Brebbus.

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di Maria Patrizia Soru_

Adagiato al centro della piana di Uras, al limite nord-orientale del Campidano (in provincia di Oristano), coperto da lussureggianti lecci e macchia mediterranea, Monte Arci svela la sua origine e  storia senza tempo, è un vulcano dormiente.  Trebina LongaTrebina Lada e Corongiu de Sizoa sono le tre vette che richiamano all’immagine di un treppiede, sono ciò che rimane dei tre condotti vulcanici che hanno dato origine al monte ed al suo inestimabile tesoro, l’Ossidiana.

Considerata “l’oro nero della Sardegna”, l’Ossidiana è una “pietra vitrea” rara, di origine vulcanica, la sua formazione è dovuta al rapido raffreddamento della lava a seguito di un’eruzione. Il suo colore è  nero ed in sardo è chiamata “sa pedra crobina” letteralmente “la roccia nera come il corvo”, anche se il suo colore non è sempre uniforme ma cangiante. Se colpita dai raggi del sole è possibile vederne la vitrea trasparenza e talvolta animarsi di diversi colori, dal nero al grigio, dal caldo rosso al marrone o al verde, fino candido bianco.

E’ un viaggio lungo milioni di anni quello dell’Ossidiana, un viaggio che dal centro della terra la porta fino a noi, tra le nostre mani.

Seguendo le sue vie in senso letterale, è possibile ripercorrere la storia del popolo sardo e delle sue tradizioni. Ad onor del vero altre regioni nel Mediterraneo conservano questo tesoro, Lipari, Pantelleria e Palmarola, anche se è certo che i più ricchi siti di estrazione sono quelli del Monte Arci in Sardegna. Sono e forse lo sono sempre stati in quanto i  primi indizi sullo sfruttamento sistematico della risorsa ad opera dei così detti ‘scheggiatori’ specialisti che la preferirono alla Selce, risalgono al Neolitico recente (II metà del V millennio a.C.), epoca in cui si sviluppò la grande officina di Conca ‘e Cannas e l’Ossidiana divenne il cardine degli intrecci commerciali nel bacino del Mediterraneo.

“Pietra di fuoco” anche questo nome le appartiene, richiamo alla calda e rossa lava che una volta spenta e modellata dall’uomo cerca ancora il “ rosso calore”, quello del sangue. Quel sangue che probabilmente intrise le mani di colui che per primo scoprì che la “pietra nera”  era facile da scheggiare e modellare in oggetti acuminati indispensabili per la vita ma indissolubilmente legati alla morte. Dagli utensili d’uso quotidiano, quali lame e raschiatoi probabilmente per la lavorazione delle pellialle armi da getto: le punte di freccia. Strumento indispensabile per la vita è una punta di freccia in ossidiana issata in cima ad un sottile bastone tra le mani di un cacciatore in cerca di una preda per sfamarsi, per sfamare. La stessa punta di freccia assume un altro significato tra le mani di un guerriero in cerca del “nemico”, pronto a difendere o difendersi seminando morte e dolore all’interno del genere umano.

Una pietra così affascinante ed importante per la sopravvivenza, ha assunto presto un valore ed un significato speciale a tutela della persona e come ornamento, un uso intimo e personale, l’amuleto.

Gli oggetti destinati ad uso personale, sono strettamente legati all’ambito tradizionale che negli anni li ha replicati sostanzialmente immutati, tanto da risultare difficoltoso distinguere visivamente gli esemplari antichi da quelli recenti.
“L’amuleto” vero e proprio non è prezioso nei materiali e non è mai di grandi dimensioni. Il materiale usato per le montature è sempre l’argento in lamina, talvolta dentellata, o lavorato a filigrana. Le catenelle che uniscono i diversi elementi che li compongono sono costituite da perline di varia forma e differenti materiali, legate tra loro con maglie anch’esse d’argento; la tecnica di lavorazione è solitamente piuttosto elementare. Assai rilevante è però il significato magico-religioso che gli amuleti hanno assunto nella loro lunghissima storia. In Sardegna non si è sviluppata una “magia colta” come quella persiana, giudaica o egiziana, profondamente legata allo studio dei problemi dello spirito e del movimento degli astri a cui si connetteva non solo il conteggio del tempo ma ogni evento naturale.

