Vera ha trent’anni e racconta in prima persona la propria storia.
La protagonista dichiara che sia impossibile raccontare una storia vera dall’inizio, anche se nessuno lo ammette: chissà se è vero…!
I ricordi dello scrittore sono falsati dalle esperienze che si susseguono negli anni e chi legge riporta il proprio vissuto dentro la storia raccontata. Ad ogni modo credo sia importante sentire qualcosa dentro che fa nascere un’emozione e la scrittura di Deborah con me c’è riuscita!
Chissà se “Il club della solitudine” esiste o se sia mai esistito e se i protagonisti della storia sono reali. Sicuramente è stato interessante conoscere questo luogo insolito e lasciarsi coinvolgere dalle sue dinamiche.
“Il club della solitudine” era una scuola superiore chiusa da anni a cause di molestie impartite da un professore su una giovane alunna. Agata ha trasformato questo edificio, immerso nel verde, in un luogo di confronto e di libertà di espressione dove le persone che possono accedere sono accuratamente selezionate dalla proprietaria e fondatrice del club (Agata appunto).
Nel club i partecipanti sono liberi di esprimersi e hanno l’occasione di entrare in contatto e di scontrarsi con se stessi, senza forzature e manipolazioni. I legami che nascono fra le persone sono unici e particolari.
Agata si vede poco ma la sua presenza è tangibile ed è una persona straordinariamente equilibrata che con empatia guida questo curioso gruppo di persone che affrontano un percorso per certi versi insolito.
I partecipanti sono variegati nelle esperienze e nell’età. Ognuno inizia da solo la sua esperienza ma il contatto con gli altri è inevitabile e il legame che si crea fra le varie generazioni è così tenero che nasce il dubbio che qualcosa si sia perso, distratti dalla quotidianità sempre più individualista e digitale.
Vera, la protagonista della storia, ha un passato doloroso e non riesce ad aprirsi agli altri facilmente e a mostrare la sua vera natura; sicuramente non è l’unica a vivere queste difficoltà…!
Nel club Vera scopre qualcosa di nuovo che potrebbe stravolgere la sua vita: riuscirà a cogliere e a sfruttare a pieno le sue potenzialità?
Come evolveranno i rapporti fra gli avventori di questa strana struttura?
Deborah scrive in modo delicato e non entra con forza nelle emozioni del lettore. All’inizio questa caratteristica potrebbe rappresentare un limite alla storia ma da un certo punto in poi ne diventa l’elemento di forza che avvolge chi legge “Il club della solitudine”, donandogli un senso di benessere e di libertà.
“Il club della solitudine” sarà un ottimo punto di partenza per chi sente delle ombre dentro di sé e non riesce ad affrontarle!
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.
Zio Benjamin fa la sua comparsa nella mia vita piuttosto improvvisamente, come uno di quei personaggi mitologici, a metà tra l’avventuriero e il reietto, per via della scelta piuttosto incauta – se rapportata alla prudenza e al tradizionalismo di certe famiglie della sua epoca – di lasciare, da giovanissimo, il proprio Paese, l’Italia, per andare a cercare fortuna in Canada.
Beniamino, il fratello estroso della mia nonna materna, dopo il trasferimento all’estero, era diventato per tutti Benjamin e aveva preso dimora in una cittadina del Quebec dal nome impronunciabile che, sin da piccola, ho sempre puntualmente storpiato tanto da decidere di rinunciare, proprio per una forma di estremo ritegno, a citarlo.
Per me zio Benjamin stava in Quebec, Stato/Nazione del Canada. Punto e basta.
Bastava ricevere ogni tanto qualche notizia o sentirlo telefonicamente per stare a posto con la coscienza rispetto alla difficoltà generata dal nome di quel luogo di residenza franco/canadese. Chissà, forse il parentado si illudeva che tale dettaglio disincentivasse in automatico dal considerarlo parte integrante della famiglia.
A me, in fondo, stava simpatico perché era andato controcorrente rispetto ai diktat familiari.
In ogni caso, non si è mai compreso bene se, nella sua vita, fosse stata la fortuna a incontrare lui o lui ad andarle incontro: sta di fatto che, dopo essersi dedicato per una vita all’amatissimo lavoro di imprenditore edile barcamenandosi felicemente tra un sacrificio e uno sfizio, non si era legato dal punto di vista affettivo – anche se la sua fama era quella del seduttore – e, dopo il pensionamento, aveva deciso di trascorrere ogni estate (da giugno a settembre) nel cottage di sua proprietà sempre nel Quebec, in località Mont Tremblant, in riva a un lago.
Lì lo raggiunsi nel settembre di circa ventinove anni fa, in occasione di un viaggio premio, regalatomi dai miei genitori dopo la maturità, con l’obiettivo di vivere un’esperienza elettrizzante e di riposarmi in vista dell’impegno universitario che mi attendeva al rientro.
Mi era capitato altre volte di separarmi dalla famiglia per le vacanze estive:spesso raggiungevo i miei zii in Liguria anche per un mese intero, dopo la scuola, e ci ero arrivata in treno persino da sola, affidata ora a una suora, ora a qualche famigliola che, da Napoli, mia stazione di partenza, era diretta al Nord a trovare i parenti. Roba che, a pensarci col senno di poi, se dovessi far viaggiare i miei figli secondo queste stesse modalità, mi si rizzerebbero i capelli in testa, dato il livello di follia della gente che c’è in giro.
Ma la partenza per il Quebec era una cosa decisamente diversa:il primo viaggio in aereo, la prima tratta così lunga verso un Paese lontano, la prima esperienza di vacanza senza la compagnia di alcun coetaneo. Sinceramente?Avevo una strizza terribile e la cosa che più mi creava ansietà era:
“E se in aeroporto, quando arrivo, mi perdo?E se zio Benjamin tarda?E se vanno smarriti i bagagli? “.
Io, degna nipote di una nonna paterna estremamente ansiosa a cui ero spesso affidata, a bordo di quel velivolo sono riuscita a dare il meglio sul piano delle contorsioni mentali…avrei potuto girare il sequel de: “L’aereo più pazzo del mondo” come protagonista assoluta. Sono convinta che le hostess mi abbiano invocata ripetutamente come la iattura più grande capitata nella loro esperienza di volo, perché le disturbavo continuamente ora con richieste di delucidazioni, ora con la manifestazione di una serie di esigenze illogiche,culminate nella preghiera di aiutarmi a trovare gli occhiali da vista che stavano al loro posto dal momento del decollo, ossia sul mio naso.
Preferisco non dilungarmi sulla composizione del bagaglio:una via di mezzo tra la partenza per “il giro del mondo in 80 giorni” e l’equipaggiamento di Madonna quando si sposta tra i vari continenti, insieme allo staff, in occasione di un nuovo tour. Dico solo che, per poco, un arto di mia madre non era rimasto anch’esso chiuso in valigia assieme ai capi d’abbigliamento, impigliato nelle cerniere a scatto del bagaglio più grande. Le pose plastiche adottate per riuscire a chiudere “a pressione” (sotto il peso del mio corpo, praticamente) quei dannati valigioni ancora le ricordo con un certo imbarazzo.
Ad ogni buon conto, nonostante le previsioni da peggior thriller di Hitchcock, l’arrivo in Canada fu trionfale: allo sbarco, recuperato tutto il mio patrimonio di vestiario e ammennicoli vari, trovai zio Benjamin ad accogliermi con un cartello indicante il mio cognome opportunamente riconvertito da Frascatore in Francescone che subito interpretai come punizione karmica per non essere mai riuscita a pronunciare il nome della sua città e, poco dopo, fui fatta accomodare su una comodissima jeep,guidata da un amico dello zio,a bordo della quale raggiungemmo il cottage.
