Accettazione e rassegnazione [due gemelle separate alla nascita].

illustrazione di Anna La Tati Cervetto_”Amiche”_pennarello su carta_dicembre2020

di Christian Lezzi_

Capita più o meno in tutte le lingue, dall’italiano all’inglese, dal russo al francese, che parole molto simili rappresentino, in realtà, concetti diversi, se non proprio diametralmente opposti, per lo meno molto distanti tra di loro. E da qui nasce l’inganno, la confusione, dovuto all’uso improprio delle parole, rese intercambiabili dalla superficialità, ma sostanzialmente diverse nel significato più vero e profondo.

Soprattutto in italiano, lingua particolarmente ricca di sfumature, declinazioni e ambiguità (linguistiche). Un po’ come i false friends della lingua inglese, parole che sembrano significare qualcosa, ma solo perché somigliano ad altri vocaboli.

È il caso, giusto per portare un esempio, del termine “Sympathy”, reso particolarmente familiare dai Rolling Stone e dalla loro canzone Sympathy for the Devil. Ma, attenzione, Sympathy, non significa affatto simpatia – eccolo il falso amico che c’inganna con una subdola somiglianza – significa compassione. E tutto il senso del testo, chiarito il significato corretto della singola parola, muta contesto e sostanza.

Potremmo citarne a tonnellate, di esempi in merito, di parole che sembrano qualcos’altro, di termini che somigliano ad altri, che quindi spesso confondiamo e intercambiamo, fino a usarli a sproposito. Perché nell’apparentemente sottile differenza tra due parole simili, può esserci un abisso di sostanziale diversità del significato. O, per lo meno, nella loro applicazione, può comportare meccanismi psicologici e comportamentali del tutto diversi.

Prendiamo in esame, ad esempio, le parole “accettazione” e “rassegnazione”.

Apparentemente (ma solo al primo lontano e frettoloso sguardo) esse sembrano talmente simili da rappresentare il medesimo significato, talmente uguali da ricordare due gemelli omozigoti separati alla nascita.

Ma nella linguistica, l’inganno è sempre in agguato, pronto a indurci in errore, a tentarci con parole dal suono simile, ma dal significato diverso che, se usate alla leggera e senza cognizione di causa, alterano il senso del discorso e del nostro vivere quotidiano. 

Proprio come nell’esempio della canzone.

Accettare e rassegnarsi, possono anche sembrare parenti strette, ma convogliano implicazioni psicologiche che impediscono loro di essere intercambiabili. Seppur entrambe implichino l’atto di far propria una nuova e diversa prospettiva, una presa d’atto in merito a ciò che ci accade intorno, implicano schemi mentali e aspettative che, tradotti in atti concreti, mutano di molto il nostro agito.

L’errato uso di uno o dell’altro termine, implica un’alterazione delle nostre percezioni, di come vediamo e percepiamo, distinguendoli, ciò che possiamo ancora controllare e ciò che non possiamo controllare più. Capire la differenza che intercorre tra le due parole (dal punto di vista psicologico, non solo da quello semantico) rende possibile, a noi stessi, il controllo sul nostro atteggiamento, dal quale deriva il comportamento nei confronti degli input che ci arrivano dal mondo circostante, permettendoci di mutare l’elaborazione degli stessi e delle aspettative che nutriamo nei loro confronti.

In altre parole, accettare un evento, implica una risposta cognitiva ed emotiva ben diversa da quando, a quell’evento, ci rassegniamo passivamente e senza volontà alcuna. Un bivio che divide due mete drammaticamente diverse e opposte: controllare attivamente gli eventi o subirli passivamente, lasciandoci magari travolgere da essi, incapaci di reagire al momento, allo stimolo agli accadimenti che ci coinvolgono e, in questo caso, ci travolgono.

Che si scelga la prima o la seconda strada, a cambiare è l’atteggiamento, il modo di porsi nei confronti delle circostanze, laddove il primo caso comporta un ruolo attivo e voluto, mentre il secondo, per ovvio contrasto, un ruolo del tutto passivo e involontario. E quella scelta si riflette sul nostro stato emotivo che, a sua volta, determina un agìto di riflesso, che spesso, nel caso della rassegnazione, porta al piagnisteo, alla lamentela e alla fuga dalla realtà e dalle responsabilità.

E anche queste, le responsabilità, distinguono il percorso. Nel caso dell’accettazione, non solo prendiamo atto dell’accaduto, ma ce ne assumiamo le responsabilità, ovviamente se queste sono riconducibili a noi, almeno in minima parte. Nel caso della rassegnazione, le responsabilità non sono mai nostre ma sempre di soggetti terzi e di eventi al di fuori della nostra sfera d’influenza. 

Anche quando, di fatto, di responsabilità oggettive non s’ha traccia. 

Ciò accade perché la rassegnazione, a differenza della sua apparente gemella, comporta il giudizio, l’assunzione del ruolo di vittima delle circostanze. Mentre l’accettazione quel giudizio lo sospende, accettando la realtà e vivendola con piglio attivo, per cambiarla e ricondurla al suo proprio beneficio, oppure accettarla (appunto) vivendola con serenità, la rassegnazione diventa il nostro stesso inquisitore, il giudice inflessibile che decide (dal suo esclusivo punto d’osservazione) ciò che è giusto e ciò che non lo è.

Salvo poi omettere che si tratti di deduzioni del tutto soggettive dovute ai capricci di un tiranno.

Operare un distinguo ragionato, tra i due concetti, è una questione di volontà, essendo l’accettazione un processo (per buona sua parte) voluto e consapevole. Si decide di accettare qualcosa, in maniera volontaria e cosciente. Al contrario, la rassegnazione ai fatti della vita, comporta una cessazione di quella volontà, una dismissione della coscienza, a favore di un’inconsapevolezza che ci arreca distonia, malessere e disagio interiore. E che, per effetto di quel malessere, c’impone la resa incondizionata e la delega delle cosiddette colpe.

È un po’ come dire: “voglio cambiare le cose”, oppure “lascio che le cose mi cambino”. Sembrano concetti uguali, ma non è aritmetica. Cambiare l’ordine dei fattori (delle parole, in questo caso) il risultato lo cambia eccome. Così come il variato ordine cambia le nostre percezioni, la risposta a quegli stimoli, lo stato d’animo, le nostre azioni e il risultato che ne consegue.

Mentre l’accettazione impara a perdere con stile, la rassegnazione, come spesso osserviamo nel mondo dello sport (soprattutto del calcio) scarica le proprie responsabilità sull’arbitro, sull’allenatore, sul presidente e sui tifosi tutti.

No, comprendere e fare nostra la differenza tra accettazione e rassegnazione, tra attività e passività del ruolo assunto, non è solo una questione di semantica, ma di acquisita capacità e volontà d’essere felici e di saper stare al mondo.

Occorre coraggio, per accettare qualcosa (un lutto, una malattia, un fallimento). Tanto coraggio e altrettanta forza.

Al contrario, per la rassegnazione, basta la viltà, condita dalla stucchevole capacità di fuggire dalle proprie responsabilità e di piangersi addosso, magari bagnando la spalla di qualcun altro.


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.

Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




QUANDO IL FAKE SIAMO NOI.

Giulia Gellini_Respiro libero_70 x 100_tecnica mista_2019

di Valeria Frascatore_

Viviamo una fase storica piuttosto delicata, carente a vari livelli sul piano formativo.

Il grado di istruzione non rappresenta più un discrimen sociale e sembra quasi che la linea di demarcazione tra addottrinamento obbligatorio e non obbligatorio sia tracciata dai social che, indubbiamente ,non garantiscono alcuna forma di controllo sul livello di recepimento dello sciame di informazioni quotidianamente veicolate.

Si percepisce la mancanza di idonei strumenti attraverso cui educare le coscienze all’autonomia in tema di libera formazione di pensiero e di giudizio, laddove per giudizio non si intende la capricciosità di una teoria volubile ma un vero e proprio costrutto strutturato, ancor meglio se supportato sul piano argomentativo. Oggigiorno praticamente un’utopia!

Esistono,infatti, troppe forme di dipendenza e di condizionamento da opinionismo nozionistico, talmente radicate da rappresentare, a volte, una specie di anticamera dello shit-storming, nel senso che lo alimentano attraverso l’immissione e la condivisione in rete di  affermazioni categoriche e perentorie, pronunciate con eccessiva – o  a volte senza alcuna – partecipazione emotiva e che finiscono con l’affiancare i casi di vere e proprie offese gratuite disseminate, qua e là, dagli haters a colpi di post e di commenti sui social.

Ferma restando la netta condanna nei confronti di tutto ciò che nel web lede l’altrui immagine e reputazione, ciò che, in alcuni casi, risulta fuori controllo è la tendenza, soprattutto nel mondo dei social, a giocare allo sceriffo a oltranza, nel tentativo di smascherare qualsiasi profilo/persona poco rispondente ai canoni dell’autenticità e della trasparenza.

E’ avvilente constatare che si è persa l’abitudine a distinguere uno schiaffo da una carezza e che, tutti presi dalla caccia alle streghe in rete, come nella vita, non riusciamo a concederci cedimenti emotivi, viviamo nel terrore di essere circondati da approfittatori di professione o,peggio ancora, da esperti di modi affettati e di strategico perbenismo.

Si finisce col tacciare una persona gentile e ben educata di buonismo con la medesima facilità con cui una persona insolente viene accusata di maleducazione e rozzezza! E questo, oltre che paradossale è anche pericoloso, perché provoca nelle persone corrette la sensazione di sentirsi sbagliate e fuori posto.

Inevitabilmente,infatti, l’individuo costruisce il proprio “IO” rapportandosi con l’immagine di sé che riceve come output dal suo approccio con altri individui, anche attraverso occasioni di confronto offerte dalla  comunicazione virtuale.

E’ importante essere capiti, anche nel web: è molto facile, invece, essere fraintesi e finire nel calderone degli haters o dei polemici di professione.

Non si può pensare di liquidare con un click,mediante un freddo automatismo, un soggetto pensante e vivo sul piano emozionale per la smania di voler frugare trovando il marcio che lo renda più facilmente attaccabile.

Che triste eredità ci ha lasciato l’esperienza pandemica!

La tendenza a guardare in cagnesco l’altro come se lasciassimo scandire il nostro tempo da un count down in grado di allertarci sulla fregatura che, da un momento all’altro,potremmo rimediare da terzi. Siamo sempre più prevenuti e calcolatori:non ci lasciamo andare…questa è la verità.

