Non è mai una persona sola a morire. Ad ogni sparo, moriamo tutti, un pò.

David D’Amore_China su Carta

di Redazione Fuori

Gli Stati Uniti hanno il non invidiabile primato, tra i Paesi occidentali, di morti per arma da fuoco. 

Nel 2020 si è raggiunto il numero più elevato di vittime, 578, il che significa più di una al giorno.

La crescita, rispetto agli anni precedenti, è stata esponenziale [Negli Stati Uniti circolano circa 380 milioni di armi a fronte di una popolazione di 319 milioni di abitanti].

Sono dati di cui i politici statunitensi sono al corrente, ovviamente, eppure puntualmente ad ogni strage di innocenti come quella dei giorni scorsi, si riaccende il dibattito sull’uso indiscriminato delle armi, accessibili praticamente a chiunque.

Dibattito che, come era facile prevedere, non riesce mai a fare passi in avanti, nonostante la situazione ed i numeri siano drammatici.

Biden, così come aveva fatto Obama prima di lui, e un po’ meno aveva fatto Trump, si è presentato davanti alla nazione per reclamare una limitazione del commercio e detenzione delle armi.

Dichiarazione scontata, diremmo formale, che ha ottenuto meno risonanza ed efficacia di quella del coach dei Golden State Warriors, Steve Kerr, che durante la conferenza stampa antecedente una partita ha denunciato in maniera chiare ed inequivocabile le ragioni per le quali oggi, come ieri, la legge per la riduzione dell’uso delle armi da fuoco, sia ferma a causa di interessi economici e politici.

Quali sono in effetti i motivi? 

La Costituzione americana, le sentenze della magistratura, e soprattutto il peso delle lobby sono i fattori che fino a oggi hanno sbarrato la strada a ogni tentativo di «disarmo».

Il secondo emendamento della Costituzione americana consente ai privati cittadini di possedere armi. “Essendo necessaria alla sicurezza di uno stato libero una ben organizzata milizia”, recita testualmente la legge, “il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto”.

Una roccaforte inespugnabile  dunque, protetta da una legge fondamentale che funge da pietra angolare della Costituzione americana, e che scaturisce dalle guerre di indipendenza contro britannici e spagnoli.

Qualsiasi tentativo di intervenire su questa, che più che una legge è una filosofia propria dei cittadini americani, è risultato vano.

Nel 2008, una sentenza della Suprema Corte ha ribadito la piena legittimità del secondo emendamento, dichiarando illegittima una legge di uno Stato membro, che cercava di limitare il possesso e l’uso delle armi.

Nel 1994 Bill Clinton approvò una legge (poi abolita nel 2004) che proibiva il commercio di armi da guerra per uso privato, ma l’anno successivo i democratici persero le elezioni di Midterm anche a causa di questa iniziativa, che ostacolava l’azione delle potentissime Lobby favorevoli alle armi.

Nel 2012, dopo la strage di Sandy Hook (26 morti) Barack Obama tornò a chiedere una limitazione ma la proposta non passò.

( Il massacro di Sandy Hook però segnò un precedente di storica rilevanza: per la prima volta una fabbrica di armi accettò di risarcire le vittime della sparatoria , versando 73 milioni di dollari alle 9 famiglie che le avevano fatto causa).

E oggi? Alla luce della ennesima strage di innocenti bambini , quante possibilità ci sono che una riforma della legge vada in porto? 

I numeri sembrano non dare speranze.

Il Senato, dove i democratici possono contare sul 50% dei voti, resta un ostacolo insormontabile.

Per modificare una legge serve almeno il 60% dei voti e dunque il 10% dei repubblicani, storicamente contrari all’abolizione, dovrebbero votare contro il loro stesso partito. 

Scenario impossibile perché un peso determinante nel settore del commercio delle armi è esercitato dalla NRA, la lobby dei produttori, che finanzia e supporta molti senatori e politici repubblicani.


https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2022/05/25/strage-in-una-scuola-elementare-a-uvalda-in-texas-21-morti-_e20dd8bf-8a99-407b-aba2-05d97e240ae2.html




La Valigia.

di Valeria Frascatore_

Guardo la valigia. 

Non sono mai stata brava a organizzare gli spazi. I pieni e i vuoti, soprattutto. Amo le cose fatte alla rinfusa. 

Ci sto dentro, nel groviglio: occuparmi della matassa dei pensieri è il mio catalogo di viaggio da spulciare.

Consapevolezza di un andare che resti e restituisca il senso dello spostamento dal proprio baricentro.

Intendo provarci.

Sperimentare. 

Parto, sì. Perché il pensiero ha bisogno di estensione verso la chiarezza, come il passo si allunga naturalmente in direzione di spazi ampi. E sgombri.

Libertà da ingombri. Dicono sia un obiettivo eleggibile per chi vuole scrivere una storia che non obbedisca a logiche precostituite.

Non riesco a pensarmi confinata in un’idea lineare: cammino a zig-zag per il mondo e vivo di equilibrismi appesi a un filo di voce.

Il megafono lo lascio agli specialisti del rumore. Preferisco che sia un serrato bisbiglio a preannunciare il mio arrivo.

Quante volte, sull’orlo del baratro, gridare e ridere a precipizio mi ha salvato la vita, permettendomi di silenziare il frastuono delle allusioni insensate.

Ho imparato ad amarlo, il silenzio. Riempiendolo di tremiti e di vibrazioni che mi arrivano forti, quando mi capitano sfioramenti di pelle. Di quelli che producono energie indefinibili con il metro umano.

Io spezzo i discorsi con le mani quando non riesco a prendere a morsi la durezza della vita, interrompo la catena dell’ovvio e mi perdo alla ricerca di curiosi indizi, disseminati tra gli scomparti.

Sto mezza aperta e mezza chiusa, abbarbicata a una cerniera rotta da cui sbucano sbuffi e saluti. 

Il bagaglio è ancora lì. Sbilenco, più di sempre.

Ostaggio di chiaroscuri, nel livido ombreggiare di una tenda scossa dal vento che ne camuffa le pieghe: pronta  per affrontare il cammino io non lo sono stata mai. 

Ma arriva un momento in cui rispondere a un’esigenza diventa imperativo categorico, è vera e propria terapia per l’anima. Aria buona per rinfocolare il cervello.