Dopo i convenevoli iniziali – in un italiano biascicato e stentatissimo da lui e in un inglese maccheronico (il mio) con cui, senza successo, volevo fare la spaccona e dimostrare di conoscere perfettamente la lingua straniera – ci avviammo verso la nostra destinazione che distava circa tre ore dall’aeroporto.
In quel lasso di tempo, con la mia consueta caparbietà, feci innumerevoli tentativi di inserirmi nella conversazione tra zio Benjamin e l’amico Frank inanellando una serie di figuracce di cui credo ancora ridano varie generazioni di frequentatori del lago di Mont Tremblant. Sono arrivata a pensare che le tramandino addirittura,come si fa con le barzellette sui Carabinieri. Il loro era un misto di slang del luogo, americano e francesismi sparsi che mi lasciò annichilita sul sedile posteriore, chiusa in una forma di rassegnata ignoranza da cui mi sarei riscattata solo dieci anni più tardi, durante il viaggio di nozze che segnò la conoscenza con il ramo americano della famiglia di mio marito: in quella occasione scappavano tutti appena mi vedevano,perché li utilizzavo come cavie per allenare il mio inglese…con ritmi di parlantina attestatisi anche sulle quattro ore consecutive.
Inizialmente, comunque, con zio Benjamin vissi la frustrazione di non capire un accidenti della sua lingua e avevo persino difficoltà a esprimermi in italiano perché mi ero resa conto che un linguaggio forbito non sarebbe mai stato da lui compreso appieno:finimmo per adottare un compromesso, un registro tutto nostro fatto di dialetto napoletano, italiese e broccolino che avrebbe fatto storcere il naso ai puristi ma che, a noi, generava un’ilarità senza pari.
Durante il viaggio in auto, non distolsi mai lo sguardo dai panorami che, via via, si alternavano attraverso il finestrino:ero estasiata e con un’espressione carica di meraviglia dipinta in volto che i miei interlocutori trovavano piuttosto comica. Con quella bocca perennemente spalancata – in totale spregio alle raccomandazioni di mamma, all’atto della partenza, circa l’assoluta necessità di contenere il mio stupore…”..altrimenti fai la figura della piccola fiammiferaia che non conosce il mondo..”! – avrei fatto la fortuna di qualsiasi dentista!
Mi colpiva tutto:la vegetazione, a perdita d’occhio e oltremodo lussureggiante, le strade di ampio respiro perfettamente asfaltate, l’ordine e la pulizia, la manutenzione e la cura quasi maniacale dei luoghi che attraversavamo, l’opulenza sfacciata di alcuni scorci urbani, il rispetto di pochi, basilari principi del vivere civile, il crogiolo di razze e culture, la presenza discreta ma costante delle forze dell’ordine nelle vie,l’imponenza dell’edilizia.
Usciti dall’autostrada e lasciata la statale alle nostre spalle, improvvisamente imboccammo un sentiero che degradava verso il lago. Il fondo stradale era disseminato di ciottoli:si preannunciava sconnesso e non proprio agevole da percorrere, nonostante fossimo a bordo di una jeep.
Lo chalet era ancora lontano ma il panorama di cui si poteva godere cambiò di nuovo e io ebbi un tuffo al cuore perché mi parve di essere stata catapultata in uno scenario da favola.
In lontananza, si potevano distinguere nell’aria i giochi di fumo proveniente dai camini degli sparuti nuclei di case abitate della zona:sembravano residui dei fuochi d’artificio con cui si celebrano le ricorrenze speciali, tanto che immaginai una specie di comitato d’accoglienza in cielo, riservato espressamente a me. Gli alberi del bosco erano perfetti nelle loro forme e nella composizione che faceva da contorno al tragitto:uguali a quelli delle costruzioniLego o a quelli realizzati dai maestri di arte presepiale campana che adornano i presepi natalizi.
Il fitto del bosco era tinto di marrone, giallo e arancione, come coperto da una coltre di polverina rugginosa per via dell’autunno incombente e lungo il sentiero, al passaggio della jeep su grossi cumuli di foglie secche, si udiva uno scrocchiare cadenzato che ben si accompagnava all’andatura dondolante del veicolo. Mi sembrò di veder sgattaiolare qualche scoiattolo, probabilmente infastidito dai rumori molesti del SUV, e poi intravidi un’alce, volpi, alcune marmotte.
Abbassando il finestrino mi arrivò in pieno viso, forte come una sberla, una sferzata di aria inebriante che mi stordì i sensi:zio Benjamin indicò numerosi alberi di pino bianco e pino rosso, nonché le betulle gialle e fu allora che compresi il motivo della persistenza di quei profumi boschivi che, per due settimane, avrebbero dolcemente cullato i miei risvegli.
Quando arrivammo al cottage il sole stava tramontando e, scendendo dall’auto mentre ci accingevamo a raggiungere l’interno della piccola abitazione di legno, mi voltai a guardare i colori del cielo e del bosco che si proiettavano sulla superficie del lago: c’era una commistione di sfumature tutte perfettamente in armonia tra loro, come si fosse trattato di un disegno superiore, divino. Mi ritrovai, quasi commossa, a pensare allo spettacolo di grandiosità a cui i miei genitori, consentendomi di far visita allo zio, mi avevano permesso di assistere e all’entusiasmo con cui avrebbero condiviso le mie emozioni al rientro a casa.
Fino a quel momento determinate immagini mi sembravano appartenere solo alle riviste e ai documentari:era piuttosto singolare la circostanza di considerarsi parte integrante di uno scenario naturale di una bellezza tanto disarmante.
Il cottage era una specie di palafitta sospesa sul lago:c’era un piccolo molo a cui era attraccata la barchetta che lo zio usava per andare a pescare o semplicemente per spostarsi da una riva all’altra, una piccola zona relax fornita di comodissime poltrone – quelle che fanno dimenticare i problemi di schiena e di postura scorretta – e di un alloggiamento per godere di un piccolo fuoco esterno, c’era l’immancabile zona barbecue e anche l’amaca, tesa tra due pilastri del patio della casa che confinavano con il bosco.
Presto imparai a capire le abitudini di quella dimora: il bollitore, per esempio, grande e grigio, era sempre in funzione…per il caffè, per il tè, per la tisana e anche per le numerose camomille che bevevo io quando non riuscivo a dormire a causa del jet lag. Bisognava sempre chiudere le porte di accesso al cottage anche a seguito di brevi spostamenti all’esterno, onde evitare sgraditi incontri con animali più o meno feroci, tipo gli orsi. Quando ci si allontanava da casa era d’obbligo portare con sé un k-wayper proteggersi dai repentini mutamenti di temperatura o di meteo che in quei luoghi si registravano, essendo imminente l’arrivo dell’autunno.
Dormivo nel soppalco, io. La mia stanza era illuminata da un finestrone di forma rotonda che affacciava su una zona del lago un po’ appartata e scarsamente battuta dalle correnti tant’è vero che, a differenza dello zio che sapeva determinare il meteo da semplici movimenti di brezza sull’acqua, io mi svegliavo e vedevo tutto sempre abbastanza uguale. Anche se poi la verità era che, sul piano emotivo, ogni nuovo giorno era foriero di una specifica fonte di trepidazione, piacevole e inconsueta.
Trascorrevamo le giornate andando a pesca – peccato che io costringessi puntualmente zio Benjamin a ricollocare nel lago tutto il pescato perché non avevo il coraggio di mangiarlo – oppure visitando qualche località della zona; talvolta lo aiutavo nel disbrigo di piccole faccende domestiche e a fare ordine nel suo caotico magazzino pieno di oggetti stravaganti e sostanzialmente inutili all’umanità. Il cottage era sempre pieno di amici e di gente allegra, serena, festante:ci si divertiva con poco, non era decisamente un posto adatto alle persone scontrose e musone.