Gli amuleti ebbero vasta diffusione. Sono questi gli oggetti concreti che la magia semplice, popolare, impiega come strumenti di difesa, con efficacia specifica o generale, contro qualsiasi sofferenza che derivi da cause sconosciute, pertanto ritenute soprannaturali. “Per la loro forma o per la struttura della loro materia, arricchiti talvolta da formule magiche, incorporano la potenza che attiene al soggetto divino di cui sono riconosciuti simbolo e la esercitano in favore di chi li tiene vicini portandoli sulla persona, appesi a capo del letto o della culla, posti sotto il cuscino o fissati alle vesti.” Dovrebbero assicurare benessere, abbondanza e fortuna, tenere lontani i pericoli e preservare dalle malattie e dai malefici.
Gli amuleti formati da più oggetti magici, collegati da una catena o saldati direttamente tra loro, ottengono un effetto maggiore: ogni singolo elemento infatti è dotato di una propria forza che si somma a quella degli altri per concorrere, nel modo più efficace, a tutelare chi li possiede contro i diversi malefici. L’uso dei talismani è documentato sin dall’Età del ferro; dal periodo tardomedioevale e rinascimentale sussistono  anche numerose rappresentazioni iconiche e letterarie in ambiente cristiano.

In Sardegna, più che in altre regioni, sono stati rinvenuti antichi amuleti del pantheon egizio e di quello punico che da esso dipende. Tuttavia, col mutare dei tempi e dei costumi, se pure numerose credenze magiche hanno continuato a sopravvivere, gli amuleti hanno subito numerose variazioni, causate dal sovrapporsi di altre culture sino ad essere gradualmente sostituiti da tipologie diffrenti. Una nuova era, per l’universo magico della Sardegna, ha avuto inizio nel corso del XIII secolo quando arabi ed ebrei, provenienti dal Maghreb e dalla Spagna meridionale, stabilirono relazioni commerciali dirette con l’Isola.

La presenza in Sardegna di persone che, come gli antichi egiziani, affiancavano alla religione alcune pratiche esoteriche, può spiegare la sostanziale comunione tra simbolismo religioso cristiano e sovrapposizioni di culture più antiche, una confluenza che ha plasmato le credenze e le pratiche magico-religiose popolari dell’isola. “Le caratteristiche pratiche ad esse legate sono rimaste in uso sino all’inizio del Novecento, nonostante gli anatemi lanciati dal Sinodo di Cagliari sin dal 1652 e costantemente replicati da quelli successivi, nei quali si condanna esplicitamente la magia e l’uso di portare con sé amuleti. Ma pressoché ovunque la volontà popolare manifesta una forte resistenza nel  coltivare una ritualità estranea alla religione ufficiale.”
La credenza nel “malocchio”, ovvero nei poteri malefici espressi per mezzo dello sguardo, è documentata per la prima volta in testi magici egizi della fine dell’Antico Regno, duemila anni prima della nascita di Cristo, ma le sue origini risalgono certamente a tempi ancora più lontani, ad un epoca mitica nella quale l’uomo primitivo vedeva nel sole e nella luna l’occhio destro e sinistro della divinità celeste primordiale.
L’osservazione degli effetti talvolta malefici, prodotti dallo “sguardo” dei due “pianeti-occhi” sui campi e sulle acque, generò la convinzione che l’origine di qualsiasi sofferenza fosse causata dall’influenza del cosi detto “occhio cattivo”. Poi, quando la capacità di emanare questa forza venne attribuita ad alcuni individui ritenuti, forse a causa del loro aspetto, possessori anche del tutto inconsci di tale prerogativa, la superstizione del “malocchio” raggiunse una diffusione enorme. A seguito della credenza secondo la quale la persona, prendendo contatto attraverso il simbolo con il suo modello, diviene “una porzione di quell’essere “magico” e acquisisce l’immunità e la tutela dalle sue influenze malefiche”, così da permettere agli amuleti degli “occhi” di godere  di grande diffusione e popolarità.

