Noi viviamo come se dovessimo vivere sempre, non riflettiamo mai che siamo esseri fragili.

Di Paul Gauguin – Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=717355

di Massimo Biecher

Che cosa c’è dietro alla domanda:

Chi siamo, da dove veniamo e perché ? 

Premessa: perché ci siamo posti questa domanda ?

La classica domanda a cui cercano di rispondere le religioni e le filosofie è “chi siamo, da dove veniamo e perché”.

Un po’ meno scontato, ma a nostro avviso egualmente interessante, è invece chiedersi perché l’uomo senta la necessità di porsi questo quesito.

È vero che i filosofi, sono coloro i quali hanno fatto di questa indagine il perno dei propri studi e della propria riflessione teorica, ma secondo noi, il movente che li ha spinti in questa direzione non è soltanto quello intellettuale.

Pertanto, partendo dalla premessa che la “domanda delle domande”, ben prima di essere formulata da filosofi e teologi, è ragionevole ritenere che essa sia stata affrontata almeno una volta nella vita da chiunque sia in grado di intendere e volere, ci metteremo nei panni di chi, come noi, magari fin da ragazzi, ci siamo posti lo stesso interrogativo.

Osservare la questione da un altro punto di vista.

Come tutti gli esseri umani, secondo un’interpretazione psicologica, se accettiamo il presupposto della teoria freudiana così come viene enunciato nel libro intitolato “Al di là del principio del piacere”, due sarebbero gli istinti o le pulsioni, per lo più inconsci, che guidano il comportamento umano.

Il primo è la pulsione alla vita, il secondo la pulsione alla morte.

Diciamo subito che questi due termini non vanno presi alla lettera e quindi direttamente associati al significato che essi assumono nel linguaggio comune, in quanto Freud per elaborare questa teoria, si era ispirato al  pensiero del filosofo ellenico Empedocle il quale, nella sua visione cosmologica prevedeva, oltre a quelle che lui definiva le 4 radici dell’esistenza, ovvero aria, acqua, terra e fuoco, anche l’esistenza di due poteri divini, ovvero “φιλότης/filotes- amicizia” e “νεῖκος/neikos – lite”.

In termini metaforici questi due termini condensavano su di loro due principi.

Filotes, il cui scopo era “fondere”, “riunire”, “attrarre” le 4 radici, mentre neikos, aveva la finalità di “allontanarli”, “dividerli” , “separarli”.

Trasponendo questi principi sul piano psicologico, potremmo dire che il primo rappresenterebbe, sempre usando una terminologia freudiana, la pulsione che spinge l’individuo a crescere, ad espandersi, ad avere sempre di più, a voler occupare spazi sempre maggiori, il secondo invece, a ritirarsi, a rinchiudersi in se stesso quando sopraggiungono eventi ritenuti ostili. 

Gli stessi termini, secondo invece la terminologia usata da altre correnti di studiosi, sarebbero rispettivamente l’istinto di espansione ed l’istinto di conservazione.

La maggior parte delle teorie basate sull’osservazione dei fenomeni naturali, sull’analisi del comportamento sociale ed individuale, hanno preferito per dare maggior importanza e quindi a focalizzare studi ed analisi, intorno all’istinto di conservazione, che è quello che polarizza i sentimenti e quindi, le scelte che facciamo, quando la priorità del momento è quella di difenderci da un evento esterno percepito come pericoloso o frustrante.

Ma come sostiene lo psicanalista junghiano Louis Corman, ciascuno di noi è sottoposto ad entrambi le pulsioni, (tralasciamo in questo contesto per semplificazione e praticità che secondo lo psicoanalista Carl Jung, saremmo invece soggetti, ad un numero maggiore di “sollecitazioni inconsce ad agire” da lui definiti complessi) che prendono il sopravvento a seconda dei momenti.

Dell’istinto di conservazione si è detto e scritto molto, mentre di quello di espansione, se ne parla in riferimento a quegli aspetti legati alla vita adulta che sfociano nella spinta al possesso impulsivo di beni materiali, in ambito lavorativo a voler fare carriera a tutti i costi o nel come caso dei governanti del passato, ad ambire alla conquista territoriale mediante l’uso della forza.

L’istinto di espansione come pulsione primaria.