La sera, quando tutti rincasavano e in casa tornava a risuonare il silenzio, ci intrattenevamo accanto al fuoco a leggere o semplicemente a conversare, a raccontarci aneddoti di famiglia, a rivelarci piccoli segreti o a fare del sano gossip su qualche parente un po’ antipatico. Con lo zio si poteva parlare di tutto:durante quei giorni di vacanza ebbi modo di scoprire una persona spiritosa, a suo modo colta, curiosa e rassicurante,mai giudicante. Con lui non si correva il pericolo di essere fraintesi e non esisteva la preoccupazione di dover per forza intavolare conversazioni intellettivamente stimolanti. Se, per caso, coglieva un qualsiasi mio disagio nel fargli una confidenza, mi guardava con un sorrisetto malizioso e mi diceva: “Tutto qui????E io… che chissà cosa mi aspettavo di sentire…!Non ti preoccupare…i tuoi segreti sono al sicuro…al massimo posso andarli a raccontare a un castoro!” Poi rideva di gusto, sorseggiava la sua birra e guardava il cielo quasi a suggellare quel breve momento di condivisione e di serenità.
Chissà se, nella vita, gli era mancato un affetto stabile…chissà come sarebbe andata se avesse avuto dei figli:ci pensavo spesso quando lo osservavo muoversi nella sua tana e lo ascoltavo parlare di sé nel tentativo di percepirne gli umori, le idee, i principi. Di tutte queste cose parlava molto poco, faceva fatica, al punto che ho finito col dedurre che qualche delusione amorosa particolarmente cocente ne avesse condizionato la vita affettiva.
Ho sempre pensato, per la dedizione e la generosità con cui, durante la mia permanenza, si prendeva cura di me e delle mie esigenze, che sarebbe potuto essere un ottimo padre. Mi definisco una persona di poche pretese, abituata tanto alle comodità quanto all’essenzialità (avendo,peraltro, un breve passato da camperista) ma devo ammettere che lo zio fece di tutto, in occasione di quella vacanza, per farmi rientrare a casa più che appagata nei miei desideri e anche nell’assecondamento di qualche piccola follia.
Un giorno, mentre passeggiavamo nel bosco, gli chiesi: “Zio, pensi mai di mollare tutto e di tornare in Italia avvicinandoti a quel che resta della famiglia?…In fondo qui sei da solo e non credo che, data la distanza, il futuro ci offra moltissime altre occasioni per stare insieme”.
Lui mi guardò col solito sorriso, un po’ guascone, un po’ malinconico, e mi disse: ” Non è un discorso molto allegro ma sappi che ho già scelto il mio luogo di sepoltura su un poggetto del cimitero locale. Se rientro in Italia, devo litigare anche solo per trovare posto nella cappella di famiglia “.
Mi resi conto di aver fatto una delle mie solite gaffe e mi scusai, ma lui mi rifilò un pizzicotto affettuoso sulla guancia e mi spiegò che oramai considerava il Canada come suo paese d’origine:era andato via molto presto da casa e non aveva conservato legami di alcun genere né coltivava particolari interessi che potessero legarlo al nostro Paese.
Notai che si rabbuiava sempre quando gli si parlava del suo passato in Italia:anche in questo caso la mia convinzione era che ci fosse qualche episodio, a me oscuro, che lo avesse indotto a decidere di cambiare radicalmente vita. Essendo una persona piuttosto discreta, non ho mai affrontato l’argomento, in quei giorni.
Durante le due settimane trascorse a Mont Tremblant decisi di procurarmi dei ferri per lavorare a maglia e, con della lana procurata da una vicina di casa dello zio, gli confezionai di nascosto un paio di guanti. Ero fresca di apprendistato con mia nonna, sua sorella, ma sapevo solo lavorare il dritto, il rovescio e il rasato:realizzai dei guanti molto originali – per non dire orripilanti – che a me facevano tanto ridere perché erano la fotografia esatta della mia imbranataggine nel lavorare a maglia. Però, siccome erano fatti col cuore, sortirono un effetto insperato.
Quando glieli donai, il giorno prima del mio rientro in Italia, cominciò, con l’entusiasmo di un bambino e gli occhi semi lucidi, a girarseli tra le mani come se gli avessero affidato in custodia delle pepite d’oro. Li indossò definendoli bellissimi e mi abbracciò promettendomi che li avrebbe portati sempre con sé.
Tutto si poteva dire di zio Benjamin, fuorchè che non fosse un uomo di parola. E lo è stato, fino alla fine.
Poco dopo la sua dipartita, ho ricevuto una lettera di Frank, il suo amico più caro…quello che lo aveva accompagnato a prelevarmi in aeroporto.
In merito alle sue ultime volontà, mi ha raccontato che zio Benjamin aveva chiesto espressamente che i guanti che avevo confezionato lo seguissero nel suo ultimo viaggio insieme a un altro paio di oggetti a cui era particolarmente legato. Frank aveva personalmente provveduto in questo senso.
Ho appreso – e ciò mi conforta – che lo zio si è allontanato serenamente e senza sofferenze…nella discrezione, così come aveva sempre vissuto.
Non so se riuscirò mai a far ritorno a Mont Tremblant:di certo tante cose saranno cambiate da quel mio fatidico viaggio, ma sono sicura che il suo spirito aleggia sulle acque del lago e il caratteristico fruscio dei suoi passi – che avrei saputo riconoscere anche a occhi chiusi per tutte le volte che, precedendolo durante le escursioni nella vegetazione canadese, lo ascoltavo raggiungermi – risuona ancora tra gli alberi del bosco.
Di quella vacanza tanto spensierata e avventurosa ricordo ogni dettaglio. Colori, sapori, profumi che associo a precise sensazioni tattili e a lunghi sospiri, soprattutto quando rivivo dentro di me le emozioni di allora.
In un particolare momento della nostra tipica giornata canadese, nell’ora del crepuscolo, lo zio era solito invitarmi a raggiungerlo sul pontile perché, per effetto di una serie di magici fenomeni di dislivello termico, dalla superficie del lago si sollevavano nuvole di vapore talmente fitte da investirci completamente, condizionandoci la visuale.
Poi, improvvisamente, questa coltre impenetrabile di nebbia si dileguava e, sul lago, tutto tornava terso e limpido. Una sensazione di pace profonda precedeva di poco il calar della notte e noi,allora, accendevamo il fuoco nell’apposito alloggiamento e ci preparavamo alle nostre chiacchierate.
“Fai in modo che questo meccanismo di alleggerimento accompagni sempre i tuoi pensieri “ – mi disse una volta.
“L’annebbiamento dura poco:la nitidezza vince sempre. E il fuoco è un segnale preciso di risveglio. Questi luoghi me lo dimostrano ogni giorno!”
Era come dedicarsi a un rituale. Era il “nostro” rituale. E io no, non l’ho dimenticato.
La nitidezza dei pensieri…caro zio…quanto avevi ragione!
Quando penso all’autenticità di questa tua analogia, mi ci rispecchio pienamente, ti penso e sorrido con una smorfia un po’ guascona, un po’ malinconica:la tua.
Quella che mi salva sempre un attimo prima di fare una fesseria…però questo al castoro,ti prego, non glielo raccontare!
Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.
Scrivo di getto, di ritorno da un viaggio ipnotico e catalizzante dentro me stessa, nel corso del quale mi sono imbattuta nuovamente, dopo più di venti anni, nella versione complementare della mia personalità:quella del tutto sconosciuta, a me per per prima, la zona d’ombra che resta irrimediabilmente nascosta dietro una parete puntellata di spunti, a tratti ironici, a tratti seri e profondi che mi sono sempre illusa di riuscire a dosare in maniera appropriata nella realtà di tutti i giorni, in modo da gestire le relazioni interpersonali senza farmi troppo male.