Il mistero della fecondità della donna e della terra è il primo fenomeno che l’uomo si è prefisso di controllare e favorire attraverso la forza magica. Si può presumere che ad assicurare la fertilità siano state preposte, già in epoca paleolitica, le celebri statuette definite, “Dea Madre” che sono state ritrovate in molte regioni dell’Europa e dell’Asia e, in gran numero, anche in Sardegna.

Amuleti con conchiglie marine, ritenute sin dalle origini dell’uomo una potente tutela contro il malocchio, sono stati ritrovati in Sardegna nelle tombe puniche. Le stesse virtù delle conchiglie sono state attribuite nella religione giudaico-araba agli opercoli di alcuni gasteropodi come il Turbo rugosus che per la sua forma, richiamante quella dell’occhio, è divenuto l’amuleto deputato più di ogni altro a proteggere gli occhi da ogni male. Per questa funzione, nella religione popolare cristiana, si ritrova accoppiato ad un’immagine sacra ed è denominato “occhio di Santa Lucia”.

Il corallo che un tempo era ritenuto una pietra, deriva la sua valenza “amuletica” dal colore rosso, questa volta da identificare come simbolo del sangue che, per i popoli antichi rappresentava l’energia vitale in conseguenza del fatto che, alla perdita del sangue nell’uomo e nell’animale, si accompagnava la fine del vigore e la morte. Perciò il colore rosso fu ritenuto portatore delle stesse forze misteriose del sangue e quindi capace di dispensare forza e vitalità. 
Vi è inoltre la teoria che abbina alcune pietre alle costellazioni zodiacali e ai pianeti del sistema solare, la cui influenza ricade sulla vita terrestre, tale teoria era riconosciuta sin dai Caldei, anche se  di connessione tra Zodiaco e gemme si parla anche nella Bibbia e, nel III secolo, San Girolamo osservò una precisa corrispondenza tra dodici pietre preziose e i pianeti.
“Anche l’ambra, il giaietto ed altre pietre fossili, che derivano la valenza magica dall’essenza della struttura della loro materia danno vita a molti amuleti sardi. Ad esse si accompagnano altre pietre, quali il diaspro, l’onice e l’agata che si collegano alle gemme gnostiche”. Nel corso del tempo a tutte queste si sono sostituite, sempre con funzione terapeutica, “pietre” di pasta vitrea bianca o colorata con ossidi metallici in rosso, in blu azzurro e in verde. A queste sono stati dati simbolicamente la forma sferica e il colore associati ai pianeti  considerati come perfetti e divini e guidati da angeli, dei quali le pietre racchiudono gli influssi particolari nell’ambito del complesso sistema sia magico che astrologico e religioso, che determina il simbolismo dei colori. La sfera di vetro rosso, insieme con quella azzurra o con quella verde è il simbolo degli occhi di Horo che così sono descritti nei papiri delle Piramidi.  In questi si legge appunto che gli occhi erano uno rosso e l’altro azzurro o verde. 
Nella tradizione magica giudaico-araba, ed anche in Sardegna, venne attribuito lo stesso valore agli occhi di Santa Lucia. 

Valenze diverse hanno invece la pietra bianca “Perda ’e latti”  (la pietra di latte) e la pietra nera, chiamata a seconda delle aree geografiche della Sardegna, SabegiaPinnadellu o Kokko .  La prima provvede a non far mancare il latte nel seno materno, mentre l’altra, in giaietto o ossidiana, lenisce ogni dolore ed è ritenuto protegga contro tutti gli animali velenosi.

L’ossidiana esprime quindi, ancora oggi il suo potere e la sua valenza magica attraverso un ornamento/amuleto semplice e di forma sferica che simboleggia l’occhio. Un occhio buono a protezione di un altro occhio cattivo che genera is Mazzinas ( le fatture e le maledizioni in lingua sarda) o S’ogu malu (l’occhio cattivo) che si posa sul soggetto. Si narra che se il supporto d’argento sul quale è incastonato arriva a spezzarsi, la persona è stata in pericolo di vita per via di una maledizione e l’amuleto ha offerto se stesso a protezione imprigionando al suo interno  il maleficio. Qualora questo dovesse accadere il talismano andrebbe sostituito poiché saturo ed incapace di proteggere ancora.