Coltivo il desiderio di capi leggeri, di indossare morbidamente le inquietudini. Me le lascio scivolare addosso senza imporre alcuna destinazione: seta per il cuore, velluto per la mente, broccato per il corpo. 

Rotola dal comodino una biglia di vetro colorato. Si strazia su e giù per il pavimento, inciampando in me e nella mia indecisione. È alla deriva, in un mare di destinazioni possibili.

Ne osservo il moto convulso e ascolto il fruscio che genera il suo sfregamento sul parquet. Mi imbambolo mentre pesco dai cassetti e frugo alla ricerca di frammenti, di ricordi da trascinare via.

Mi chino a raccogliere la biglia e la faccio ruotare sul palmo della mano: il rumore è diverso. Sono cambiati i pensieri. Io non sono più io.

Mi frugo nelle tasche piene di ipotesi ardite: so che sarò altro da me, al rientro. Un percorso mi aspetta mentre rifletto su come aspettarlo.

Non temo il vicolo cieco, lungo il quale si cammina a passo d’uomo: mi fa più paura l’autostrada della bestialità dalla vista perfetta, tripla chance di corsia dove se non sorpassi e vai a velocità costante, rischi di bruciare il motore o di rimanere asfaltato.

Penso che se dovesse ospitarmi un treno, lo spingerò via dal binario morto, se sarà un aereo volerà anche con un’ala sola e a piedi camminerò con una scarpa sì e una no: un viaggio viaggia da sé, anche così. 

Non serve pianificare, serve volere fortemente uno slittamento di asticella in alto. Una lieve traslazione di parabola verso un esito dai contorni più definiti.

Ho deciso che i tabù sono fatti per essere infranti e anche noi siamo fatti per disintegrarci tra amori folli e legami ruvidi, figli di bagagli semi disfatti.

Stropicciati, ci sparpagliamo nell’aria quando il vento vuole disperderci e ci ricomponiamo magicamente come puzzle perfetti quando, placato il suo impeto, finalmente la natura si riposa. 

Nella mia valigia ho chiuso il disagio della fissità di uno schema, un’educazione fredda e rigida come il marmo di questo pavimento che, ormai, ondeggia sotto i miei piedi portandomi dritta al mare, tra flutti e spruzzi da cui ho capito che è inutile ripararsi.

Mi mancherà tutto di questi luoghi, mi mancherà chi mi ha fatto compagnia abitandoli con me, mi mancherà la me che li ha vissuti col desiderio di renderli animati e parlanti. I luoghi siamo noi, permeati di luce e di emozioni vive e vere, che li attraversiamo rendendoli indimenticabili per la mente e per l’anima.

Sto fissando la valigia. La guardo prendere forma e plasmarsi, rinnovata nel turgore. Il tessuto è finalmente teso, senza grinze e pieghe: tutto ha una collocazione e anche i pieni fanno pace coi vuoti.

Ho scoperto che non ho un biglietto. Ho solo un invito a raggiungere il molo. E un disegno. Raffigura una imbarcazione a vela, candida come il cielo, quando si addensa di nuvole che precedono la tempesta. Ha un timone di legno, imponente e lucido. Dicono che la barca sia affidata a una donna esperta ma volubile che non ama i tentennamenti. Chi decide di salpare non ha modo di cambiare idea. Si affida. Come, a volte, capita anche nella vita.

Mi sono affidata tanto nella vita. Ho assecondato, ho accontentato ed elargito senza mai tenere niente per me. Il mio cuore lo sa e ha pagato più volte dazio per questo.

Ora basta. Ora c’è una nave che salpa. E io ho la valigia giusta per questo viaggio. E sono la donna giusta per affrontarlo con la consapevolezza della fruttuosità e dell’arricchimento che da tale esperienza mi deriverà.

Porto con me un taccuino, una penna e il mio pc. Poche cose che significano tanto, tutto per me.

Parto per un viaggio lungo come il mio bisogno di ritrovarmi, dentro e fuori.

Ne parlerò, ne scriverò, lo racconterò senza filtri.

E so che sarà bellissimo.


Valeria Frascatore_

Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.




Greenwashing, il lato oscuro della sostenibilità.

di Francesca Bux

“Investire nel Pianeta” è il tema scelto per la Giornata Internazionale della Terra del 2022 appena trascorsa.

Ogni anno, dal 1970, un mese e un giorno dopo l’equinozio di primavera, si celebra quella che è considerata la più grande iniziativa al mondo dedicata all’ambiente.

Obiettivo principale: sensibilizzare l’opinione pubblica sulla salvaguardia del pianeta, della biodiversità, promuovere l’uso sostenibile degli ecosistemi terrestri e invertire il degrado dei terreni.

Le Nazioni Unite, nel 2016, hanno scelto il 22 Aprile per adottare ufficialmente l’Accordo di Parigi, che rappresenta l’impegno più importante mai firmato contro la crisi climatica globale.

L’obiettivo del trattato è molto chiaro e prevede l’incremento comunitario di azioni mondiali e il suo raggiungimento può essere riassunto in 3 punti fondamentali:

– contenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto dei 2 °C oltre i livelli preindustriali e di limitare l’aumento a 1,5 °C

– aumentare la capacità di adattamento agli effetti negativi dei cambiamenti climatici, promuovendo la resilienza climatica e lo sviluppo a basse emissioni di gas a effetto serra, con modalità che non minaccino la produzione alimentare;

– rendere i flussi finanziari coerenti con un percorso che conduca a uno sviluppo a basse emissioni di gas a effetto serra e resiliente al clima.

Tutto molto bello e soprattutto estremamente necessario.

Ma cosa significa esattamente la tematica scelta e quali demoni si possono celare dietro una così nobile causa?

“Investire nel Pianeta” è un chiaro riferimento a come la finanza privata – influenzata e guidata spesso anche dalle nostre scelte individuali – è probabilmente uno dei più grandi acceleratori dei capovolgimenti di cui abbiamo bisogno per dare una svolta e mettere un freno ai disastri naturali causati solo dalla nostra noncuranza e senso di onnipotenza.

E’ quindi abbastanza semplice dedurre come, prendendoci cura della nostra Madre Terra, arrivino anche i vantaggi economici.