A noi interessa in particolare, soffermarci su quell’impulso che si manifesta fin dai primi giorni di vita e che orienta i comportamenti del neonato nei confronti dell’ambiente esterno con lo scopo di prenderne il possesso.

Ci riferiamo all’istinto primigenio, quello che spinge il bambino ad assimilare nel senso più ampio, ovvero a mangiare spinto oltre che dalla soddisfazione del “principio del piacere”, anche dal desiderio di apprendere per imitare e relazionarsi i suoi genitori, dette anche figure di riferimento e crescere, per migliorare le proprie le proprie capacità motorie in modo da “padroneggiare” l’ambiente che lo circonda.

Ma è dall’interazione e dal confronto con coloro che costituiscono il primo contatto con il mondo esterno, sia dal punto di vista materiale (i genitori si prendono cura di lui quando ha bisogno di sfamarsi, di muoversi o di cambiarsi), che emotivo (lo scopo di coloro che si prendono cura del neonato è quello di creargli un ambiente emotivamente il più possibile sereno) che egli sentirà di non essere più al centro della loro attenzione e quindi sperimenterà le prime frustrazioni.

Tutto ciò mette in discussione il cosiddetto “Es” o “Id”, ovvero, quella componente primitiva della personalità, che fino a qualche tempo prima gli forniva l’illusione, ogni qualvolta le richieste venivano prontamente esaudite, di essere onnipotente.

Ed è a questo impedimento alla manifestazione libera del proprio “Es”, che il piccolo reagisce in maniera per lo più elementare, ovvero facendo prevalere gli istinti primordiali che lo inducono ad esprimersi in maniera aggressiva e rabbiosa mediante pianti, urla, pugni stretti e vibranti e sguardi astiosi nei confronti dell’oggetto di amore/odio che non ha soddisfatto prontamente le sue pretese.

È la complessità della relazione che fa sorgere in lui la consapevolezza di non essere, come aveva ritenuto all’inizio, al centro di quel universo da dominare con la propria personalità e quindi, prende il sopravvento l’istinto di conservazione che lo guiderà verso comportamenti più maturi che tengano conto dell’esistenza di altre identità con le quali confrontarsi.

Solo in un secondo momento, grazie allo sviluppo ed all’affacciarsi delle capacità intellettive, prenderà piede in lui quella riflessione, che lo condurrà ad indagarsi sul perché soffre e quali possano esserne le vere cause, nella speranza che grazie alla loro conoscenza possa o prevenirle oppure mettere in atto comportamenti che hanno lo scopo di limitarne gli effetti.

È come se dalla presa di coscienza di non poter avere sotto controllo tutti gli aspetti della propria vita, sorgesse in lei o lui, la speranza o l’illusione, che la conoscenza la o lo possa preservare in futuro da ulteriori fonti di ansia o di dolore.

Come si manifesta l’istinto di conservazione ?

A questo punto l’individuo, di fronte al dilemma ontologico, mette in atto tre tipi di risposte.

Il primo modo, consiste nel attuare l’istinto di conservazione in senso stretto ovvero, ritraendosi completamente in sé stesso per tenere lontane quelle che sono ritenute le cause della sofferenza.

Questa strategia, per così dire rinunciataria, consiste o in quella che i filosofi epicurei definivano “l’atarassia”, ovvero nel ritrovare la pace interiore mediante l’uso di tecniche che portino alla liberazione dalle passioni, oppure far ricorso alla virtù degli stoici, la cosiddetta “apatia”, ovvero la qualità raggiunta dai saggi che consisteva nel ottenere il distacco dai patimenti della vita.

Oppure infine, perseguendo una vita  virtuosa con l’aiuto della “catarsi”, ovvero mediante la pratica di riti purificatori che liberano dal dolore interiore, accedendo a riti o pratiche di meditazione che permettono di riacquisire l’equilibrio o la pace interiore messe in discussione dai contrasti o dagli accadimenti della vita.

Ma esiste una seconda reazione, tipica invece di coloro che di fronte a limiti ed ostacoli, si prodigano in una ricerca intellettuale, che consiste nel porsi domande intorno al senso ultimo dell’esistenza partendo dal presupposto, che dalla scoperta della causa prima, si possa dare un senso alla sofferenza e quindi alleviarla.

Questo è il percorso delle filosofie e dei filosofi, i quali sono alla ricerca di modelli che cercano di fornire un senso all’esistenza.

