Le tecniche del marketing sono davvero molteplici e si nascondono dietro bisogni, esigenze e illusioni, che troppo spesso non pensiamo nemmeno di avere.
Una di queste è la Scarcity Marketing.
Per Scarcity Marketing si intende quella strategia che utilizza il principio di scarsità (questa è infatti la traduzione italiana), facendo leva sui timori del consumatore di non possedere uno specifico servizio o prodotto e agendo sulla sua paura inconscia di perdersi qualcosa.
Da qui, si crea quindi un vero e proprio senso di urgenza, una necessità di acquisto che porta a non perdere tempo e non ragionare sull’effettiva utilità dell’acquisto.
Elementi che la caratterizzano:
– offerte a tempo limitato (urgenza)
– posti limitati (esclusività)
– pezzo unico (rarità)
– ultimi pezzi rimasti (eccesso di domanda)
A questo punto, siamo certi che avete capito benissimo di cosa stiamo parlando!
Questa subdola quanto affascinante strategia, si basa sulla psicologia cognitiva, ovvero quel principio secondo cui gli esseri umani sono portati a desiderare ciò che gli appare come limitato o che rischia di non essere più reperibile.
Lo psicologo americano R. Cialdini – uno dei primissimi studiosi a descrivere il principio di
scarsità applicato al marketing – ha affermato che “le opportunità sembrano più preziose
quando la loro disponibilità è limitata” e che “la scarsità porta l’individuo a
desiderare ciò che appare come limitato o che rischia di non avere più a causa di
un’attesa prolungata”.
In sintesi, sembrerebbe che noi siamo più portati a desiderare quello che risulta praticamente quasi impossibile da avere.
“Per FOMO (acronimo per l’espressione inglese “fear of missing out”, letteralmente “paura di essere tagliati fuori”) si intende quella paura o ansia sociale di perdere, non aver accesso o essere esclusi da eventi, esperienze, contesti sociali rilevanti”.
Si tratta di una delle dinamiche tipiche di Internet e possono essere spiegate semplicemente come l’impulso di vedere immediatamente le Stories pubblicate da amici e personaggi famosi su Instagram, lo scrolling automatico che facciamo su Facebook, le serie tv da guardare subito non appena escono, così da poterle commentare immediatamente e stare al passo con i discorsi.
Quindi la FOMO unita alle tecniche di Scarcity marketing, costituiscono una combo pazzesca per indurre a comprare d’impulso e non ragionare abbastanza su quello che si sta acquistando.
Due condizioni indivisibili arricchiscono la situazione: il desiderio di esclusività e quello di popolarità.
Basandosi su questi princìpi, la maggior parte delle strategie di Scarcity marketing più diffuse possono essere suddivise in:
– Limited-Time Scarcity (LTS), dove il consumatore è consapevole di avere
un determinato limite di tempo per ottenere il prodotto, spesso alle
condizioni di una promozione in corso
– Limited-Quantity Scarcity (LQS), dove il consumatore è informato della
limitata disponibilità di un certo prodotto in vendita e quindi del rischio di non
poterlo acquistare in futuro, perché esaurito (innescando così anche la FOMO).
Rendere prodotti / servizi / situazioni disponibili solo per un determinato periodo di tempo, facendo intendere che è vantaggioso fare l’acquisto esclusivamente in quel momento, è uno dei pilastri dei saldi nei negozi e degli sconti proposti da alcuni brand (come i famosi Prime Days di Amazon).
C’è da dire che ormai tutti noi siamo abituati a questo meccanismo, quindi, per non perdere l’efficacia del meccanismo, vengono create altre situazioni, che sostengono la semplice idea del “pagar meno”.
Edizioni limitate, limitata disponibilità, countdown di fine offerta, ma anche prezzi proibitivi (spesso usati nei settori del lusso) sono solo alcune delle sfaccettature di questa strategia, così semplice ma efficace.
Casi studio
Coca Cola
Nel 2011 la Coca Cola lanciò in Australia una campagna di marketing multinazionale
nella quale il noto logo veniva sostituito con un nome di persona, da scegliere tra i 250 più popolari nel Down Under.
Come sappiamo, la campagna ebbe così tanto successo, che fu successivamente lanciata in oltre 80 paesi!
In Australia, fu stimato un aumento del 4% della quota di Coca-Cola nel suo
settore ed un aumento del 7% nel consumo da parte dei giovani adulti
Negli Stati Uniti, l’aumento delle vendite si attestò ad oltre il 2%, invertendo un
trend al ribasso che durava da più di 10 anni
Molti esperti del settore pubblicità hanno sfruttato successivamente il successo
della campagna “Share a Coke” per ricordare l’efficacia della personalizzazione
del messaggio promozionale
Hermès
L’ambasciatore indiscusso dell’applicazione dello Scarcity Marketing nel settore moda di lusso, è sicuramente Hermès.
Per acquistare una Birkin o una Kelly ,le liste d’attesa possono arrivare fino a due anni e il prezzo varia dai 7.000 ai 100.00 euro.
La difficolta d’acquisto però non è un deterrente, bensì un motivo in più per volere la borsa e distinguersi dagli altri.
Maison Cléo
Un giovane brand parigino, con 200 mila follower su Instagram, che vede le sue collezioni andare in sold-out in poche ore.
Come ci riesce?
L’idea della fondatrice è davvero semplice: utilizzare solamente tessuti di scarto, per motivi di sostenibilità ambientale.
Tutte le settimane, in base ai materiali recuperati, Maison Cléo crea abiti ogni volta diversi.
La comunicazione avviene solo tramite il profilo Instagram e i vestiti vengono venduti sull’e-commerce il mercoledì.
Questo sistema crea grande interesse attorno al brand, perché le novità sono costanti e i pezzi limitati.
Lidl
Nel 2020, la famosa catena di supermercati ha deciso di creare una propria linea di abbigliamento.
Forse non tutti sanno che i capi targati “Lidl Fan Collection”, sono nati dopo una precedente iniziativa del colosso tedesco, che offriva ai clienti la possibilità di vincere dei calzini, se si fossero recati in negozio per un selfie.
Ebbe talmente tanto successo che, dopo pochi mesi, sono usciti sul mercato cappelli, scarpe, magliette e ciabatte con i colori e il logo del supermercato, ad un prezzo davvero basso, quasi ridicolo.
Qui è stata la svolta: in poche ore si è registrato un imprevisto tutto esaurito e quei capi acquistati per pochi euro, sono stati ritrovati su EBay a cifre folli.
Ma perché funziona così bene questa tattica di mercato?
– Amiamo creare scorciatoie in un mondo così sempre complesso e frenetico.
È facilissimo determinare il valore di qualcosa in base alla disponibilità: se è rara, supponiamo che sia di qualità superiore e che valga ben più di un oggetto comune, facile da ottenere.
– Il principio di scarsità limita il numero di opportunità che abbiamo a disposizione.
Diminuendo le opportunità, perdiamo la libertà di scegliere e noi siamo psicologicamente portati a reagire fermamente contro questa perdita (reattanza psicologica).
Veneta dal sangue pugliese, intraprendente, riservata e creativa.
Attenta nei confronti delle nuove tendenze della comunicazione, con un occhio di riguardo per le campagne pubblicitarie di impatto sociale, innovative e fuori dagli schemi.