E qui entra in scena un termine che si è fatto conoscere molto negli ultimi tempi.

Stiamo parlando del Greenwashing.

Origine del nome:

Si tratta di un neologismo nato dalla sincrasi tra le parole “green” (il colore associato da sempre all’ambiente e al movimento ambientalista) e “whitewashing” (imbiancare e – in senso figurato – nascondere qualcosa).

La sua origine viene fatta risalire all’ambientalista statunitense Jay Westerveld, che per primo lo impiegò nel 1986 per stigmatizzare la pratica delle catene alberghiere, che facevano leva sull’impatto ambientale del lavaggio della biancheria per invitare gli utenti a ridurre il consumo di asciugamani, quando in realtà l’invito era mosso quasi esclusivamente da motivazioni economiche (nello specifico, era relativo a un taglio nei costi di gestione).

Ora noi lo utilizziamo per indicare una strategia di comunicazione adoperata da certe imprese, organizzazioni o istituzioni politiche finalizzata a costruire un’immagine ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale, con l’unico scopo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi per l’ambiente dovuti alle proprie attività o ai propri prodotti.

Esempio: avete sentito parlare della “JoinLife Collection” di Zara?

E’ una campagna sostenibile intrapresa dall’azienda, per mostrarsi sensibile alle conseguenze dei propri prodotti sull’ambiente.

Peccato che, come spiega a Will uno dei più agguerriti nemici di questa pratica, nonchè esperto in sostenibilità ambientale e sociale nella moda, Matteo Ward, analizzando le componenti di un capo presentato sul sito, è possibile notare come un tessuto composto da più di due diversi tipi di fibre non possa essere riciclabile. 

Inoltre, le stesse fibre derivano da combustibili fossili: questo significa che,lavaggio dopo lavaggio, viene rilasciata della microplastica.

E tutto ciò non è assolutamente né green, né Eco-friendly, né tantomeno etico.

I danni che conseguono un’attività di Greenwashing spaziano dalla perdita di credibilità a quello più serio che consiste nella mancanza di un’azione concreta per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità.

Per questo motivo, è fondamentale l’identificazione delle aziende che realmente hanno incorporato la sostenibilità all’interno della propria organizzazione, soprattutto per gli investitori ESG (Environmental, Social, Governance. Viene utilizzato nel settore economico/finanziario per indicare tutte quelle attività legate all’investimento responsabile (IR), che perseguono gli obiettivi tipici della gestione finanziaria tenendo in considerazione aspetti di natura ambientale, sociale e di governance). 

Il rischio, altrimenti, è quello di finanziare progetti e imprese che non apportano alcun beneficio per l’ambiente e le persone, vanificando così tutti i princìpi e le buone intenzioni della tematica di questa giornata.


Francesca Bux

Classe 1984.

Veneta dal sangue pugliese, intraprendente, riservata e creativa.

Attenta nei confronti delle nuove tendenze della comunicazione, con un occhio di riguardo per le campagne pubblicitarie di impatto sociale, innovative e fuori dagli schemi.

Lettrice eclettica, viaggiatrice anche solitaria, dipendente dalla musica e dalle espressioni d’arte come la fotografia, la pittura e la moda.

Amante delle rappresentazioni teatrali, tradizionali e indipendenti.

Non ho un mio blog, ma amo scrivere in quello degli altri.




La felicità

di Cristiana Caserta_

È forse un dono?

O un demone?

O è qualcosa che si costruisce? O si cerca?

Viene dall’interno? O dall’esterno? 

Dalla famiglia, come nella tragedia greca e nei romanzi russi? 

Qualsiasi risposta è già stata data.

“È un momento” mi disse una volta un amico, nelle acque limpide di Lampedusa, forse per vanto erudito citando un qualche autore di quelli che fanno colpo su una fanciulla che nuota da sola. Tipo Sartre, o qualcosa di simile. Me lo ricordo bene. Fra i ricordi sfocati di un viaggio di maturità, quelli che si facevano un tempo, a luglio inoltrato, con poche lire in tasca.

Arrivavi in un’isola, bianca bianca e con in testa ancora i versi a memoria di qualche tragedia – eit ofel’ Argùs me diaptastai skafos – e subito era scottatura e ubriacatura e amori di una sera.

Un momento, vorrei dirgli decenni dopo, è quello in cui cerchi di afferrarla per fissarla da qualche parte, per ricordartene, per dire agli amici: “ecco, ero felice”, per rispondere alla domanda che crediamo sempre ci venga fatta: “sei felice?”.

Sì: ho le prove! La luce era perfetta, l’acqua era limpida, ci sentivamo fatti l’uno per l’altra, toccarsi era bello e difficile – troppo ustionati! – ma quindi sì: felice!

Ma il fatto è che la luce poi cambia, e insomma non era poi così perfetto, e infatti ognuno ha nuotato per conto suo. 

Non devi cercare di afferrarla: è fragile la felicità! Si accorge se vuoi stringerla e si squaglia prima che tu possa dire: “eccoti!

L’ansia della felicità è infelicità pura. 

L’infelicità invece si lascia fermare volentieri. Gli infelici sono a loro modo felici: perché la loro infelicità è ben solida, personale, intima. È una compagna che non tradisce, che non si allontana, che si fa afferrare, richiede attenzione esclusiva, è gelosa! L’infelice fugge con cura ogni possibilità di felicità: evita di ricevere regali, di portare a termine progetti, di mostrare il lato migliore di sé, evita l’affetto degli altri e il loro aiuto. Tutto ciò lo (la) priverebbe del piacere di essere infelici, dell’autoerotismo dell’infelicità, della ruminazione ansiosa in cui gli altri sono nemici perché felici. 

Vivere accanto a un infelice cronico è l’inferno in terra. 

Sebbene l’infelice sembri amare la solitudine, in realtà odia la solitudine altrui, odia chi non cerca la sua compagnia anzi, chi non ha bisogno della sua compagnia. Il bisogno è nemico della felicità. È quindi illusoria e falsa l’autosufficienza dell’infelice: egli (ella) ha bisogno dell’attenzione altrui, delle energie psichiche, della gioia, dell’entusiasmo che pure critica.