La tradizione secolare prevedeva che questo amuleto venisse regalato dalle mamme, dalle madrine o dalle nonne alle spose, alle donne in attesa ed alle ragazze che diventavano adulte, ma anche ai neonati in forma di spilla da nascondere nella culla. Prima di essere donato doveva essere benedetto attraverso le preghiere in lingua sarda dette “Brebbus” con funzione di protezione.

Sacro e profano accompagnano tra i secoli la storia dell’ossidiana in Sardegna rendendo sempre vivo ed attuale l’interesse per una pietra che altrimenti sarebbe stata dimenticata.

Non sono in grado di valutare quanto ancora il “potere magico” di questa pietra influenzi la scelta di farne o farsene dono. Ho vacillato a lungo come sospesa in equilibrio su un filo tra razionale ed irrazionale, per capirne il fascino ed il potere. So per certo che l’ossidiana ha accompagnato la mia vita sin da bambina nei frammenti di pietra che raccoglievo nelle scampagnate con i miei genitori attirata dal nero lucente. Così come è altrettanto vero che in fondo, anche se so di non credere in nessuna superstizione, con serenità posso ammettere che quella pietra mi a colpito al cuore. 

Da bambina sono sempre stata abituata alla presenza dei nuraghi, delle domus de janas o delle tombe dei giganti. La storia faceva parte del paesaggio, ne era complementare, ed il tempo che passava aveva un significato sconosciuto. A otto anni è presto per innamorarsi così come è presto per capire chi si vuole diventare. Poi capita che a varcare la porta della mia classe in terza elementare sia un omino curvo su se stesso che tra le mani tiene una piccola teca di legno e vetro, contenente il frutto delle sue passeggiate al di là degli argini che contengono il Tirso. Adagia sulla cattedra inconsapevole, ciò che diventerà una parte della mia vita, il mio quanto mai “remoto” futuro. Quando ho guardato attraverso il vetro ho visto, distese fiere  su un purpureo velluto, punte di freccia d’ossidiana capaci dopo millenni di trafiggere ancora, non le carni, ma l’anima ed il cuore. Di quella piccola lezione di preistoria sarda, credo di aver assimilato ogni singola pausa, respiro, parola, mente gli occhi fissavano le frecce e la mia mente produceva immagini tinte di sangue e mille emozioni. Quelle poche ore, non mi hanno mai abbandonata, anche quando la mia vita sembrava aver preso un’altra direzione e quella punta di freccia in ossidiana tornava puntuale alla mente e mi faceva battere il cuore. Ora forse posso ammettere che il  mio presente è legato ad un inconsapevole “ arcaico cupido-cacciatore”, abile nel modellare e fissare la punta di freccia in ossidiana sul suo sottile bastone, abile nell’averla saputa lanciare oltre il tempo e lo spazio immaginabili, dritta verso la mia anima ed indelebile nella mente.

Non so cosa potrà pensare chi leggerà questo testo sospeso tra storia e superstizione ma, su di me l’ossidiana del Monte Arci, ha compiuto un incantesimo che va oltre il razionale e forse di non semplice comprensione.

Per approfondimento vedi il libro : Gioielli, Storia, linguaggio, religiosità dell’ornamento in Sardegna,  2004 (pag. 83-87); ILISSO EDIZIONI, Collana di ETNOGRAFIA E CULTURA MATERIALE / Coordinamento: Paolo Piquereddu.

http://www.sardegnacultura.it/documenti/7_49_20060414131456.pdf

https://www.sardegnaturismo.it/it/esplora/museo-dellossidiana

https://www.youtg.net/canali/turismo/sardegna-fuori-rotta/121-sardegna-fuori-rotta/15053-il-monte-arci-i-suoi-segreti-e-l-ossidiana-un-viaggio-con-sardegna-fuori-rotta

https://www.sardegnareporter.it/2021/01/tra-leggenda-e-tradizione-la-storia-di-su-coccu/370248/

https://www.donnadifiori.info/donna-fresia/cucci-amuleto-delle-donne-sarde/

http://www.tottusinpari.it/2018/12/27/la-via-dellossidiana-loro-nero-in-sardegna/

https://www.sardegnaturismo.it/it/esplora/parco-del-monte-arci


Maria Patrizia Soru è una Guida Turistica Archeologica.
Appassionata di Storia e letteratura della Sardegna, è alla continua ricerca di immagini e parole capaci di raccontarne il passato, il presente ed il futuro della sua Terra.