Ma esiste anche una terza alternativa.

Stiamo parlando delle religioni, che forniscono una dottrina che attribuisca un significato all’esistenza ed alla sofferenza, partendo da assiomi non necessariamente dimostrabili, così come vengono intesi dall’uomo del XXI secolo, ma ipotizzando l’esistenza di uno o più creatori ritenuti i motori primi e la causa sia di un mondo immanente che di uno materiale.

Secondo questa visione, sarebbe compito della religione, la cui missione in senso etimologico consisterebbe nel “ricollegare “(dal latino “re-ligere”) l’uomo al cielo, fornire un senso escatologico all’esistenza ed alle sofferenze umane.

Osserviamo che seppure queste ultime due strade pur condividendo la medesima domanda, ovvero “soffro , ma allora, perché soffro?”, in realtà propongono due soluzioni divergenti.

Infatti, mentre per la filosofia il dibattito intorno alla ricerca del senso dell’esistenza è fluido, in continua evoluzione e nessuna risposta è mai definitiva, nel caso delle religioni il dibattito è possibile solo nella misura in cui non si entri in contrasto con i dogmi o la rivelazione.

Il senso dietro alla ricerca del fine ultimo.

Desideriamo concludere questa breve riflessione, rimarcando che in accordo con l’ipotesi da noi formulate, al di là delle risposte che il singolo, che si tratti di un intellettuale, di un teologo o di una persona comune, cerchi di darsi, essi sono accomunati da una pulsione, una spinta od una motivazione, che prima di essere intellettuale o spirituale, proviene una necessità interiore e quindi psicologica, di placare l’incertezza del vivere e sperimentare le proprie fragilità soprattutto quando si tratta di affermare se stessi o quando ci troviamo in competizione con gli altri.

Pertanto, a nostro avviso, è dalla reazione alla fragilità umana, quello che abbiamo chiamato istinto di conservazione e non, dall’ambizione dell’intelletto umano, in altre parole dall’istinto di espansione, che nasce il bisogno di cercare una risposta intorno al fine ultimo della vita.


Massimo Biecher

Appassionato fin da ragazzo di fisica nucleare, elettronica e computer, entrato nel mondo del lavoro scopre che la sfera emozionale è importante tanto quanto quella razionale.

Ricoprendo all’interno delle aziende ruoli di sempre maggior responsabilità, osserva che per avere successo, oltre ad investire in ricerca e sviluppo ed in strumenti di marketing innovativi, le organizzazioni non possono prescindere dal fatto che le emozioni giochino un ruolo determinante tra i fattori critici di successo.

Grazie ai libri del Prof. Giampiero Quaglino, viene a conoscenza delle più moderne teorie sulla leadership ed in particolare quelle del docente dell’Insead, Manfred Kets de Vries, con cui condivide la visione secondo la quale non esistono modelli di leadership vincenti, ma solo relazioni efficaci tra gli individui.

Nel 2014 la rivista “Nuova Atletica”, organo ufficiale della Federazione Italiana Di Atletica Leggera, gli commissiona una serie di contributi sulla leadership per allenatori professionisti, coerente con le teorie che quotidianamente cerca di mettere in pratica sul lavoro.

Appassionato anche di filosofia, va alla ricerca instancabile di un modello che metta al centro l’individuo e ne rispetti l’unicità ma che al contempo, sia riconducibile a dei principi da cui cui tutto “principia”, convinto che la cultura e la superspecializzazione della scienza e della tecnologia moderna, conduca ad un inevitabile frammentazione dell’Io.

Ritiene di aver trovato ciò che cercava, riscoprendo la filosofia platonica e di Plotino e nella rilettura dei miti greci attraverso le lenti della psicologia archetipica introdotta dallo psicoanalista junghiano James Hillmann assieme ad i contributi dei filosofi E. Casey, L. Corman e dell’antropologo J.P. Vernant.

Pubblica con cadenza mensile sul magazine “karmanews.it” articoli che reinterpretano i miti dell’antica Grecia in chiave psicoanalitica, ritenendoli una metafora dei travagli dell’anima che, mediante l’uso di immagini e di racconti fantastici, si rivolgono direttamente al cuore e quindi all’inconscio.




La funzione costruttiva dell’ironia.