Molto di più dell’esibizione di falsa felicità – quella dei social, delle celebrazioni chiassose, dei selfie sorridenti, del successo esibito – io temo la retorica della non esibizione, l’ostentazione del privato, dell’autosufficienza rancorosa, del compiacimento di gusti elitari e raffinati che ammantano di fascino lo squallido e il disadorno. 

La tragedia greca è – ovviamente – piena di personaggi infelici. Soprattutto donne. Fra le più infelici c’è Antigone. Sappiamo bene che Antigone è un’eroina: vuole a tutti costi seppellire il fratello Polinice e per farlo non esita a scontrarsi con le leggi e con il perfido tiranno Creonte. È inflessibile e rigida, ma lo spettatore è dalla sua parte perché la sua inflessibilità è migliore di quella – opposta – di Creonte. Ne ammiriamo il coraggio e la determinazione: faccia a faccia col tiranno afferma che il morire non le causa nessun dolore e anzi vuole affrettare la Morte. Ma, quando appare per l’ultima volta sulla scena, già condannata, si esprime in modo ben diverso: chiede di essere guardata mentre va a morire, si dispera per non avere conosciuto l’amore coniugale e perché non sarà pianta da nessuno, lamenta l’infelicità sua e della sua famiglia tutta, si autocommisera, non è più sicura che gli dei siano dalla sua parte. Il Coro si dissocia da lei: l’infelicità necrofila che ha coltivato per tutta la tragedia appare ora in tutta la sua inutilità. Nessun riscatto è possibile.  Neanche quello eroico. La sua vita le si rivela arida, povera, solitaria, senza eros, ora che è venuta a cadere la spinta antagonista e ribelle. Coerenza e assenza di conflitto – Antigone è stata incredibilmente sicura di fare bene e che nient’altro esistesse, non l’amore per la sorella né per il fidanzato, oltre al suo dovere di pietà – si rivelano scelte pietrificanti e raggelanti. La morte di Antigone non è ‘bella’ né eroica, ma solitaria e patetica. 

Questa tragedia, così amata, ci mostra che le opposte richieste dei due personaggi, così rigide, non possono essere armonizzate in modo da rendere giustizia ad entrambe: ogni scelta implica il rifiuto di qualcosa, ogni valore si afferma in modo totalizzante e senza appello; per evitare il conflitto e il dolore conseguente, per vivere in modo coerente, Antigone si condanna all’infelicità totale, all’insensibilità, alla solitudine vera.

Felice è il coraggio del vuoto, della non aspettativa, del conflitto, dello spazio aperto a ciò che accade, a ciò che non è nostro e non possiamo possedere, che ci può solo essere regalato e non potremo usare per rispondere “” alla domanda se siamo felici. 

[Perché viene prima il sì e poi la felicità]


Cristiana Caserta_

LinkedIn Top Voice 2020; 

Scrivo, studio, insegno materie con le tecnologie, sono pratica di formazione, giornalista free lance, multipotenziale.




Che ne sarà della Z-Generation? [e della nostra].

di Mario Barbieri

Già che ne sarà della Z-Generation e della nostra, che ne sarà dopo che la Z sembra sia divenuta suo malgrado una sorta di “marchio d’infamia”, come fu la “lettera scarlatta” o altri pittogrammi/simboli che neppure credo sia il caso di nominare.

Pare infatti allungarsi l’elenco della Aziende che rimuovono/rivedono il proprio logo dove la Z è più o meno dominante.

– Qualche settimana fa  Zurich Assicurazione comunica di voler rimuovere (pare temporaneamente) il logo con la lettera Z per dissociarsi dall’invasione russa in Ucraina.

– Qualche giorno prima l’azienda britannica Ocado aveva deciso di modificare il logo del servizio di spesa veloce online Zoom.

– Un altro caso è quello di Zetland, società di media danese fondata nel 2012, con sede a Copenaghen, un sito d’informazione che pubblica articoli d’approfondimento e podcast per abbonati.

Sinceramente sono perplesso… si va diffondendo la “sindrome dell’inconsciamente colpevole” o “dell’incolpevole fiancheggiatore”, ma tutto questo ha un senso?
Ha senso stravolgere il proprio logo e chissà cos’altro dell’immagine di un Brand, con i costi annessi connessi e derivati? E fino a quando?

Grazie ai commenti al mio post in tema su Linkedin, trovo specificato da @Stefano Vatti, che «sono 168 i marchi registrati a livello comunitario che recano la sola lettera “Z”…»
Che dire? Almeno avvisiamoli tutti dei rischi che corrono.

Altri commenti perplessi come quello di @Katia Bovani: «Dismettere un logo identificativo di un’impresa consolidata e di un brand il cui valore economico-finanziario è composto anche da segmenti immateriali (come il logo) che fanno parte della pura azienda, non è decisione che l’organo amministrativo può assumere sull’onda emotiva. Men che meno per il timore di essere assimilati a un corpo militare invasore.»

O di @Mariangela Ottaviani: «…proprio per prendere le distanze da queste “sindromi”, è più che mai importante mantenere la propria identità.
Se poi si tratta di un brand come quello al quale ti riferisci (Zurich), fondato nella seconda metà del 1800, allora non mi preoccuperei di cambiare logo. Dopo un secolo e mezzo quell’azienda è ancora presente… abbiamo forse chiesto scusa a Bartolomeo Cristofori e variato il numero dei tasti del pianoforte*, quando l’88 è stato associato a “certi ambienti” politici dopo la seconda guerra mondiale?».

Commenti che aiutano a riflettere, perché viviamo un periodo storico dove la forte pressione “social-moral-puritana”, vorrebbe tutti indistintamente equidistanti da ogni “male” (dove il concetto di male è tra l’altro molto “liquido”), obbligatoriamente schierati, perennemente tesi a cospargerci il capo di cenere per gli errori altrui e il non-farlo diviene automaticamente connivenza.
Se poi il pensiero social-sociologico individua un suo simbolo pro o contro, che sia un colore o la pressione di un ginocchio, il perverso gioco e fatto!

Altra cosa è ovviamente non solo prendere le distanze con dichiarazioni pubbliche, ma anche intervenire con azioni concrete, finanziarie dirette o meno a sostegno della “causa” che si intende appoggiare.