FUOCO.

Giulia Gellini – Incontro impalpabile -tecnica mista 70 x 50 – 2019

di Maria Patrizia Soru_

Sono sacre le mie origini, in me è parte della creazione. Ribelle, desiderio degli uomini mi sono fatto catturare. Servo della vita o strumento degli dei, vivo oggi imprigionato tra mani candide consacrate che al crepuscolo di un giorno stabilito per devozione, liberano la mia forza in falò che illuminano la notte, purificando fedeli chini dinnanzi alla mia luce, al mio calore.

Profano è il mio nome se a liberarmi è una mano vestita di fuliggine mossa da occhi celati da una maschera che tra la folla incita alla danza. 

Mio è il potere di invadere sguardi e consumare sentimenti sfidando il tempo. Fulmineo come l’ardere di un campo di grano in estate tra il calore del sole e l’alito del vento. O lento, sotto la cenere, memore chioma di quercia ora sottili grigi capelli. Puoi sentire il mio calore poggiando la mano al centro del cuore, un calore lieve e persistente più forte del freddo della morte.

Ardo tra le mani di chi scrive, dipinge, scolpisce, suona strumenti. Coloro, invado l’aria, sfreccio velocemente nella mente e nei cuori di chiunque lavori con passione. Di chi sogna e spera in un futuro migliore. 

Io amo ascoltarlo ardere nel camino, e mi sento parte del suo mondo, se pur piccola, come la fiamma di una candela. 

 Come fuoco”

Forse questo non è il modo più ortodosso per accingersi ad affrontare un argomento così delicato come quello degli incendi in Sardegna. Ho scelto di citare me stessa, di usare le parole con le quali poco tempo fa descrivevo un aspetto della mia isola, un’isola dove il fuoco non sempre richiama alla mente immagini di morte e terrore, ma è sinonimo di cultura e tradizione, d’amore e passione. Tra quelle parole non posso negare vi sia un’immagine vivida di distruzione, un campo di grano in fiamme, una quercia, sono metafora d’amore ma sono anche quanto di più vicino alla brutalità del fuoco, all’immagine di sofferenza che ogni sardo porta nel cuore soprattutto in questi giorni, da quando il Monte Ferru è rimato vittima del fuoco, un fuoco che a distanza di una settimana ancora arde ed ha distrutto più di 20.000 ettari di bosco.

Non è facile affrontare un argomento che tocca l’anima in prima persona, nel quale è impossibile trovare una giustificazione, un argomento che ha i tratti vividi di una piaga dolorosa, una ferita sempre aperta che quando sembra potersi rimarginare, viene ravvivata, resa sempre più ampia e profonda perché è la mano dell’uomo a volerlo, perché esistono esseri umani che godono nel vederla “sanguinare”.

L’impiego del fuoco in ambito agropastorale in Sardegna così come in tutte le regioni del mondo dedite a questa vocazione, risale ad epoche molto remote: esso veniva impiegato come strumento per la creazione o pulitura dei campi, o per il rinnovo dei pascoli. Non meno importante è sempre stata la sua funzione sacrale, un connubio di rispetto e riverenza che l’uomo da sempre, dedica a questo elemento della natura, riconoscendone la sua forza e la sua vitale importanza tali da forgiare l’identità culturale di interi popoli, tra i quali appunto, il popolo sardo. Il fuoco in Sardegna è parte essenziale della cultura e delle tradizioni legate ad un paganesimo mai estirpato impregnato di saggezza e rispetto per la vita e per la natura.  

L’incendio invece è sempre è stato un male endemico dell’isola, attribuibile totalmente o in parte a pratiche colturali radicate sia nel mondo contadino che in quello pastorale: l’incendio è “appiccato abitualmente dai pastori per ripulire i pascoli, per fertilizzare e migliorare il cotico erboso, o per favorire il ricaccio dei giovani polloni delle essenze arbustive invecchiate, e per narbonare; od ancora causato accidentalmente dai contadini con l’abbruciamento delle stoppie.”

