Il richiamo del dirupo – Mìcol Mei

Un libro ben scelto ti salva da qualsiasi cosa. 

Persino da te stesso”

Rubrica a cura di Sara Balzotti_

Il richiamo del dirupo – Mìcol Mei

Casa editrice: Miraggi Edizioni 

Data di pubblicazione: 15 luglio 2021

Genere: narrativa 


“Il richiamo del dirupo” ricostruisce le dinamiche che hanno portato al crollo del “Pallido rifugio”, edificio molto particolare costruito in stile vittoriano a picco sul mare dal proprietario Felice Hernandez.

Felice, così come la sua villa, sono molto misteriosi e chissà quali storie nascondono…

Gli abitanti del piccolo villaggio, a valle della scogliera sulla quale si erigeva “Il Pallido Rifugio”, in effetti si chiedevano come fosse stato possibile progettare una casa così fragile, all’apparenza, dal punto di vista strutturale e architettonico. 

La signora Siviero è l’unica testimone a “mettere la faccia” sulle dichiarazioni riguardanti il crollo e il lettore le sarà grato. Gli altri testimoni non hanno voluto rivelare la loro identità ma viene apprezzato il contributo offerto alla ricostruzione dei fatti.

Il Signore Felice Hernandez decidere di dare in affitto la propria villa a quattro persone che saranno accuratamente selezionate da lui stesso. Felice non offre una normale villeggiatura: l’annuncio sarà altisonante e chi si mostrerà interessato dovrà dichiarare perché è così interessato a soggiornare nella villa, alle particolari condizioni imposte da Hernandez.

Gli ospiti saranno scelti e l’impeccabile Signora Siviero sarà a capo di questa insolita comitiva, garantendo il rispetto dei voleri del proprietario.

Persone sconosciute possono trovarsi unite per svariate ragioni e quelle dei quattro protagonisti, gradualmente, vengono svelate e sono tutte riconducibili ad un disagio nel rapporto con se stessi e di conseguenza con gli altri.

Emarginazione, sfruttamento, violenza, sottomissione si riconoscono nelle storie degli ospiti, e Hernandez aveva percepito che cosa avrebbe accomunato i futuri ospiti nel Pallido Rifugio.

La selezione fatta sarà azzeccata? Gli ospiti riusciranno a conoscere Felice, così sfuggente?

Ma soprattutto: perché il Pallido Rifugio è crollato? Qualcuno sarà riuscito a salvarsi?

La disperazione, la solitudine e il dolore non hanno bisogno di tante parole per essere raccontate e in un libro dalla lunghezza piuttosto ridotta (come numero di pagine) la scrittrice racconta con schiettezza fin dove può scendere l’animo umano, trasmettendone il turbamento che ne deriva. Alla fine quando si tocca il fondo, le conseguenze sono spesso simili: emarginazione e decadimento mentale.

I colpi di scena offerti dalla storia sono interessanti e la passione di Mìcol Mei per tutte le forme culturali è tangibile. Poesia e scrittura si fondono senza scontrarsi e rafforzano l’armonia del romanzo. I riferimenti musicali aiutano a contestualizzare il racconto.

“Il richiamo del dirupo” non ha l’intenzione di richiamare emozioni piacevoli e per me non è stato facile affrontarle, nel mio percorso incessante di ricerca della serenità.

Tuttavia ho voluto leggerlo fino alla fine perché anche il buio fa parte di noi e ogni tanto è giusto affrontarlo e ricordarsi che a tutto può essere posto una fine (in un modo o nell’altro).


Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!

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Tre lettere e un numero.


di Christian Lezzi_

Il tanto acclamato e continuamente citato Albert Einstein, pare abbia detto, un giorno

“Se hai una risposta semplice, a una domanda semplice, allora tutto funziona alla perfezione”

Aggiungendo

Se non lo sai spiegare in maniera semplice, non lo hai capito abbastanza bene”.

Grossolane e superficiali nullaggini!

Una premessa doverosa: non è in discussione la statura intellettuale dello scienziato, le cui epocali scoperte influenzano ancora oggi l’andamento del mondo scientifico e la vita di tutti noi, bensì la superficialità di certe sue (presunte) affermazioni, oltre che la deleteria inutilità di questa pretesa semplificazione linguistica a ogni costo.

È altrettanto evidente che, ogni citazione, eradicata dal suo contesto naturale, è di semplice strumentalizzazione e altrettanto facile da snaturare. Per questo, in discussione vi è il concetto della semplificazione, non le citazioni a se stanti, usate solo come incipit al più ampio discorso.

In questo specifico, discutiamo la presunta necessità di semplificare concetti che semplici non sono, rendendo immediati anche questioni che meritano un più ampio respiro, una riflessione approfondita, un tempo di decantazione, per essere elaborati, compresi e interpretati nella loro essenza più vera.

E qui sorge spontanea la domanda: semplificarli, per spiegarli a chi?

A qualcuno che, estraneo alla materia, non solo ben poco capirebbe della questione espressa, ma addirittura trarrebbe una deduzione semplicistica, limitata anche dalle parole semplificate e dal conseguentemente limitato pensiero, fino a rendere vuoto e inconcludente il ragionamento derivato?

Perché l’atto di semplificare il linguaggio e i concetti correlati, a ogni costo e a ogni prezzo, non solo è privo di qualsivoglia beneficio reale, ma rischia di rendere banali anche le riflessioni più importanti, trascinandole nel gorgo della superficiale velocità, di quella spasmodica voracità con cui pretendiamo di elaborare la realtà e i suoi fatti.