Lettrice eclettica, viaggiatrice anche solitaria, dipendente dalla musica e dalle espressioni d’arte come la fotografia, la pittura e la moda.
Amante delle rappresentazioni teatrali, tradizionali e indipendenti.
Non ho un mio blog, ma amo scrivere in quello degli altri.
Avatar 2, un primo giorno in stile Thor
di Redazione Online
Nessun record.
“Avatar: La via dell’acqua” è partito al botteghino italiano con 1.454.100 euro nel primo giorno, poco più del 1.410.000 registrato alla partenza da “Thor: Love and Thunder”.
Nel 2022 il debutto migliore era stato quello di “Doctor Strange nel Multiverso della Follia” con 2.027.000.
Numericamente, “Avatar 2” sembra che attiri lo stesso tipo di interesse che è consolidata per le “Saghe Marvel”, e se dovessimo basarci solo sull’analogia suggerita dai numeri con “Thor 4”, potremmo vedere un traguardo finale italiano sui 12 milioni di euro.
Dato importante per il “mercato cinema” odierno, ma non epocale, come il lungometraggio (il film dura più di 3 ore!!) dovrà essere, visto quanto è costato ed è dunque costretto ad incassare.
“The Batman” con Robert Pattinson, debuttò peggio con 695.000 euro, ma alla fine ha superato comunque i 10 milioni al botteghino italiano.
Se, per ipotesi, “Avatar 2” dovesse crescere come “The Batman “ anche aiutato dalle imminenti feste natalizie, potrebbe riuscire ad arrivare a toccare i 20 milioni.
I paragoni tra “AVATAR 2” e il suo predecessore AVATAR sembrano per ora fuori parametro: il primo, quando uscì nel 2010 incassò in Italia, a metà gennaio 2010, ben 65 milioni di euro, portando al cinema 7.500.000 di spettatori.
Per curiosità, consideriamo che dopo la pandemia un solo film è riuscito a superare la soglia dei 20 milioni qui da noi, cioè “Spider-Man No Way Home “dell’anno scorso, arrivando ai 25 diventando peraltro un fenomeno di costume, comprensivo di “reaction” in sala condivise sui social.
No, non stiamo parlando di una canzone o di un episodio della saga di Star Trek: Voyager, ma dell’appuntamento che qualsiasi persona, patita dello shopping o meno, non si fa sfuggire!
Lo avete aspettato da mesi, avete screenshottato oggetti, fatto liste dei desideri, immaginato il momento dell’acquisto e, anche se ormai è già passato, i suoi effetti rimarranno indelebili, soprattutto nelle carte di credito.
Ma sapete che se avete deciso per un brand invece che un altro, è anche merito della loro linea di comunicazione?
Ebbene sì. Mettetevi comodi e noi in pochi minuti vi mostreremo alcuni esempi di campagne marketing davvero efficaci.
“And the Oscar goes to…”
Un posto d’onore sicuramente spetta al colosso statunitense Amazon.
Ogni anno, la più grande Internet company al mondo propone già dall’inizio di Novembre spot e video, che sono molto più di una semplice azione pubblicitaria.
Come ad esempio per “Thoughtful Theo”: qui il premuroso protagonista Theo decide di giocare d’anticipo sui regali di Natale e iniziare a fare acquisti approfittando degli sconti disponibili anche prima del Black Friday.
In questo modo, non solo risparmierà molti soldi, ma può pensare tranquillamente a rendere felici tutti, persino il suo dentista!
Inoltre, con la consueta tagline: “Spend Less. Smile More.”, il filo conduttore tra acquisto intelligente – regalo per tutti – dentista – sorriso è immediato, facilmente comprensibile e pone una situazione che per la maggior parte delle persone è sinonimo di dolore, come una perfetta occasione per sorprendere qualcuno.
Invece con “Wonderland Will”, Amazon ci convince a non farci scappare l’occasione di regalare gioia a chi ci sta intorno quotidianamente o a iniziare a far risplendere la magia del Natale anche nell’ambiente che ci circonda.
15 secondi per mostrare come gli acquisti fatti da Will, abbiano trasformato il suo posto di lavoro in un suggestivo villaggio di Natale, rendendo così felici anche i suoi colleghi.
Un tocco in più dedicato alla sostenibilità viene dato alla fine, quando è sottolineato il fatto che abbia decorato le sale con carta da stampate riciclata.
Amazon in questo modo ci tiene a rimarcare come i suoi servizi possano migliorare la qualità della vita dei suoi clienti, riuscendo a portare l’identità del brand (nel suo logo c’è un infatti un sorriso) a fianco a sentimenti come felicità e gratificazione.
E dall’Europa arriva una risposta che è tutto, tranne che impercettibile!
Anche MediaWorld si difende molto bene e la sua strategia di giocare d’anticipo sugli sconti è pensata per portare a far fare acquisti “con calma”, così da avere tempo per vedere bene tutte le offerte e capire quali siano quelle più vantaggiose.
Per fare questo, gli eclettici e poliedrici protagonisti “Elio e le storie tese” hanno raccontato, tramite micro pillole della durata di 30 secondi, le offerte delle settimane antecedenti il Black Friday.
La scelta dei testimonial non poteva essere più azzeccata: MediaWorld aveva infatti l’intento di far arrivare il messaggio della favolosa lunghezza temporale delle sue offerte e chi meglio de “i più grandi allungatori di vocali italiani” – come per stessa definizione data da Elio – poteva farlo?!
“Il brand (in Italiano “il brando”) si è accorto delle nostre doti camaleontiche e soprattutto di una dote di cui nessuno si era accorto finora: la nostra capacità di allungare le vocali. Così, quando si è posto il problema di allungare la “i” (in inglese “ai”) di Black Friday, è stato naturale pensare a noi”, commenta il frontman del gruppo.
Da questa base, viene creato un video divertente, efficace e semplicissimo: gli Elio e le Storie Tese salgono sul palco di MediaWorld per dare il via e rendere più lungo possibile il Black Friiiiiiiiday aziendale!
Ma il Black Friday è anche occasione per fare “qualcosa di più”!
C’è anche tanta voglia di scardinare gli schemi e rendere protagonisti chi invece proprio quella giornata non vede l’ora che finisca.
L’iniziativa, che prende il nome di # OptOutside, è rivolta anche ai consumatori: un invito celebrare il tempo nella natura, mettendo così da parte quella frenesia consumistica e lo stress che possono derivare da dover fare acquisti “quasi per forza”, come se davvero non ci fossero altre alternative o altro modo per passare quei due giorni di festa.
Ah, per i dipendenti sarà comunque una giornata lavorativa retribuita.
E secondo voi poteva mancare il miglior amico delle nostre case?
Di controtendenza anche Ikea con il suo #BuybackFriday: oltre alle solite imperdibili occasioni, una delle aziende leader nella vendita di mobili, complementi d’arredo e oggettistica per la casa, dà la possibilità ai suoi clienti di portare mobili usati, restituendo un buono del 50% del loro valore.
In più, tutta la merce reputata “non idonea” per una nuova vendita, verrà riciclata o donataalle comunità bisognose.
