un essere umano nel scegliere il giorno, cogliere il momento, capire la direzione del vento, meditare, preparare l’innesco e liberare il male.
Un incendio di vaste proporzioni ha effetti devastanti non solo sulla regione che lo subisce, ma anche sulle persone che quella terra amano profondamente.
Si narra che i sardi siano talmente legati alla loro isola che tutte le volte che si allontanano dal luogo natale per amore o per “cercare fortuna”, lascino una parte del loro cuore e dell’anima sulla banchina o fuori dal terminal dell’aeroporto o semplicemente al confine della provincia. Anima e cuore sono pronte a vagare in preda alla nostalgia ed in cerca di consolazione tutte le volte che la mente e il corpo lontani ne sentono il desiderio.
Vagano tra le antiche vie di città o paesi tra i profumi inebrianti del cibo e delle feste. Vagano tra i boschi di querce e lecci per udire il canto degli uccelli, scorgere l’ombra del cervo. Vagano tra Domus de Janas e nuraghi in cerca delle loro radici. Vagano tra mirto, ginepri lentisco e rosmarino fino a giungere in riva al mare per contare i granelli di quarzo o ingannare il tempo facendo scorrere tra le mani la sabbia sottile come quella delle clessidre.
Quando un luogo amato scompare in preda alle fiamme, la sofferenza non è dissimile a quella della perdita di un familiare, di una persona cara. L’anima, il cuore, perdono la loro gioia, la loro consolazione, il loro rifugio ed è difficile trovare conforto, perché quel luogo come fosse una persona, non esiste più, sarà per sempre perduto.
La terra bruciata assume l’immagine che nella tradizione contraddistingue la sofferenza della donna sarda quando perde il suo amato, quando il “fato” il destino la condanna a sopravvivere al proprio figlio, quando il dolore deve essere coperto per poter essere mostrato con dignità. La donna veste il lutto, il nero della gonna e dello scialle che avvolge in un abbraccio le spalle ed il capo. Così la terra arsa privata del suo amore più grande, la fauna e la vegetazione mostra vestita di nero, immobile, la sua dignitosa sofferenza. Non il canto di un uccello, non il fruscio di una foglia, solo l’odore acre del fumo, del carbone, della cenere e della morte.
Questo nella mia mente è un incendio, un rogo voluto, desiderato ed augurato con estremo disprezzo per la vita.
La storia ha evoluto le sue leggi ma in Sardegna non è riuscita a porre rimedio a ciò che forse poche, ma agli atti ancora troppe persone sentono come lecita azione perché radicata come tratto culturale o strumento di protesta sociale.
Da sarda rinnego con tutta me stessa chi si appella alla consuetudine per giustificare, chiudere gli occhi, non tutelare e vigilare sul nostro patrimonio boschivo, sulla nostra terra, sui nostri animali.
So per certo che le “mani” della maggior parte dei sardi “candide” o “vestite di nera fuliggine” se pur “mosse da occhi celati da una maschera”, non libererebbero mai la forza del fuoco contro le proprie case, i propri campi, i boschi e quanto racchiudono e proteggono. I figli di questa terra conservano un ancestrale rispetto così per la natura così per il fuoco.Io nel mio piccolo rimango vicina alla mia terra in lutto e pazientemente aspetto, aspetto perché so che sotto il dolore palpita la vita. Aspetto di scorgere tra il nero del suo “scialle” il luccicare verdeggiante dei primi fili d’erba che hanno il sapore del perdono, di un sorriso. Aspetto e prometto che non sarà più lasciata sola. Aspetto e prometto ciò che so che tutta la Sardegna desidera, vuole.
Nota sull’ Autore_
Maria Patrizia Soru è una Guida Turistica Archeologica. Appassionata di Storia e letteratura della Sardegna, è alla continua ricerca di immagini e parole capaci di raccontarne il passato, il presente ed il futuro della sua Terra.
C’è una Sardegna lontana dal suono delle onde, dalle trasparenze smeraldo e dalle rocce che sanno di salsedine. E’ una Sardegna da tutti definita aspra e selvaggia che da sempre si è sottratta alla conquista e all’omologazione.“ Barbaria”, così la battezzarono i romani capaci di conquistare e piegare il mondo, ma non il cuore della Sardegna ed i suoi abitanti protetti dall’ombra del Gennargentu e forti come le sue rocce, che li costrinsero a porre un avamposto, un “ limes”, Forum Traiani ( l’ attuale Fordongianus in provincia di Oristano) ai margini di quella regione per contenere la loro indole indipendente.
Anche Gregorio Magno spese molte delle sue energie per estirpare il paganesimo da quelle terre, ma a niente valsero i suoi sforzi. La conversione al cristianesimo e la conseguente romanizzazione si compirono secoli più tardi in maniera semplice e naturale quando la Barbagia accolse le genti che dalle coste cercarono rifugio nell’entroterra per sfuggire alle invasioni provenienti dal mare.