Parliamo di riflessioni importanti, quindi, che proprio per questa particolare natura, non possono e non devono essere prese “sotto gamba” e banalizzate, necessitando di un linguaggio complesso e articolato, fatto di termini specifici, stimolanti, di un costrutto che imponga l’attenzione viva e l’approfondimento, generando un pensiero critico davvero pensato, frutto di un percorso cognitivo che non si fermi all’uscio del dettaglio, ma che si spinga oltre, fino all’origine delle cose, percorrendo il periplo dei cerchi concentrici che dal particolare si diramano e all’universale giungono. 

E viceversa.

A cosa e a chi giova, spiegare la fisica quantistica o la filosofia, con un linguaggio adatto a un bambino di otto anni? A nessuno, forse nemmeno all’ottènne bambino in questione.

Probabilmente soddisferebbe la curiosità di un momento, rendendo ingannevolmente “potabili” quei concetti altrimenti proibitivi, banalizzando la complessità del tutto, con un discorso dozzinale che, comunque, non sarà compreso e che, inevitabilmente, lascerà il posto all’illusione di un banale nozionismo, ingannevolmente vestito d’illusoria conoscenza.

Perché le riflessioni, quelle profonde e complesse, si argomentano con concetti altrettanto profondi ed egualmente complessi e con parole dotte, non per autocelebrazione, bensì allo scopo di favorire una riflessione che sia davvero approfondita.

Perché la nostra psiche non elabori quelle informazioni in modo veloce e inconcludente, producendo inutili discussioni da bar, in cui tutto resta sulla superficie delle cose, banalizzato e svilito da un linguaggio a prova d’analfabeta funzionale che, alla fine, di bagattella in insulsaggine, nulla dice in concreto.

Ciò non significa che certi argomenti debbano restare solo tra addetti ai lavori. Lungi da noi anche il solo pensarlo. Occorre piuttosto trovare una corretta via di mezzo che motivi, chi non è avvezzo a certi ragionamenti, all’evoluzione linguistica e di pensiero, vincendo così la tentazione frettolosa e pretenziosa di una immediata comprensione, giungendovi per gradi crescenti di preparazione.

In fin dei conti parliamo della lingua che ci appartiene, che tutti i giorni usiamo, facendolo dalla notte dei tempi della nostra vita. È nostro dovere impararla al meglio delle nostre possibilità. Basterebbe dedicarsi alle giuste letture, ai profondi ragionamenti, ai giusti strumenti che non ci impongano sempre le scorciatoie e i riassunti, per far nostra anche la parte meno ordinaria di un linguaggio che, opportunamente elaborato, contribuisce alla formulazione di un pensiero superiore.

È a furia di inculcarci (e farci inculcare) una presunta necessità di rendere tutto semplice, veloce, immediato, perché vittime della fretta e degli impegni, che abbiamo perso l’abitudine di leggere e di pensare, di riflettere e comprendere, di osservare la realtà da diversi punti di vista, per non saltare inevitabilmente a sdrucciolevoli conclusioni e a superficiali, quanto fallimentari, deduzioni.

È questa l’evoluzione da auspicare, ovvero la voglia e il bisogno di migliorare, implementando il bagaglio di parole e la capacità stessa di produrre pensieri, ragionamenti e riflessioni profonde. Quelle riflessioni che, fondate sul linguaggio non banalizzato, pretendano e impongano il tempo necessario alla vera comprensione, restituendo al pensiero la dignità che merita.

Occorre allenamento, applicazione, fatica, per imparare parole nuove e concetti profondi, per rendere elastica la mente e per imparare a pensare oltre l’apparenza, arrivando al nucleo d’ogni cosa. Perché anche la forma è parte integrante della sostanza, imprescindibile per il rispetto di una complessità funzionale allo scopo che, al contempo, si erga scevra dal barocchismo decorativo senza destinazione d’uso.

E occorre curiosità, per acquisire un pensiero asimmetrico, non standardizzato, fuori dagli stereotipi e dagli schemi dominanti, che doni originalità e identità ai nostri ragionamenti.

Ci sono concetti che possono essere semplificati, perché in origine non necessitavano di complessità e altri che non devono assolutamente essere resi semplici, ancor meno banali, pena un pensiero di risulta, vuoto e inutile, che a nessuno gioverebbe.

È possibile, anzi doveroso, semplificare una comunicazione di servizio, una disposizione, persino una procedura. Ma ciò che deve generare una riflessione profonda, deve restare profondo, per dar vita all’impegno necessario a produrre un pensiero degno di questo nome.

Non possiamo essere tutti filosofi, astrofisici, medici o ingegneri. A ognuno il suo codice professionale, la sua gergalità, i propri termini tecnici che, semplificati al massimo, perderebbero natura, efficacia e potenza. Perché ci sono concetti che, per essere portati al giusto approfondimento, necessitano di una complessità stimolante e sfidante, capace di risvegliare l’intelletto sopito. 

Diversamente, produrremmo solo un’infarinatura inutile, a presunto beneficio di chi, incapace della giusta attenzione e del necessario approfondimento, non riuscirebbe a comprendere il significato di E = mc2, nemmeno se la spiegazione fosse illustrata a fumetti da un bambino di otto anni.

Eppure sono solo tre lettere e un numero. Più semplice di così?


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.

Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




Di Anime e d’isole.

[Itaca: da Omero a Guccini].

2020 © Silvia Berton

di Cristiana Caserta_

Odisseo dorme.

Disteso sul fondo di una nave.

Per una volta, nell’Odissea, non è lui a governare la nave. 

Dorme un sonno strano, mentre la nave, velocissima, solca l’Oceano e raggiunge un’isola. 