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di Christian Lezzi_

Definito da Sigmund Freud come “la più alta manifestazione dei meccanismi di adattamento dell’individuo”, l’umorismo ha una connotazione liberatoria in senso positivo, essendo un sintomo indiscutibile d’arguta intelligenza, di prontezza mentale, di elasticità e di apertura, atto a indagare e a decodificare, fuori dagli schemi, il mondo intorno a noi. 

Proprio per questa sua capacità di andare oltre gli standard che delimitano uno scambio comunicativo interpersonale, l’umorismo consente, con naturalezza e leggerezza (che non è da confondere con la futilità o con l’inopportuna leggerezza) di scoprire molto degli altri e di noi stessi, arrivando ad apprendere dettagli che, analizzati con rigore logico e con altrettanto eccessiva serietà, difficilmente scopriremmo.

Ciò accade perché, l’umorismo, supera le difese, gli scudi, le maschere che ognuno di noi, volente o nolente, applica, erge e indossa, per allontanare le paure, i rischi, ciò che non ci fa sentire a nostro agio, che ci espone alla minaccia, tranquillizzandoci e predisponendoci al confronto produttivo e rilassato con l’interlocutore.

E quando una trattativa volta a negoziare, o a mediare (di qualunque natura essa sia) si svolge in piena rilassatezza, grazie anche al piacevole senso dell’umorismo e all’ironia più rispettosa, può accadere ogni magia!

L’umorismo però (o ironia, che dir si voglia) non va confuso con il sarcasmo. 

Immaginando le due facce di un’ipotetica medaglia, una faccia (l’ironia) brilla nel sole, mentre la seconda (il sarcasmo) poggia direttamente sul nudo fango. Se il primo è costruttivo, distensivo, arguto e piacevole, se riesce a tradure, in una battuta ilare e in uno scambio ridanciano, l’essenza intelligente di chi la propone, il suo alter ego è cattivo, narcisista, irrispettoso delle altrui sensibilità, pronto a schiacciare e calpestare, distruggere e demolire, pur di primeggiare sull’interlocutore, vivendolo come un nemico da abbattere, prima che diventi offensivo e contundente, in ogni accezione possibile.

In altre parole ed esagerando volutamente i termini, potremmo ben definire il sarcasmo, come un disturbo sociopatico e antisociale del comportamento umano.

Al di là delle battute, è lecito pensare che, se l’umorismo è una forma d’intelligenza (adattiva per Freud, come abbiamo già visto), il suo Mr. Hyde è una materializzazione delle paure più profonde, quelle che condizionano il comportamento e distruggono le relazioni. Il sarcastico umilia offendendo, allo stesso modo dell’arrogante che soverchia urlando. 

In entrambi i casi, è la paura a farla da padrona, rubando la scena alla già scarsa autostima del soggetto in questione.

L’umorismo ride con te. Il sarcasmo ride di te. La sottile differenza è tutta qui. Sottile appunto, come una lama tagliente che di buone intenzioni proprio non ne ha.

L’aspetto costruttivo dell’umorismo si concretizza quindi nella sua capacità di mostrarci una diversa prospettiva, un differente punto d’osservazione, una nuova forma mentis nell’affrontare un determinato carico emotivo, spesso inaspettato. La battuta piacevole rompe ciò che potremmo definire iper-focus, ovvero quella concentrazione esagerata sul problema, a discapito della soluzione che perciò diventa invisibile, in cui il primo ruba la scena al secondo, rendendoci incapaci di essere produttivi e risolutivi.

Non a caso, lo psicologo americano Richard Bandler ha scritto “Se siete seri, siete bloccati. L’umorismo è la via più rapida per invertire questo processo. Se potete ridere di una cosa, potete anche cambiarla”.

E ciò ci porta a dissacrare (deo gratias) lo status quo, il “si è sempre fatto così”, l’assurdo “squadra che vince non si cambia”“finché la barca va…”, per affrontare le situazioni con un pensiero diverso, alternativo, leggero nella sua profondità, mirato a costruire una soluzione con il sorriso sulle labbra e con il giusto atteggiamento.

Un pensiero “laterale” che punta a fiaccare le resistenze, attaccandole laddove non se lo aspettano, proprio come nella strategia militare, come avrebbe detto l’indimenticato professore maltese Edward De Bono, famoso per i suoi sei cappelli per pensare, per il suo fine umorismo e l’altrettanto affilata intelligenza.