Ne i pisani, ne gli spagnoli o gli aragonesi e neanche il governo sabaudo riuscirono a durare nell’isola un tempo sufficiente per esercitare la propria autorità innovatrice tra le “genti barbare” di Sardegna. L’isolamento, la cultura pastorale, l’ambiente fisico ed il clima hanno resistito allo scorrere della storia come racchiusi dentro ad uno scrigno del tempo che ha protetto le tradizioni ma soprattutto, il carattere di una popolazione antica forte e speciale che esprimeva attraverso la “balentia” il massimo della potenzialità dell’uomo suggellata tra le righe di un codice non scritto, il Codice Barbaricino.
La natura dei sardi è nota per i suoi silenzi, per le poche parole. E se lungo le coste la voce più potente è quella del maestrale capace di innervosire ed incupire il mare, nel cuore della Sardegna il silenzio ha una voce differente. Il vento deve attraversare muri di rocce e foreste di lecci, l’acqua striscia e salta nel sottobosco e tra le gole. Qui le “parole” hanno il loro peso, anche se silenziose ed apparentemente leggere come i fiocchi di neve che lentamente in inverno, ricoprono il suolo.
La chiamano omertà, la definiscono un’ ancestrale forma di difesa e ribellione al mondo interno ed esterno che contraddistingue l’indole dei barbaricini facendo pensare che abbiano poca voglia di aprirsi, di raccontarsi, di raccontare. Per capire che questo pensiero è privo di fondamento bisogna visitare uno dei borghi più belli e particolari, camminare lentamente tra i vicoli antichi, stare in silenzio, aprire gli occhi, osservare ed ascoltare al contempo ciò che le immagini vogliono comunicare.
E’ noto che “anche i muri hanno orecchie” ma ad Orgosolo si può dire invece che “i muri parlano” ed urlano a gran voce la storia, le sofferenze e gli ideali di un popolo.
Eco lontano , figlio delle pitture rupestri, la tradizione dell’arte muraria attraversa la storia dell’umanità come forma di decorazione, narrazione o indottrinamento sia sacro che profano, in ambito pubblico e privato. L’arte dei murales così come oggi la conosciamo quale forma di denuncia sociale, si sviluppa in Messico dopo la grande rivoluzione del 1910. Immagini rappresentanti lotte sociali, particolari della storia popolare e sentimenti nazionalisti presero forma attraverso la pittura di grandi muri esterni di edifici destinati al popolo.
Proprio nella manifestazione di dissenso, di ribellione ed al contempo nell’unione popolare Orgosolo vede nascere il suoi primi murales . Nel 1969 la tenacia della popolazione lotta e vince contro la realizzazione di un poligono di tiro nel territorio comunale di Pratobello, tradizionalmente asservito al pascolo. Si narra che nei muri del paese comparvero dei manifesti che esortavano i pastori ad abbandonare i pascoli.
Nello stesso anno un gruppo anarchico denominato ‘Gruppo Diòniso’ creò un murale di chiara matrice politica ed un murale tipo ‘reclame’.
Dal quel momento venne rotto il silenzio e dal 1975 in poi grazie ad un insegnate d’arte Francesco del Casino, i muri degli edifici del paese iniziarono a parlare.. un sussurro lieve, un urlo potente ma sempre in una “lingua universale” quella dell’immagine e del colore, talvolta accompagnata da qualche nota che attinge alle tecniche narrative del fumetto , talvolta totalmente priva di “parola”. Tratto nitido e segno inconfutabile assumono ruolo divulgativo, creando un contesto figurativo immediatamente comprensibile anche a distanza, un messaggio essenziale che può essere colto in maniera chiara a prescindere dall’età e dal livello di istruzione, poiché è sufficiente il solo atto di guardare le figure.
Così Orgosolo narra se stessa, lo fa senza timore lasciando che il colore si arrampichi sui muri, prenda forma, catturi l’attenzione dei passanti e consegni il suo messaggio in una forma semplice che attraversa lo sguardo e giunge al cuore.
Il fermento intellettuale degli anni ‘60 e ’70 favorì il nascere e svilupparsi dei murales collettivi che illustrano tutt’oggi con dovizia di particolari le lotte di potere, la vita contadina e pastorale, alternando tematiche socio-politiche alla rappresentazione di simboli tipici appartenenti alla quotidianità. Quotidianità che trova spazio tra i “vicoli della narrazione” dolce ed affabile della vita di donne e uomini impegnati nei loro lavori, nel loro vivere sereno e familiare.. Uomini e donne senza nome e senza gloria che a quella storia, alla storia di Orgosolo e della Sardegna appartengono perché in essa hanno vissuto, l’hanno alimentata e, consapevoli o meno sono stati e, ne sono tutt’ora il motore.
Orgosolo adagiata nel verde dei suoi boschi si offre a se stessa ed al mondo come un grande museo sotto il cielo. Parla ed accompagna se stessa verso il futuro mantenendo nitidi i “tatuaggi e le cicatrici sulla sua pelle” su tutti i suoi muri, protetti ed al contempo, mostrati con semplicità, genuinità ed orgoglio.
Anche se campidanese e non barbaricina sento che quelle immagini, che quella storia mi appartiene. E’ quella della Sardegna intera e dell’Italia, forse cambia solo il tono dei colori, ma i tratti ci accomunano.
Maria Patrizia Soru è una Guida Turistica Archeologica. Appassionata di Storia e letteratura della Sardegna, è alla continua ricerca di immagini e parole capaci di raccontarne il passato, il presente ed il futuro.
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