Il lettore ha aspettato tanto questo momento. Di quest’isola si è parlato molto, molte lacrime sono state versate, molta nostalgia spesa; molte volte è sembrata vicina, a portata di mano – anzi, di prua – e altrettante volte si è persa la rotta, e la sua sagoma si è fatta piccola, fino a scomparire…

È Itaca.

che paese? che terra? che uomini vivono qui? è un’isola tutta visibile, oppure è una punta, protesa nel mare, del continente dalle vaste campagne?

Si è appena svegliato e – forse per questo! –  vuole conoscere le coordinate geografiche di un luogo che ancora non riconosce come la sua terra natale. 

Parla con Atena, la sua dea protettrice, e questa risponde: “non è sconosciuta, né straordinaria, è aspra, inadatta ai cavalli, non troppo magra, né troppo vasta

Non è un’isola mitica, un paradiso terrestre: latte e miele non scorrono nei suoi fiumi e non produce frutti spontaneamente: è un’isola reale.

Più che reale: pietrosa. Lo dice Foscolo e lo dice Guccini:e se guardavo l’isola petrosa// ulivi e armenti sopra a ogni collina// c’era il mio cuore al sommo d’ogni cosa// c’era l’anima mia che è contadina”. 

L’anima appartiene a posti che non hanno bisogno di alcuna bellezza sovrabbondante. Questo ci dicono i poeti. E noi apparteniamo a questi posti. Né brutti né belli. Nostri. 

Quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui”: lo dice quell’inquietante Machiavelli, a suo agio nel peggio come nel meglio della politica. Ma la sua casa sono i libri, gli antichi uomini che gli parlano. Lui domanda e loro rispondono.

Uomini che girano il mondo, conoscono cose, imbrogliano, amano, uccidono, mentono, vincono e perdono. E un filo li tiene legati ad un’origine, un focolare, una donna che li aspetta, paziente. La cui immagine deve consolarli mentre vincono e perdono. Mentre vivono. 

Forse nei mattini d’estate, fra empori fenici e città egizie, le narici inebriate da penetranti profumi, come immagina Kavafis.

Itaca è un mito maschile. È un piacere del ritornare che può provare solo chi può andare via. 

Le donne non hanno Itaca. Sono Itaca. La loro pazienza è premiata dal ritorno dei loro eroi, un po’ ammaccati dagli anni: bisogna prendersene cura e aver conservato qualcosa per loro. Un po’ di bellezza, un po’ di dolcezza.

Fin qui, i miti.

Ma ogni mito contiene altri miti, nascosti, potenziali. 

Ci sono miti che i poeti non hanno voluto raccontare. Penelope, per esempio, ad un perfetto sconosciuto – è Odisseo! ma lei non lo sa – racconta uno strano sogno: nella sua casa, a Itaca, ha venti oche che beccano il grano e lei è felice, gioisce guardandole; quando improvvisamente, dal monte, una grande aquila dal becco adunco piomba sulle oche e le uccide. Penelope, allora, piange alla vista delle oche morte, ammucchiate, e si dispera, tanto da dover essere consolata dalle altre donne. 

Finché non le spiegano il significato del sogno: l’aquila è il marito e verrà ad uccidere i suoi rivali-oche. 

Dove il piacere segreto di avere venti oche nella propria aia (invece di un marito-aquila) deve essere confinato nel regno effimero dell’onirico per avere cittadinanza poetica! E però candidamente raccontato ad un altro uomo, che stranamente la attrae (attrazione lecita! essendo costui proprio il marito, perduto e ritrovato). 

Miti indicibili, di cose che accadono nelle notti mediterranee della petrosa Itaca!

Odisseo naturalmente non ha bisogno di sognare. Circe, Calipso, Nausicaa…

Ogni isola è anche una donna, ogni donna è un’attrattiva diversa.  

Solo Dante immagina che il filo si spezzi: Ulisse non vuole tornare. C’è da navigare ancora, c’è da sconfiggere quel vivere bruto che zavorra ogni nostro desiderio; ci sono altri mari da percorrere, altri orizzonti, altri cieli.

Itaca può aspettare. Altre isole ci attendono. 

È la vertigine di un altro sé possibile: un sé totalmente libero.

Infatti, se ne ricorda Primo Levi in quello straordinario capitolo di Se questo è un uomo, quando cerca di spiegare a un giovane compagno di corveé – durante un breve squarcio di relativa libertà dalla sofferenza del lager – il significato di quel verso meraviglioso: 

ma misi me per l’alto mare aperto

Sappiamo come va a finire, il volo folle sopra ogni sentimento ‘dovuto’: con quel mare “sovra noi richiuso”.  


Cristiana Caserta_

LinkedIn Top Voice 2020; 

Scrivo, studio, insegno materie con le tecnologie, sono pratica di formazione, giornalista free lance, multipotenziale.




Siamo fatti di luce e di ombre.

Foto dell’Autore.

di Valeria Frascatore_

Una voce affatturante mi ha chiamato e ora permea la mia decisione di far ritorno al faro.

L’ho evocata e, dunque, la seguo lungo un sentiero di acciottolato stabile che rende saldo il pensiero come il passo e che, ben presto, mi conduce a una gittata di cemento ingannevole, come quella voce, che, da suadente che era, d’improvviso si fa tenebrosamente perniciosa. L’ultimo tratto è sterrato, sa di dissuasione o comunque di messa alla prova. Non so se il senso sia rotolare a precipizio o muoversi con saggia circospezione, ma l’andatura si fa lenta e pesante,mentre la voce si ode sempre più flebilmente,come un eco disperso dal vento.