L’alternativa non è più scegliere tra una persona che ci piace e una che non ci piace – il che sarebbe sacrosanto e legittimo perché nella vita non si può piacere a tutti – ma tra chi,rimanendo se stesso fino alla fine, ai nostri occhi giustizialisti a oltranza cade per primo in fallo e chi, invece, magari si vende meglio e quindi non commette errori.

Attraverso l’uso del “bannaggio“, della restrizione e del blocco sui social si spazza via tutto ciò che suona anche solo come posticcio e poco convincente: non c’è necessità di arrivare all’offesa…ormai si bollano le persone per molto meno.

E’ un fenomeno, quello della corsa a smascherare il “fake” che è fuori di noi, che spesso tradisce la necessità di disconoscere i nostri stessi limiti, soprattutto l’incapacità di distinguere un essere umano moralmente integro da uno che non lo è. Il sentore, purtroppo, è che al senso di umanità abbiano rinunciato a credere un po’ tutti.

E’ indubbio, però, il giudizio da presunto impostore affibbiato ad altri ci costringe, prima o poi, a fare i conti con noi stessi e con i nostri lati oscuri ma soprattutto con l’esigenza di dover bandire qualcosa o qualcuno che ci ha toccato  – sebbene attraverso una forma di relazione virtuale – e che è riuscito a smuovere in noi delle sensazioni scomode.   

Scovare ed isolare la falsità,talvolta, è come ottenere una ricompensa e consolarsi per non aver saputo gestire un’ingerenza nella propria vita. E anche una riflessione o un pensiero personale, formulato sotto forma di post o di commento, può essere vissuto come un’entrata a gamba tesa nella vita altrui.

In sintesi, se chi legge determinate parole frutto di scambi su un social conserva dentro di sé degli aspetti irrisolti, questi lo rendono estremamente vulnerabile ad interpretazioni poco felici nel tratteggiare la personalità di chi, dall’altra parte di uno schermo, quelle parole le ha scritte.

Si instaura una sorta di pregiudizio per cui sia gli haters che i personaggi considerati poco “LEGGIBILI” vengono considerati sullo stesso piano.

Il senso della crociata contro il fake nel web è tutto qui: nella paura di dover barattare parti di noi accondiscendendo al riconoscimento dell’altrui autenticità e consentendosi degli scivoloni che, inconsciamente, forse riteniamo di non poterci permettere.

Nel mondo virtuale queste sensazioni risultano addirittura amplificate e spesso dissuadono dallo sperimentare una qualsivoglia forma di comunicazione, anche embrionale, probabilmente perchè il concetto stesso di virtualità continua a rappresentare un mondo a parte rispetto alla tangibilità epidermica tipica delle relazioni interpersonali de visu.

Concedere ad un altro la possibilità di esprimersi in modo spontaneo e reale fa forse paura perché ci porta a pensare che, prima o poi, potrebbe toccare a noi doverci mettere a nudo? Probabile.

Ma fin quando si vivrà di paure e di conflitti irrisolti, reale e virtuale continueranno a muoversi su binari eternamente paralleli.

Vincere l’incomunicabilità in ogni sua forma: vale la pena provarci per dare un senso alla vita, per vivere da persone libere e dimenticare i tristi strascichi anti-sociali lasciati dietro di noi dalla pandemia.

L’autenticità deve poter essere liberata, non perseguita!


Valeria Frascatore_

Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.




Sogno la rivoluzione dei piccoli gesti – [parte 1]

foto di Valeria Simonetti_è vietata la riproduzione senza il consenso scritto dell’autore.

di Giuliana Caroli_

Alla fine degli anni ’90 rimasi folgorata dal titolo di un libro “La prima sorsata di birra. E altri piccoli piaceri della vita” di Philippe Delerm. Un libretto agile che diventò presto un fenomeno editoriale.

Ma più delle pagine del libro, a intrigarmi fu proprio il titolo. Perché proprio la prima sorsata di birra ha un sapore così speciale e provoca un piacere tanto intenso, molto più di ogni altra sorsata che verrà? È un miracolo di sensazioni che si consuma in pochi secondi prima di svanire, ma che si ripete in ogni occasione.

È vero. Ci sono dei piccoli piaceri capaci di regalarci attimi di felicità pura e genuina. Ci dimostrano che in fondo sono le piccole cose a dare colore alla nostra vita e che non servono gesti eclatanti per farci sentire in pace con noi stessi e con il mondo. Riconoscere e coltivare questi piccoli attimi di felicità è un ottimo esercizio per trasformare i momenti ordinari della vita quotidiana in istanti di straordinaria bellezza.

Quanto più ricca sarebbe la nostra vita se diventassimo collezionisti di attimi di gioia? 

E quanto migliori potremmo essere se sapessimo dare il giusto valore ai piccoli gesti?

Le nostre esistenze sono segnate dalle grandi tragedie del nostro tempo. La pandemia ha portato alla luce tutta la nostra fragilità e ci ha messi di fronte alle nostre responsabilità. Siamo la causa del cambiamento climatico e colpevoli di aver innescato un processo di distruzione del pianeta che non siamo più in grado di governare o di sovvertire.

Servono politiche ambientali efficaci e coraggiose, probabilmente impopolari ma essenziali per la nostra sopravvivenza. Ma non possiamo sederci e aspettare che qualcun altro al posto nostro risolva un problema generato da decenni di sfruttamento sconsiderato delle risorse, di devastazione dissennata degli habitat, di strage della biodiversità. Il tutto per perseguire un modello economico insostenibile e ingannevole al quale però nessuno di noi pare voler rinunciare.

Non basta protestare e urlare a gran voce che vogliamo un cambiamento. Dobbiamo essere il cambiamento. 

Perché allora non seguiamo la filosofia dei piccoli gesti? Piccoli cambiamenti che non stravolgono la nostra esistenza ma che possono avere un grande valore per la salvaguardia del nostro pianeta. Purtroppo abbiamo interiorizzato una serie di abitudini e di comodità che tendiamo a difendere strenuamente nel timore di perdere qualcosa. Ma non è così! Qualche esempio?

Usare il sapone invece del flacone in plastica di bagnoschiuma, lavarsi i denti con uno spazzolino di bambù e setole naturali, comprare frutta e verdura sfusa e non confezionata nella plastica (e preferibilmente di stagione e a km zero), bere l’acqua della rete idrica piuttosto che acquistarla in bottiglie di plastica, ridurre il consumo di carne, soprattutto quella proveniente da allevamenti intensivi altamente inquinanti, scegliere prodotti per la pulizia della casa ecologici e magari ricaricabili, fare una corretta raccolta differenziata per dare una nuova vita ai materiali – sono tutte piccole azioni che non costano fatica e possono avere un grande impatto sull’ambiente.

Provate a riflettere. I medici ci consigliano di bere 1,5 litri di acqua al giorno. Questo significa 365 bottiglie di plastica all’anno che possono essere risparmiate solo decidendo di bere acqua del rubinetto. Che si traducono in un risparmio di 248 litri di acqua e quasi 30 kg di petrolio necessari per la loro produzione, senza contare le tonnellate di anidride carbonica immesse in atmosfera per il trasporto. Vi rendete conto di quale impatto può avere una scelta così semplice e all’apparenza insignificante?

Piccoli gesti come questo possono fare la differenza se siamo in tanti a farli.

In attesa che i nostri governanti trovino grandi soluzioni ai grandi problemi che ci affliggono, perché non diventiamo protagonisti di piccoli cambiamenti nelle nostre vite?

Ognuno di noi può trovare la propria strada verso la sostenibilità. Basta imparare a porsi una semplice domanda:

Esiste un’alternativa sostenibile che posso facilmente adottare senza fare grandi sacrifici?

Rimarrete stupiti di quante possibilità ci sono e di quanto sia agevole cambiare.

Un piccolo gesto può avviare una rivoluzione?

Sì, se saremo in tanti a farlo.


Giuliana Caroli, classe 1965, lavoro in una grande cooperativa di servizi come Responsabile Comunicazione, ma mi porto come bagaglio una lunga esperienza in ambito consulenziale e formativo.

Scrivo di ciò che conosco e di ciò che mi appassiona. Coltivo la curiosità e alimento le relazioni positive. Detesto l’indifferenza e l’irresponsabilità.

A cosa aspiro? A fare la differenza: per qualcuno, per il pianeta.




La funzione costruttiva dell’ironia.

Anna La Tati Cervetto_”Specchio non riflesso”_Illustrazione digitale realizzata con “Procreate”_dim.100×70

di Christian Lezzi_

Definito da Sigmund Freud come “la più alta manifestazione dei meccanismi di adattamento dell’individuo”, l’umorismo ha una connotazione liberatoria in senso positivo, essendo un sintomo indiscutibile d’arguta intelligenza, di prontezza mentale, di elasticità e di apertura, atto a indagare e a decodificare, fuori dagli schemi, il mondo intorno a noi. 

Proprio per questa sua capacità di andare oltre gli standard che delimitano uno scambio comunicativo interpersonale, l’umorismo consente, con naturalezza e leggerezza (che non è da confondere con la futilità o con l’inopportuna leggerezza) di scoprire molto degli altri e di noi stessi, arrivando ad apprendere dettagli che, analizzati con rigore logico e con altrettanto eccessiva serietà, difficilmente scopriremmo.

Ciò accade perché, l’umorismo, supera le difese, gli scudi, le maschere che ognuno di noi, volente o nolente, applica, erge e indossa, per allontanare le paure, i rischi, ciò che non ci fa sentire a nostro agio, che ci espone alla minaccia, tranquillizzandoci e predisponendoci al confronto produttivo e rilassato con l’interlocutore.

E quando una trattativa volta a negoziare, o a mediare (di qualunque natura essa sia) si svolge in piena rilassatezza, grazie anche al piacevole senso dell’umorismo e all’ironia più rispettosa, può accadere ogni magia!

L’umorismo però (o ironia, che dir si voglia) non va confuso con il sarcasmo. 

Immaginando le due facce di un’ipotetica medaglia, una faccia (l’ironia) brilla nel sole, mentre la seconda (il sarcasmo) poggia direttamente sul nudo fango. Se il primo è costruttivo, distensivo, arguto e piacevole, se riesce a tradure, in una battuta ilare e in uno scambio ridanciano, l’essenza intelligente di chi la propone, il suo alter ego è cattivo, narcisista, irrispettoso delle altrui sensibilità, pronto a schiacciare e calpestare, distruggere e demolire, pur di primeggiare sull’interlocutore, vivendolo come un nemico da abbattere, prima che diventi offensivo e contundente, in ogni accezione possibile.