Nel frattempo difronte a questo dilagare di Z-Remove Potemmo consolarci ipotizzando un lato positivo sul fronte delle “nuove occupazioni” (se non cambiano le cose) l’ SMBC (social-moral-brand-consultant) e per i gruppi più grandi, compartimenti dedicati con professionisti laureati in Storia, Storia delle Religioni, Sociologia, Psicologia (delle masse possibilmente) con forte propensione al settore “social-comunication”.

Oggi c’è chi viene costretto a prendere posizioni con gesti tanto visibili quanto talvolta effimeri oppure si “mette avanti” a scanso di equivoci.

Penso finiremo per vestirci tutti dello stesso colore (o colori), studiando una Storia “rivista e corretta” (come non lo fosse già abbastanza), consolandoci che colori e Storia, potranno cambiare di volta in volta a seconda del “male” di turno. 

*(Oggi poi dividere i tasti di un pianoforte tra “bianchi e neri” potrebbe diventare un problema)


Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti.
Appassionato di Design e Fotografia.

Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.

Blog:
https://ceuntempoperognicosa.wordpress.com/
https://immaginieparoleblog.wordpress.com/




Un’ombra negli occhi.

di Mario Barbieri

In un tempo come questo, amareggiato, ferito e sconvolto da una guerra che appare tanto assurda, che nella crudezza di tante immagini ci riporta a una delle realtà tra le più terribili e sconvolgenti dell’Uomo che si volge al male, alla violenza, all’odio, alla barbarie, a ciò che lo trascina verso il disumano, quando non nel diabolico, può forse far bene il realismo, la triste verità di un film come “UN’OMBRA NEGLI OCCHI” (su Netflix).

Un film realmente superbo, che sarebbe riduttivo considerare semplicemente un “film di guerra”. Una storia che prende le mosse da un avvenimento realmente accaduto a solo un mese dal termine del secondo conflitto mondiale [*] e che ci racconta di vita, di amori, di fede, di dubbi e conflitti tutti interiori e di come la guerra, possa sconvolgere tutto in un solo istante. Di quanto ci sia di assurdo, di crudelmente beffardo, di inumano, di spietato, di cieco e tragico, in qualsiasi conflitto armato.

Di come poco cambia se il fuoco sia “amico” o “nemico”, di come raramente “il fine giustifichi i mezzi”, di come con assoluta certezza, indicibili sofferenze verranno inflitte ai piccoli e agli innocenti, anche laddove l’obbiettivo fosse raggiunto.

Un racconto che non vuole per forza indicarci un nemico, qualcuno da odiare o da distruggere pensando così di ottenere giustizia, tanto che è chi doveva essere amico che causerà il danno maggiore.

Ma in un tempo sospeso in cui tutto sembra crollare assieme agli edifici, un tempo in cui pare “Dio abbia lasciato cadere la matita” (bisogna vedere il film per comprendere questa metafora), l’Uomo ancora una volta, spinto dalla profonda ribellione verso il male e la morte, sa ritrovare in sé la forza, le risorse, la profondità d’animo che alla tragedia non consente la parola “fine”. Che al Male non lascia l’ultima parola. Là dove lacrime e sorriso si mischiano in mezzo alla polvere e al sangue, là dove disperazione e speranza combattono ad armi pari e l’epilogo non è certo.

Questo è uno di quei film che vanno ben oltre lo spettacolo, che parlano al cuore pur colpendo allo stomaco.

https://www.netflix.com/it/title/81186240

[*] A seguire la breve ricostruzione storica della tragedia raccontata dal film, ma conviene tralasciarne la lettura se si vuole godere appieno della storia, lasciandosi coinvolgere dalla scoperta di quanto dovrà accadere.

Il 21 Marzo 1945 la Royal Air Force britannica, dopo numerose richieste e dietro l’insistenza della resistenza Danese, decide di dare il via all’operazione “Cartagine” che aveva come obiettivo il bombardamento  del palazzo Shellhus, allora sede delle Gestapo a Copenaghen dove venivano reclusi e torturati diversi membri del movimento di resistenza Danese e si conservava un nutrito schedario che metteva a rischio (così si riteneva) l’esistenza stessa della resistenza.

Parteciparono 20 bombardieri “Mosquito” in tre ondate da sei velivoli ciascuno (più due ricognitori) che nonostante le perdite (6 aerei e 9 membri dell’equipaggio) raggiunsero e praticamente rasero al suolo la sede della Gestapo.

Disgraziatamente, uno degli apparecchi, dopo aver urtano un edificio (lo Shellhus era situato nel pieno centro cittadino) si andò a schiantare nelle immediate vicinanze della scuola cattolica di lingua francese “Giovanna d’Arco”.
I fumi e le fiamme lavatesi dallo schianto, trassero in inganno più di uno dei piloti della RAF, che sganciarono il loro terribile carico di bombe proprio sull’istituto, causando così la morte di 39 tra insegnati e inservienti e 86 bambini oltre a numerosi feriti.

A distanza di poco più di un mese, il 25 Aprile del 1945, verrà dichiarata la fine di quello storico conflitto.


Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti.
Appassionato di Design e Fotografia.

Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.

Blog:
https://ceuntempoperognicosa.wordpress.com/
https://immaginieparoleblog.wordpress.com/




Evitare di sentirsi soli.


di Valentina Serafin 

Ho osservato una continuità di comportamento tra chi prima si lamentava per i vaccini e il green pass e oggi sostiene le ragioni della guerra e di Putin.

Sono arrivata a leggere addirittura che le immagini di guerra trasmesse dalle TV e dai social fossero finte, con l’obiettivo di distrarre l’attenzione dal Covid, o addirittura, che la guerra sì, c’è, ma è stata voluta da Putin per liberare il mondo dal DeepState e dal Satanismo, così come aveva tentato di fare Trump durante il suo mandato. Il complottismo, come si vede, è senza limiti e chi lo coltiva non si preoccupa di contraddirsi in continuazione.

Quello che, però, è sempre più evidente, è la continuità di azione tra coloro i quali prima manifestavano contro il vaccino e il tentativo di ridurre i contagi (negando l’esistenza del Covid) con quelli che oggi negano la responsabilità di Putin per la guerra, addossandola tutta alla NATO.