Il promontorio è desolatamente vuoto, sferzato dalle procelle della vita, la vegetazione è brulla, arsa dalle mareggiate invernali. Sale che cicatrizza le fenditure della roccia come si fa con le ferite.

E’ quasi l’ora del tramonto: tutto è fermo, come in un ineluttabile frame scorporato.

Mi guardo intorno, alzo gli occhi e la vedo:lassù, eterea e inibente,occupa la sommità del faro.

Era sua la voce quella che mi ha condotto qui.

Gli sguardi si incrociano, sfidanti e selvatici, implacabili scuotono l’inconsistente struttura metallica che vibra maledettamente ad ogni occhiata.

Il faro è dismesso:noi no. Il duello è infuriante e sprigiona elettricità che sembra turbinare in spire nella mia direzione, attraverso i pioli delle scale di accesso alla luce rotante.

Non c’è dialogo, né comunicazione verbale alcuna ma la gestualità è incontrovertibilmente tesa al confronto.

Il Sole rende incandescente il cielo e il suo bagliore, proiettato sulle vetrate del faro, quasi mi acceca. Sospendo i pensieri ma non mi muovo, socchiudo le palpebre, sperando di ritrovarla nella sua posizione originaria, una volta riaperti gli occhi.

Mi guardo intorno e non c’è, non la vedo più, il tramonto incombe e la terra sussulta sotto i miei piedi. Nel silenzio persistente, il mio grido furibondo si libera e mi solleva vorticosamente nell’aria, proiettandomi in cima al faro.

La prospettiva di un gemellaggio celeste esorcizza la condanna alla fosca irrequietudine di una schermaglia terrena che chiede con prepotenza di essere composta.

Ora sono io che invoco il suo nome e, d’un tratto, la ritrovo seduta accanto a me:distoglie lo sguardo…ha l’aria di una viaggiatrice sconnessa ma conserva un tratto flessuosamente regale.

Le nostre menti sono altrove, ma comunicano persino nella solitudine della lanterna spenta di un faro inattivo.

Legami alienanti trovano conforto nell’instabilità di un luogo alienato e infondono reciproca remissività ai nostri sguardi, non più torvi: interrogativi, forse, curiosi ma sereni.

Le tendo la mano ma avverto tensione:ci temiamo e non abbassiamo le difese. Ha il viso stravolto, lo sguardo metallico e gli occhi gonfi di pianto…lo percepisco ma non riesco a sostenerne la vista. Sono visibilmente scossa anch’io.

Quando la scia del Sole tramontato in mare raggiunge lo specchio d’acqua sotto i nostri piedi, con un filo di voce le dico:”Sono venuta a prenderti. Vieni via con me!”.

La osservo con minuziosa attenzione stavolta, si alza in piedi e, quasi fluttuando verso il precipizio sottostante, si volta furtivamente nella mia direzione per poi lasciarsi cadere nel vuoto. La sua corporeità si sparpaglia come polvere dorata ricadendo delicatamente a pelo d’acqua e confondendosi con la scia del tramonto.

Due delfini, assecondando la corrente, la guidano verso un punto di consunzione, impossibile da determinare a vista.

Sul mio viso solcato da lacrime cocenti più del Sole è rimasto impresso il ricordo di quello spazio vuoto, compagno di brevi scambi sulla sommità del faro.

Chi era, Lei?

La vera e sola me o un’altra me?L’abbaglio di un Sole ingannatore o il sogno furtivo di una alleanza nata da una guerra?

Non lo so, ma da quel giorno ho preso il suo posto al faro e attendo, con cieca ostinazione, di poterne udire ancora una volta la voce, di ricongiungermi a lei e di proseguire un dialogo scandito dall’intermittenza della luce rotante attraverso la quale sarebbe bello entrare e uscire dalle vite altrui senza far rumore.

Intermittenti ma presenti, proprio come i fari. In fondo siamo fatti di luce e di ombre. Tutto quello che il futuro riserva, solo il faro può saperlo:resta annoverato tra i suoi più insondabili segreti.


Valeria Frascatore_

Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.




Un incapace di successo.

David D’Amore_Donkey_China su carta.

Nessuno è escluso. Ormai sdoganato come insulto, spesso riferito a noi stessi tutte le volte che ci sembrava assurdo aver fatto un errore banale o mancato un obiettivo alla nostra portata ce lo siamo detti : “sono proprio un idiota”.

Quante volte è accaduto? Mille?

“Idiota”, nel senso etimologico della parola greca «Idiótes», era colui il quale poneva al di sopra di tutto i suoi interessi personali, da «idios» proprio

“Idiótes” stava a significare dunque in modo specifico l’«uomo privato», in contrapposizione all’uomo pubblico, il quale rivestiva cariche politiche e dunque era  considerato colto, capace ed esperto.

Quindi, già in greco “idiótes” accomunava i due significati che valevano sia “come persona che pensava solo a se stesso”, sia come “uomo inesperto”, “non competente”. 

È interessante notare che quando usiamo «idiota» con l’intenzione di offendere, dunque come un insulto, quest’ultima parola, contenga l’azione di aggredire la persona che si vuole ferire, appunto insultandola.  Ma come sappiamo bene, si può insultare e dunque ferire, in maniera molto più efficace anche non usando parole offensive, anzi spesso non usando proprio parole.

Torniamo ai greci, i quali erano decisi a definire “idiote” le persone che non avevano interesse per il bene comune ed implicitamente consideravano «non idioti» chi aveva una visione e interessi più ampi, che coincideva anche con l’essere un uomo politico. Naturalmente – come non ha mancato di farci notare la cronaca politica recente – non è un vincolo «non essere idiota» al giorno d’oggi per diventare uomo pubblico. Ne consegue che sarebbe da idioti affidare a un idiota l’interesse pubblico e dovremmo diffidare al massimo dai politici idioti, troppo concentrati su sé stessi. 