In altre parole ed esagerando volutamente i termini, potremmo ben definire il sarcasmo, come un disturbo sociopatico e antisociale del comportamento umano.

Al di là delle battute, è lecito pensare che, se l’umorismo è una forma d’intelligenza (adattiva per Freud, come abbiamo già visto), il suo Mr. Hyde è una materializzazione delle paure più profonde, quelle che condizionano il comportamento e distruggono le relazioni. Il sarcastico umilia offendendo, allo stesso modo dell’arrogante che soverchia urlando. 

In entrambi i casi, è la paura a farla da padrona, rubando la scena alla già scarsa autostima del soggetto in questione.

L’umorismo ride con te. Il sarcasmo ride di te. La sottile differenza è tutta qui. Sottile appunto, come una lama tagliente che di buone intenzioni proprio non ne ha.

L’aspetto costruttivo dell’umorismo si concretizza quindi nella sua capacità di mostrarci una diversa prospettiva, un differente punto d’osservazione, una nuova forma mentis nell’affrontare un determinato carico emotivo, spesso inaspettato. La battuta piacevole rompe ciò che potremmo definire iper-focus, ovvero quella concentrazione esagerata sul problema, a discapito della soluzione che perciò diventa invisibile, in cui il primo ruba la scena al secondo, rendendoci incapaci di essere produttivi e risolutivi.

Non a caso, lo psicologo americano Richard Bandler ha scritto “Se siete seri, siete bloccati. L’umorismo è la via più rapida per invertire questo processo. Se potete ridere di una cosa, potete anche cambiarla”.

E ciò ci porta a dissacrare (deo gratias) lo status quo, il “si è sempre fatto così”, l’assurdo “squadra che vince non si cambia”“finché la barca va…”, per affrontare le situazioni con un pensiero diverso, alternativo, leggero nella sua profondità, mirato a costruire una soluzione con il sorriso sulle labbra e con il giusto atteggiamento.

Un pensiero “laterale” che punta a fiaccare le resistenze, attaccandole laddove non se lo aspettano, proprio come nella strategia militare, come avrebbe detto l’indimenticato professore maltese Edward De Bono, famoso per i suoi sei cappelli per pensare, per il suo fine umorismo e l’altrettanto affilata intelligenza.

Quando parliamo di umorismo, quindi, definiamo un’alternativa positiva, proattiva, aperta al mondo intero che ne evidenzia gli aspetti ridicoli, così come mette in ridicolo la seriosità stessa, nostra e di molte persone, dall’apparenza rigida, con quel fare inflessibile, perché sorridere si può, anche nelle questioni più importanti, esattamente come una battuta ce la si può e ce la si deve concedere, per sopravvivere alla seriosità senza freno e senza prospettiva. Soprattutto senza soluzione. L’ironia alleggerisce le atmosfere più plumbee, assorbe gli urti, rende più confortevole un percorso che, diversamente, sarebbe scomodo o impervio, quasi impossibile da praticare.

E ponendosi come alleviatore, positivo e proattivo, alleggerisce i conflitti, distendendo gli animi, ponendoli in condizione di collaborare, limando alla base quelle asperità che inaspriscono gli scambi e rendono poco propizie le circostanze, accorciando le distanze che sporcano il momento d’ansia, paura e incertezza.

Un momento d’attrito concreto e potente, dovuto alla differenza tra stato desiderato e stato reale, ovvero una distonia relativa alla realtà che stiamo vivendo, evidentemente diversa da ciò che ci aspettavamo, che genera disagio. E quel disagio, prima che diventi stato ansiogeno, non può che essere risolto dall’adattività (altrimenti definita come l’arte di stare al mondo) di cui sa essere capace solo una mente pronta, sveglia e intelligente. Una mente che, spesso, si concretizza in un’uscita con stile, atta a rompere schemi e tensione e che, strappando un sorriso agli astanti e a noi stessi, cambia il modo di vedere le cose in tutti i presenti.

Una caratteristica umana, quindi, molto affine al più blasonato e abusato concetto di resilienza, che può essere allenata, rafforzata, affinata, tanto dalla nostra cultura, quanto dalla nostra curiosità e dall’ambiente circostante. Ma, soprattutto, una battuta d’arguto spirito, non trova spazio in assenza di ascolto attivo e costruttivo, nonché rispettoso dell’altro nel senso più vero.

Agli esatti antipodi del sarcasmo, che l’altro nemmeno lo ascolta, tutto teso e concentrato a scovare l’altrui tallone d’Achille, quel punto debole verso il quale vibrare il mortale colpo, nell’illusione d’apparire brillante.

Ed è la stessa storia a ricordarci come, anche nelle crisi più nere, quelle che hanno segnato il nostro passato, influenzando il nostro futuro, una battuta arguta ha sempre avuto spazio e, a volte, alleggerendo gli animi, ha contribuito a risolvere la querelle

Perché serio, non vuol necessariamente dire serioso.

Immaginare cambia il presente e prepara il futuro, mentre ci aiuta a sopportare un passato spesso ingombrante. Ci consola per ciò che non sappiamo o non possiamo essere e ci conforta, grazie a una risata, per ciò che davvero siamo, staccandoci da una routine pesante o da un momento che, in fatto di pesantezza, rischia di diventare un macigno e aiutandoci a sopportare ciò che di noi poco ci piace, ridendoci sopra, proprio grazie all’ironia che, soprattutto quando rivolta verso noi stessi, rappresenta l’apice nobile dell’arguzia umana.

E ristabilisce il giusto rapporto tra reale e percepito, perduta o sovrascritta dall’ipertrofia dell’ego, di norma talmente piccolo da ingannarsi, fino a sentirsi un gigante, in preda al delirio egocentrico, riconquistando il corretto equilibrio tra le parti e prendendo le distanze da noi stessi e dalla nostra (spesso) ingombrante personalità.

È una questione di stile, di buonsenso e di misura, l’ironia che accomuna.

L’umorismo scioglie i conflitti e alimenta il confronto (già questo concetto sarebbe sufficiente per renderlo di studio obbligatorio a scuola!) perché solo chi ride con gli altri, anche di se stesso, può essere definito brillante. Chi ride degli altri, dei loro sentimenti e delle loro debolezze, puntando a umiliare l’altrui debolezza, è solo un disgraziato meritevole di poco ironica pietà.


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.

Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




Conosci te stesso e le tue emozioni.

Anna La Tati Cervetto_Decadence_tecnica mista.

di Christian Lezzi_

Conoscere se stessi, come se fosse facile, così presi dal quotidiano apparire, dall’ordinario essere (o, per lo meno sembrare) qualcosa che agli altri piaccia, per essere apprezzati, accolti, coinvolti nell’Io collettivo che tanto agogniamo.

Conoscere se stessi, come se fosse semplice da fare e non solo da dire, come se già non fossimo presi, oberati ogni momento, dal vuoto concetto, dal fuorviante miraggio dell’essere se stessi, qualunque cosa voglia significare questo arido modo di dire, seppur consapevoli che ogni azione, ogni pensiero, ogni molecola di umanità, ogni scintilla di vita che ci anima, come un potente propulsore che ci spinge fino alle stelle, ci conduce al miglioramento di noi stessi e del mondo intorno a noi.

Perché la vita è crescita continua – diversamente vita non è! – senza sosta e senza ristoro, per non accontentarsi di ciò che si è e per ambire a ciò che si vuole essere, che si vuole fortemente diventare, in un percorso (a ostacoli) che muove dallo stato attuale e ci conduce a quello desiderato.

Parliamo quindi di auto-coscienza e di auto-consapevolezza, la seconda come ovvia conseguenza della prima (e forse anche viceversa), di presa di contatto con se stessi, con le metaforiche fattezze celate in profondità, nell’intimo, necessarie a scoprire chi siamo, come siamo, quali obiettivi vogliamo raggiungere e quali vette vogliamo scalare. 

Coscienza e consapevolezza di se stessi e delle proprie emozioni, utili e necessarie a conoscere, prima di ogni altro aspetto, i nostri stessi limiti, le carenze che ci trasciniamo dietro, le lacune che ci rendono incompleti, i margini di miglioramento sui quali possiamo attivamente agire e adoperarsi per completare quel percorso di apprendimento ed elevazione che ci rende, per dirla con Lao Tse, non solo intelligenti, da conoscere gli esseri umani, ma anche saggi, da conoscere noi stessi.

Tutto il resto è una vita nell’illusione, nella più sterile aspettativa di ciò che non può essere, o che, in realtà è ben diverso da come lo immaginavamo, presi come siamo dal sogno che c’inganna e che ci porta fuori strada, dall’illusione soggettiva e superficiale che ci delude.

Occorre quindi, per conoscere se stessi davvero, lungi dall’inganno, conoscerle a fondo quelle emozioni, per imparare a gestirle senza ignorarle, senza rimuoverle o respingerle in profondità, per capirle e reagire a esse nel modo più consono e opportuno (che non è mai l’emozione, il problema, ma come noi reagiamo al suo palesarsi), indagando i motivi che le hanno generate, il perché di quel sentire, di quello stato d’animo, di quella rabbia o di quella tristezza, eviscerandole nella loro più realistica verità, soppesandone il vero carico e il reale peso, senza cedere alle nostre soggettive aspettative, per smontarle e depotenziarle, fino a riderci sopra e trasformarle in emozioni positive o, per lo meno, in qualcosa di meno potenzialmente pericoloso.

Ed è proprio qui la difficoltà: razionalizzare le proprie emozioni, ai confini della nostra natura emotiva, senza cadere nel grave e ormai ben noto errore di Cartesio, perché noi umani, nonostante il lascito intellettuale del filosofo francese (ad esempio il suo fuorviante cogito ergo sum) siamo esseri emotivi che pensano, non esseri razionali che si emozionano. 

E la differenza, a ben riflettere, è di vitale importanza.

Analizzare noi stessi, quindi. E le nostre stesse emozioni, allo scopo di superare l’abbaglio delle aspettative e del costrutto immotivato della nostra fantasia. Allo scopo, può essere utile e opportuno confrontarsi con gli altri, discutendo gli accadimenti secondo il nostro e il loro personale punto di vista, aprendosi al confronto più edificante, perché non sia solo la nostra miopia, o l’angolo d’osservazione sbagliato, a determinare il nostro sentire a proposito, ma l’attenta e corale analisi dell’insieme.