Quando parliamo di umorismo, quindi, definiamo un’alternativa positiva, proattiva, aperta al mondo intero che ne evidenzia gli aspetti ridicoli, così come mette in ridicolo la seriosità stessa, nostra e di molte persone, dall’apparenza rigida, con quel fare inflessibile, perché sorridere si può, anche nelle questioni più importanti, esattamente come una battuta ce la si può e ce la si deve concedere, per sopravvivere alla seriosità senza freno e senza prospettiva. Soprattutto senza soluzione. L’ironia alleggerisce le atmosfere più plumbee, assorbe gli urti, rende più confortevole un percorso che, diversamente, sarebbe scomodo o impervio, quasi impossibile da praticare.

E ponendosi come alleviatore, positivo e proattivo, alleggerisce i conflitti, distendendo gli animi, ponendoli in condizione di collaborare, limando alla base quelle asperità che inaspriscono gli scambi e rendono poco propizie le circostanze, accorciando le distanze che sporcano il momento d’ansia, paura e incertezza.

Un momento d’attrito concreto e potente, dovuto alla differenza tra stato desiderato e stato reale, ovvero una distonia relativa alla realtà che stiamo vivendo, evidentemente diversa da ciò che ci aspettavamo, che genera disagio. E quel disagio, prima che diventi stato ansiogeno, non può che essere risolto dall’adattività (altrimenti definita come l’arte di stare al mondo) di cui sa essere capace solo una mente pronta, sveglia e intelligente. Una mente che, spesso, si concretizza in un’uscita con stile, atta a rompere schemi e tensione e che, strappando un sorriso agli astanti e a noi stessi, cambia il modo di vedere le cose in tutti i presenti.

Una caratteristica umana, quindi, molto affine al più blasonato e abusato concetto di resilienza, che può essere allenata, rafforzata, affinata, tanto dalla nostra cultura, quanto dalla nostra curiosità e dall’ambiente circostante. Ma, soprattutto, una battuta d’arguto spirito, non trova spazio in assenza di ascolto attivo e costruttivo, nonché rispettoso dell’altro nel senso più vero.

Agli esatti antipodi del sarcasmo, che l’altro nemmeno lo ascolta, tutto teso e concentrato a scovare l’altrui tallone d’Achille, quel punto debole verso il quale vibrare il mortale colpo, nell’illusione d’apparire brillante.

Ed è la stessa storia a ricordarci come, anche nelle crisi più nere, quelle che hanno segnato il nostro passato, influenzando il nostro futuro, una battuta arguta ha sempre avuto spazio e, a volte, alleggerendo gli animi, ha contribuito a risolvere la querelle

Perché serio, non vuol necessariamente dire serioso.

Immaginare cambia il presente e prepara il futuro, mentre ci aiuta a sopportare un passato spesso ingombrante. Ci consola per ciò che non sappiamo o non possiamo essere e ci conforta, grazie a una risata, per ciò che davvero siamo, staccandoci da una routine pesante o da un momento che, in fatto di pesantezza, rischia di diventare un macigno e aiutandoci a sopportare ciò che di noi poco ci piace, ridendoci sopra, proprio grazie all’ironia che, soprattutto quando rivolta verso noi stessi, rappresenta l’apice nobile dell’arguzia umana.

E ristabilisce il giusto rapporto tra reale e percepito, perduta o sovrascritta dall’ipertrofia dell’ego, di norma talmente piccolo da ingannarsi, fino a sentirsi un gigante, in preda al delirio egocentrico, riconquistando il corretto equilibrio tra le parti e prendendo le distanze da noi stessi e dalla nostra (spesso) ingombrante personalità.

È una questione di stile, di buonsenso e di misura, l’ironia che accomuna.

L’umorismo scioglie i conflitti e alimenta il confronto (già questo concetto sarebbe sufficiente per renderlo di studio obbligatorio a scuola!) perché solo chi ride con gli altri, anche di se stesso, può essere definito brillante. Chi ride degli altri, dei loro sentimenti e delle loro debolezze, puntando a umiliare l’altrui debolezza, è solo un disgraziato meritevole di poco ironica pietà.


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.

Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.