Ma questo è un altro discorso.

Quando la parola entra nella nostra lingua, intorno al XIII secolo, “idiota” significa (e di lì in poi significherà fino ai giorni nostri) «chi è stupido, privo di senno, incapace di ragionare». Come per altri vocaboli di significato simile (stupido, scemo, imbecille ecc.) è possibile usare la parola in senso aggressivo, adoperandolo come epiteto spregiativo o, come invece spesso accade, colloquialmente scherzoso. 

[E’ doveroso precisare che l’idiozia come grave malattia dello sviluppo mentale ha cessato da tempo di costituire una fattispecie valida nella medicina].

Le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale dannoso delle persone stupide. E questo potenziale è molto più pericoloso di quanto si immagini. Soprattutto quando ha la possibilità di influire sulle vite altrui, il che vuol dire quando l’idiota, con le sue stupide decisioni, condiziona il futuro di molti, quando insomma si trova al comando.

D’altronde se non siamo un pò tutti succubi del pensiero dominante? Se (casi eccezionali) non inseguiamo il profitto a ogni costo, oppure non pensiamo che spregiudicatezza, guadagno e proprietà siano le uniche leggi da rispettare, quante volte ci capita di sentirci degli idioti?

La società si è evoluta e mentre una volta gli idioti erano solo degli idioti qualunque, adesso vogliono strafare, tanto da non farci capire se sono idioti di loro o se hanno fatto qualche master per scalare di un livello, e hanno fatto carriera e preso il titolo di “emeriti idioti”.

Spesso questi assumono i connotati da leader, favoriti dal fatto che i saggi cercano erroneamente di ascoltare anche gli idioti, mentre gli idioti ascoltano solo se stessi, pertanto quest’ultimi hanno maggiore libertà di parola. 

L’aggravante è che avendo spesso potere, gli idioti hanno sempre degli adulatori intorno a loro , che li ricoprono di bava, richiedendo loro un parere, spesso non necessario, e non si rendono conto che  se avessero l’accortezza di capire che, quando un idiota (raramente) tace, è sempre meglio non interromperlo.

Chiuderemmo così la questione: Idiota è chi si occupa solo di sé stesso e spesso è un incapace di successo.





Tre Giorni.

Guido Crepax_Valentina.

di Ludovica D’Alessandro_

È strano come possa consumarmi in tre giorni.

Io sono il tempo.

Passo da un battito di ciglia ad un eterno mugolio che si estingue sulla punta della lingua di amanti di passaggio su queste strade spianate.

Ho visto macchine con il motore in panne tagliarmi come schegge, uomini d’onore scappare come criminali senza scrupoli, donne d’amore aspettare in silenzio che fosse quello il loro tempo.

Il tempo di tre giorni.
Tre per sapere che mi stavi ingannando e tre per rinnamorarmi di te.

Serena amò Marco sempre e solo per tre giorni. Tre giorni per capire che Marco non l’amava ma l’avrebbe forse fatto ad Hayeres, sulla costa francese.

Una giulietta rossa, una targa provvisoria, affittata per un breve periodo, le dita doppie di Marco sul cambio e l’altra mano in mezzo alle gambe di Serena che sorridendo guardava fuori dal finestrino.

Serena aveva affidato, tanti anni prima, la sua vita al caso.

Cosa le fosse stato destinato non le era ancora chiaro ma aveva la presunzione di essere speciale.

Indossava un pantalone di jeans chiaro, un paio di zoccoli marroni con delle piccole borchie e una maglietta all’uncinetto, tinta corda.

Non indossava il reggiseno, ne la cintura.

I pantaloni restavano sempre scostati dalla vita di uno spazio equivalente ad una mano.

Quella che avrebbe lasciato passare Marco tra il jeans e la sua pelle abbronzata.


Ludovica D’Alessandro nasce a Napoli nel 1984.
All’età di 12 inizia a soffrire di disturbi del comportamento alimentare. Nonostante il peso della malattia si trasferisce a Londra e successivamente a Milano dove vive e lavora attualmente. Il suo genere di scrittura è crudo e graffiante come un pugno nello stomaco.
Fa della ricerca della bellezza dell’essere umano una missione ma senza spaventarsi di scavare nei meandri dell’animo.




Il club della solitudine – Deborah Bincoletto

Un libro ben scelto ti salva da qualsiasi cosa

Persino da te stesso”

Illustrazione copertina del libro.
Particolare.

Rubrica a cura di Sara Balzotti_

Il club della solitudine – Deborah Bincoletto

Casa editrice: Scatole parlanti

Data di pubblicazione: 6 marzo 2021

Genere: narrativa


Vera ha trent’anni e racconta in prima persona la propria storia.

La protagonista dichiara che sia impossibile raccontare una storia vera dall’inizio, anche se nessuno lo ammette: chissà se è vero…! 

I ricordi dello scrittore sono falsati dalle esperienze che si susseguono negli anni e chi legge riporta il proprio vissuto dentro la storia raccontata. Ad ogni modo credo sia importante sentire qualcosa dentro che fa nascere un’emozione e la scrittura di Deborah con me c’è riuscita!

Chissà se “Il club della solitudine” esiste o se sia mai esistito e se i protagonisti della storia sono reali. Sicuramente è stato interessante conoscere questo luogo insolito e lasciarsi coinvolgere dalle sue dinamiche.