In Sardegna l’incendio venne considerato un delitto e come tale perseguito da precise norme fin da epoca giudicale. La Sardegna nel Medioevo era divisa in quattro Giudicati, ognuno col suo sovrano, il suo parlamento, il suo esercito e le sue leggi.
L’insieme delle leggi prende il nome di  Carta de Logu perché “su logu” (il luogo) era il territorio dello stato dove queste leggi arano in vigore.

La Carta de Logu promulgata prima del 1392 dalla Giudicessa del giudicato d’Arborea Eleonora De Serra Bas  che governò in nome dei figli minorenni, Federico e Mariano V D’Arborea tra il 1383 ed il 1403, consta di 198 articoli dei quali cinque contenuti nella terza sezione sono gli Ordinamentos de fogu (Ordinamenti del fuoco) dal cap. XLV (45) al cap. XLIX (49) e sono atti a disciplinate, reprimere e punire in materia di incendi.

 Nello specifico è interessante notare come al capitolo XLV (45) si punisca l’incendio di natura accidentale  con ammende di £ 25 e il rimborso dei danni provocati.
Il capitolo XLVI (46) punisce l’incendio doloso di case e il capitolo XLVII (47)  l’ incendio di terreni coltivati  prevedendo pene molto più severe: la pena di morte nel primo caso “… e siat juygadu dellu ligari a unu palu, e fagherillu arder…” ovvero: “il colpevole venga legato al palo e fatto ardere ”, mentre nel secondo caso sancisce che  “ … e si non pagat issa… saghitsilli sa manu destra” letteralmente: “ e se non paga gli si tagli la mano destra”, qualora l’incendiario non fosse stato in condizioni di risarcire il danno cagionato 

Altre norme della Carta de Logu riguardavano la prevenzione degli incendi, come  “il divieto di bruciare le stoppie prima dell’8 settembre e l’obbligo di provvedere alla difesa del villaggio e delle aree coltivate mediante apertura di fasce parafuoco (sa doha) entro il 29 giugno (Santu Pedru de Lampadas), pena, in caso contrario, il pagamento di un’ammenda di soldi 10 per abitante del villaggio.” 

Si evince una forte consapevolezza del reale e terribile impatto che gli incendi nel tempo avevano sulla conservazione dei boschi, percepiti come ricchezza della collettività e come tali, oggetto di tutela. Nelle aree boschive tuttavia l’uso del fuoco colturale era di fatto accettato o tollerato, e dal fuoco, impiegato come strumento colturale, facilmente potevano originarsi degli incendi che divenivano incontrollabili ardevano per settimane intere e distruggevano superfici forestali vastissime.
Si prevedeva così, anche “la pena in solido per il villaggio..” nell’eventualità che il colpevole non venisse individuato (istituto detto incarica): i Giurati del villaggio erano tenuti ad eseguire le indagini e a provvedere alla cattura dei colpevoli entro 15 giorni, “…pena una multa di £ 30 per il villaggio grande e di £ 15 per il piccolo, oltre a 100 soldi a carico del Curatore.”

La preoccupazione per gli incendi non si estinse in epoca giudicale. Nel Parlamento del Duca di Gandia, don Carlo Borgia conte di Oliva (1612-1614), venne prevista una “pena di due anni di galera a chi avesse appiccato fuoco nelle zone ove si erano praticati innesti di ulivi”, inoltre “si raccomandava che i prelati minacciassero la scomunica a carico degli incendiari.”
I provvedimenti erano atti a proteggere beni considerati fonte di ricchezza, le piante che col loro prodotto potevano concorrere ad accrescere il reddito dell’isola affrancandola dalle importazioni d’olio di oliva dalla Andalusia.
Successivamente, sotto Filippo III di Spagna (1578-1621), si prese ulteriore coscienza della pericolosità e della vastità  del fenomeno e si cercò di reprimerlo con norme idonee, quale quella contenuta nelle Prammatiche spagnole al capo XI del titolo 42, che ripropose “l’istituto della responsabilità collettiva nel caso che gli autori dell’incendio fossero rimasti ignoti. […]”

Con la Carta Reale 29.8.1756, in epoca sabauda venne introdotto il “divieto di impiegare il fuoco per eliminare la vegetazione e coltivare nuove terre” o per “procurare pascoli più abbondanti”. Col Pregone del 2 aprile 1771, n. 66, si fece divieto “d’accensione di fuochi sotto le piante o nelle loro vicinanze (art. 68), pena il risarcimento dei danni e l’ammenda di scudi 25”.