Impariamo, cammin facendo, ad apprezzarci. Impariamo a darcela, quella metaforica pacca sulle spalle, ad applaudire i nostri sforzi, ad apprezzare ciò che abbiamo fatto e come lo abbiamo fatto, festeggiando il risultato, seppur piccolo, che abbiamo raggiungo e conseguito, senza mai sminuirci, senza nicchiare, senza falsa e castrante modestia, senza dar per scontato il successo conquistato a fatica, per quanto piccolo e marginale esso possa essere. 

Che a darci addosso, ad additarci e auto-accusarci, a urlare contro noi stessi, a inveire contro i nostri stessi fallimenti, a darci degli idioti per ogni piccola mancanza, siamo fin troppo bravi!

Sono i piccoli passi, sommati nel tempo, a completare una maratona. L’insieme delle piccole attività, dei piccoli gesti sommati tra di loro, a portarci ai più grandi risultati. Anche a quelli che ritenevamo impossibili. Se non impariamo ad apprezzare quei singoli e apparentemente inutili passi, mai potremo apprezzare (e nemmeno concludere) il sovrumano percorso lungo 42 kilometri e 195 metri, che si snoda dalla partenza al traguardo dell’antica corsa.

Non è ciò che facciamo una volta sola nella vita, magari per caso o per fortuna, a dirci di noi e del nostro futuro. Solo ciò che sapremo rendere quantificabile, misurabile e ripetibile, saprà dirci dove possiamo andare e aiutarci ad andarci davvero. 

Se ti riesce una sola volta, hai avuto fortuna. Se puoi ripeterlo nel tempo, hai una strategia per il futuro.

Impariamo a capirle, quelle emozioni, non solo a comprenderne il perché, ma a valutarne l’intensità e l’incidenza sul nostro stato mentale, in funzione delle risorse a nostra disposizione, della fase della giornata che stiamo vivendo, delle energie di cui disponiamo in quel momento (la stanchezza è bravissima a esacerbare gli animi), del contesto generale e personale, in cui esse prendono vita. 

Estrapolato dal contesto, nulla ha più lo stesso significato. E ciò vale anche e soprattutto per le parole, che quelle emozioni sanno così bene descrivere e ingigantire nella nostra mente, nel bene e nel male.

Non può esservi felicità alcuna, se non impariamo ad apprezzarci, se non altro perché solo accettandoci potremo conoscerci meglio. Non c’è modo di migliorare qualcosa che non si conosce, come non c’è modo di migliorare chi si limita a essere ciò che è convinto di essere, tanto in senso diminutivo che accrescitivo, dando per scontato e per assodato che così sarà per sempre, per tutta la sua vita, perché lui così c’è nato! 

Conoscerci, interrogarci, apprezzarci, valutarci, stimolarci, premiarci, per superare le frasi fatte e continuare il cammino dentro noi stessi e nel mondo, lontani dalla frustrazione delle aspettative immotivate e della carente autostima, ben protetti dai colpi della vita, dai falsi miti e dai modi di dire avulsi dal contesto e dalla logica.

Sii te stesso, è lo stato attuale. Rappresenta ciò che sei qui e ora, dice molto di ieri e di oggi, ma ben poco (se non proprio nulla) di cosa potenzialmente tu potrai fare, diventare ed essere domani. 

Conoscere se stessi, nell’intimo più profondo, è la sfida più entusiasmante, quella che ci porta allo stato desiderato, che porta all’eccellenza (o, per lo meno, da quelle parti) con cognizione di causa.

Nel primo caso sarà una mera accettazione dello status quo, a vincolarci e a permetterci di essere solo in un certo modo, nel rifiuto più totale di crescere e di progredire, chiusi al cambiamento e alle novità. Nel secondo caso, avremo un punto di partenza, un campo base dal quale muovere la nostra scalata verso un Io migliore, evoluto, progredito, dalla mente aperta sempre alla ricerca, pronto a diventare davvero ciò che, da sempre, sognava di essere.

D’altra parte, non si fanno mille e mille corsi di formazione, che siano tecnici o di crescita personale, per rimaner se stessi, ma per conoscersi e imparare a migliorarsi, tirando fuori da noi stessi, con intelligenza e applicazione, la nostra versione migliore. In attesa di scoprire la prossima versione, quella ancora migliore!

Sii te stesso e la tua vita sarà pregna di frustrazione. Conosci te stesso e la tua intera esistenza ti ringrazierà!


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.

Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




“Qualcuno aveva fatto qualcosa” – 11 settembre 2001.

David D’Amore_China su carta

di Andrea Avolio_

11 settembre 2001.

Erano le tre del pomeriggio mentre mi si allentava la mandibola guardando alla TV quella che sembrava la versione alla Blair Witch Project di un film di Michael Bay.

Un grosso buco, da cui usciva fumo nero, piazzato poco sotto la cima di una delle Torri Gemelle, quella con l’antenna. 

“Un incidente?” – pensai-.

A smentirmi arrivò un aereo da fuori l’inquadratura. Dritto, orizzontale. Si schianta. Forte. Veloce. Esplode. Un buco di fuoco sull’altra Torre, quella senza antenna.

Non era un incidente. E non era neppure un mockumentary. Era reale. Stava succedendo adesso.

Trascorsi il resto della giornata incollato alla televisione. Vidi gli incendi divampare, le persone ridotte a puntini neri lanciarsi dalle Torri, nel pomeriggio le Torri collassarono inesorabili e precise, come nei filmati dei crolli controllati.

Vidi i pompieri, la polizia, il groviglio di travi di acciaio, detriti di calcestruzzo, la polvere sbiancava i volti in preda al panico, i cavi elettrici come arterie recise. In serata, altrettanto inesorabile, crollò anche il Building WTC 5.

Andai a dormire tardi, mentre i cronisti mostravano frammenti di discorsi di George W. Bush, ci spiegavano che si era trattato di un attentato terroristico ad opera di Al-Qaida, ennesimo gruppo terroristico islamico dal nome a me incomprensibile, di stanza in Afghanistan. Avevo 20 anni all’epoca, a stento sapevo dove si trovasse l’Afghanistan, sapevo solo che era una delle ex-repubbliche socialiste sovietiche e che il nome Al-Qaida mi suonava incomprensibilmente uguale a quello di tutti gli altri innumerevoli gruppi di fanatici religiosi medio-orientali, Fatah, Hamas, Hezbollah, chi vattelapesca sciita e chi come-si-chiama sunnita. Cinquanta sfumature di odio.

Andai a dormire dopo aver assistito agli effetti fisici del potere della religione, ormai storia antica in Occidente, che tornavano a farsi sentire dopo oltre duecento anni dall’Illuminismo.

Da allora sono passati 20 anni; nel frattempo, oltre a imparare dove si trova l’Afghanistan, ho imparato anche che le religioni monoteiste, le tre cosiddette “del libro”, nascono essenzialmente per normare e regolamentare comunità eterogenee e distribuite su vasti territori, attraverso l’utilizzo di una narrazione suggestiva. Nel caso dell’ebraismo la legge religiosa serviva a conservare, e tenere insieme dal punto di vista delle tradizioni e prassi, una comunità frammentata e sparsa per tutto il mondo conosciuto, la cui priorità era il mutuo e vicendevole soccorso in territori perennemente stranieri. Nel caso del cristianesimo, e del cattolicesimo soprattutto, la legge religiosa serviva alla diffusione del culto stesso, ovvero funzionale alla moltiplicazione del clero e alla sua accumulazione di ricchezza e consolidamento del potere, centrale e locale (lo stesso fenomeno che avviene nelle grandi aziende, solitamente quelle ad azionariato pubblico, quando si moltiplicano le scrivanie dei dirigenti). Nel caso dell’Islam, la legge religiosa era funzionale a supportare la conquista indiscriminata, essendo la cultura dei popoli medio-orientali per motivi di scarsità di risorse locali, votata al saccheggio e alla conquista di territori più prosperi (la stessa cosa la facevano i Vichinghi, altra cultura radicata in un territorio climaticamente ostile). 

Le società occidentali classiche, quelle greco-romane politeiste, erano di gran lunga più laiche di quanto noi siamo riusciti ad essere dal XVIII secolo in poi; a tenerle unite e renderle omogenee era solo la legge e non, come attuato dalle religioni cristiane e musulmane, la narrazione della legge. Basti pensare a quanto fosse inclusivo e rispettoso l’atteggiamento della Roma imperiale nei confronti delle culture locali delle proprie colonie, di certo molto più di quanto lo siano stati i Gesuiti in America latina nel XVI e XVII secolo, per non parlare invece dei Saraceni nel Mediterraneo ai tempi in cui noi ci godevamo il nostro Medio-Evo.

La religione monoteista nasce sostanzialmente per risolvere il problema di “omogeneizzare” usi e costumi di numerose ed eterogenee comunità, ciascuna con stratificazioni storico-culturali profondamente diverse, al fine di consolidare la gerarchia di potere. E per far bene questo lavoro devi disporre di tre cose: leggi chiare da imporre, una storia suggestiva con cui convincere e delle scuse con cui tacitare qualsiasi obiezione. Ovvero prassi, promesse e dogmi.

La solfa è sempre la stessa : la divinità è antropomorfa, il suo concept è creato dagli uomini a propria immagine e somiglianza e viene pertanto istintivamente accettato. In quanto antropomorfo predilige chi rispetta le leggi riportate nel testo di riferimento, riservandogli un posto speciale dopo la morte; per tutto ciò che non si riesce spiegare (anche compreso il perché dovrei accettare tutto ciò o perché me la passo così male nonostante faccia il bravo) la risposta è semplice: è la misteriosa volontà di dio (in altri termini “è così perché lo dico io”).

Questo risulta il modo più efficace di inculcare norme e comportamenti nelle menti degli uomini che, a causa della consapevolezza della propria finitezza, hanno terrore della morte, sono sollevati all’idea che se rigano dritto e fanno ciò che gli si dice avranno un posto in prima fila nel regno dei cieli (o nella janna, o nell’Eden) con gran gioia di chi così si garantisce decenni o secoli alle redini del potere (prelati, imam o altri santoni).

Peccato che un orafo tedesco di nome Gutenberg, verso la metà del 1400, abbia inventato la stampa a caratteri mobili e abbia così avviato lo scardinamento, almeno in Occidente, del primato culturale (in realtà meramente tipografico) della religione cattolica, rendendo possibile la divulgazione anche di testi differenti da quelli approvati dal consiglio vaticano.

Tuttavia l’uomo rimane essenzialmente lo stesso, nonostante la rivoluzione illuminista, l’affermarsi delle scienze empiriche, lo sviluppo commerciale, le scoperte geografiche, i prodigi della tecnica, egli non ha ancora sconfitto la paura di morire.