“Il club della solitudine” era una scuola superiore chiusa da anni a cause di molestie impartite da un professore su una giovane alunna. Agata ha trasformato questo edificio, immerso nel verde, in un luogo di confronto e di libertà di espressione dove le persone che possono accedere sono accuratamente selezionate dalla proprietaria e fondatrice del club (Agata appunto). 

Nel club i partecipanti sono liberi di esprimersi e hanno l’occasione di entrare in contatto e di scontrarsi con se stessi, senza forzature e manipolazioni. I legami che nascono fra le persone sono unici e particolari.

Agata si vede poco ma la sua presenza è tangibile ed è una persona straordinariamente equilibrata che con empatia guida questo curioso gruppo di persone che affrontano un percorso per certi versi insolito.

I partecipanti sono variegati nelle esperienze e nell’età. Ognuno inizia da solo la sua esperienza ma il contatto con gli altri è inevitabile e il legame che si crea fra le varie generazioni è così tenero che nasce il dubbio che qualcosa si sia perso, distratti dalla quotidianità sempre più individualista e digitale.

Vera, la protagonista della storia, ha un passato doloroso e non riesce ad aprirsi agli altri facilmente e a mostrare la sua vera natura; sicuramente non è l’unica a vivere queste difficoltà…!

Nel club Vera scopre qualcosa di nuovo che potrebbe stravolgere la sua vita: riuscirà a cogliere e a sfruttare a pieno le sue potenzialità? 

Come evolveranno i rapporti fra gli avventori di questa strana struttura?

Deborah scrive in modo delicato e non entra con forza nelle emozioni del lettore. All’inizio questa caratteristica potrebbe rappresentare un limite alla storia ma da un certo punto in poi ne diventa l’elemento di forza che avvolge chi legge “Il club della solitudine”, donandogli un senso di benessere e di libertà.

“Il club della solitudine” sarà un ottimo punto di partenza per chi sente delle ombre dentro di sé e non riesce ad affrontarle!


Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!

A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.

https://www.francesia.it/freetime/consigli-di-lettura/




Solo gli amanti sopravvivono.

“Solo gli amanti sorpravvivono”_ immagine tratta dal film di Kim Jarmusch

La [non] recensione di Cristiana Caserta_

Le tre grandi crisi degli anni duemila – terrorismo, crisi finanziaria, pandemia – hanno indotto un generale ripiegamento sui bisogni elementari: fisiologici, di sicurezza, di appartenenza. E hanno ulteriormente appiattito l’orizzonte ad un presente infinito, al quale costringiamo i nostri corpi negando loro l’invecchiamento e le nostre anime consumando e scartando come mode anche le idee.

Se ‘vita’ è bellezza, conoscenza, verità, pienezza ecco che siamo – senza saperlo – ‘morti’. Zombie. Esseri distruttori e autodistruttori. Un modo diverso di riflettere sull’autodistruzione e sulla salvezza – se non avete gradito Don’t look up, o anche se lo avete gradito – è quello di Jim Jarmusch. Il film è di diversi anni fa, ma è quanto mai attuale: Solo gli amanti sopravvivono. (Only Lovers Left Alive, 2013)

Gli amanti sono Adam ed Eve, a cui prestano volti e corpi – bellissimi, senza tempo, sensuali – Tilda Swinton e Tom Hiddleston. Lei vive a Tangeri, fra i libri e l’arte. Lui a Detroit, fra le chitarre e la musica. Hanno vissuto per molti secoli, conosciuto pittori e poeti, musicisti e scienziati. Sono vampiri. E si amano. Di un amore senza storia. Si amano di un amore delicato e profondo: lei luminosa, quasi abbagliante, e pronta a cogliere la bellezza – anche in un mondo che l’ha perduta – lui più inquieto e cupo ed esitante sul vivere o morire. 

Parlano, si amano, ballano, si baciano come se ogni bacio, ogni danza, ogni parola fosse fuori dal tempo, assoluta, prima e ultima, come forse è stata all’inizio dei tempi, prima dell’umanità. Le stelle, la poesia, il destino delle città, i silenzi riempiono le loro conversazioni e la freschezza della sera in cui essi necessariamente vivono si riverbera sui loro sentimenti e sui loro sguardi e li colma di bellezza e malinconia, pur sullo sfondo di una Detroit deserta e dozzinale, brutta e logora.

Sono vampiri che hanno imparato a resistere al richiamo brutale e primitivo del sangue cercato con la violenza: si nutrono di sangue ‘pulito’ che dottori e ricercatori lautamente ricompensati producono per loro. Con parsimonia e moderazione. E con rispetto per la vita degli zombie, che invece così miserevolmente la sprecano. 

Ed ecco che tocca ai vampiri ricordarci che cosa è propriamente ‘vivere’: prendersi cura l’uno dell’altra con rispetto e gentilezza, regalarsi, nutrire di amore e comprensione profonda ogni piccolo gesto, comunicare in tutti i modi possibili, col tatto, con la musica – che accompagna ogni momento del film – con il corpo, con la parola. 

Lunare, notturno, poetico. È il mondo che gli amanti – solo gli amanti – possono ritagliare per sé nell’inconsistenza rumorosa e arrogante della post-modernità, mortifera e distruttrice. Scampoli di una natura sfregiata lo popolano insieme ai resti del passato – fotografie, oggetti, abiti, storie e ricordi – come relitti dopo un naufragio: levigati dal tempo e addolciti dal tocco lieve e stupito di Eve, che ‘nomina’ e riconosce con gratitudine ogni essere vivente che incontra, fosse un fungo o una puzzola. E conservati con cura ansiosa da Adam.