Uso il verbo illudersi perché, facendo un breve bilancio delle mie esperienze di vita, devo ammettere che l’essere parecchio intransigente e rigorosa, anzi rigida, mi ha indotto a ergere muri tra me e il resto del mondo in maniera quasi meccanica, ricorrendovi in maniera addirittura aprioristica, senza neppure fare capolino, ogni tanto, con la punta del naso da dietro quel muro, solo per intravedere la minaccia da cui dovessi difendermi volta per volta. Sempre che di minaccia si trattasse, ovviamente.
Se potessi paragonare la mia strategia di vita ad un modulo tattico calcistico direi senz’altro che sono la regina della difesa “a catenaccio” il cui imperativo categorico è:”Non prenderle di santa ragione!”. Punto.
Pensavo di essermi liberata un bel po’ di anni fa della mia versione euforica, adolescenzialmente instabile ed esuberante. L’avevo salutata a cuor leggero, senza voltarmi più indietro: era la parte irrisolta e frammentata ca van sans dire…l’immagine che non si vorrebbe vedere neppure nel più deformante degli specchi.
E infatti, durante la fase più acuta del mio viaggio interiore dell’ultimo mese e per molte settimane consecutive, ho letteralmente smesso di osservarmi allo specchio: quando capitava di imbattermici, distoglievo lo sguardo e lo abbassavo meccanicamente anche perché, a causa dei disturbi del sonno nel frattempo subentrati, la differenza tra i miei lineamenti e quelli di uno zombie era diventata praticamente nulla. E mi vedevo alterata.
Del resto, lo specchio ci costringe al confronto con tutto ciò che resta inespresso dentro e attorno a noi:e io ho cominciato a non fidarmi più neppure di me stessa, tale era la sensazione di sentirmi sotto una gigantesca lente di ingrandimento che mi generava solo tanto disagio.
Quando si parte per questo tipo di viaggi interiori, il rischio è non poter pianificare il quando e il come del rientro a casa, perché non siamo tutti strutturati alla stessa maniera, nel senso che abbiamo tempi diversi per capitolare dinanzi all’esigenza di ricevere aiuto e non sempre, rispetto alle necessità emotive, ci ritroviamo supportati da persone intuitive e intelligenti.
Capita che nella vita di ognuno di noi si affaccino delle presenze, delle conoscenze, portatrici di affinità, di spunti motivazionali e incentivanti rispetto alle nostre attitudini (anche quelle latenti), che riescono a scuoterci perché toccano delle corde dell’anima specifiche e delicate, tali da mandarci completamente in tilt. Quando ciò avviene, i famosi baluardi eretti a protezione del nostro IO si sgretolano magicamente e appariamo vulnerabili, indifesi e implumi come uccellini. Certi tipi di interazione scatenano un senso di euforia e di estatico piacere, un’allegria smodata, imprudente, tipicamente adolescenziale, appunto, in cui ci si crogiola alimentando una forma di pericoloso distacco dalla realtà che può creare dipendenza e autosuggestione. Vi sono parti della nostra emotività ancora inespresse e oscure che, opportunamente stimolate, ci regalano la convinzione di aver trovato riparo all’insoddisfazione che nutriamo nei confronti di alcuni aspetti della realtà quotidiana (lavoro, famiglia, amicizie, priorità). Perchè, è inutile prendersi in giro, la frustrazione esiste ed è quella che ci impedisce di credere che esista la felicità; anzi direi quasi che, il più delle volte, nel definire la felicità come un’utopia, dimostriamo di conoscere molto meglio il significato dell’espressione frustrazione.
Dunque, ci abbarbichiamo a un cuore con la pretesa (a tratti assurda) di voler costruire, col tempo, un legame…è un desiderio che si sviluppa in modo sano, puro e privo di doppi fini almeno fino a quando non ci porta a voler sublimare quel legame, concependolo come assoluto e assolutizzante nella nostra vita, sostituendolo al nostro vero patrimonio di affetti, punti di riferimento e modelli di vita.
In questa attività di rimpiazzo si concretizza il processo di allontanamento dalla realtà e quel ritrovarsi a mettere improvvisamente in discussione ciò che, fino a quel momento, ciascuno di noi ha costruito, con perseveranza e sacrificio, è decisamente annientante. In fondo fare una conoscenza brillante è esaltante: chi potrebbe affermare il contrario?Peraltro,tutto prende le mosse da un’intesa, da una serie di esperienze arricchenti ed emozionanti che, in una relazione interpersonale, ci fanno sentire quantomai vivi e felici. Sì, non è affatto facile accettare le conseguenze di questo meccanismo disfunzionale che, peraltro, fa parte delle reazioni inconsce, anche perché, privarsi di una forma di piacere assimilabile a quello carnale – per non dire sessualmente rilevante – significa autopunirsi e farsi tanto male. E si sa quanto sia importante per la corretta sopravvivenza della psiche avere una giusta regolazione del tono dell’umore.
Da un certo punto di vista, nella casistica di cui parlo, possono farsi rientrare anche i legami nati ex novo attraverso i social network. Il fatto è che, a volte, la realtà che viviamo è così carente e avvilente da indurci a investire innumerevoli e altissime aspettative nelle cosiddette “relazioni terze”. Cosicchè, il fallimento di una relazione terza, per scelta nostra o della controparte, viene vissuto con un carico di disperazione abnorme che finisce con l’avere ripercussioni ingiustificate sulla nostra realtà, condizionandoci nelle energie, nell’umore e nelle scelte di vita.
E’ importante ascoltarsi e coltivare con passione i propri interessi ma se il prezzo da pagare è rifugiarsi in un mondo ideale in cui vi sia spazio solo per atteggiamenti celebrativi, sviolinanti e complimentosi a oltranza oppure forzatamente ironici, è bene trovare il coraggio di dire BASTA, di riparare agli errori commessi, di rimodulare la relazione (non necessariamente di troncarla, in assenza di validi presupposti) e di ricominciare ad avere degli scambi moderati e finalmente sani.
Mi reputo fortunata per la durata relativamente breve del viaggio che ho intrapreso. Sono tornata subito indietro grazie anche ad una straordinaria capacità – che persone esperte mi dicono non appartenere ai più – di fare autocritica e di descrivermi dettagliatamente alla luce dei miei errori di percorso e dei miei innumerevoli, rocamboleschi scivoloni. Ho scoperto di avere delle esigenze ancestrali irrisolte legate all’infanzia che hanno favorito certe forme di dipendenza affettiva (la definisco tale anche se non sono certa di utilizzare il lessico adatto) e sto lavorando su questi e su altri gap attraverso i quali recupererò certamente quella parte che sfugge…sfugge a tutti ma principalmente a me.
Nel frattempo cerco con serietà e dedizione (che fortunatamente mi sono sempre appartenute) di recuperare relazioni, occasioni perse, tempo da dedicare ai miei interessi, di ritrovare sorrisi e affetti perché ho la sensazione che questa breve crisi, durata in realtà solo poche settimane, mi abbia lasciato dentro un vuoto incolmabile.
Mi piace pensare che il 2022 possa essere finalmente consolatorio e rivelatorio: per me e per chiunque ne abbia bisogno. Dedico i miei pensieri di questo momento a tutti quelli che hanno qualcosa da farsi perdonare e da perdonarsi…sarebbe proprio bello che ci riuscissero nell’anno che si appresta ad arrivare. Dopo due anni estremamente complicati, peraltro.
Non è facile trovare i cuori giusti a cui aggrapparsi ma possiamo lavorare per rendere giusto il nostro cuore e non doverci per forza abbarbicare ma solo appoggiare delicatamente a un’altra persona senza turbarla, soprattutto. Questo è il mio punto di vista. E questo è il mio impegno per il nuovo anno.
Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.
Molto tempo fa, alla vigilia di Natale, un vescovo di una cattedrale di una importante città era fermo a contemplare la maestosità della sua chiesa. E mentre lasciava che i suoi occhi vagassero deliziati sulle tre navate scolpite, il grande rosone centrale, e la galleria che si apriva sotto il campanile che si ergeva in una massiccia torre, si sentiva il cuore gonfio di orgoglio e ammirazione per quello che stava ammirando.
“Di certo in tutto il mondo Dio non ha una casa più bella di questa che ho costruito con così lungo lavoro e con una spesa così importante “.
E così il Vescovo cadde nel peccato di vanagloria, e, sebbene pensasse di essere, e magari lo era pure, un santo uomo, non si accorse di essere caduto in questo peccato veniale, tanto era contento alla vista dell’opera che aveva di fronte.
Nella penombra delle navate laterali, c’erano molte grandi statue con corone, scettri, e preziosi affreschi, ma una nicchia sopra il portale centrale era vuota ed era proprio quella che il Vescovo intendeva riempire con una statua che lo avrebbe raffigurato in posa marziale e autorevole.
Sarebbe dovuta essere una statua molto piccola e semplice, in verità, come si addiceva a chi apprezzava l’umiltà di cuore, ma mentre alzava lo sguardo verso quello spazio , gli faceva piacere pensare che centinaia di anni dopo la sua morte la gente si sarebbe fermata davanti alla sua effigie e avrebbe lodato e venerato lui e il suo lavoro.
E anche questa, di nuovo, era vanagloria.
Quella notte, mentre il vescovo dormiva, un grande angelo con le ali spiegate, gli apparve accanto e gli ordinò di alzarsi.
“Vieni“- disse- “e ti mostrerò alcuni di coloro che hanno lavorato con te nell’edificazione della grande chiesa e il cui servizio agli occhi di Dio è stato più degno del tuo“.
E così l’Angelo lo condusse oltre la Cattedrale e giù per la ripida strada della città antica, e sebbene fosse già mattino, la gente che andava e veniva non sembrava vederli.
Superato il cancello della cattedrale, si incamminarono lungo la strada che conduceva fino a dei verdi campi pianeggianti e lì, in mezzo alla strada, tra sponde erbose coperte di bianco di fiori di ciliegio, due grandi buoi bianchi, aggiogati a un enorme blocco di pietra, stavano riposando, prima di riprendere la faticosa salita verso il paese.
“Aspetta!” disse l’angelo; e il vescovo vide tre uccellini dalle ali azzurre che si appollaiarono sulla robusta trave del giogo fissata alle corna dei buoi e cinguettarono una melodia così celestiale che le grandi creature irsute cessarono di soffiare attraverso le loro narici, e cominciarono ad emettere invece lunghi respiri tranquilli.
“Continua a guardare” continuo l’angelo.
E da una modesta e semplice casa uscì una donna con un fascio di fieno in braccio, e diede prima a uno dei buoi e poi all’altro un po’ di ciuffi di quel fieno e dell’acqua. Poi accarezzò i loro musi neri e appoggiò il suo viso sulle loro guance bianche. Quindi il vescovo vide un uomo alzarsi dal suo riposo sulla riva del torrente che scorreva li a fianco e, lanciato un comando ai due buoi, questi spinsero contro la trave, le grosse funi si tesero, e l’enorme blocco di pietra che stavano trasportando fu di nuovo messo in moto.
Quando il vescovo capì che erano questi uomini e queste donne , lavoratori umili, il cui servizio era agli occhi di Dio più degno del suo, fu confuso e addolorato per il peccato in cui era caduto e le lacrime del suo stesso pianto lo svegliarono dal suo sonno.
Allora si alzò dal letto e mandò a chiamare il maestro degli scultori e gli ordinò di riempire la piccola nicchia sopra il portale di mezzo, non con la propria effigie, ma con un’immagine della contadina e dell’operaio; e gli ordinò di fare poi due figure colossali di buoi bianchi.
Con grande meraviglia dei fedeli questi furono eretti in alto nella torre in modo che gli uomini potessero vederli contro il cielo azzurro.
“E quanto a me“, continuò il Vescovo, “lascia che quando morirò il mio corpo sia sepolto, con la faccia in giù, fuori della grande chiesa, di fronte all’ingresso centrale, affinché i fedeli possano calpestare la mia vanagloria e che io possa servire loro come passaggio verso la casa di Dio”.
Fu così dunque che la fanciulla e l’uomo furono scolpiti, in modo tale da guardare una verso est, con il suo sguardo rivolto al primo bagliore dorato dell’aurora del mattino, mentre l’altro con lo sguardo verso ovest, attraverso il vasto paese che si allargava intorno alla città vecchia, in modo tale che potesse scorgere il primo rossore del tramonto.
Gli uomini stanchi e le donne logore dal lavoro quotidiano, ora potevano osservare le due sculture e provare una sensazione di gioia, una gloria e una pace profonda che ristorava in parte la loro vita di fatica con questo simbolico ma concreto riconoscimento.
E poi – si dicevano tra loro – che era bene che questi operai, gente che lavorava con fatica e sudore, e che avevano aiutato a costruire la Casa del Signore , trovassero nella chiesa un posto dove poter essere ricordati con onore.
E poi, al pensiero di ciò, gli uomini divennero anche più pietosi del loro bestiame, e delle bestie in servitù, e di tutti gli animali che soffrono in silenzio.
E anche quello fu un buon frutto che scaturì dal pentimento del Vescovo.
La vigilia di Natale i suonatori, secondo l’antica usanza, salivano sul campanile per annunciare la nascita del Bambino Divino. Al momento della mezzanotte il maestro suonatore diede il via, e le grandi campane cominciavano a suonare in gioiosa sequenza.
Alla fine della sua vita terrena, il Vescovo fu sepolto come aveva richiesto, col volto umilmente rivolto verso terra e la lastra sopra la sua tomba funge ancora oggi da passaggio per coloro i quali si avviano all’interno della Cattedrale.
E Le statue della fanciulla e dell’operaio, e dei buoi, consumati dal tempo lo osservano ancora oggi dall’alto della nicchia , sulla facciata della Chiesa.
Questo racconto di Natale è dedicato a Marco Pozzetti, Roberto Peretto e Filippo Falotico, i tre operai morti a Torino nel crollo della gru sulla quale stavano lavorando.
E a tutti gli uomini e le donne, che sono decedute mentre svolgevano il loro lavoro.
Nel mondo, com’era quando il protagonista aveva otto anni, la vita scorreva tranquillamente finché… amici, parenti, estranei iniziarono a svegliarsi nella notte per scrivere frasi strane, incitamenti sovversivi e di denuncia e ad avere sempre più spesso visioni correlate ad Averroè: una folla di persone che si divide in due per far passare un cavaliere che sorregge una persona morta con un braccio e nell’altro tiene una pila di libri.
Queste persone diventano gradualmente entità che non sono più vive ma nemmeno morte.
La società si arresta e da settantadue anni niente è più cambiato. Le TV sono rimaste quelle vecchie, le trasmissioni e i film sono sempre gli stessi; le persone assistono a queste progressive mutazioni chiedendosi se e quando arriverà il proprio turno.
Come sono vissute le relazioni fra umani? Le famiglie come vivono la perdita dei propri cari? Soprattutto, come viene vissuto il rapporto con gli Zombi?
Gli affetti possono ancora essere coltivati di fronte all’eterna sensazione di incertezza?
Il protagonista è un anziano ottantenne che è stato segnato in prima persona da queste entità a cavallo fra la vita e la morte; questi racconta il nuovo equilibrio sociale che si è creato, dove le debolezze umane spesso prevalgono di fronte all’alienazione degli Zombi.