Il noto marchio di abbigliamento, oltre ad essere molto noto e popolare, non è nuovo nell’aiutare ambiente e comunità: in occasione di un Black Friday di qualche anno fa, ha infatti lanciato la sua 100% For the Planet campaign.
Nello specifico, tutto 100% delle vendite della giornata è donata a enti di beneficenza e organizzazioni di base per il cambiamento ambientale.
In maniera quasi inaspettata, la campagna è ha raggiunto oltre 10 milioni di dollari, invece dei 2 milioni di dollari previsti, dimostrando anche come i clienti siano disposti a spendere qualcosina in più, se sanno che i loro soldi saranno utilizzati per rendere il mondo un posto migliore.
Veneta dal sangue pugliese, intraprendente, riservata e creativa.
Attenta nei confronti delle nuove tendenze della comunicazione, con un occhio di riguardo per le campagne pubblicitarie di impatto sociale, innovative e fuori dagli schemi.
Lettrice eclettica, viaggiatrice anche solitaria, dipendente dalla musica e dalle espressioni d’arte come la fotografia, la pittura e la moda.
Amante delle rappresentazioni teatrali, tradizionali e indipendenti.
Non ho un mio blog, ma amo scrivere in quello degli altri.
Se invece di analizzare il mondo del lavoro in un’ottica analitica, lo leggiamo simbolicamente attraverso le lenti della psicologia archetipica, esso ci svela lati inediti ed insospettabili.
Introduzione
Negli gli ultimi due anni analizzando i miti dell’antica Grecia ( qui ) abbiamo appreso come essi non siano soltanto i protagonisti di una religione politeista ma che, in accordo con il modello della psicologia archetipica, interpretano i sentimenti e le emozioni che vivono in ciascuno di noi.
Per quanto riguarda le organizzazioni aziendali, c’è chi le chiama imprese, chi aziende, altri società, sono a disposizione innumerevoli libri che le analizzano proponendo soluzioni per renderle più redditizie ed efficienti e che forniscono consigli ai dirigenti su come trasmettere entusiasmo e passione ai loro collaboratori.
Il nostro scopo, invece, è quello di sostituire questa interpretazione con la visione che abbiamo mutuato ed adattato da una frase sovente ripetuta da James Hillmann il quale, citando il poeta inglese John Keats, diceva «Chiamate, vi prego il mondo -la valle del fare anima- e allora scoprirete a cosa serve il mondo». Noi invece, adattandola a questo contesto preferiamo dire «Chiamate, le organizzazioni -le valli del fare anima- e allora scoprirete a cosa esse realmente servono».
Ma cosa si intende per fare anima ?
Si tratta di qualcosa di più e di più profondo che porre l’individuo al centro delle aziende, come anche noi abbiamo fatto negli articoli pubblicati otto anni fa sulla rivista edita dal Coni “Nuova Atletica ricerca in Scienze dello Sport”, rivista riservata agli allenatori di atletica leggera (vedere bibliografia), ma adesso, riteniamo che sia arrivato il momento di fare un ulteriore salto di qualità e comprendere che i luoghi di lavoro sono anche spazi dove ognuno, interagendo con l’ombra dell’altro, ombra nel senso junghiano del termine, fa quello che gli antichi greci, chiamavano la «γνῶθισαυτόν– gnothi sayton» ovvero, «la conoscenza profonda di sé».
In quest’ottica, il cosiddetto «posto di lavoro», da mezzo di sostentamento, luogo per conseguire il successo personale, ma anche talvolta “covo di vipere”, diventa il posto dove il nostro Ego, ovvero il lato «costruito» che facciamo vedere agli altri e che in primis nasconde a noi stessi la nostra vera ed unica essenza, si scontra con i lati oscuri, i cosiddetti lati ombra dei nostri colleghi e superiori con lo scopo aureo di aiutarci a «fare anima».
D’altro canto proprio Carl Jung, il “nonno” della psicologia archetipica soleva dire: «Non si diventa illuminati perché si immagina qualcosa di chiaro, ma perché si rende cosciente l’oscuro».
Ma per poter rendere visibile questo materiale non ancora elaborato, da noi tanto temuto ma che non necessariamente contiene aspetti malvagi o negativi, dobbiamo prima, in accordo con il modello che abbiamo preso in prestito dalla psicologia archetipica, riconoscere l’ombra sotto forma di miti che pervadono l’organizzazione e poi, identificare gli dei che simbolicamente agiscono dentro di noi, perché “fare anima” vuol dire iniziare a comprendere le imperscrutabili dinamiche che operano all’interno della nostra psiche, anche e soprattutto grazie a coloro con i quali trascorriamo, magari senza provare alcuna particolare simpatia, otto o più ore, al giorno.
Ecco allora che questo universo di anime, tenute assieme da una comune finalità materiale, dove ciascuna di esse porta con sé le proprie fragilità, paure e talvolta nevrosi, può trovare un nuovo ed inedito senso nell’andare a lavorare.
Da questa nuova prospettiva, le relazioni tra leader e follower e tra colleghi di ufficio, sono finalizzate non solo ad attività concrete ma anche in modo, apparentemente subordinato, «a conoscere sé stessi».
In questa maniera per ciascuno di noi, il posto di lavoro assume una nuova valenza, ovvero diventa lo spazio dove facciamo il percorso di individuazione, dove facciamo esperienza delle leggi che governano la psiche, dove riconosciamo i nostri talenti, o meglio, dato che quest’ultima affermazione è un po’ troppo inflazionata, è lì dove si scoprono i miti, nel nostro caso, gli dei dell’antica Grecia, che incarnano i nostri desideri, le nostre ambizioni ed aspirazioni.
Se coloro che ci leggono per la prima volta trovassero il nostro lessico inconsueto, li invitiamo a consultare alcuni articoli, specialmente i primi, che abbiamo dedicato alla rilettura dei miti dell’antica Grecia rivisti sotto le lenti della psicologia archetipica già pubblicati qui.
Prima di scoprire quali sono i veri miti che agiscono dentro di noi, cominciamo ad esaminare alcuni falsi miti che permeano inconsciamente le organizzazioni.
Il mito dell’organizzazione
Il primo mito da sfatare è quello di ritenere che esista una sorta di creatura che trova il suo senso solo nel produrre o trasformare un bene od un servizio in qualcos’altro, mentre secondo la visione che stiamo proponendo, essa trova il senso più autentico, quando essa, per dirla alla Hillman «fa da teatro ai miti che la posseggono».
Solitamente ci si sforza di dare un senso all’esistenza di una impresa tramite la cosiddetta «mission aziendale» (se si usasse il temine missione si correrebbe il rischio di svelare un non detto, ovvero che si pretende dai collaboratori la medesima cieca ed incondizionata obbedienza che vige nelle congregazioni ecclesiali), ma che guarda caso, “freudianamente” viene appeso all’ingresso delle mense o dei bagni di alcune aziende quasi a voler sottintendere che essa è destinata a restare nel “Tartaro”, ovvero nei luoghi oscuri, profondi e quindi inconsci, dell’ ”Anima collettiva aziendale”.
La missione aziendale diventa così quella che lo psicoanalista britannico Donald Winnicot, speriamo che bonariamente ci perdoni per aver trasportato il suo termine al di fuori degli ambiti tradizionali, chiamerebbe “il falso sé dell’organizzazione”, che in questo specifico caso, si identificherebbe con il tentativo di rimuovere lo scopo che non viene esplicitato, ovvero: «Noi esistiamo per fare soldi».