Venne inoltre prescritto “ l’obbligo per “i passeggieri, che faranno fuoco nelle montagne, dove sogliono soffermarsi.” di spegnere il fuoco stesso prima di abbandonare il sito, ” pena un’ammenda di lire 25, oltre il risarcimento dei danni.”

L’insieme di queste norme manifestano l’attenzione delle istituzioni verso un evento che non finiva di produrre ingenti danni al patrimonio boschivo. Tali norme ciò nonostante, venivano osservate solo in parte; come nella Gallura, dove infrangere sistematicamente i divieti connessi all’accensione dei fuochi nella stagione estiva, era motivo da parte del feudatario per esigere un “balzello suppletivo” denominato capretta di fuoco (oveja de fuego) consistente nella corresponsione di una capra in cambio del permesso di accendere fuochi in tutte le stagioni.
Vittorio Emanuele I, col Regio Editto riguardante gli incendi del 22.7.1806, oltre a reiterare le norme in uso sopra elencate, introdusse due importanti novità riguardo il divieto di metter fuoco nelle terre nel periodo estivo e prima dell’ 8 settembre:” la perdita, a carico del trasgressore, della superficie coltivata e del suo frutto, a favore del Monte Granatico e l’obbligo di munirsi di apposita autorizzazione del Giudice del luogo per impiegare il fuoco dopo l’8 settembre “. Introdusse  inoltre il divieto di pascolo per un anno sui terreni oggetto d’incendio  in violazione di legge, “..sotto pena di sei scudi per ogni capo di bestiame”.
“[…] il Codice di Carlo Felice (Leggi civili e criminali del Regno di Sardegna) prevedeva ” la pena di morte per chiunque avesse appiccato dolosamente il fuoco a case, magazzini od altri edifici entro o contigui al popolato (art. 1958) o a case o capanne abitate (art. 1959), e la galera a tempo a chi volontariamente avesse incendiato piante in piedi o atterrate e a legne e legnami ammassati o in catasta, nonché a vigne, oliveti e coltivi. […]”

Ma non tutti incendi erano dovuti a cause colturali. Molti erano espressione del malessere del mondo rurale che attraverso modifiche legislative si vedeva “derubato” di consolidati o supposti diritti, spesso secolari. Ne sono un esempio gli effetti dell’Editto delle chiudende, le ripercussioni che si ebbero a seguito delle tagliate eseguite sui boschi di roverella negli anni ’30 e ‘40, oltre alle reazioni dopo la metà XIX secolo, nel mondo rurale in conseguenza dei mutamenti intervenuti nell’organizzazione della proprietà terriera.

Uno sguardo alla storia, un veloce excursus può aiutare almeno in parte a capire per quale motivo il problema degli incendi, non conosca ancora una fine e non venga relegato definitivamente al passato. I tempi sono cambiati e le leggi si sono evolute abbandonando il risvolto drastico e disumano della pena di morte o il taglio della mano. La stessa evoluzione a livello umano non ha accompagnato però alcune menti insensibili che nascoste sotto la maschera di presunti diritti, o sotto quella altrettanto ignobile della vendetta, del “dispetto”,  per poter  “lavorare” o per denaro  liberano la potenza del fuoco contro l’habitat che li nutre e permette di respirare. Niente giustifica questo gesto, niente ne crea il diritto e niente dovrebbe alimentarne neanche il solo pensiero.

Quale gesto è più deplorevole del muovere la mano contro chi inerme non si può difendere, piante ed animali. E poco importa se talvolta a perire tra le fiamme è carne umana. Tra il 1945 e il 2013 a causa degli incendi in Sardegna sono rimaste uccise 67 persone ed altre 17 sono rimaste ferite in modo grave. Tra questi, il 28 luglio del 1983,  9 persone persero la vita e 15 rimasero gravemente ferite nel rogo della collina di Curraggia a Tempio Pausania (SS), mentre cercavano di strappare al fuoco, case alberi ed animali. La loro vita per la vita, così i miei occhi vedono quel sacrificio umano che niente ha insegnato così come la pena di morte, così come il taglio della mano.