Ciò che appare chiaro è che il passaggio da NO VAX a SÌ PUTIN è un approccio ai problemi del mondo che mostra una preoccupante continuità, e che si sta sedimentando nell’opinione pubblica.

Il rischio a lungo termine è che il sistema di credenze, malleabili, delle folle anti-lockdown e complottiste potrebbero trasformarsi in azioni antigovernative a prescindere dall’evento stesso.

Sto parlando di una sfiducia diffusa in tutto ciò che appare come “mainstream“e, per quanto siano lodevoli e sempre da incoraggiare l’anticonformismo e la capacità critica, qui noto qualcosa di diverso, cioè il desiderio di sentirsi controcorrente sempre e comunque.

Il pensiero comodo, banale, quindi facilmente sposabile, è che se la TV o i giornali dicono una cosa, allora deve essere vero l’esatto contrario. 

Certo, a volte questo succede, soprattutto nei regimi dittatoriali; come avviene in questo momento in Russia, per esempio, le immagini della distruzione provocata dai bombardamenti su Mariupol vengono denunciate dalla TV russa come effetti della ritirata ucraina, che si lascerebbe terra bruciata alle spalle.

Pensare, però, che questo avvenga sempre e comunque, soprattutto in una democrazia come la nostra, dove la libertà di stampa è garantita dalla costituzione e dalla pluralità della stessa, è oggettivamente un po’ troppo.

Un pregiudizio che rende totalmente ciechi e non disposti a valutare alternative, di fronte a qualunque tipo di evidenza verificabile e dimostrabile.

Credere che sia vero solo ciò in cui si vuol credere è una forma di ottusità, innegabilmente efficace, che disarma l’interlocutore, anche se questo è mosso dalle migliori intenzioni e dalla totale disponibilità a spiegare il suo punto di vista.

Quale può essere il motivo di tanta ottusità? Il fatto di sentirsi emarginati, senza voce, minacciati dalla diffusione dei valori di uguaglianza, parità e antirazzismo?

Oppure, tra loro, c’è un antisistema ad oltranza e una diffidenza totale verso l’informazione tradizionale?

Molti sono, e questo lo insegna la storia, manipolati per secondi fini, a loro stessi ignoti. Diventano un mero strumento per ottenere altri risultati, di cui loro pagano solo le conseguenze e raramente raccolgono benefici.

La manipolazione di sentimenti e ragioni, che rende possibile l’aggregazione tra persone che normalmente si detesterebbero: dall’estrema destra all’estrema sinistra, dai sovranisti ai liberalisti, dai fanatici religiosi ai cultori di chissà quale altra disciplina.

Chi è disposto a credere alle fantasie di complotto, passa con disinvoltura da una teoria all’altra: basta convincersi di avere capito tutto, di essere più furbi della massa e assurgere a “paladini del pensiero libero”.

Il passo è breve.

Ma in realtà, convincersi che tutti mentano, siano ciechi o sottomessi al potere non significa essere pensatori liberi, è solo un’altra forma di ingenuità.

Esiste una soluzione? Il percorso è di tipo culturale, di educazione, di mentalità, un processo lungo che richiede l’impegno di istituzioni e singoli cittadini.

Respingere disinformazione e falsità richiede innanzitutto la capacità di mettersi in discussione, di saper ascoltare il disagio di chi si sente lasciato indietro.

Ricordiamoci che siamo tutti esseri umani, che ognuno di noi è fallace, e ha pregi e difetti; possiamo e anzi dobbiamo avere opinioni diverse, ma contestualmente abbiamo il dovere di impegnarci con costanza a saperle sostenere con civiltà ed educazione, con l’obiettivo di trovare un punto comune, di armonia, di contatto.

E’, forse, l’unico modo che ci rimane per evitare di sentirci soli.


Valentina Serafin collabora con PIUATHENA ed ha una esperienza pluriennale come Presentatrice, Conduttrice TV e Speaker radiofonica, acquisita collaborando con le più importanti realtà del settore.




No alla violenza!! [ma a quale violenza?]

di Mario Barbieri

Mi spiace non parliamo di guerra in Ucraina e sembrerà un banalità parlare di quanto accaduto sul palco del Dolby Theatre nell’appena trascorsa notte degli Oscar, quando c’è tanta violenza, tanto sangue che scorrono a noi così vicino, con conseguenze e ferite che difficilmente si rimargineranno, ma mi perdonerete se non mi lancio in valutazioni di eventi che completamente mi sovrastano…

Torniamo quindi ad un evento di risibile portata mondiale, anche se per un po’ se ne parlerà, anche se entrerà negli annali dell’Academy e delle sue “Notti dell’Oscar”.

Parrebbe una sfida a singolar tenzone e certamente in tempi andati così sarebbe finita la cosa. Un schiaffo con il guanto (per il massimo disprezzo) e un rimando ai padrini per la scelta delle armi e una richiesta al “primo sangue” quando non all’ “ultimo”.

Forse e dico forse, Chris Rock in tempi di duello ci avrebbe riflettuto due volte nell’usare la sua lingua come spada. Già perché è risaputo, la lingua ferisce, affonda e può anche uccidere, ma a quanto pare la violenza del pugno di Will Smith, ha soverchiato l’altra, è assurta in quanto fisica, al valore di “inaccettabile”, ma è proprio così?

Intanto perché “pugno”, come ovunque piace scrivere? Se Smith avesse assestato un pugno a Rock, questi, nonostante il suo cognome, sarebbe certamente finito “a tappeto”, incapace di riprendersi tanto in fretta. E’ stato un SCHIAFFO quello che Smith ha dato a Rock e lo schiaffo ha un senso molto diverso, quando dato ha chi ha offeso o procurato offesa, perché non dimentichiamo che offesa e ferita c’è stata e non è che in nome della satira o della burla tutto può essere concesso.

Viviamo in un tempo di anime belle, dove ormai qualunque gesto può essere considerato “violenza” e solo più di recente consideriamo la violenza verbale, il ferimento gratuito e ingiustificato di sensibilità o di debolezze altrui, magari più a livello “social” che non in altri contesti come quello del monologo comico-satirico in questione.