Non contestiamo questo assunto che anzi, riteniamo legittimo, ma il non ammetterlo, lo relega nell’inconscio dell’”anima dell’impresa” e lo trasforma in quel non detto, il cui silenzio col tempo diventerà così assordante, da oscurare quella che con un superfluo anglesismo, verrà chiamata “mission”.
L’azienda, invece, è molto di più, ed infatti, parafrasando e ricontestualizzando James Hillman «essa non è tanto una risultante di forze e pressioni, quanto piuttosto l’attuazione di scenari mitici» dei quali purtroppo viene fraintesa e talvolta mistificata, la sua essenza più intima.
Quando sentiamo dire «Il capo non riconosce le mie idee», oppure «il capo non vale nulla e se Io fossi al suo posto farei meglio di lui..» oppure, quando si sente ripetere il refrain «se l’azienda non va come dovrebbe è tutta colpa di Tizio», quest’ultimo, precisiamo, è il classico esempio del capro espiatorio, significa che, da un punto di vista archetipico, stanno agendo inconsciamente tre scenari mitici e quindi inconsci.
Nel primo caso è il dio Chronos ad entrare in azione o meglio, l’istanza psichica da lui simbolizzata, che sebbene affermasse pubblicamente «Io non sarò mai come mio padre Urano», similmente al genitore rinnega la sua progenie, o meglio ancora, fuor di metafora, usa le idee dei collaboratori senza riconoscerne pubblicamente il contributo.
Il secondo rappresenta il dio Φαέθων – Phaeton che per invidia o per senso di inferiorità nei confronti dell’amico Ἔπᾰφος– Epafos, il figlio di Zeus, prende le redini del carro del padre Apollo per dimostrare il proprio valore ed invece combina un vero e proprio disastro.
Ed in fine nel terzo caso, il Tizio del terzo esempio incarna la Chimera (dal greco χίμαιρα – chimaira , capra) il mostro che simbolizzando le contraddizioni, le incapacità a far fronte alle difficoltà che coesistono all’interno del luogo di lavoro, va invece sacrificato, fuor di metafora isolato, per placare i sensi di colpa causati dall’incapacità di misurarsi in maniera creativa, con quelli che sono i veri problemi che attanagliano l’azienda.
l mito della tecnica e della ragione
Un altro mito che pervade le aziende è di ritenere che per poter superare le crisi e le difficoltà, per essere vincenti sul mercato e primeggiare sui concorrenti, bisogna operare sempre in modo logico e razionale, investire in strumenti che permettono di migliorare sia l’efficienza produttiva che l’organizzazione del lavoro.
In realtà anch’esso è figlio della repressione e della negazione dell’ansia causata dall’angoscia di perdere il posto del lavoro, che è lo strumento per procacciarsi il sostentamento (gli utili nel caso degli azionisti) e che nel nome della fiducia incrollabile nei confronti della Ragione, finisce per deprimere, umiliare e ledere gli aspetti a nostro avviso più autentici e preziosi degli individui, ovvero le loro emozioni, i loro sentimenti e la loro dignità.
Il mito del controllo
Un altro mito, o come la definisce la psicoanalisi prevalente, la formazione reattiva, causata dalla paura negata e/o repressa che l’azienda possa fallire, consiste nel controllo.
Ogni azienda, ogni istituzione o associazione ha la doverosa necessità di istituire dei sistemi di controllo finalizzati alla verifica che non vi siano dispersioni, furti, sprechi di denaro o di tempo.
Talvolta, questo processo, da mezzo finalizzato ad una corretta ed oculata gestione ad ogni livello e funzione, sfugge di mano e diventa il fine. Quando ciò avviene, il sintomo rappresentato da questo mito, si manifesta tramite colei o colui che mette in atto questi controlli, il quale (ovviamente ciò non è sempre vero), più che temere di perdere il controllo sulla struttura, è preoccupato di perdere il controllo di sé.
Ma quand’è che si teme di perdere il controllo di sé stessi?
Si perde il controllo di sé tendenzialmente quando si teme di non avere abbastanza fiducia nelle proprie qualità e nel proprio valore.
Ma direte, com’è possibile che manger laureati nelle università più prestigiose, che hanno frequentato Master presso le scuole di formazione più rinomate e che esteriormente appaiono dotati di sicurezze granitiche, dovrebbero avere poca fiducia in sé stessi?
Perché sono esseri umani. (e a questo punto si potrebbe parlare, ma questa volta non ci asterremo, del falso mito secondo cui il conseguimento di un titolo di studio comporti anche un’espansione della consapevolezza di sé e quindi, al progressivo raggiungimento dell’equilibrio interiore).
A tal proposito, il professore di Harvard ed dell’Insead, Manfred Kets de Vries, ha pubblicato diversi libri, alcuni dei quali li trovate in bibliografia, che smascherano il mito del dirigente freddo, infallibile e risoluto.
Il problema è che queste paure ed insicurezze, si riverberano sia sui familiari, ma questo attiene alla loro sfera privata, che sulle aziende, portano a definire sistemi di pianificazione e monitoraggio che, nei casi più esasperati, portano a distrarre le risorse umane (e non) che gli sono state affidate da quelle che sono le vere priorità del business, ma soprattutto pregiudicando la tanto agognata efficienza.
Pertanto, quella che dovrebbe essere la medicina il cui compito dovrebbe essere quello di prevenire il male, finisce per diventare il veleno che distrugge, paralizza e soffoca le aziende.
Ma c’è un altro effetto collaterale, questa volta un sottinteso, che riguarda i collaboratori e che consiste nel trasmettere loro il messaggio del, «Io non mi fido di te».
Ciascuno di noi avrà probabilmente, almeno una volta nella vita sperimentato quanto distruttiva possa essersi rivelata, soprattutto durante la fase di crescita e sviluppo, la sfiducia da parte di una figura di riferimento, genitore o insegnante che sia e riuscirà pertanto ad immaginare facilmente gli effetti che la sfiducia ha sulla motivazione.
Il mito del cambiamento e della crisi come opportunità di crescita
Un altro mito che pervade le aziende é quello che riguarda non tanto un aspetto della filosofia Zen rappresentato dal miglioramento continuo, ma quello che riguarda la sua ombra, in senso junghiano ovviamente, del mito del cambiamento.
Soprattutto in questi tempi di crisi, leggiamo e ci sentiamo dire che «la crisi è un’opportunità» ed anzi, per poterle prevenire, saremmo costretti a cambiare continuamente.
A dire il vero, questa filosofia viene efficacemente già applicata nei settori creativi come quello della moda, dello spettacolo e dell’arte, ma riversarla tout court a tutti gli altri settori senza prima un’adeguata verifica se il cambiamento comporta un miglioramento o meno, può anche essere pericoloso.
Questo mito, purtroppo, nasconde anche un’insidia che finisce per popolare l’inconscio collettivo dell’organizzazione e che consiste nel concetto non verbalizzato e quindi sottaciuto, che «se tu non cambi, sei fuori».