Ma anche i vampiri devono ad un certo punto scegliere fra sopravvivenza e vita: costretti a scappare per la sventatezza della avida e incontrollabile sorella di lei, Ava, i due amanti restano privi di nutrimento e scoprono anch’essi la fame e la sete da cui si erano tenuti lontano. 

L’amore per il genere umano, per la musica, per la bellezza, domina il finale in cui il vecchio archetipo del vampiro viene piegato ad un significato del tutto inedito, di positività e fiducia.


Cristiana Caserta_

LinkedIn Top Voice 2020; 

Scrivo, studio, insegno materie con le tecnologie, sono pratica di formazione, giornalista free lance, multipotenziale.




Leggi, Pensa, Cammina.

Photo by Vadim Stein

di Jacopo Ciardi

E’ un po’ come un oratore che dal pulpito predica bene ma razzola male. Eppure, è così: spesso raccomando i miei figli di leggere almeno dieci  pagine al giorno di un libro, sapendo che migliorerà, e di molto, la loro vita, eppure i miei libri sul comodino spesso li devo spolverare o smettere di appoggiarci sopra la tazzina del caffè.

Ciò nonostante è innegabile: leggere libri è una delle abitudini più importanti per migliorare la propria vita.

Certo, scriverlo qui su un magazine online, denota un apparente conflitto di interessi, eppure mi sento di poter dire che è questa “abitudine” una tra i migliori modi per poter cambiare la propria vita in meglio.

Non parlo di leggere solo libri di crescita personale, cosa che in passato ho fatto in abbondanza, ma di spaziare su tutto lo scibile della letteratura: esplorare autori che non hai mai letto, generi ed argomenti che non hai mai approfondito, biografie o classici che sono immortali e che ti possono insegnare cose sorprendenti ed attuali.

Le migliori idee, i maggiori stimoli, spesso non provengono forse dall’applicare in situazioni quotidiane concetti noti da sempre?

Prova a farti questa domanda e rispondi senza mentire a te stesso: “quanti libri leggo in un mese?” , “Quanti giornali compro in edicola? 

Se vuoi davvero cambiare e migliorare le tue capacità dialettiche e le relazioni con le persone, devi permettere alla lettura di entrare nelle tue routine quotidiane.

Ho visto che i miei figli, ma sono sicuro che succeda a tutti i ragazzi adolescenti, sono ossessionati dal dover riempire ogni istante della loro vita. Sono certo che non hanno mai preso un quarto d’ora del loro tempo per riflettere o meditare.

Succede anche a te? A volte siamo presi dai nostri impegni ed effettivamente non ci accorgiamo che le giornate passano, e magari giriamo a vuoto e la sera ci rendiamo conto che abbiamo perso solo tempo. E se invece provassimo a prenderci un quarto d’ora ogni sera, o ogni mattina prima di iniziare la giornata per stare in silenzio, al buio, e provare a riflettere e indirizzare i nostri pensieri in senso costruttivo? Non è necessario, per meditare, seguire corsi specifici o trovare improbabili guru su Youtube, ma puoi iniziare creando momenti di “vuoto”, magari con una musica di sottofondo, e cercare di convogliare i tuoi pensieri all’interno di uno “scaffale mentale” e metterli in ordine.

Se devo dire qual’è una delle migliori cose da fare, tra queste direi sicuramente “camminare”. Ciò che apprezzo in questa pratica non sono tanto gli effetti sul mio corpo, quanto quelli sulla mia mente.

Quando cammini costantemente, metti in circolo una serie di benefici che aumentano la tua produttività ,la tua concentrazione e che influiscono in senso generale sul tuo benessere e sulla tua alimentazione.

David Le Breton, antropologo e sociologo francese, ha scritto molti libri sul camminare e sui “viandanti” moderni. Secondo Le Breton camminare è un modo di aprirsi al mondo: camminando è possibile viaggiare, conoscere posti nuovi, incontrare persone e guardare le cose con occhi diversi. 

Ammetto che non sono un fissato della dieta. Non rinuncerò mai ad un piatto di pasta o ad una buona pizza. Eppure, se riusciamo ad introdurre piccoli miglioramenti al nostro modo di mangiare, sono sicuro che potremmo presto notare dei grandi cambiamenti e benefici per la nostra salute.

Attraverso una corretta alimentazione è possibile prevenire molte malattie croniche come l’ipertensione arteriosa, le malattie metaboliche e dell’apparato circolatorio, il diabete e alcune forme tumorali. Grazie ad una sana alimentazione, inoltre, è possibile proteggere l’organismo fortificando in prima battuta il sistema immunitario.

Non vado oltre perché non sono un dietologo nè un medico, e anzi ti consiglio di rivolgerti ad un esperto per evitare di affidarti alle tante idiozie che si leggono in rete su questo tema, e che possono portare a problemi gravissimi.


Jacopo Ciardi

Product Manager in diverse Palestre romane e da oltre 10 anni Personal Trainer.

Un passato da atleta agonista nel calcio e nel basket, pratico da diversi anni Calisthenics.

Amo tutti gli sport, specialmente outdoor, e cerco di trasmetterlo e condividerlo con la mia famiglia.

Lettore accanito, divoratore di romanzi e classici, orgogliosamente assente dai Social Media.




L’invisibilità dell’acqua pulita.

Oil drops in water, close-up

di Christian Lezzi_

Quale che sia l’argomento di discussione, quando l’oggetto del contendere si barcamena tra bene e male (nel senso più ampio possibile), la risultante dell’analisi è sempre una questione di percentuali. E come in ogni ricetta che si rispetti, quelle statistiche diventano la rappresentazione grafica, il ritratto immediato di qualcosa che, in quel contesto specifico, non va. 