C’è un’altra considerazione da fare: non era Smith il bersaglio della violenza dell’ironica, improvvida battuta di Rock, al ché si potrebbe dire “dai Will, incassa, prendi e porta a casa”, ma ad essere colpita è stata la moglie Jada. Colpita in un aspetto che già la fa soffrire e la mette in seria difficoltà.

Facciamo pure i pacifisti, ma chi non avrebbe reagito a difesa di chi si ama? Certo magari non fisicamente, magari con un bel fuck you Chris! Ma ognuno ha il proprio temperamento e Smith, trattenendo il suo, ha solo dato un bello schiaffone a chi irridente pensava anche di essere stato “comico”, mentre è stato solamente meschino.

Ma oggi è Will Smith, che dovrebbe chiedere scusa a Chris Rock, è lui il “violento” che rischia persino la denuncia e l’arresto.

Ma chiederà scusa Chris a Jada? Rischia forse lui la denuncia? Va bene così?

Beh, se va bene così, allora un bello schiaffone in faccia, se lo meritava proprio e se lo deve anche tenere.


Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti.
Appassionato di Design e Fotografia.

Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.

Blog:
https://ceuntempoperognicosa.wordpress.com/
https://immaginieparoleblog.wordpress.com/




L’AMOREVOLE CAREZZA DELLA PIENA COMPRENSIONE

Photo by Gregory Acs

di Valeria Frascatore_

E’ già da un po’ che siedo su questo divano:è pacioccosamente morbido e io ci sono affondata, abbandonandomi a una posa rilassante tra enormi cuscini, disposti a corolla intorno a me.

A testa in giù e con le gambe all’aria, giusto per rimodulare il senso delle proporzioni e conferire dignità superiore a tutto quello che, compresi i miei arti, è collocato in una dimensione di piena inferiorità.

Come calice di quella corolla, accolgo pensieri, sensazioni, fardelli che dondolano, cullati dalla lieve brezza che filtra dalla finestra spalancata sul cielo di un anonimo e banale mansardato urbano. Li abbraccio e mi abbraccio, aspettando l’arrivo di un’inattesa impollinazione che faccia sussultare il fiore, chiamandolo a nuova vita.

Un raggio di sole, impavido, battagliando con il plumbeo ardore di un cielo ancora tipicamente invernale, raggiunge la stanza posandomisi sulla caviglia nuda e svela la mia abitudine di gironzolare per lo più scalza, con i pantaloni leggermente scostati dalla parte terminale della gamba. Reagisco così io, opponendo un senso di libertà al rigore della temperatura come alla rigidità in generale, la mia…quella altrui: combatto gli assalti del giudizio e mi lascio fissare da mille occhi incuriositi dalla posa che, in questo momento, ho assunto.

Mi metto a braccia conserte, come sempre quando sto per cominciare a parlare e devo raccogliere le idee: mi rivolgo al mio interlocutore che, avidamente, mi gironzola intorno, nel tentativo di partecipare al banchetto e di assaggiare a morsi le diverse, succulente pietanze disposte tutt’intorno.

Penso improvvisamente alle mie caviglie e all’idea che anche quelle possano essere addentate, nella confusione mangereccia, divoratrice di anime e di identità.

In questa vorace dimensione di appetiti umani, la mia fame di attenzione vaga, confusa, da una parte all’altra della stanza e zampetta tra gli arredi prima di scivolare,crepitando, tra le fiamme della legna che arde nel caminetto.

Sono esattamente al centro di un vortice d’aria in cui si incontrano due mondi: il vento proveniente dall’esterno e il tepore del fuoco acceso. Si congiungono,come amanti resi impazienti da un desiderio ingestibile,e in mezzo ci sono io a fare da conduttore di elettricità, in una atmosfera che si fa sempre più trascinante.

Le mie confessioni ora si fanno più spontanee e serrate, prendono il ritmo della carnalità del congiungersi senza troppi ragionamenti all’uditorio.

Ho gli occhi chiusi e distinguo soltanto profumi: sono invoglianti, ma il pensiero che mi distolgano dal fiume di parole che sto per pronunciare mi sprona a dar loro voce, senza più indugio.

Parole scontate, banali e istintivamente semplici si liberano: mi ascolto nel pronunciarle e mi agito in maniera convulsa per acciuffarle a mani nude e ricacciarle indietro, convinta che siano quelle sbagliate. Figlie di un fraintendimento, mi svolazzano intorno prendendosi gioco di me in un folle e frastornante maramao. Le prendo a cuscinate e la corolla del fiore si spampana.

I petali, sparpagliatisi tra le pieghe del candido divano, disegnano una mappa. Spalanco gli occhi e la osservo, quasi a cercare risposte degne di ascolto e di fiducia. La direzione…cerco solo la direzione…della piena comprensione e ora mi proteggo il viso con le mani.

Se riceverò una carezza o uno schiaffo lo ignoro. Ma temo allo stesso modo ambedue le prospettive. Quegli occhi famelici vogliono che io mi riveli, vogliono sapere di più e frugano alla ricerca di tutto quello che sono convinti gli stia dolosamente negando.

Sulla mappa leggo parole d’afflizione amorosa che vagano tra i petali della corolla ricomponendone il disegno naturale, la finestra si spalanca e la luce si sposta sul mio viso che non è più protetto, esaltandone i lineamenti corrucciati dall’imbarazzo.

Vorrei unirmi al banchetto divoratore di emozioni e prendere a morsi i cibi invoglianti, far rumore, dare fastidio, ronzare all’infinito nelle orecchie degli astanti, come un qualsiasi insetto scocciante.

Punzecchiare qua e là, assaggiare e volar via quasi senza posarmi. Non si può. Non è la cosa giusta per me. Essere parte attiva di questo baccanale è il messaggio veicolato dalla mappa. Non si sono proprio accorti di me, non mi stavano guardando…avrei potuto trascorrere ore qui sdraiata,nella più totale indifferenza.

C’è una solitudine schermata, incompresa che mi fa parlare e mi abilita ai ceffoni. La creo, la costruisco, c’è anche ora…qui…su questo divano,dove la nudità dell’anima,che andrebbe accarezzata,viene umiliata e derisa.

Gli occhi di chi la giudica sono sempre limpidi e spietati, i miei sono imploranti e velati di inquietudine.