Per i boschi e per la natura è impossibile non provare gli stessi sentimenti, le stesse emozioni e sensazioni di fronte alla devastazione del fuoco. Credo ci voglia coraggio come per togliere la vita ad un essere umano nel scegliere il giorno, cogliere il momento, capire la direzione del vento, meditare, preparare l’innesco e liberare il male. 

Un incendio di vaste proporzioni ha effetti devastanti non solo sulla regione che lo subisce, ma anche sulle persone che quella terra amano profondamente. 

Si narra che i sardi siano talmente legati alla loro isola che tutte le volte che si allontanano dal luogo natale per amore o per “cercare fortuna”, lascino una parte del loro cuore e dell’anima sulla banchina o fuori dal terminal dell’aeroporto o semplicemente al confine della provincia. Anima e cuore sono pronte a vagare in preda alla nostalgia ed in cerca di consolazione tutte le volte che la mente e il corpo lontani ne sentono il desiderio. 

Vagano tra le antiche vie di città o paesi tra i profumi inebrianti del cibo e delle feste. Vagano tra i boschi di querce e lecci per udire il canto degli uccelli, scorgere l’ombra del cervo. Vagano tra Domus de Janas e nuraghi in cerca delle loro radici. Vagano tra mirto, ginepri lentisco e rosmarino fino a giungere in riva al mare per contare i granelli di quarzo o ingannare il tempo facendo scorrere tra le mani la sabbia sottile come quella delle clessidre. 

Quando un luogo amato scompare in preda alle fiamme, la sofferenza non è dissimile a quella della perdita di un familiare, di una persona cara. L’anima, il cuore, perdono la loro gioia, la loro consolazione, il loro rifugio ed è difficile trovare conforto, perché quel luogo come fosse una persona, non esiste più, sarà per sempre perduto.

La terra bruciata assume l’immagine che nella tradizione contraddistingue la sofferenza della donna sarda quando perde il suo amato, quando il “fato” il destino la condanna a sopravvivere al proprio figlio, quando il dolore deve essere coperto per poter essere mostrato con dignità. La donna veste il lutto, il nero della gonna e dello scialle che avvolge in un abbraccio le spalle ed il capo. Così la terra arsa privata del suo amore più grande, la fauna e la vegetazione mostra vestita di nero, immobile, la sua dignitosa sofferenza. Non il canto di un uccello, non il fruscio di una foglia, solo l’odore acre del fumo, del carbone, della cenere e della morte.

Questo nella mia mente è un incendio, un rogo voluto, desiderato ed augurato con estremo disprezzo per la vita.

La storia ha evoluto le sue leggi ma in Sardegna non è riuscita a porre rimedio a ciò che forse poche, ma agli atti ancora troppe persone sentono come lecita azione perché radicata come tratto culturale o strumento di protesta sociale. 

Da sarda rinnego con tutta me stessa chi si appella alla consuetudine per giustificare, chiudere gli occhi, non tutelare e vigilare sul nostro patrimonio boschivo, sulla nostra terra, sui nostri animali.

So per certo che le “mani” della maggior parte dei sardi “candide” o “vestite di nera fuliggine” se pur “mosse da occhi celati da una maschera”, non libererebbero mai la forza del fuoco contro le proprie case, i propri campi, i boschi e quanto racchiudono e proteggono. I figli di questa terra conservano un ancestrale rispetto così per la natura così per il fuoco.Io nel mio piccolo rimango vicina alla mia terra in lutto e pazientemente aspetto, aspetto perché so che sotto il dolore palpita la vita. Aspetto di scorgere tra il nero del suo “scialle” il luccicare verdeggiante dei primi fili d’erba che hanno il sapore del perdono, di un sorriso. Aspetto e prometto che non sarà più lasciata sola. Aspetto e prometto ciò che so che tutta la Sardegna desidera, vuole.


Nota sull’ Autore_

Maria Patrizia Soru è una Guida Turistica Archeologica.
Appassionata di Storia e letteratura della Sardegna, è alla continua ricerca di immagini e parole capaci di raccontarne il passato, il presente ed il futuro della sua Terra.