Il punto di vista dell’anziano narratore è lucido nel racconto e riconosce le implicazioni legate alla vecchiaia; questi riesce ad essere indipendente fisicamente e mentalmente nonostante gli impedimenti fisici e psicologici che la sua storia personale gli ha lasciato.
Nell’ambito di una società che sta andando alla deriva, un medico, Tancredi, impegna tutto se stesso nella ricerca delle cause del disastro sociale al fine di trovare una cura che possa interrompere le mutazioni. Tancredi, ci riuscirà?
L’umanità ha qualche speranza di riprendersi?
I colpi di scena sono assicurati!!
“La carne” mette in discussione la nostra società così dinamica e in continua evoluzione ma forse solo all’apparenza. L’abbattimento e l’appiattimento intellettuale sono soltanto un presentimento dei più pessimisti o c’è un fondo di verità…
L’apatia verso certe dinamiche di discriminazione e di sottomissione sociale sono soltanto contestazioni perpetuate da complottisti esaltati?
Alla fine non stiamo diventando Zombi… forse!
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.
L ‘amore quando c’era racconta momenti di vita di coppia che in un modo o nell’altro abbiamo vissuto tutti, dietro ai quali si nascondono dinamiche legate ad un rapporto con noi stessi non del tutto risolto o a traumi ancora sanguinanti.
Amanda è single e non riesce a instaurare rapporti di coppia duraturi; qualcosa la rende inquieta e non riesce a darsi le giuste risposte.
Un giorno la donna propone un tema sulla felicità ai suoi alunni; i lavori che le vengono restituiti le fanno scattare qualcosa che la obbligano a guardarsi dentro alla ricerca di quello che non riesce a farla stare bene.
Almeno una volta è successo a tutti noi; nei momenti in cui ci sentiamo fragili, e un pò soli, ci guardiamo indietro alla ricerca della persona che abbiamo amato e con la quale non abbiamo più rapporti.
Dopo tanti anni impulsivamente Amanda decide di mandare una mail al suo ex fidanzato, Tommaso, con il quale aveva vissuto una storia d’amore molto intensa ma che aveva lasciato all’improvviso, senza motivazioni evidenti.
Amanda gli scrive per inviargli le sue condoglianze per la perdita del padre.
Inizia così uno scambio di corrispondenza virtuale, all’inizio dai toni formali dove l’uomo apprezza il pensiero della ex e pone la conversazione su un tono distaccato.
Entrambi si ricordano l’affetto provato reciprocamente; Amanda è cosciente del dolore causato a Tommaso quando lo lasciò improvvisamente.
Tommaso è sposato e ha due bambini: una vita all’apparenza perfetta.
È proprio l’affetto che li ha legati a far aumentare la confidenza delle conversazioni; il mezzo informatico, senza contatto umano, rende più semplice lasciarsi andare a confidenze, momenti di riflessione e ricordi di una passione vissuta.
Piano piano la vita familiare e coniugale di Tommaso non si presenta più così soddisfacente e completa.
Perché i figli mettono così in difficoltà i coniugi?
I due protagonisti resisteranno alla tentazione di rivedersi?
Armanda riuscirà a trovare la sua serenità?
I temi affrontati Chiara Gamberale non sono nuovi e risultano già dibattuti sotto tanti punti di vista; leggerli fa sempre comunque riflettere e ci fa buttare un occhio sullo stato della nostra quotidianità…!
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
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C’è una stanza, illuminata di giorno e di notte, è circolare nonché piena di pulsantiere a pannello e spie colorate.
Fa venire voglia di pigiare a caso, di far parte del meccanismo, di vivere l’incertezza che può scatenare la pressione su uno qualsiasi dei tasti.
Se ci si accosta alle immense vetrate, un po’ appannate dalla salsedine e dalla condensa, si vede il mare da qualsiasi angolazione.
Il cielo è sempre all’altezza del cuore e lo si dipinge a piacimento, con i colori della quotidianità.
Il fragore del moto ondoso e il turbinio dei venti che soffiano,incalzanti, scandisce lo scorrere del tempo, così come gli stati d’animo. Dalla tempesta, al sereno in un batter di ciglia:mentre, in realtà, magari, in quella stanza, è già trascorsa una vita intera.
E’ un rifugio, per quanti vivono un idealismo di trincea e una parossistica sete di conoscenza.
Lo si raggiunge dopo aver percorso un intricato labirinto sulle cui scivolose pareti scorrono, in rapida sequenza, voci, suoni, volti e immagini del passato:la sola chiave di lettura di un presente ricurvo su se stesso e spasmodicamente teso alla ricerca di un sano intimismo contemplativo e di una nuova naturalità del sentire.
Una specie di piccolo regno proibito, in cui gettare via l’usuale costume di scena fatto di spavalderia e granitiche certezze e farsi lacerare, tramortire dal dubbio e da tutto quel che provoca scissione tra la dimensione fisica e spirituale dell’Essere.
In codesta stanza, la legge che regola gli improvvisi aneliti del pensiero e i suoi incauti slanci verso il Superiore, stenta a contrastare la potenza e il vortice delle pulsioni terrene che tengono il corpo saldamente ancorato al suolo.
È lì dentro che si aprono infinite fessure su storie di imperfezione umana, brandelli solitari di vite consunte dal pianto e da ordinari, inconfessati strazi: si gioca con la logica stringente della fine che si fa principio e del principio che si fa fine, alimetando continui capovolgimenti di ruolo tra un nuovo essere (e seppure,poi, che cosa?) e un poco rassicurante esser stati (piuttosto misera cosa).
In questo stato di imperterrito fervore, si cerca di stanare una preda chiamandola per nome a occupare un posto in un non luogo del non spazio e del non tempo che la mente stenta a prefigurarsi: è un eterno delirio di fronte a misteri incommensurabilmente più grandi rispetto alla conoscenza di sé; chissà…forse, chi arranca nella tempesta di profezie e promesse di un mondo migliore, in quella stanza trova solo l’approdo più sicuro. La propria, personale dimensione di quiete.
La protezione da chi, là fuori, schernisce ma non vuol essere schernito e riesce a dar senso alla propria esistenza solo assaporando il gusto della sfida, rovesciando, con mano nuda e ferma, la sfolgorante clessidra che regola l’andamento di vite semplici, tendenti alla mitezza, al sorriso e alla voglia incontenibile di capirsi.
All’interno della stanza, può capitare di voltarsi fulmineamente e di non vedere più il cielo e il mare, tutt’intorno.
A volte, è l’irrimediabilità a governare, incurante della danza di turbini di sabbia finissima e colorata che, agitandosi tra le vitree pareti di una storia, nascondono la verità mentre schiere di errori mai perdonati e occasioni sfumate si presentano alla porta, bussando con insistenza.
Con il collo stretto dal giogo del cadenzato rincorrersi dei giorni sull’orologio della vita, chi occupa quella stanza di forma circolare persevera ingaggiando disperate battaglie con il nemico TEMPO, colpevole di aver disperso, come foglie al vento, gli echi di lacere esistenze e voci di una guerra mai sopita.
Resta la speranza di invertire il corso degli eventi: è una spada con cui si può fendere l’aria e, allo stesso modo, la propria, personale storia. E più si assestano colpi, più è possibile sentire quella speranza aumentare dentro di sé.
Non sbarrare la porta vuol dire rifuggire gli stati monocordi e i toni monocromatici del quadro dell’esistenza, dipingere il giorno e la notte con gli unici e soli colori che si riescano a distinguere mentre, confusi, giacciono su deboli cuori a forma di tavolozza. Perchè è da quei colori che nascono i migliori dipinti del mondo.