A partire dal XVIII secolo però il suo orizzonte di soddisfazione delle aspettative si è accorciato; mentre i suoi omologhi servi della gleba o uomini liberi di qualche secolo addietro riponevano tutte le aspettative nella vita oltre la morte, adesso le sue aspettative si sono imborghesite, e stavolta vuole godersela preferibilmente prima della sepoltura. 

In questo modo tutte le nuove idee liberali, filosofiche, scientifiche ed economiche tipiche del tardo illuminismo, vanno a riempire il vuoto lasciato dall’ormai demodé religione cattolica, assumendone così le stesse forme – prassi, promesse e dogmi- nelle forme dell’idealismo (soprattutto di stampo Hegeliano e Marxista).

Il più grande sforzo di laicizzazione della cultura Occidentale dai tempi dell’Impero Romano si risolve così nella nascita delle ideologie.

La solfa è sempre la stessa : il modello ideologico/politico/economico è antropomorfo, il suo concept è creato su misura dagli uomini che vi riversano le loro aspirazioni terrene, che verranno puntualmente soddisfatte qualora siano rispettate le condizioni di base del modello stesso. Qualora questo non accada, la colpa sarà dell’esecutore e giammai del modello, eventuali dissensi ed eterodossie prevedono la tacitazione forzata o il ludibrio pubblico o accademico.

Tutte le ideologie sono accomunate dalla promessa della realizzazione di una società perfetta, prospera e senza rischi, in pratica il vecchio Paradiso/Janna/Eden ora non è più ultraterreno ma realizzabile hic et nunc; dobbiamo solo essere tutti d’accordo e se non sarà proprio un paradiso daremo la colpa a qualcuno che non ci sembrava troppo convinto e ricominceremo con ancor più convinzione.

Dio, nella sua essenza, è solo il nome che diamo a quella casualità che domina buona parte delle nostre esistenze, offrendoci opportunità ed esponendoci a rischi; l’altra parte delle nostre esistenze, quella in cui cogliamo le opportunità o tentiamo di mitigare i rischi, si chiama libero arbitrio.

Secondo le ideologie novecentesche, dio (la casualità) è superato dal modello ideologico stesso (che si fonda su una promessa realizzabile, ovvero predittivo, dall’esito certo), a patto che ciascuno aderisca ai pre-requisiti del modello stesso, ovvero che lo si accetti incondizionatamente, ovvero che ciascuno rinunci al libero arbitrio.

Ne abbiamo visti parecchi di esempi del genere: anarchismo, socialismo, comunismo, fascismo, nazionalsocialismo. Cinquanta sfumature di invidia sociale.

Il perché sia i precetti religiosi quanto le costrizioni ideologiche facciano così rapida presa nelle menti umane, credo sia facile da spiegare.

L’uomo conserva sempre e comunque l’istinto di auto-conservazione animale e al contempo deve convivere con la consapevolezza della propria finitezza. Vuol dire che ha coscienza della impredicibile casualità che domina la sua vita e, mediamente, è maggiormente terrorizzato dai rischi a cui potrebbe essere esposto di quanto non sia ingolosito dalle opportunità che gli si possono presentare. 

L’osservanza dei precetti religiosi lo illude di garantirsi una vita prospera nell’aldilà mentre le rinunce imposte dall’ideologia lo illudono di garantirsi una vita sicura nell’aldiqua. Con grande gioia di tutti i ministri di fede, imam, commissari, segretari di partito, gerarchi, duci e ducetti che di volta in volta tengono le redini della gerarchia.

La tradizione cristiana, con il libero arbitrio, ha consentito all’occidente di potersi emancipare dalla religione stessa, pur sostituendola successivamente con le ideologie; ci sono voluti circa quattro o cinque secoli per emancipare parzialmente l’occidente dalle credenze e ancora oggi c’è tanto da fare sul piano della laicizzazione istituzionale, sia religiosa che ideologica.

La tradizione islamica, che in luogo del libero arbitrio prevede la sottomissione, invece incorpora in un unico colpo sia la religione che l’ideologia e pertanto è, sostanzialmente, ferma al palo uguale a sé stessa da parecchi secoli.

Nel caso dell’occidente a trazione cristiana, il processo di emancipazione dalle credenze è agevolato dall’alfabetizzazione diffusa.

Nel caso dei paesi a trazione musulmana, vista l’impossibilità di sostituire le credenze con le ideologie in quanto queste ultime già incorporate nella legge religiosa e, soprattutto tenuto conto dell’elevato tasso di analfabetismo, è praticamente impossibile pensare di poter emancipare una roba del genere nell’arco di un ventennio (ma neppure nell’arco di mezzo millennio).

Quel giorno, l’11 settembre 2001, ho quindi assistito allo scontro – fisico – di due retaggi storici molto diversi e, allo stato dell’arte, totalmente inconciliabili tra loro.

Simbolicamente sembravano la classica forza inarrestabile che si scaglia contro il classico oggetto inamovibile, solo che qui non siamo nel mondo dei simboli e lo scontro si è risolto con esplosioni, crolli e tanti morti.

Il giorno dopo il crollo delle Torri Gemelli, la narrazione era già abbondantemente all’opera.

George W. Bush parlava di guerra al terrore, “Non dimenticheremo”, il volto di Osama Bin-Laden, il ricercato numero uno, era su tutti i canali, ad una prima occhiata del tutto identico al classico arabo con barba e turbante uscito da un’edizione illustrata delle Mille e Una Notte, ma senza tappeto volante.

Quella stessa notte, scoprì più tardi, non ero stato l’unico a dormire poco.

Oriana Fallaci aveva scritto di getto “La Rabbia e l’Orgoglio” mettendo in parole il pensiero (e soprattutto il sentimento) di molti di fronte all’accaduto; J.M. Straczynski in quella stessa notte aveva buttato giù la sceneggiatura del n. 36 di Amazing Spider-Man, infondendo negli eroi superumani lo stesso shock, il senso di impotenza, il dolore, che molti semplici umani su entrambe le sponde dell’Atlantico stavano provando. 

Potere della narrazione polimorfa. Quella cosa che ha preso il posto, nell’immaginario collettivo occidentale, dell’ideologia.

In Occidente la fine della Seconda Guerra Mondiale aveva, in via ufficiosa, decretato il declino delle ideologie, almeno del fascismo e del nazismo. Per il comunismo ci vorrà qualche decennio in più, del resto l’Unione Sovietica era tra i vincitori, quindi alcuni orfani ideologici avevano ancora un modello di società perfetta cui aspirare salvo poi scoprire, dopo la caduta del muro di Berlino, che quella società perfetta era costata circa 15 milioni di morti e non era riuscita neppure ad inventare gli assorbenti igienici per le donne.

Nei fatti a decretare il declino delle ideologie fu in realtà la diffusione della televisione.

Non dimentichiamo che l’ideologia aveva solo sostituito nell’immaginario collettivo il ruolo che fino all’Illuminismo ricopriva la narrazione religiosa.

Per colmare quel vuoto, per saziare la fame umana di credere in qualcosa, occorreva qualcosa di nuovo, una narrazione che ancora una volta veicolasse regole e portasse promesse, ma stavolta senza commettere l’errore del dogmatismo.

Quindi occorreva non una sola narrazione centralizzata, ma tante narrazioni apparentemente diversificate.

In questo modo la pluralità delle narrazioni avrebbe consentito di eludere l’imbarazzo del non-spiegabile senza più ricorrere al dogma, bensì rimandando ad un’altra narrazione, complementare o antitetica.

In pratica, a partire dagli anni ’50, è stato liberalizzato il mercato delle narrazioni e, di conseguenza, si è aperta a tutti la possibilità di scalare, in maniera stavolta non cruenta, la gerarchia di potere, rendendo così la capacità economica equipollente al potere costituito. 

Le prime narrazioni sono state quelle veicolate da chi ereditava il potere politico, da Hollywood a Cinecittà, dalla narrazione anti-comunista a quella anti-fascista, l’importante era stabilire il primato culturale dello status quo vigente, stigmatizzando i demeriti altrui e romanzando i meriti propri.

In quegli anni gli italiani, che in meno di due secoli erano passati dal predominio culturale religioso cattolico a quello fascista (con intermezzi liberali di cui molti ancora oggi faticano a ricordare figuriamoci a coglierne il significato), ora guardavano golosamente Lascia o Raddoppia, sperando di parteciparvi per rimpinguare le proprie finanze (aggirando così la fatica dell’ascensore sociale), acquistavano i vinili dei cantanti di Sanremo, facevano la fila al cinema per vedere i film americani e acquistavano gli abiti dei divi, si indebitavano per acquistare la 500 o una casa di nuova costruzione.

Il potere era liberalizzato. I potenti e gli aspiranti potenti avevano trovato il modo più efficace per consolidare le loro posizioni, non più con l’imposizione fideistica né con quella ideologica, non con violenza e prevaricazione ma offrendo a tutti un catalogo vastissimo di favole a cui credere; invece di dilapidare finanze nazionali per imporre la propria visione, oggi si vedevano invece remunerati per le narrazioni che andavano propinando. 

La narrazione mainstream è così divenuta la cifra culturale dell’Occidente post-bellico, un capolavoro di pluralismo che, in mezzo a tanto materiale di terz’ordine, ha generato tuttavia numerosissimi esempi di rilievo ma che, sostanzialmente, ha distrutto il tetragono paradigma della fissità culturale che aveva caratterizzato i secoli precedenti.

La diffusione di internet e dei social network, a partire dall’anno 2000, ha ulteriormente liberalizzato il mercato delle narrazioni, scardinando il primato di televisione e cinema, rendendolo democraticamente accessibile a chiunque abbia qualcosa da dire, indipendentemente se trattasi di balle belle e buone o di analisi approfondite e circostanziate.

La narrazione mainstream, compresa anche quella della contro-cultura degli anni ’70 che di fatto era talmente diffusa da essere mainstream esattamente come la televisione pubblica, fino agli anni ’90 aveva sempre un azionariato di supporto di cui si limitava ad essere espressione propagandistica.

L’avvento di internet ha invece ribaltato i ruoli creando uno spazio, quello della narrazione polimorfa, dove andare a pescare idee da cooptare.

Quindi, invece di proporre al pubblico narrazioni da acquistare, faticose da confezionare secondo i dettami dell’azionariato di supporto e ancor più faticose da rendere appetibili per il pubblico, perché non andare a raccontare al pubblico direttamente quello che vogliono sentirsi dire, visto che ce lo scrivono loro stessi?

Geniale. 