Ora, al di là degli inevitabili timori riguardanti il proprio destino economico, che però esulano dal nostro contesto, ciò che si rivela letale per la stabilità emozionale e psichica dei collaboratori è che si sta dicendo a livello subliminale: «tu così come sei non mi piaci» evocando quindi sempre a livello inconscio immagini legate all’infanzia, quando eravamo costretti a modificare il nostro comportamento per essere accettati dai nostri genitori.
Quest’ultimo non detto, a nostro avviso è ben più destabilizzante della sottintesa mancanza di fiducia fatta risuonare dall’eccesso di controllo, perché qui il vero tema, non è «cosa posso modificare affinché l’azienda per cui lavoro resti competitiva» ma risuona fino al piano più intimo e primordiale che c’è in noi.
Ovvero, “Cambiare per non perdere l’amore dei nostri genitori”.
Continueremo la nostra analisi nella prossima uscita.
Bibliografia
Daniel Goleman (1996): “Intelligenza emotiva” – Rizzoli editore
Daniel Goleman (1998): “Lavorare con intelligenza emotiva” – Rizzoli editore
Gian Piero Quaglino: Leadership (2005) ed. Cortina.
Gian Piero Quaglino: Psicodinamica della vita organizzativa (1996) ed. Cortina
James Hillman – Articolo di presentazione della Psicologia Archetipica sul sito Treccani:
James Hillman – Re-visione della psicologia Edizione Adelphi 1983
James Hillman – Il codice dell’anima Adelphi 1996
Jean Sinoda Bolen : Gli dei dentro la donna (1993) Casa editrice Astrolabio
Jean Sinoda Bolen. Gli dei dentro l’uomo. Casa editrice Astrolabio. 1995
Jean-Pierre Vernant – Mito e religione in Grecia antica 2009
Manfred Kets de Vries – Danny Miller (1992) “L’organizzazione nevrotica: una diagnosi in profondità dei disturbi e delle patologie del comportamento organizzativo” Raffaello Cortina”
Manfred Kets de Vries – Leader, giullari e impostori (1996) – Raffaello Cortina editore
Manfred Kets de Vries – Successi e fallimento della Leadership – Ferrari e Sinibaldi 2017
Massimo Biecher : Evoluzione del concetto di leadership nel mondo delle aziende italiane e statunitensi – Cosa rende un leader una persona di valore che ha impatto sulle persone? – Nuova Atletica ricerca in Scienze dello Sport – ANNO XLII – N. 244-245 ripubblicato sul sito academia.edu
Massimo Biecher : L’altra faccia della leadership. Saper guidare le persone verso gli obiettivi Nuova Atletica ricerca in Scienze dello Sport – ANNO XLII – N. 246 ripubblicato sul sito academia.edu
Massimo Biecher : La responsabilità degli obiettivi – Nuova Atletica ricerca in Scienze dello Sport- ANNO XLII – N. 247-248 ripubblicato sul sito academia.edu
Massimo Biecher : Emozioni e Leadership Nuova Atletica ricerca in Scienze dello Sport – Nuova Atletica ricerca in Scienze dello Sport – ANNO XLII – N. 249 – ripubblicato sul sito academia.edu
Ha lavorato per medie e grandi aziende, anche quotate alla borsa di Milano, sia del settore costruzioni civili che del settore beverage, organizzando e gestendo canali e reti di vendita in Italia e all’estero. Attento osservatore delle dinamiche relazionali, trova nella psicodinamica organizzativa ed in particolare nelle pubblicazioni del prof. Gian Piero Quaglino e dello psicanalista e docente di Harvard e dell’INSEAD, Manfred Kets de Vries, un modello nel quale l’individuo viene posto al centro del mondo del lavoro.Questa visione fa si che il focus si sposta dalle organizzazioni alle relazioni interpersonali, analizzate mediante gli strumenti forniti dalla psicoanalisi di stampo junghiano.Combinando questi studi con la pratica operativa, su una rivista edita sotto l’egida del Fidal-CONI e di un comitato tecnico scientifico intitolata “Nuova Atletica: ricerca in scienze dello sport”, ha pubblicato diversi articoli che si proponevano di illustrare questa visione agli allenatori di atletica leggera chiamati non solo ad ottenere risultati ma soprattutto a formare e trasmettere valori positivi ai giovani atleti. Successivamente, spinto dalla necessità di ricercare una prospettiva che ponesse al centro il mondo delle emozioni e degli impatti che esse hanno sul mondo del lavoro, è approdato agli studi dello psicoanalista americano James Hillman, il quale, partendo dalla riscoperta del mondo classico che è avvenuta durante il rinascimento italiano per merito di alcuni intellettuali come Marsilio Ficino, Nicolò Cusano, Giambattista Vico e molti altri, ha scorto nel modello che, nei simboli e nelle immagini contenute nei racconti della mitologia greca, intravvede la strada che conduce alla conoscenza di sé ed alle leggi che regolano i rapporti tra le persone.Dal 2020 pubblica mensilmente su un web magazine articoli che, rileggendo attraverso le lenti della psicologia archetipica i miti dell’antica Grecia, mirano a far tornare in vita immagini, emozioni e sentimenti che essi evocavano negli antichi.Ha partecipato con dei contributi personali alla pubblicazione di due libri, ed uno, di cui è il solo l’autore, uscirà a breve.
Dopo due anni di eventi ibridi a causa della pandemia, si è chiusa in questi giorni all’Atelier Richelieu di Parigi la decima edizione dell’Outsider Art Fair.
Per questo suo decimo anniversario, la Fiera – nata a New York nel 1993 ed arrivata in Francia nel 2012 grazie ad Andrew Edlin (imprenditore e gallerista ben noto nel panorama newyorkese, la cui moglie, Valérie Rousseau, è curatrice dell’American Folk Museum).sposta le sue date a settembre, dal 15 al 18, così da acquisire la piena autonomia dalla FIAC (Fiera Internazionale di Arte Contemporanea fondata a Parigi nel 1974) e catturare l’attenzione degli amanti dell’arte in Francia, Europa e oltre, come tiene a precisare il suo fondatore.
L’Arte irregolare o Raw Art si sta facendo sempre più apprezzare e conoscere, tanto che i confini fra Insider e Outsider si fanno sempre più labili, anche grazie alla 55 Biennale Arte 2013 curata da Massimiliano Gioni.
La nuova direttrice dell’OAF di Parigi, Sofia Lanusse, che succede a Nikki Iacovella, dice che “l’Outsider Art non è mai stata celebrata come lo è oggi. Come società” continua Lanusse, ” stiamo infatti cambiando paradigmi e prospettive, affermando il nostro impegno per una revisione più inclusiva della storia dell’arte, che prevede la presenza degli Outsider, e dell’Art Brut in istituzioni contemporanee come il Centre Pompidou di Parigi, LaM nella città di Lille, il Museo di Arte Moderna e il Metropolitan Museum di New York.”
All’evento erano presenti 38 gallerie (3 delle quali solo nell’online viewing room) provenienti da 29 città rappresentanti 13 Paesi.
La Fiera ha dato anche il benvenuto per la prima volta alla Rodovid Gallery di Kiev che presenta i lavori di artisti folk ucraini, compresa la leggendaria Maria Prymachenko (1909-1997), i cui lavori sono stati aggiunti alla Biennale di Venezia di quest’anno.