Che sia un malcostume, una propensione al reato, una particolare inclinazione alla violenza, la tendenza all’assenteismo o qualsivoglia altra accezione comportamentale negativa, proveniente quindi dal lato oscuro dell’animo umano, è sempre una questione di numeri e statistiche, riguardando solo una parte del tutto (la categoria) e mai il tutto senza eccezioni.

Se non altro perché, la generalizzazione, è sbagliata in partenza, disconoscendo, o non prendendo in esame, tutte le variabili e le infinite sfumature, quelle luci e ombre e quei colori in chiaroscuro che ci rendono unici e irripetibili.

Ma quando si parla di percentuali di nefandezza, attribuibili ai membri di una determinata categoria, sia essa professionale, etnica, ideologica, sessuale o religiosa, ecco che l’oggettività del dato statistico, lascia il posto alla percezione soggettiva che, sviluppata dalla nostra mente (ognuno per sua coscienza e cultura) assume i contorni – errati, mi ripeto – di una caratteristica pregiudizievolmente insita in ogni appartenente alla categoria, come se l’atto stesso di farne parte, ne garantisca il contagio, la permeazione del negativo all’interno di un ecosistema individuale altrimenti puro.

E volendolo anche ammettere, questo ecosistema individuale altrimenti puro, la questione delle percentuali torna in auge sottolineando, dati fattuali alla mano, come si tratti, sempre e comunque, di una esigua minoranza a cozzare con l’onestà intellettuale, il rispetto per la legge e il senso del dovere, insito (esso sì) nella maggior parte dei suoi simili. 

Dei colleghi, ad esempio.

È sempre una esigua minoranza, quella degli insegnanti fannulloni e ignoranti, degli impiegati pubblici assenteisti e svogliati, dei medici che prescrivono tonnellate di farmaci per lucro personale, degli africani che spacciano o dei rumeni che rubano. Perfino dei politici che prendono le mazzette, considerati la totalità dell’emiciclo o delle amministrazioni locali, ma che, in realtà, sono sempre una piccola percentuale dell’organico. Anche degli italiani mafiosi, che dalle generalizzazioni nessuno si salva.

L’acqua pulita è trasparente per definizione. Ed è quella singola chiazza di petrolio, a saltare agli occhi, nonostante l’immensa differenza quantitativa. È sempre e solo un’infima percentuale del tutto, a volersi scomodare con le statistiche che, fredde e imparziali, disegnano una realtà ben diversa da quella percepita, fatta di evidenze dimostrabili, al contrario della percezione che punta il dito contro il singolo, per additare una collettività intera.

Ma è proprio nella percezione, il problema più grave. È a causa del nostro intimo sentore, ben pasciuto al punto di divenir convinzione o verità assoluta, la prova provata, la pistola fumante, il dato incontrovertibile che assurge al poco nobile ruolo della vox populi. Fino a divenir leggenda, anche se riguarda due soggetti su ventimila.

È la mela marcia a far scartare la cassa intera. 

Eccolo il problema. Perché l’acqua pulita si dà per scontata come le mele buone, ce la si aspetta, la si pretende, al punto che nemmeno la si nota più. Un bicchiere d’acqua pulita è pieno di un liquido invisibile, perché spesso la pulizia, anche quella intellettuale, come l’onestà, è invisibile agli occhi, sommersa dai luoghi comuni, spesso tendenziosi e faziosi, al culmine della loro sterile ignoranza.

Ma proviamo a mettere una goccia d’olio in quel bicchiere di acqua pulita, fresca e trasparente ed ecco che, come per un nefasto incantesimo, quel bicchiere perde tutte le sue qualità, al punto da essere scartato. Una goccia d’olio in un intero bicchiere d’acqua è una parte quasi infinitesimale del tutto, eppure, come nel caso del singolo che pecca, ha la capacità di sporcare ciò che tocca, di renderlo sgradevole, solo in funzione di una comune appartenenza.

Non è la categoria a implicare caratteristiche buone o cattive, bensì il singolo, che il bene e il male si porterebbe dietro (e dentro) anche cambiando categoria o lavoro.

Ed ecco che quindi non esiste la categoria degli assenteisti, o dei politici corrotti. Esistono solo dei singoli, che sarebbero assenteisti e corrotti anche in contesti ben diversi. Perché il problema non è nella categoria, nell’etnia, nella preferenza sessuale, ideologica o religiosa, bensì nella società civile che, in parte marcia come i corrotti additati, pare aver smarrito il lume della retta via, in un sistema che permette determinate nefandezze e nell’accessibilità al malcostume.

Ma non è una rondine a far primavera. Nemmeno uno stormo.

L’occasione fa l’uomo… uomo! Che ladro, eventualmente, lo era già, ben prima di cogliere la mela del peccato. E tanto la società civile, quanto il sistema (inteso come organizzazione e amministrazione) è fatto di singoli, gli stessi singoli che sarebbero una goccia d’olio nel bicchiere, sia esso d’acqua, di birra o di vino.

Perché la nostra mente generalizza per difesa, per sentirsi migliore in questo mondo di ladri (come canterebbe Venditti) omettendo come lo sporco connoti il singolo, identificandolo con fermezza univoca, mai l’intera categoria. Ed è la somma dei singoli a creare gli stereotipi e le cattive abitudini che, nel sentir di popolo, tutto tritano nello stesso calderone, senza più cogliere il bello e il pulito presente in ogni cosa. Anche nella parte sana di una categoria, quella che salta meno agli occhi, ma che rappresenta la più grande maggioranza.


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.

Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.