Perché invece di spremerci le meningi per azzeccare ciò che vuole che piace al pubblico e vuole l’azionariato, non pescare ad arte tra quelle idee compatibili, già pronte, che sembrano più popolari per poi rivenderle a tutti?

Dal 2010 in poi è stato infatti possibile, a patto di disporre di un po’ di soldini, dire all’azionariato di potere esistente cosa piaceva al pubblico, che a sua volta poteva efficacemente dire al pubblico cosa doveva piacergli.

Una manna per gli aspiranti gruppi di pressione emergenti: chiunque può oggi mettere in circolo una balla qualsiasi, con un investimento minimo guadagnarsi qualche migliaia (o milione) di visualizzazioni, per poi farsi cooptare il contenuto da un esponente di potere (mediatico o istituzionale) che a sua volta lo renderà narrazione ufficiale, senza tener conto che magari si trattava di una panzana colossale.

La solfa è sempre la stessa: questo racconto è corretto e fondato perché soddisfa il tuo bias di conferma (invece di promesse io ti offro certezze, cioè quelle che già possiedi ), unica regola per poter rimanere nel nostro circolo di illuminati è contrastare con ogni mezzo a tua disposizione qualunque parere differente (invece di regole a cui sottostare io ti offro un popolare ruolo di araldo della verità, ti faccio direttamente prelato), in caso di dubbi o di domande aspetta il sequel, o il prossimo post, dove troverai altre “verità e indizi” per saziare il tuo bias di conferma (invece di dogmi io ti offro un fantastico piano di fidelizzazione, una forma di dipendenza culturale).

Ora, tenuto conto che il grosso della gente smette di avere dubbi e di imparare cose nuove tra i 25 e i 30 anni, e che da quel momento trascorrerà il resto della sua vita alla forsennata ricerca delle mitiche parole “Hai ragione!” immaginiamoci gli effetti devastanti che la narrazione polimorfa può avere nei confronti di masse di persone che votano, che lavorano, che consumano e che interagiscono mutuamente fra loro.

E che, nonostante la proliferazione delle fonti scritte, s dimostrano sempre più pigri e refrattari a leggere più di due frasi subordinate.  

La Babele polimorfa di internet, in cui è possibile sentire sedicenti esperti di economia che parlano di corbellerie euro-scettiche, milioni di utenti che condividono il negazionismo anti-semita, migliaia di persone che organizzano convegni per mostrare le evidenze a sostegno della teoria della terra piatta, esponenti politici convinti che ai vertici bancari vi siano i Rettiliani.

Tutte narrazioni che fanno leva sul bisogno innato dell’essere umano di credere in qualcosa; tutte narrazioni che, per la loro essenza di latrici di “verità fideistiche” sono intrinsecamente divisive.

Una volta ero convinto che il laicismo avesse un valore intrinseco.

Ritenevo che l’emancipazione dalle credenze religiose nell’ambito delle decisioni, soprattutto quelle che hanno impatto fuori dalla propria sfera individuale, fosse un presupposto necessario per qualunque forma di progresso.

Evidentemente mi sbagliavo.

Perché il laicismo collettivo che auspicavo presupponeva a sua volta una generale presa di coscienza, una cultura, una preparazione e un criticismo che la maggior parte delle persone semplicemente non ha.

In assenza di questi pre-requisiti, il tramonto della religione (un tempo oppio dei popoli) ha solo generato un vuoto enorme nelle menti delle masse.

L’alluvione di informazioni che ci travolge da oltre 50 anni ha poi riempito nelle menti di massa quel vuoto lasciato dalla scomparsa della religione, che è stata via via sostituita dell’ideologia politica, dall’ortodossia lealista-istituzionale, dal complottismo, dalle bagatelle mediatiche.

Per ritrovarci oggi a vivere in un mondo composto da masse di estremisti assortiti, con a disposizione un catalogo sconfinato di argomenti (più o meno futili) su cui prendere bellicosamente posizioni antitetiche. Alla faccia della maieutica Socratica o della certezza dialettica Hegeliana.

Per farvi capire quanto sia forte il potere della narrazione, provate oggi a ribadire in pubblico un fatto reale, supportato da dati concreti come questo: l’Italia e la Spagna sono i Paesi Europei con il minor numero di “femminicidi”, sia in valore assoluto che come percentuale della popolazione.

In Italia la media dei “femminicidi” si attesta in un intorno dei 40 casi annui, peraltro con tendenza in calo (fonte Report 2019 dei Carabinieri sulla violenza di genere, https://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/violenza-su-donne-Report-Carabinieri-uccisioni-in-calo-nel-2019-69f4ed1a-41c9-418e-9270-a7cdffdf1702.html) e, da un confronto effettuato, il nostro paese risulta detenere un primato, una volta tanto positivo, per minor numero di caso rispetto al resto della UE (https://www.agi.it/fact-checking/femminicidi_dati_italia-6157007/news/2019-09-10/).

Eppure, se ci si azzarda a profferire una simile affermazione, ci si espone al linciaggio pubblico.

Questo avviene perché, in oltre un decennio, sono tantissime le aziende operanti nel cosiddetto terzo settore che hanno trovato ampi spazi di crescita e remunerazione proprio veicolando una narrazione che prevede di classificare il fenomeno come strage. 

Queste aziende, negli ultimi 15 anni, sono cresciute creando posti di lavoro, effettuando investimenti e generando un volume di affari notevole (basti pensare che nel mio comune, di poco più di 100.000 abitanti, l’Accordo Quadro triennale stipulato nel 2016 con una di queste ONLUS prevedeva una remunerazione di circa € 100.000 annui a fronte del servizio d counseling psicologico e del gazebo Codice Rosa da installare presso l’Ospedale), un tale giro economico ha bisogno di essere continuamente alimentato pena la sua palese insostenibilità, attraverso la pressione politica e la veicolazione della narrazione stragista.

Basti pensare che un fenomeno statisticamente ben più rilevante, quello delle morti sul lavoro che si aggirano nell’ordine delle 1.000 unità annue, non gode di alcuna popolarità nell’immaginario collettivo poiché narrativamente poco veicolato, in quanto la sua narrazione non è cooptata da nessun azionariato di riferimento operante sul mercato, essendo la problematica appannaggio dei sindacati (che non operano in regime di libero mercato e che comunque non sarebbero capaci di agire di conseguenza) ed è chiaramente in conflitto con interessi economici dal maggior peso specifico che sono tranquillamente in grado di tacitare, o di far ignorare ai media mainstream, la narrazione stragista.

Il potere democraticamente eletto non può prescindere dagli effetti di massa della caotica narrazione polimorfa, ciò vuol dire che quella tecnica nata proprio per legiferare e consolidare la gerarchia di potere (la narrazione) nella sua attuale forma polimorfa è in grado di modellare l’indirizzo del potere poiché, essendo più rapida della narrazione mainstream, riesce a scovare nuove nicchie di malcontento laddove nessuno dei narratori mainstream aveva pensato di guardare.

Così accade che le deliranti cazzate scritte a ruota libera contro il signoraggio bancario diventino elementi di campagna elettorale, gli sfoghi complottisti per spiegarsi come mai non si è diventati ricchi come promesso dalla pubblicità diventano agenda di partito (o di “movimento” che suona meno elitario), inneggi al duce che “ha fatto tante cose buone e faceva andare i treni puntuali” (i treni all’epoca erano semplicemente molti di meno), fino ad arrivare ai pareri pseudo-scientifici dei no-vax che spesso non riescono neanche a mettere in ordine decrescente le percentuali di rischio.

La narrazione religiosa offriva una vita prospera nell’aldilà, la narrazione ideologica offriva una vita sicura nell’aldiqua, la narrazione polimorfa offre un po’ di popolarità e uno sfogo immediato dei propri rigurgiti oggi stesso.

L’uomo, nel suo intrinseco bisogno di credere in qualcosa, ha drasticamente ridimensionato le sue aspettative, passando dalla beatitudine eterna ad un pugno di like.

La narrazione mainstream degli Stati Uniti, per cercare di accaparrarsi nicchie di consenso, ha via via rimodulato la sua reazione agli attentati dell’11 Settembre, passando dal proclama di vendetta “Non dimenticheremo” alla più hollywoodiana “Guerra al terrore”, per poi trasformarla (quando i consensi repubblicani hanno cominciato a scemare) nella ben più nobile e sofisticata “Esportazione di democrazia”. Facendole fare poi un rassicurante salto tecnologico col cambio di presidenza, in cui Obama, eroe del popolo, non volendo mollare il medio-Oriente (evidentemente la Clinton e Kerry hanno ancora molti affari in sospeso da quelle parti, tra smercio di uranio impoverito ed emancipazione dell’Iran dai combustibili fossili in chiave nucleare) iniziò ad utilizzare intensivamente i droni nella regione: per il pubblico si trattava di un videogioco in fondo, in cui nessun militare americano rischiava la pelle. Infine con Trump, che oggi sembra un seppur esecrabile esempio di coerenza, ci si decide ad iniziare il tanto atteso disimpegno militare NATO dell’Afghanistan, da attuarsi secondo una road-map che prevedeva il raggiungimento di precisi obiettivi di stabilità (politica ma soprattutto militare) da parte del paese prima di ritenerlo sufficientemente e democraticamente autonomo.

Tuttavia, nei 20 anni di narrazioni presidenziali, la narrazione polimorfa, con il suo portato di manichee divisioni e di violente polarizzazioni antitetiche, ha colpito ben più profondamente delle conferenze stampa dalla Casa Bianca.

Lo slogan politico statunitense post 11 settembre è passato dall’essere un atto che “Non dimenticheremo mai” ad una situazione in cui semplicemente “qualcuno aveva fatto qualcosa” (Ilhan Omar, membro Democratico della Congresso USA, 23 marzo 2019).

L’esportazione della democrazia, la guerra al terrore, il primato dei valori moderni liberali, l’ascensore sociale a trazione capitalista, la conciliazione di libertà e sicurezza, tutto cancellato, rimangiato, abiurato pur di rosicchiare nuove nicchie di consenso, pescando dal mare del malcontento polimorfo in vista delle presidenziali 2020.

Infine, pur di cancellare al più presto gli effetti delle scelte presidenziali precedenti (tra cui c’erano anche quelle di Obama), il neo-eletto presidente Joe Biden offre lo spettacolo di un’America cento volte più inesistente sul piano internazionale di quella di Trump : disimpegna le truppe di stanza in Afghanistan con una ritirata rapida e raffazzonata, nessuna road-map, nessuna milestone, nessun obiettivo di stabilità. Fuori, via, tutti, subito, tranquilli lasciate dietro basi, armamenti, tanto i nostri fratelli afghani sono ormai al sicuro, ci lasciamo dietro uno stato laico, stabile e democraticamente determinato.