Vedere mani che si muovono sulla tela del tempo con inusitata certezza e sembrano orientarsi con estrema disinvoltura tra le pieghe di uno straordinario vortice cromatico in cui, ciò che siamo, diventi centralità assoluta:questo è dare senso alla permanenza in quella stanza.
Breve o lunga, non ha importanza.
Viaggiando attraverso gli ingranaggi e i precisi meccanismi della caleidoscopica, affascinante realtà racchiusa in quel piccolo microcosmo, si riesce persino ad apprezzare la vita e la si vede finalmente assurta alla realizzazione della sua massima aspirazione:l’atarassia, una specie di avveniristica panacea alle inquietudini e ai mali del nostro tempo.
La mia stanza sta in cima a un faro. Il faro sorveglia tutt’intorno e mi sorveglia dentro con la lentezza tipica della sua luce rotante. Al tramonto, quando le sfumature di rosa e arancio si disegnano nel cielo e prevalgono, come ad annunciare la fine della burrasca, la mia anima sorride e si libera, insieme ai gabbiani, in un volo disordinato ma imperturbabile.
Mi piace indugiare in cima al faro e in quel volo, soprattutto quando non condivido le dinamiche di ciò che avviene sulla Terra, quando quel che vedo non mi piace e mi fa male.
Perciò vi chiedo scusa se ,anche per oggi, non scendo e mi trattengo ancora un po’.
L’importante è che sappiate sempre dove trovarmi. Facciamo finta che, ogni tanto, da qualche parte, su questa Terra, si possa contare anche su di me.
Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.
Gli eventi della seconda guerra mondiale sono ben conosciuti da tutti noi ma il dolore nel sentirli raccontare è sempre grande, tutte le volte.
“L’ombra del soldato” è il racconto intenso della convivenza di Luigi, il protagonista della storia, con il fantasma del soldato Luca, che vive in lui.
La terra piange e i ricordi del soldato, militare alpino, sono forti e impietosi sul protagonista.
Gli accadimenti degli alpini in Russia, durante la Seconda guerra mondiale, tornano vivi alla memoria così come le conseguenze scatenate dagli eventi di guerra.
L’alpino amava fortemente Gina e la forza del suo sentimento gli aveva dato la forza di resistere nei momenti più difficili. L’affiatamento che si creò con i compagni alpini al fronte era speciale e le storie dei soldati è commovente e dolorosa: chi di loro era riuscito a salvarsi?
Luigi vive sempre più intensamente le sue visioni, che sempre più difficilmente riesce a gestire in modo distaccato dalla quotidianità.
Cosa rappresenta la misteriosa scatola rossa ritrovata in casa dal protagonista?
Come si legheranno fra di loro le strane coincidenze che avvengono nella vita del giovane Luigi? Luca, il fantasma, è sempre più presente e le persone che hanno rivestito un ruolo importante nella sua vita mano a mano entrano anche nella vita del protagonista.
Per fortuna il giovane viene supportato dalla fidanzata, Pamela, che rappresenterà un sostegno fondamentale alla ricerca della verità sul soldato Luca Biscioni. Nel progredire delle visioni Luigi rischia di perdere il contatto con la realtà e anche con la fidanzata… sarà abbastanza forte la coppia dei tempi moderni?
Cristina Cireddu ci regala un romanzo davvero coinvolgente, per certi punti di vista leggermente e vagamente horror, ma assolutamente ben narrato e appassionante. Gli intrecci della storia di Luigi, giovane “posseduto”, ben si legano a quelli del fantasma alpino, Luca, e non sono mai noiosi o banali.
Dolce Luca, l’alpino, la tua forza e la tua poesia sono un esempio per tutti noi.
Sicuramente “L’ombra del soldato” è anche un omaggio al corpo militare degli alpini, i cui valori sono sempre stati ben difesi dai soldati anche durante il difficile periodo della Seconda guerra mondiale.
Al termine della lettura dell’ “Ombra del soldato” viene naturale prendersi un momento di silenzio da dedicare a tutte le persone rimaste coinvolte nell’orrore della guerra: nel passato e, purtroppo, nel presente.
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
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Madame Sullivan: “Alla bambina di Bridget sono spuntati i primi denti da latte. “
Madame Brown: “Oh ! Oh! Madame Sullivan inizia a perdere colpi. Oggi la notizia del giorno è…Attenzione! Attenzione! La bambina di Bridget piange la morte di Mr Money Money e nessuno fa caso al paio di denti nuovi in bocca alla bimba.”
Ogni giorno Madame Sullivan e la sua fedele femme de chambre Madame Brown, si recano al parco davanti casa per spendere al meglio quel che resta delle ultime ore del tardo pomeriggio. Il più delle volte finiscono per parlare di Bridget e di sua figlia. Tutte le signore del quartiere si prendono una sedia per posizionarsi davanti all’uscio di casa per chiacchierare di Bridget e di altri argomenti in primo piano nel paese.
Bridget-scandalo, Bridget partorisce in un taxi, Bridget che sfama la bimba offrendo le sue avvenenti rotondità. Mr Money-Money le regala sempre la carta per la toilette e le saponette tailandesi. Gli altri, quasi sempre, le danno del denaro. Bridget vuole bene a Mr Money Money, come si vuol bene ad un cugino particolarmente attraente, mentre lui la vede come è davvero, una prostituta con una figlia a carico.
Mr Money Money è morto e Bridget continua a fare la prostituta. La figlia di Bridget, per la prima volta, ha pianto per il dolore e non perché affamata o perché stremata da quella stanchezza tipica nei bimbi sottopeso. Mr Money-Money per il quartiere, Martin Maverik per l’anagrafe.
Sulla lapide però hanno scritto:” Riposa in pace Mr Money-Money.“.
Mr Money-Money era sempre alla ricerca di facili illusioni, la famiglia, gli amici più cari, la signora Sullivan e la timorosa ma agguerrita Madame Brown, avevano preso a chiamarlo Mr MoneyMoney perché per lui i soldi valevano più della libertà per un carcerato.
Martin gridava con la sigaretta accesa in bocca come un ossesso:” Money “, “ Money “.I bambini gli facevano il verso “Money “, “ Money “ .Si portava sempre dietro una voluminosa cassa stereo collegata al suo telefono per fare ascoltare a tutti le sue canzoni preferite. Recitava a memoria passi di quei film che lui definiva importanti a quei bambini che non avevano neanche la tv. Questi ricambiavano con un sorriso scomposto che lo galvanizza ancor di più. Aveva concluso un affare di dimensioni spropositate vendendo un immobile scadente ad un giapponese affascinato dal suo inusuale modo di fare. Con il ricavato della vendita, pacca dopo pacca proprio sulle spalle forti del giapponese, si era comprato l’auto dei suoi sogni. Salito a bordo della tanto desiderate Mercedes 2000, aveva strillato al mondo con rabbia felice: “Money “, “Money “.L’urlo di battaglia infastidì due poliziotti invidiosi dell’autovettura che lo denunziarono per disturbo alla quiete pubblica. “Money ! “, “Money “.
Bridget trovava la Mercedes 2000 un tantino pericolosa ma a Mr Money Money non lo diceva mai per paura d’esser troppo invadente. Il fato ha voluto che Mr Money Money c’è morto in quella macchina e Bridget ora si pente di non aver saputo osare scavalcare i suoi gentili tentennamenti.
Prima di morire Mr Money Money ne aveva combinate a bizzeffe. La signora Sullivan e la sua confidente-amica-perpetua Madame Brown si erano sempre illuse di saper tutto degli affari sporchi di Mr Money Money.