L’OAF si concentra in modo particolare sugli artisti autodidatti e ha mostrato i lavori di maestri noti quali Henri Darger, Martin Ramirez, Bill Traylor e AloÏse Corbaz, così come artisti viventi come Domenico Zindato, Davide Cicolani, George Widener, Susan Te Kahurangi King, Dan Miller, Shinichi Savana e Luboš Plny.
Subito riconosciuta per il suo spirito anticonformista, l’Outsider Art Fair sta giocando un ruolo fondamentale e vitale nel nutrire una comunità di appassionati collezionisti e incoraggiando un sempre più ampio riconoscimento della Fiera nell’arena dell’arte contemporanea.
L’edizione 2022 dell’OAF di Parigi presenta anche due programmi collaterali: The Underground is Always Outside curato da Aline Kominsky-Crumb and Dan Nadel sui fumetti underground che rimangono una delle forme d’arte più fraintese. Nati dall’impulso liberatorio della controcultura americana degli anni ’60 e affinati negli anni ’70 e ’80, i comics hanno offerto a innumerevoli artisti uno sbocco per commenti culturali taglienti, umorismo assurdo, fioriture psichedeliche, autobiografia confessionale e fantasia a tutto campo.
Robert Williams, Peripheral Bogies (1975)
E I Wish I Could Speak in Technicolor curato da Maurizio Cattelan e Marta Papini, basato intorno alla vita e al lavoro di Eugene Von Bruenchenhein (1910-1983) conosciuto per i suoi dipinti astratti caleidoscopici degli anni Cinquanta, creati usando le dita, i bastoncini, i pettini, le foglie e altri utensili improvvisati per pigiare i colori ad olio intorno alle superfici di tavole di masonite o pezzi di cartone prelevati dagli scatoloni del panificio dove lavorava.
“l’arte più innovativa del Novecento è stata prodotta da quelli che la gente chiamava pazzi, froci, ebrei, ubriaconi, drogati, depressi, contestatori e puttane.
Artisti originali, puri, unici, ‘diversi’, che non troviamo nei manuali di storia dell’arte. Outsiders perché hanno dovuto condividere l’arte con la malattia. Del corpo o dell’anima. O di tutti e due, a volte.
Perché gli Outsiders sono straordinari perdenti, li riconosci sempre. Non scelgono mai i luoghi e le date giuste per nascere, creare, amare, morire. Vivono in mondi paralleli. E hanno sempre l’indirizzo sbagliato”.
Se il mondo è cambiato, bisogna cambiare il modo di guardare il mondo: Outsider Art Fair ci aiuta a farlo.
Ha una laurea magistrale in Scienze della Comunicazione conseguita presso l’Università degli Studi di Torino ed esperienze prima come Content Manager e poi come giornalista freelance maturate sia in Italia sia all’estero. Ha vissuto e lavorato in Medio Oriente, Nord Europa e Stati Uniti. Lead Generation Specialist all’Istituto Piepoli, si occupa anche di comunicazione sul web e segue lo sviluppo del nuovo business, con uno sguardo all’internazionale. Offre supporto logistico, documentale e organizzativo al team di ricerca. Svolge inoltre attività di recruitment su target di opinion leader e stakeholder.
Earth Overshoot Day
[Che sia passato non vuol dire che non sia più importante…]
C’è già stato e, come sempre, abbiamo fatto finta di niente.
Stiamo parlando dell’Earth Overshoot Day (EOD), in italiano “Giorno del Superamento Terrestre” e indica, a livello illustrativo, l’esatta data in cui il genere umano consuma interamente le risorse prodotte dal pianeta nell’intero anno.
Nel 2022 l’EOD è stato in piena estate, precisamente il 28 luglio.
E mentre la maggior parte di noi era – giustamente – alle prese con vacanze, apertivi, spensieratezza e meritato relax, la nostra amata casa contava già un sovrasfruttamento delle sue risorse.
Facendo un po’di calcoli, si può tranquillamente stimare che, procedendo di questo passo, intorno al 2050 l’umanità consumerà ben il doppio di quanto la Terra produca.
È Evidente come questo non porterà davvero nulla di buono.
Ma visto che ogni anno è sempre diverso, come si fa a calcolare il giorno esatto in cui cade l’EOD?
Ci pensa il Global Footprint Network Gfn, un’organizzazione internazionale che si occupa di contabilità ambientale calcolando l’impronta ecologica.
In pratica, grazie a calcoli a dir la verità non troppo difficili da capire, viene determinato il numero di giorni dell’anno che la biocapacità terrestre riesce a provvedere all’impronta ecologica umana.
Ci spieghiamo meglio.
Il calcolo del giorno definito come Earth Overshoot Day è dato dal rapporto tra la biocapacità del pianeta(ovvero l’ammontare di tutte le risorse che la Terra è in grado di generare annualmente) e l’impronta ecologica dell’umanità (la richiesta totale di risorse per l’intero anno).
In questo modo, si riesce a stimare la frazione dell’anno per la quale le risorse generate riescono a provvedere al fabbisogno umano e, moltiplicando per 365, si ottiene la data dell’Earth Overshoot Day.
Perciò:
Dove:
BIO = biocapacità annuale del pianeta Terra
HEF = impronta ecologica annuale dell’umanità
L’umanità ha iniziato a consumare più di quanto la Terra producesse già nei primi anni Settanta: da allora il giorno in cui viene superato il limite arriva sempre prima (nel 1975 era il 28 novembre) e questo per via della crescita della popolazione mondiale e dell’espansione dei consumi in tutto il mondo.
“Il problema principale è che, nonostante l’evidente deficit ambientale, non stiamo prendendo misure per imboccare la giusta direzione – ha dichiarato Mathis Wackernagel, presidente del Gfn. – è una questioneanche psicologica: quello che è ovvio per il 98 % dei bambini, è considerato dai pianificatori economici un rischio minore ,che non merita la nostra attenzione”.
Ma cosa si può fare concretamente per invertire la rotta e iniziare a prendersi davvero cura del nostro pianeta?
Stimolare settori emergenti – come le energie rinnovabili – riducendo così i rischi e i costi connessi a settori imprenditoriali senza futuro, perché basati su tecnologie vecchie e inquinanti
Disinvestire sulle fonti fossili, a favore delle energie pulite
Riducendo il consumo di carne, la cui produzione ha un terribile impatto ambientale
Consumare prodotti provenienti dal proprio territorio
Evitare gli sprechi alimentari
Noi stiamo consumando il capitale naturale, come se avessimo a disposizione 1,75 Terre e capite bene che questo non è più sostenibile.
“La terra è un bel posto e per essa vale la pena di lottare.”
Veneta dal sangue pugliese, intraprendente, riservata e creativa.
Attenta nei confronti delle nuove tendenze della comunicazione, con un occhio di riguardo per le campagne pubblicitarie di impatto sociale, innovative e fuori dagli schemi.
Lettrice eclettica, viaggiatrice anche solitaria, dipendente dalla musica e dalle espressioni d’arte come la fotografia, la pittura e la moda.
Amante delle rappresentazioni teatrali, tradizionali e indipendenti.
Non ho un mio blog, ma amo scrivere in quello degli altri.