Ai talebani, che nel frattempo se ne stavano rintanati nelle loro caverne e di sicuro avevano parecchie entrature nel governo democraticamente eletto di Ashraf Ghani, sono bastati quattro giorni per riprendersi quello che la missione NATO aveva faticosamente e dolorosamente costruito in 20 anni.

A suggellare il tutto, i discorsi di Biden all’indomani della conquista talebana di Kabul sembrava un’imitazione anacronistica dei discorsi di George W. Bush, la narrazione ufficiale ha cortocircuitato dopo aver tentato di inseguire la narrazione polimorfica per 20 anni, ritrovandosi ad usare le stesse parole e le stesse “giustificazioni” di quando era cominciata l’occupazione NATO e da cui i Democratici avevano promesso di prendere le distanze. O più probabilmente, il discorso gli è stato scritto da un social media manager che, come la maggior parte delle persone, non ha memoria storica. 

Di sicuro la democrazia non si esporta, di sicuro non si crea un aspirante ingegnere se si regala un Lego Technics ad un bambino di 3 anni che sa solo scavare la sabbia con pala e secchiello.

È simbolico che di fronte al più preoccupante evento internazionale di quest’anno, dalle nostre parti la Babele pubblica discuta animatamente di altrettanti, ben più futili, estremismi.

Tipo gli estremisti no-vax che danno addosso agli ortodossi del vaccino (e viceversa, spesso da entrambi gli schieramenti non si sanno mettere in ordine decrescente le percentuali di rischio).

I crociati della libertà che danno addosso ai lealisti del Green Pass (e viceversa, spesso da entrambi gli schieramenti nessuno ha mai letto Tocqueville, Locke e neppure il nostrano Einaudi).

Gli antifascisti che danno addosso ai fascisti (e viceversa, spesso da entrambi gli schieramenti nessuno saprebbe individuare neppure le date o i presupposti storici dei fenomeni).

Oppure le femministe integraliste che danno addosso agli storicisti patriarcali (qui invece nessun viceversa, pena il linciaggio pubblico, o secondo alcuni la carcerazione preventiva).

Il laicismo da solo non basta a garantire il progresso, ci vuole molto altro, ci vogliono anni di curiosità e preparazione.

La maggior parte di noi evidentemente ha ancora solo bisogno di credere strenuamente in una puerile favola che li veda sempre rigorosamente nella parte del buono (noi) in lotta contro il cattivo (loro).

Una volta per schierarsi dalla parte dei “buoni” bastava un sacramento, o una conversione o un diritto di nascita.

Oggi, per schierarsi fieramente dalla parte dei “buoni” e imbracciare le armi contro i “cattivi”, basta leggere qualche post su internet.

In un simile contesto, è facile capire perché gruppi estremisti religiosi abbiano ancora così tanta presa in molte aree del pianeta, perché i loro valori integralisti sono, in realtà, ancora in larga parte condivisi dalla popolazione in virtù di secoli di stratificazione “culturale” a senso unico. Il loro oscurantismo è tetragono, solido, si fonda sull’ignoranza e sulla fame di credenze, non accetta compromessi e grazie all’analfabetismo diffuso è graniticamente autoreferenziale.

D’altro canto, è altrettanto facile capire che il combinato disposto di pluralismo indiscriminato unito alla becera democratizzazione della narrazione, in assenza di meccanismi individuali di salvaguardia intellettuale, ci rende estremamente vulnerabili e a perenne rischio di radicalizzazione su qualunque questione, anche le più puerili.

A noi occidentali sono state regalate le barchette con cui navigare il mare della narrazione polimorfa ma, purtroppo, la maggior parte naufraga perché le bussole per orientarsi nella navigazione restano a pagamento, costano impegno e preparazione.

I talebani trovano più efficace negare direttamente che il mare esista, che l’unico orizzonte culturale possibile sia quello, ben più circoscritto e controllabile, di una caverna afghana.


Andrea Avolio è un millennial DOC. Nato nel 1981, è cresciuto negli anni ’90 illudendosi che il futuro apparteneva alla sua generazione e che tutti si sarebbero arricchiti (compreso lui). Si è laureato nel 2006 in Ingegneria Elettronica e ha iniziato a lavorare in contemporanea con la peggiore crisi economica degli ultimi 80 anni. Attualmente rientra a pieno titolo nelle statistiche sulla sua generazione perché, a dispetto della sua ininterrotta stabilità lavorativa, non dispone di alcuna liquidità finanziaria. La cosa non lo turba minimamente perché la sua vera aspirazione è diventare un eclettico (termine obsoleto, oggi si dice tuttologo) ed è a buon punto perché ha già raggiunto il livello di qualunquista finemente edotto. E’ un supernerd, colleziona comics, ama i blockbuster e il buon cinema, adora la musica prog (in tutte le sue declinazioni) ma nell’intimità ascolta il metal, legge libri che solitamente vendono poco, è un estimatore di vini, distillati e abiti stilosi (soprattutto scarpe e pochettes), unico sport praticato è la contemplazione a livello agonistico, è un liberale convinto, è sufficientemente curioso da riuscire ad imparare cose nuove anche dopo i 30 anni e pare addirittura che riesca a convincere parecchie persone circa le sue competenze in ambito filosofico, economico, politico ed esoterico, ritiene che il lavoro specializzato sia sopravvalutato, è aconfessionale, detesta la gente perché preferisce gli individui, parla fluentemente inglese, sa cucinare, pulire la casa e possiede la patente B. 

Come tutte queste cose possano coesistere senza aver mai subìto un TSO resta un mistero.




Angeli e Alchimia.

“Un libro ben scelto ti salva da qualsiasi cosa.

Persino da te stesso”

Copertina Alessandra Carriere
Rubrica a cura di Sara Balzotti_

Angeli e Alchimia – Barbara De Maestri

Casa Editrice: Independently Published

Anno di pubblicazione: 2019


Ho avuto la fortuna di conoscere Barbara De Maestri tramite Instagram ed è stata sintonia a “prima vista”. Barbara è empatica e va oltre lo strato superficiale della quotidianità.

Da cosa sono regolamentati i nostri comportamenti e i nostri pensieri? 

Che cosa c’è dietro quello che noi crediamo essere la realtà?

“Angeli e alchimia” è un viaggio nel mondo dell’alchimia con alcuni spunti di esoterismo e fantasy.

Ancora oggi i misteri della pietra filosofale affascinano gli appassionati in materia ma chissà che non si tratti solo di qualcosa di intangibile e che quello che rappresenta non sia qualcosa di diverso.. con uno studio approfondito di noi stessi e delle leggi della natura tutti noi potremmo ottenerla?

Estelle, Marcus, Dylan, Samuel e Lucas sono compagni di classe e ognuno di essi sembra avere qualcosa di speciale. Il prof. Hopp ne sembra convinto.. quali misteri e quali progetti ha in serbo per i giovani ragazzi?

La coscienza collettiva e le sorti dell’umanità sembrerebbero a rischio a causa di un personaggio oscuro e ambiguo arrivato in città, Milano (dove inizia la storia è dov’è in parte ambientata).

In modo misterioso i cinque compagni di avventura vengono portati a Mont Saint-Michel, luogo cruciale alchemico dove gli eventi si svilupperanno a ritmo sempre più serrato e quando tutto sembra essere arrivato a conclusione, il lettore viene lasciato a bocca aperta!

La storia personale dei cinque protagonisti e i loro rapporti familiari impattano profondamente sulla qualità delle loro vite e forse per loro è arrivato il momento di fare i conti con se stessi. 

“Angeli e Alchimia” è anche lo spunto di riflessione sull’amore eterno e sul reale rapporto delle anime delle persone: namasté!

La scrittura di Barbara è ricca di amore.

La ringrazio per il regalo che ha fatto a noi lettori con questo libro, ricco di emozioni, suspense e spunti di riflessione importanti!

Copertina Alessandra Carriere

Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!

A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.

https://www.francesia.it/freetime/consigli-di-lettura/




La nostra storia.

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di Luca Bottari_

Il vagone della Metro A, direzione Battistini, singhiozza e procede. Il passo insicuro nel suo incedere borbottante è costante, somiglia alla storia dei suoi passeggeri. Scriviamo le nostre storie ordinarie o magnifiche bucando le città con un vagone metro o attraversandole a piedi, con il muso sfatto per la pioggia di problemi che ci casca ogni giorno in testa e con gli occhi rivolti in preghiera verso lo stato Vaticano. Salvo strappi benevoli del destino ci ricorderanno al massimo i nostri nipoti. Dopo di loro l‘obliò, molti di noi non saranno mai esistiti e di conseguenze nemmeno estinti.

I ragazzi nei vagoni brontolano, sbuffano, si allungano in pachidermiche mosse di stretching nonostante la loro evidente smagliante forma fisica. Non provano a costruire la loro storia. Se non ritengono di essere in grado di incastrare quei mattoncini uno sopra l’altro si potrebbero spendere per vivere grazie al potere dell’immaginazione nella storia di qualche eroe da romanzo storico. Non intercetteranno mai in cloud il mio auspicio anche se sono costantemente connessi.

La comunicazione silenziosa ed efficace dei loro e dei nostri telefoni ha quasi soppresso il volo d‘immaginazione che ci regalava la pagina stampata. La nostra storia di vita a metà tragitto, a metà romanzo, era meno scontata perché si confondeva con il protagonista di vicende lontane che ci rendevano più leggeri ed allo stesso tempo più cupi. Il vero volo low cost era quello che intraprendevamo grazie ai nostri occhi che correvano pagina dopo pagina, ora umidi di malinconia e rabbia, ora impiastricciati di desiderio erotico. Il libro era il viatico per spaziare in terre lontane a costo zero, era il lenzuolo di Snoopy con cui consolarsi dopo le note severe di un professore severo, era un grumo di farina per impastare il pane della conoscenza.

Noi tutti peniamo, sudiamo, speriamo e ci inginocchiamo al cospetto della durezza della vita ma oggi le armi in pugno sono smussate in punta, perché un cellulare non sarà mai la spada nella roccia per nessuno di questi ragazzi. Non è facile incrociare lo sguardo di un giovane uomo attento solo a quel mondo in quella scatoletta paradossalmente perfetta.

Senza guardarci non ci riconosceremo più.


Luca Bottari.