Quante curve a gomito prima di quell’ultima inesorabile. Accelerava e frenava come uno di quei piloti d’altri tempi tutto coraggio e sfrontatezza. Quelli che l’hanno soccorso per molto tempo hanno avuto l’immagine d’un corpo straziato davanti ai loro occhi, oppure hanno visto riflesso in qualche specchio della loro casa elegante un avanzo di uomo insanguinato senza scatola cranica. Qualcuno racconta l’accaduto e sente d’esser poeta: “Quella è stata per lui l’ultima curva. L’ultima volta che ha sentito d’esser vivo “. I mattoni che hanno contribuito alla costruzione del mito Mr Money Money hanno contato sull’importanza delle emozioni. Il modus vivendi di Mr Money Money rappresentava l’eccezione di quel mondo fatto di uomini che tentennano, di uomini perennemente afflitti da leggere depressioni, un sovrappopolato nucleo umano incurabile. Mr Money Money disprezzava chi si sentiva sotto assedio per uno stato d’animo, per un malumore, per uno di quei momenti di impotenza.
Secondo la sua modestissima opinione era un perder tempo, e il tempo è importante, soprattutto se ogni dì ,si corre dietro al denaro. Nei Pub, per sdrammatizzare la morte di Mr Money Money, la gente usa le parole della signora Sullivan che meglio di chiunque altro conosce vizi e virtù di tutti quelli che non escono mai dal quartiere.
“Mr Money Money era un bravo ragazzo. Forse un esaltato? Chi fra di noi non è ossessionato da qualcosa o da qualcuno. Che questo qualcosa sia fatto di materia o di spirito non ha importanza. Il denaro? Meglio dipendere dal denaro che dai sonniferi. Nel benessere economico Mr Money-Money aveva trovato le distrazioni per vivere, distrazioni a noi tutti molto care”.
La Signora Sullivan gustò con una lentezza premeditata le deliziose frittate della Signora Brown. Aveva trovato come distrarsi dai cattivi pensieri. La signora Brown, la domestica, cercò la chiave di lettura nell’amore che provava per la sua assistita, amore fino ad allora nascosto con grande successo.
Bridget raggiunse quell’invidiabile serenità soltanto molti anni più tardi quando sua figlia la strinse a sé come nessuno aveva fatto mai.
Ho avuto la fortuna di viaggiare con mia madre hostess per non stupirmi ogni volta di come siamo tutti cittadini di un mondo diverso,disunito,ma con i stessi connotati. Conoscere lingue diverse e poter scegliere di studiare il cinema e le arti senza seguire un percorso di studi tradizionale (forse piu’utile ai fini pratici) mi ha portato verso la scrittura con naturalezza e coscienza.Vincere premi letterari non mi ha legittimato a scrivere ma mi ha fatto capire che non solo il solo a sognare.Ho collaborato con diverse riviste letterarie e di cinema per dire in piccolissima parte la mia. Ho lavorato nel hotel management e vissuto a New York per respirare un aria internazionale ma amo al contempo anche le dimensioni locali ridotte dei paesini italiani.
Il teatro piccolo piccolo di una cittadina di provincia del sud Italia, in una sera d’inverno, apparentemente uguale a tante altre.
Il freddo, quello sì, è insolitamente pungente e accompagna la processione di spettatori che,a piedi, percorrono il tragitto verso il Comunale, infagottati nei loro paltò: le sferzate di vento gelido sembrano attenuate solo dal desiderio di prender posto, quanto prima, su quell’avviluppante poltroncina di velluto rosso da cui si potrà godere la piece prevista, per l’occasione, in cartellone: “A piedi nudi nel parco”, di Neil Simon.
Tra la folla di quella sera una bambina percorre, insieme alla mamma e al babbo, il cammino che la separa dalla visione del primo spettacolo teatrale della sua vita.
Lei e le sue gotine rosse rosse, un po’ per il freddo e un po’ per l’emozione.
Ha più o meno dieci anni e sta impettita nel cappottino delle grandi occasioni e nel berrettino di lana,di cui va proprio fiera:quello lavorato a maglia dall’amorevole nonna.
Per lei tutto è così inconsueto, magico e degno della massima attenzione. Appare, a tratti, quasi frastornata e non sa bene cosa la aspetta, ma i suoi passi sono scanditi da una raffica di domande, con le quali assilla i poveri genitori durante il percorso verso il teatro.
Inizia lo spettacolo e, anche se i ricordi, ogni tanto, si appannano, in lei è viva la sensazione di religioso silenzio che abbraccia il proscenio, quasi fondendosi con esso.
Quanto rispetto può esserci in un silenzio del genere, insperato rifugio da un mondo di inutile strepitio e gridolini isterici!
Pochi riflettori animano lo scambio di battute tra gli attori ma c’è una presenza che si muove con passi vibranti, quasi a imprimere impercettibili scricchiolii alle assi del palcoscenico. E’ una danza, dai cambi di passo inaspettati, concentrati nell’attimo che precede il sollevarsi in volo di un gabbiano dalla originaria posizione di quiete, a fior d’onda.
L’attrice si sposta con leggiadria riempiendo il palco e l’aria la segue, obbediente: in platea, ad ogni movimento da lei compiuto, si diffondono folate di profumo inebriante che viaggia al suono della sua voce, particolarmente suadente e familiare.
Non è un profumo qualsiasi: è qualcosa che sale dalle narici, pervade la persona mescolandosi all’odore del velluto delle poltrone e a quello, consumato dall’uso, di pochi, elementari arredi teatrali, passati di mano in mano.
Talvolta la bambina si guarda intorno e le sembra che quella donna non sia più sul palco:potrebbe sbucare da un angolo qualsiasi del teatro e, non per questo, cessare di calamitare l’attenzione del pubblico che la segue, nella sua affascinante performance, senza mai distogliere lo sguardo da ciò che avviene in scena.
E più lo spettacolo prosegue, più tutto, nella mente della piccola spettatrice, col naso perennemente in aria, sembra acquistare un senso nella meraviglia, nel candore e nel rosso vivo della poltrona su cui siede:il suo posto privilegiato in prima fila, spalancato su un mondo che sembrava tanto distante e che, magicamente, quella sera le si avvicina, chiamandola per nome.
Il palco buio esprime perfettamente il senso dell’attesa e i riflettori aiutano a schiarire la mente rendendola feconda alla curiosità, stimolando l’intuizione e la capacità di cogliere anche i più insignificanti dettagli della rappresentazione, attraverso il rapido susseguirsi delle scene.
Ci penso spesso a quella sera e, soprattutto quando scrivo, mi capita di rivivere le emozioni di quella bambina sbigottita ma matura e riflessiva:talvolta provo tenerezza, altre volte un senso di inarrivabilità, come di qualcosa che non si riesce ad acciuffare del tutto.
No, non c’entra lo sbiadirsi dei ricordi d’infanzia e la mia non è una sensazione frustrante: è, piuttosto, una presa di coscienza nei confronti di qualcosa che, molto probabilmente, resta un punto d’arrivo e di svolta.
In fondo, penso che debba essere questa la modalità attraverso cui ci si misura con il significato della parola SEDUZIONE.
Resta un’aspirazione ed è, forse, normale che nessuno si consideri edotto e del tutto arrivato, rispetto a questo tema.
Io, dal canto mio, continuerò a stare col naso all’insù, nell’attesa di riuscire a riconoscere, nel teatro della vita, quel particolare spostamento d’aria,regolato da movenze precise e puntuali, denso di profumi e di aspettative elettrizzanti che danzano al ritmo di una voce amica.
Sono certa che non sarà difficile ritrovarlo e, quando succederà, solo allora, mi alzerò in piedi e gli dedicherò l’applauso più fragoroso e riconoscente di cui sia mai stata capace.
Nel frattempo, vivo appieno la mia vita e inganno il tempo scrivendo di emozioni propedeutiche a «quel che sarà».
Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.