Ma come fai a giocare a calcio con le tette?
di Redazione Online
Milena Bertolini, allenatrice della nazionale femminile di calcio riassume le decine di luoghi comuni che le ragazze che praticano questo sport devono sopportare, in una domanda che ha sentito spesso fare “ma come fai a giocare a calcio con le tette?” (che poi è anche il titolo di un libro che ha scritto).
Partendo da questo stereotipo che dimostra se ce ne fosse ancora bisogno quanto il mondo del calcio, così come la società in fondo, è ancora profondamente e irrimediabilmente maschilista e retrograda, per affrontare l’argomento da un particolare punto di vista, che scaturisce dall’episodio degli ultimi minuti della finale degli europei di calcio femminile giocata qualche giorno fa a Londra.
La giocatrice Chloe Kelly, segnato il goal che ha dato alla squadra inglese il titolo, si è sfilata la maglietta, così come fanno i colleghi maschi, mostrando in bella vista il reggiseno.
Chloe Kelly ne ha fatto una questione di semplice parità: «Mi tolgo la maglietta ed esulto, perché un calciatore uomo farebbe esattamente lo stesso. Quindi, come donne, perché non possiamo farlo?»
Ma il gesto non è così banale quanto potrebbe invece apparire la sua spiegazione.
Celebrare il corpo di una donna per la sua capacità atletica significa saper superare un sacco di stereotipi, perché di solito i corpi di donna vengono mostrati e celebrati per la loro attrattività, o tutt’al più per le loro capacità generative, e raramente per la loro potenza fisica.
Il gesto di Chloe Kelly, dunque, è stato molto più di un semplice gesto: perché l’oggetto in questione (il reggiseno) dimostra che anche un semplice indumento intimo, nasconde potenzialità enormi per lo sviluppo di questo sport e per la conseguente emancipazione di chi lo pratica.
Vediamo in sintesi perché.
Le ricerche di biomeccanica della professoressa Joanna Wakefield-Scurr dell’Università di Portsmouth, consulente alla squadra inglese nella scelta dei reggiseni (il fatto che questa definizione vi possa far sorridere dice molto dei pregiudizi di genere che ancora affliggono non solo lo sport. Nessuno sorride a sentir parlare di scienza del piede o biomeccanica delle scarpe sportive) hanno dimostrato che l’effetto che questi hanno sulla salute del seno e l’impatto altrettanto importante sulle prestazioni atletiche che ne conseguono, possono effettivamente incidere in maniera significativa sui risultati sportivi.
Le ricerche hanno dimostrato per esempio che un reggiseno poco sostenuto causa dolore al seno, e che «correre con un reggiseno di scarso sostegno accorcia la falcata delle donne fino a 4 centimetri, cosa che potrebbe aggiungere un chilometro in più alla lunghezza di una maratona». Questo perché «se mentre ci si allena il seno si muove molto, la parte superiore del corpo lavora più duramente per cercare di fermare il movimento e ridurre l’attività muscolare di questa parte del corpo potenzialmente potrebbe allungare le sessioni di allenamento prima di affaticarsi».
La professoressa e il suo gruppo di ricerca hanno supportato le calciatrici inglesi nella scelta dei reggiseni. «Abbiamo analizzato le loro esigenze e tutti i problemi che avevano riscontrato con i reggiseni sportivi, e poi abbiamo prescritto loro quelli più adatti, compreso quello che ha mostrato Chloe»
Tutti i reggiseni prescritti, compreso quello di Kelly, erano prodotti «di largo consumo», i ricercatori hanno però aiutato le atlete a scegliere “con metodo scientifico” quelli più adatti alla conformazione del loro seno.
«Prima di queste ricerche, la maggior parte delle atlete indossava reggiseni in modo casuale e basandosi sui propri gusti e abitudini “con la conseguenza di avere un sostegno del seno molto limitato. Molte riferivano fastidi o dolori al seno. Quattro settimane dopo, l’87% ha dichiarato di aver tratto beneficio da questo intervento e il 17% ha affermato che ha migliorato le prestazioni sportive».
Basterebbe questo per comprendere quanto lavoro e potenzialità ci sono dietro ad uno sport ancora ignorato, solo perché praticato da donne.
Ma dietro all’immagine di Chloe Kelly in reggiseno c’è anche altro. A differenza di un uomo, togliendosi la maglietta lei ha mostrato un marchio commerciale. E le conseguenze sono state immediate: le ricerche su Google per «reggiseno sportivo Nike» sono quasi decuplicate. Quelle per reggiseno sportivo sono aumentate del 1.549% e le vendite di reggiseni sportivi nella catena di grandi magazzini britannica John Lewis sono aumentate del 140%.
A conferma che quello dello sport femminile è anche un mercato pieno di opportunità per chi vuole investirvi.
Mohammed bin Salman, principe ereditario dell’Arabia Saudita, ha recentemente svelato un progetto urbanistico all’avanguardia e totalmente green.
The Line, è una città a zero traffico e zero inquinamento, con abitazioni disposte lungo una linea retta di 170 chilometri. Un luogo dove non esistono né strade né macchine e tutto è raggiungibile in pochi minuti a piedi.
Il Progetto fa parte di “Neom”, l’avveniristica città del futuro che collegherà la costa del Mar Rosso con il nord-ovest dell’Arabia Saudita.
Ma perché questo Progetto è considerato innovativo?
The Line ha alla base un concetto urbanistico molto forte ed è stata progettata per layer. Tra quello pedonale in superficie e quello più profondo per il trasporto veloce, sorgerà anche un livello intermedio destinato alla logistica e altre infrastrutture.
Secondo questa logica, la città sarà organizzata per nuclei, all’interno del quale sarà possibile trovare tutti i servizi essenziali, come scuole, ospedali e uffici, oltre che aree verdi, e tutti raggiungibili facilmente senza l’ausilio di mezzi inquinanti.
I moduli urbani saranno collegati da una linea metropolitana ad alta velocità situata nel sottosuolo al livello più basso. In questa maniera The Line collegherà tutte le diverse comunità [nuclei], con il trasporto da un’estremità all’altra che non richiederà mai più di 20 minuti.
Altra caratteristica innovativa riguarderà l’esperienza di vita, che sarà completamente automatizzata e affidata all’Intelligenza Artificiale. L’IA sarà utilizzata non solo nel trasporto ma in tutta la città, dando vita a una vera e propria Cognitive City che sarà in grado di imparare continuamente i modi predittivi rendendo la vita degli abitanti più facile.
Quando si parla di Arabia Saudita i budget di spesa non sono mai un problema. Ma questa volta i numeri sono impressionanti. La costruzione di The Line e della mega città di Neom costerà più di 500 miliardi di dollari e sarà finanziata dal Saudi Public Investment Fund.
L’enorme progetto urbanistico creerà 380.000 posti di lavoro e contribuirà al PIL nazionale per oltre 39 miliardi di euro entro il 2030.
Gli sviluppatori del progetto sono ottimisti, tanto da affermare che la costruzione di The Line sarà completata entro il 2025.
Sempre più spesso si sente parlare di “glocalizzazione”, intendendo una globalizzazione che invece di ignorare, sovrastare o addirittura eliminare le potenzialità offerte dal territorio, le esalta e utilizza per entrarci più consapevolmente, concentrandosi su una dimensione di business fatta di usi e costumi locali.
Ma come può essere identificata questa tendenza?