Ho avuto la fortuna di viaggiare con mia madre hostess per non stupirmi ogni volta di come siamo tutti cittadini di un mondo diverso,disunito,ma con i stessi connotati. Conoscere lingue diverse e poter scegliere di studiare il cinema e le arti senza seguire un percorso di studi tradizionale (forse piu’utile ai fini pratici) mi ha portato verso la scrittura con naturalezza e coscienza.Vincere premi letterari non mi ha legittimato a scrivere ma mi ha fatto capire che non solo il solo a sognare.Ho collaborato con diverse riviste letterarie e di cinema per dire in piccolissima parte la mia. Ho lavorato nel hotel management e vissuto a New York per respirare un aria internazionale ma amo al contempo anche le dimensioni locali ridotte dei paesini italiani.




Se lo conosci, non uccide!

Giulia Gellini_ Grido_ 70 x 50 cm _Tecnica mista.

di Christian Lezzi_

Che strano suono, per nulla rilassante, veicola con sé la parola “parossismo”. Anche se non la conosci, se non sai cosa realmente significhi, la percepisci a pelle come qualcosa di pericoloso, di ostico e spinoso, da cui tenersi alla larga, da evitare, che può farti del male.

E, in effetti, nell’eccesso, non v’è mai qualcosa di buono. Perché di eccesso si tratta, di criticità esplosiva, quando parliamo di parossismo in campo medico, geologico, chimico o comportamentale.

Etimologicamente significa irritazione estrema, esasperazione, fase acuta, sopraggiunto acme di uno stato morboso, accompagnato dall’inevitabile esacerbarsi dei sintomi e delle conseguenze da essi veicolate. Da qui alla medicina, il passo è breve, verticale nella sua immediatezza. In campo geologico, in modo altrettanto esplicativo, è legato ai terremoti o alle esplosioni violente di lava, lapilli, ceneri e detriti, che caratterizzano la fase più potente e distruttiva di molte eruzioni vulcaniche. 

Allo stesso modo, anche in chimica, indica la fase più rischiosa e instabile, potenzialmente esplosiva (appunto) di una reazione.

Notiamo quindi che, la costante linguistica, è sempre quella deleteria dell’instabilità e dell’inasprimento, che porta all’estremo delle cose, alla fragorosa esplosione, a qualcosa che, una volta rotto, non è più possibile riparare, se non in rari, rarissimi casi e a costi troppo spesso insostenibili, perché lascia segni e cicatrici, crepe e sbeccature, peggiori del danno stesso e mai più rimarginabili.

Ma, è nel campo comportamentale che, il parossismo, raggiunge vette di distruttività raramente immaginabili altrove. Molto più di un terremoto, di un’esplosione, di un’eruzione vulcanica. Molto di più, trasformando le persone in macerie, materiali di risulta umana a cui è stata strappata via, con forza, la dignità.

Immagina una lite. I protagonisti sono quelli che la tua fantasia vorrà posizionare nella scena. Moglie e marito, genitori e figli, fidanzati, colleghi, amici, poco importa. Ci interessa il meccanismo crescente dell’asprezza che caratterizza lo scontro, quella china ripida e scivolosa che porta al punto di non ritorno.

Perché giunti al parossismo e lasciatogli il comando, si spegne la ragione e da lì è difficile fare marcia indietro.

Il parossismo, in una lite, comporta un agìto di sola pancia, di puro istinto non filtrato, di emozioni deleterie caratterizzate dall’irruenza non mediata, che puntano solo a colpire, come e peggio di un pugno, solo per fare male, per far sanguinare, per zittire l’interlocutore che, giunto al ruolo di antagonista, viene reso nemico mortale dall’esplosione parossistica. 

Come lupi in un branco, pronti a uccidere per difendere il territorio e il proprio ruolo di soggetti dominanti.

È in quel momento che, accecato dalla presunzione di ragione assoluta, allucinato dal bisogno egoistico di annichilire l’altro, intossicato dalle reazioni neurochimiche in corso, inizi a vomitargli addosso parole che, in condizioni normali, non diresti al tuo peggior nemico, ma che il meccanismo innescato, proprio come una esplosione vulcanica, rende incontenibili, ingestibili, incensurabili.

E di male ne facciamo tanto, soprattutto alle persone che amiamo, annebbiati dallo scoppio emotivo che tutto rende indistinto, lattiginoso, vischioso come il peggiore degli incubi, spaventoso come le nostre paure, irrazionale come la follia per la sopraggiunta incapacità d’intendere e ragionare, di volere bene e di rispettare.

Solo cattive informazioni e pessime prese di coscienza, quindi?

Non del tutto perché, anche nel più fetido letamaio (e la fase parossistica di una lite è puro sterco incapace di concimare) può nascere un fiore, una speranza, un momento di riscossa razionale che freni la lingua e c’imponga il ragionamento. La fase parossistica di una discussione, si può riconoscere fin dai suoi primi passi d’avvicinamento, nel momento esatto in cui sta per stravolgerci e renderci diversi da noi stessi, alieni a noi stessi, non più padroni delle nostre emozioni, irrispettosi della sensibilità dell’altro, desiderosi solo di annientarlo, assetati del suo sangue, affamati della sua dignità, da fare a pezzi e stracciare con la bava alla bocca, come un cane che ringhia e t’insegue, di notte, per farti a brandelli.

Inizia tutto dal respiro, che tende a farsi convulso, ansiogeno, annaspante, pur di star dietro alle pulsazioni cardiache accelerate anch’esse, riverberanti in gola, martellanti nella testa, che ci arrossano il viso, facendoci formicolare le mani, aumentando il volume della nostra voce e spegnendo, deleterio contraltare, la capacità di ascoltare, di comprendere, di analizzare le altrui ragioni, i suoi punti di vista, la contestualità delle sue istanze. 

Il suo perché!

Questa fase si può riconoscere e stoppare, imparando a conoscere noi stessi, proprio mentre si palesa, tirando un respiro profondo, restando zitti per un momento, facendo un plateale passo indietro e magari un gesto con le mani, come a temporeggiare e a prendere le distanze, non dall’altro ma dalla situazione. Perché, in questi casi, anche la teatralità è un’arma vincente, andando a contrastare l’altrettanto plateale esplosione d’ira, il fuoco incrociato in cui non ci sono amici ma solo nemici mortali.

Il parossismo è insito in tutti noi, è una tara comportamentale che fa parte del nostro meccanismo di combattimento o fuga, ma è qualcosa che, a questo punto dell’evoluzione, non ci serve più. E riconoscerlo si può, mentre è ancora alle porte, quando ancora non ci ha stravolti, umiliati, calpestati, per contrastarlo, scacciarlo, al fine unico di riconquistare il controllo e la cognizione che noi, tutti, siamo molto migliori del nostro bisogno, violento e animale, di sopraffare gli altri, per primeggiare come fiere allo stato brado, come belve irrazionali, a ogni costo.


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano. Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




ARTE e DESIGN nei “luoghi della memoria”

Foto ©Mario Barbieri

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Cimiteri – “dormitori” nell’etimologia dal greco: [koimeterion] luogo dove si va a dormire  – sono certamente anche “luoghi della memoria”, memoria per chi ritrova un caro estinto, un figlio, una moglie, una madre, ma anche memoria di un tempo terreno ormai andato, non solo per chi lì “riposa”, ma anche di un tempo storico e artistico ormai irrimediabilmente passato.

Lo sono in particolare i cosiddetti “cimiteri monumentali”, storici, talvolta enormi di altrettanto grandi città, dove ritrovare, ma anche ammirare, tombe che risalgono ai primi del ‘900, se non ad anni antecedenti.

Perché ammirare? Perché troviamo tombe e opere scultoree (arte funeraria) realizzate con rara maestria, per quello che al tempo era un vero e proprio mestiere che dava lavoro a molti “maestri” e “discepoli”, garzoni di bottega che lavoravano in veri e propri “atelier”.

Scultori del Cimitero del Verano | Scultori del Cimitero di Staglieno | Scultori della Certosa di Bologna)

Maestria di bozzetti, modelli e poi sculture, che purtroppo è andata perduta nel tempo, per un cambio di paradigma, di mentalità, della legge della domanda e dell’offerta, in un tempo il nostro, certamente molto standardizzato e appiattito anche nell’arte funeraria.

Un tempo quello andato, in cui per una famiglia generalmente benestante (questo va detto), era importante lasciare un segno imperituro della vita e delle opere del “caro estinto”.
Segno anche di uno “status sociale”, non scevro di una certa ostentazione. Lo si comprende non solo dalla sontuosità di certe tombe, ma anche dagli epitaffi, talvolta mini-biografie che ancora oggi decantano le “opere buone” di chi ci ha lasciato, ma al contempo sono, vorrebbero essere, segno dell’amore, della stima, della gratitudine, di chi è rimasto a piangere il lutto.

Non di meno sono segno di un afflato verso la “vita oltre la vita”, la speranza, la fede, il fato, Dio e i suoi Angeli. Sono opere intrise di tristezza, di dolore, ma anche di certezze, di speranza, di misticismo.

Se ci si sofferma sull’inevitabile incuria, sul deposito della polvere quasi indelebile che crea sulle figure un effetto “al negativo”, come una luce che sembra partire dal basso, più che dall’alto, ci si rende conto ancor di più del tempo trascorso e che ormai morti sono anche coloro che questi morti hanno sepolto…. eppure quel “monumento” è lì, a richiamare la nostra attenzione su una vita di cui nulla conosciamo tranne ciò che l’epitaffio riporta e sulla bellezza e la simbologia di quell’opera di maestria.

Sono luoghi, incredibili, densi di un silenzio avvolgente, di una sacra pace, di una straniante solitudine, affascinanti per chi come me, ama la fotografia, e già prima luogo di “studio”, quando frequentando il Liceo Artistico, ci si spostava presso un cimitero vicino, per avere più “materiale” da ritrarre che non fossero solo gli ormai logori soggetti della gipsoteca dell’istituto.

Questo, o perlomeno anche questo, è l’affascinante Cimitero Monumentale di Staglieno , presso Genova, alla cui visita vi invito e le cui foto da me scattate (solo alcune), qui vi propongo.
Struggente, la sezione delle tombe dei fanciulli morti in tenera età, anch’esse decorate da piccole sculture.

Altro articolo: https://ceuntempoperognicosa.wordpress.com/2012/11/01/il-design-per-il-caro-estinto/


Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti.
Appassionato di Design e Fotografia.

Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.

Blog:
https://ceuntempoperognicosa.wordpress.com/
https://immaginieparoleblog.wordpress.com/