Parlaci di te, parlaci di questa personalità tormentata e indegna di carezze. Scrivi dei tuoi cedimenti, delle tue cadute e di quando ti nascondi dietro a una metafora come un animale in fuga si rifugia tra i cespugli del bosco intricato di congetture e arditi costrutti mentali.

Vuoi scappare, vuoi sottrarti anche stavolta?E dove fuggirai senza aver rivelato pressochè nulla di te?

Guardati, affrontala questa realtà, fatti violenza e accettati, con tutti i tuoi limiti e i tuoi disagi. Smetti di osservarla la mappa,perché ti sta depistando:strappala,anzi,e gettala tra le fiamme del camino, in modo che alimenti altro da te.

Mi sono alzata dal divano, con uno scatto felino e furioso, ho afferrato il cappotto e sono scesa in strada. Non sopportavo più la pressione. La avvertivo sulla pelle, incalzante come quelle voci che mi inducevano a strapparmi via la maschera.

Nel percorrere a piedi la rampa di scale pregustavo una breve fuga, un momento di riappacificazione da un tormento interiore fattosi troppo lungo e snervante.

La piazza sotto casa era stranamente affollata: si stava svolgendo uno spettacolo di sbandieratori. L’atmosfera era quella della festa, quella di cui magari,a volte, neppure ci si accorge,quando si è in preda a un incessante rimuginio di pensieri.

Nell’aria si sollevavano, a ritmo del suono dei tamburi, tessuti di ogni foggia e colore:mi sono confusa in quel crogiolo di umanità festante e,mentre ero con il naso all’insù, ho improvvisamente scorto in lontananza un volto amico che stava con il naso all’insù come me.

Un incrocio di sguardi di pochi secondi, a distanza,e senza neppure gesticolare.

Un’intesa intensa, nata da un sorriso schietto e immediato, che è arrivato a illuminarci il volto mentre il cielo si abbandonava, lasciandosi solcare da un tripudio di bandiere svolazzanti, distese, come i lineamenti dei nostri volti, esposti al vento della piazza gremita.

Nel dispiegarci reciprocamente attraverso quei sorrisi, finalmente l’ho sentita scorrermi sul viso, quell’amorevole carezza di una comprensione piena.

E’ arrivata nel frullio della stoffa di una bandiera volata più in alto delle altre, in un punto del cielo in cui il giudizio, l’equivoco e la distorsione non possono arrivare. Dove solo un gesto genuinamente gentile scioglie i volti contratti dall’alterigia e dalla paura di comprendersi.

E’ stato allora che ho capito che davanti a una carezza si resta, non si fugge.


Valeria Frascatore_

Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.




Assuefazione.


di Andrea De Leo

L’uomo, inteso come essere umano, ha la capacità di adattarsi al mondo circostante. Ciò gli ha permesso, come specie, di sopravvivere e di arrivare a governare il pianeta.

Questa prerogativa –  di fronte a fenomeni straordinari, siano essi eventi naturali, catastrofi, o crisi sanitarie come quella recente –  rischia però di ritorcerglisi contro.

La sovraesposizione mediatica di questi eventi, e in questo assume una importanza fondamentale il modo in cui questi vengono presentati, potrebbe comportare una forma di assuefazione e di confusione tra la realtà e la finzione.

Mi è capitato di ascoltare, mentre vedevo in tv le scene degli afghani che camminavano nella neve con le ciabatte o addirittura scalzi, dei commenti divertiti di alcune persone che erano vicine a me.

La scena, indubbiamente, non aveva nulla di divertente, e credo che nessuna persona dotata di un minimo di capacità intellettiva, non avrebbe dubbi a definirla “terribilmente drammatica”.

Ho recentemente letto un articolo nel quale un noto psicologo si interrogava sulla ineluttabile perdita di empatia che molte persone hanno verso le tragedie di altri esseri umani.

“Assuefazione”, è la risposta che si è dato.

L’esposizione senza filtri, sia da parte dei media che dei social, di eventi drammatici che diventano ogni giorno più frequenti e la sensazione errata che questi colpiscano solo altrove, rende le persone incapaci di provare quella empatia che si dovrebbe sempre avere quando si vede qualcun altro soffrire.

Se ci fate caso, quando passano nel feed del vostro smartphone le pubblicità umanitarie che mostrano scene oggettivamente devastanti –  ad esempio bambini affamati o con ferite di guerra –  immagini sapientemente usate per stimolare il coinvolgimento emotivo al fine di ricevere donazioni – inizialmente, di fronte a questi video si assume una presa di distanza che è dovuta a sensi di colpa; ma poi con il tempo subentra una forma di indifferenza, direi una forma di generico cinismo, e si passa velocemente oltre.

Affaticamento emotivo di fronte alla sofferenza altrui?

«Le persone vanno semplicemente in una sorta di burn-out» affermava lo psicologo nell’articolo.

Una forma di superamento del limite oltre il quale una persona è andata oltre le sue possibilità di “empatizzare” con altri esseri umani.

Come ogni altra forma di eccesso, che causa una sorta di rifiuto del prodotto di cui si è abusato, l’esposizione alla sofferenza altrui può superare un limite oltre il quale ci si rifiuta di andare, di guardare o di sentire, e quindi si diventa totalmente indifferenti.

E se questa capacità di andare oltre si radicalizza nell’essere umano, ormai sovraesposto da troppe informazioni, l’empatia verrà sovrastata da una forma di apatia emotiva che renderà le persone non più coinvolte ed interessate ad essere solidali ed aiutare chi viene travolto da tragedie e disastri o , ancora peggio , verso persone o popolazioni che si trovano in condizioni di cronica sofferenza e che sono esposte a fenomeni di lunga durata, come il ripetersi di eventi naturali catastrofici o una lunga pandemia.

Se l’essere umano giunge al punto di accettare acriticamente e apaticamente tutte le tragedie che colpiscono i suoi simili, ritenendo erroneamente che queste capitino solamente agli altri, mostrandosi dunque indifferente ed  ignorando così tutte le contraddizioni della sua morale, allora la sua debolezza intellettuale non sarà più una eccezione, bensì una misera e condannabile  normalità.


Andrea De Leo