“Think Global, act Local” è il motto coniato nei poliedrici anni ’80 da Akio Morita, cofondatore e presidente della Sony, che meglio rappresenta questa diversa idea di globalizzazione. Così dicendo, si vuol far capire come la tendenza sia quella di andare verso un abbandono della standardizzazione dei mercati, a favore di una vera e propria tutela delle realtà locali, mettendo in luce sfaccettature e caratteristiche.
Tutto il mondo è paese, insomma.
Al giorno d’oggi, svariate multinazionali stanno adottando questo modo di fare affari.
Pensiamo ad esempio a Netflix.
Con un pubblico davvero estremamente variegato, la multiculturalità rappresenta un valore aggiunto da sfruttare, che offre così anche la possibilità di cavalcare i trend su scala internazionale.
Ed ecco quindi venir fuori successi come la “Casa de Papel”, serie TV spagnola che ha tenuto con il fiato sospeso milioni di persone in tutto il mondo, il nostro “Suburra”, uno dei simboli delle produzioni Made in Italy o ancora il campione di incassi britannico “Black Mirror”.
Un altro esempio sicuramente sotto gli occhi di tutti è dato dalla catena di fast food più famosa al mondo.
Mc Donald’s fa della collaborazione con le realtà locali, con le associazioni e con i cittadini dei territori in cui è presente uno dei punti cardine della sua politica aziendale.
Basti pensare alle nuove ricette per panini firmati Giallozafferano, con ingredienti DOP e IGP che seguono la stagionalità dei prodotti, così da garantire anche la qualità dell’offerta e una continua promozione del territorio.
Volgendo lo sguardo all’estero, l’azienda aveva fatto la stessa cosa nel 2016 per il mercato indiano, quando lanciò il Chicken Maharaja Mac, un maxi burger a base di pollo, pensato apposta per andare incontro alle esigenze della tradizione locale, che impone di astenersi dalla carne di vitello.
Passando dal mercato di massa a quello del lusso, un gigante del settore come Louis Vuitton, sebbene abbia una salda posizione di leadership nel mercato del lusso in Cina e pur essendo presente nel Paese orientale con 47 negozi in 29 diverse città, si è trovato a dover adeguare la propria strategia a seguito della politica anticorruzione avviata dal presidente Xi Jinping, oltre che per la tendenza dei clienti del lusso di allontanarsi dalla ostentazione massiva di loghi.
Questo si è concretizzato con la riduzione della promozione di prodotti caratterizzati dal celeberrimo monogramma LV e l’introduzione di una linea “vintage”, creata specificatamente per quel mercato, utilizzando in un primo momento come brand ambassador, la celebre attrice e cantante pop cinese Fan Bingbing.
Successivamente, per smorzare la percezione che questa testimonial potesse impersonificare l’idea di un prodotto mass-market, venne scritturata Liu Wen, modella cinese di haute-couture, ma con residenza a New York, per una campagna di adv atta a promuovere la collezione Foulard d’Artistes.
Ultimo aspetto da considerare riguarda il fatto di come la glocalization venga tendenzialmente associata a un modello di business che mira soprattutto alla fidelizzazione del cliente.
Il prodotto viene inteso nella sua totalità, comprendendo così anche i servizi di assistenza e manutenzione post-vendita: questo certifica un guadagno duraturo al produttore e spesso costituisce anche la parte più remunerativa dell’intero introito aziendale.
Veneta dal sangue pugliese, intraprendente, riservata e creativa.
Attenta nei confronti delle nuove tendenze della comunicazione, con un occhio di riguardo per le campagne pubblicitarie di impatto sociale, innovative e fuori dagli schemi.
Lettrice eclettica, viaggiatrice anche solitaria, dipendente dalla musica e dalle espressioni d’arte come la fotografia, la pittura e la moda.
Amante delle rappresentazioni teatrali, tradizionali e indipendenti.
Non ho un mio blog, ma amo scrivere in quello degli altri.
Non è mai una persona sola a morire. Ad ogni sparo, moriamo tutti, un pò.
Gli Stati Uniti hanno il non invidiabile primato, tra i Paesi occidentali, di morti per arma da fuoco.
Nel 2020 si è raggiunto il numero più elevato di vittime, 578, il che significa più di una al giorno.
La crescita, rispetto agli anni precedenti, è stata esponenziale [Negli Stati Uniti circolano circa 380 milioni di armi a fronte di una popolazione di 319 milioni di abitanti].
Sono dati di cui i politici statunitensi sono al corrente, ovviamente, eppure puntualmente ad ogni strage di innocenti come quella dei giorni scorsi, si riaccende il dibattito sull’uso indiscriminato delle armi, accessibili praticamente a chiunque.
Dibattito che, come era facile prevedere, non riesce mai a fare passi in avanti, nonostante la situazione ed i numeri siano drammatici.
Biden, così come aveva fatto Obama prima di lui, e un po’ meno aveva fatto Trump, si è presentato davanti alla nazione per reclamare una limitazione del commercio e detenzione delle armi.
La Costituzione americana, le sentenze della magistratura, e soprattutto il peso delle lobby sono i fattori che fino a oggi hanno sbarrato la strada a ogni tentativo di «disarmo».
Il secondo emendamento della Costituzione americana consente ai privati cittadini di possedere armi. “Essendo necessaria alla sicurezza di uno stato libero una ben organizzata milizia”, recita testualmente la legge, “il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto”.
Una roccaforte inespugnabile dunque, protetta da una legge fondamentale che funge da pietra angolare della Costituzione americana, e che scaturisce dalle guerre di indipendenza contro britannici e spagnoli.
Qualsiasi tentativo di intervenire su questa, che più che una legge è una filosofia propria dei cittadini americani, è risultato vano.
Nel 2008, una sentenza della Suprema Corte ha ribadito la piena legittimità del secondo emendamento, dichiarando illegittima una legge di uno Stato membro, che cercava di limitare il possesso e l’uso delle armi.
Nel 1994 Bill Clinton approvò una legge (poi abolita nel 2004) che proibiva il commercio di armi da guerra per uso privato, ma l’anno successivo i democratici persero le elezioni di Midterm anche a causa di questa iniziativa, che ostacolava l’azione delle potentissime Lobby favorevoli alle armi.
Nel 2012, dopo la strage di Sandy Hook (26 morti) Barack Obama tornò a chiedere una limitazione ma la proposta non passò.
( Il massacro di Sandy Hook però segnò un precedente di storica rilevanza: per la prima volta una fabbrica di armi accettò di risarcire le vittime della sparatoria , versando 73 milioni di dollari alle 9 famiglie che le avevano fatto causa).
E oggi? Alla luce della ennesima strage di innocenti bambini , quante possibilità ci sono che una riforma della legge vada in porto?
I numeri sembrano non dare speranze.
Il Senato, dove i democratici possono contare sul 50% dei voti, resta un ostacolo insormontabile.
Per modificare una legge serve almeno il 60% dei voti e dunque il 10% dei repubblicani, storicamente contrari all’abolizione, dovrebbero votare contro il loro stesso partito.
Scenario impossibile perché un peso determinante nel settore del commercio delle armi è esercitato dalla NRA, la lobby dei produttori, che finanzia e supporta molti senatori e politici repubblicani.