Vi regalo un format.

Immagine grafica_ Mario Barbieri.

di Mario Barbieri_

Le Olimpiadi di Tokyo si sono concluse, sappiamo tutti com’è andata, siamo tutti giustamente euforici e grati, per le vittorie degli Atleti che rappresentavano la nostra Italia.

Sono già stati spesi e versati “fiumi di inchiostro”per lo più “digitale”, sul valore e i valori, sui significati, sulle metafore, soprattutto in questo Tempo. Non assenti critiche o lamentazioni, ma tutto sommato passate in secondo piano.
Anche tanto è stato scritto, sulle storie e magari gli aneddoti, di questo o quell’ atleta, inevitabilmente, ma non giustamente, rispettando personaggi “più popolari” o mediaticamente appetibili e discipline popolari più di altre, ma credo non abbastanza e temo come si usa dire, si “spegneranno i riflettori” con la stessa velocità con cui si è spenta la mitica fiamma su quel braciere.

Quindi care TV, private o meno, che ci inondate di storie e storielle, non tutte poi così importanti e di spessore, tali da giustificare ore di trasmissione o che qualcuno che abbia un minimo d’altro da fare, debba rimandare per stare davanti ad un qualsivoglia schermo.
Che ci sciorinate tra cuoricini e lacrime, carrambate (mitica Raffaella) e comparsate, apparizioni di ectoplasmi – tali credo siano – che si sono agitati nell’ultima casa di un qualche fratello o misteriosa isola ipoteticamente sperduta in lontano atollo. Che ci svelate verità nascoste del VIP del momento, che sinceramente potevano rimanere ancora nascoste sino alla fine dei giorni, perché non mettete su una belle trasmissione, un “format” di guarda caso 40 puntate, che ci racconti del prima e se vogliamo anche un po’ del dopo, della storia, le fatiche, i sacrifici, le rinunce, le attese, le delusioni, ma evidentemente anche i sogni, le soddisfazioni e le prospettive, di questi Atleti, di queste donne e uomini, che hanno scelto un percorso certamente non semplice, in discipline – e sottolineo #discipline – tutte esigenti, totalizzanti, ma certamente esaltanti che regalano a noi “atleti solo per partecipazione” tante emozioni e a Loro anche medaglie e riconoscimenti (ma “uno su mille ce la fa”), gloria magari fugace, ricchezze penso poche, ma una dimensione, una ragione, una crescita, un’umanità che, senza farne degli eroi (certamente Christian Lezzi sarebbe d’accordo), possono diventare un riferimento, uno stimolo, un (buon) esempio per “adulti e bambini”, certamente per tanti giovani la cui unica aspirazione è talvolta solo aumentare il numero dei “followers”, non importa come purché sia.
Dove porta invece una #passione, laddove “al cuor non si comanda”, ma quel cuore, quella passione, comanda ed educa mente e corpo sino a diventare uno splendido tutt’uno.

Magari potremo anche raccontare di chi “nell’ombra”, ma quella buona, umile che non chiede la ribalta, questi Atleti, ha aiutato, educato, sostenuto, tecnicamente formato. Penso alle Famiglie e agli Allenatori e perché no anche ai cosiddetti “sponsor” che negli sport cosiddetti “minori”, non lo sono a fine di lucro.

Insomma, raccontiamo le loro storie, non lasciamo che si rispolverino solo alla prossima Olimpiade se per età e risultati potranno di nuovo esserci.
Sarebbe davvero un grande spreco!


Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti.
Appassionato di Design e Fotografia.

Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.

Blog:
https://ceuntempoperognicosa.wordpress.com/
https://immaginieparoleblog.wordpress.com/




Ma allora, chi sono gli Eroi?

Anna La Tati Cervetto_[Mani Rosa]

di Christian Lezzi,

“Mi viene da pensare che non sono tanto gli uomini i guardiani delle greggi, ma le greggi guardiani degli uomini, perché quelle sono molto più libere di questi”.

(Henry David Thoreau).

È passato quasi un mese, da quando ho scritto quell’articolo link e, ancora, sento che qualcosa è rimasto inespresso. In quell’articolo parlavo del concetto usurpato e, spesso abusato, di eroismo. In quelle righe analizzavo ciò che, secondo il mio modo di vedere le cose, non dovrebbe rientrare nella definizione di atto eroico ma, piuttosto, sarebbe da classificare secondo la nobilissima definizione di gesto agito per senso del dovere, di abnegazione al bene altrui, di dedizione a ciò che è giusto, secondo parametri di altruismo e generosità più o meno universali.

Stesso discorso per un gesto avventato e occasionale, agito per senso d’appartenenza, incoscienza, esibizionismo, mancanza di alternative. Mille etichette applicabili, ma non quella di Eroe e, di conseguenza, di atto eroico. 

Ho ricevuto molte interazioni, a seguito di quella pubblicazione e, una in particolare, ha calamitato i miei pensieri, attraendo la mia attenzione ancora oggi, a distanza di settimane.

Ma allora, chi sono gli eroi?

Ho dato molto peso alla domanda, nel corso dei giorni successivi alla pubblicazione dell’articolo e, proprio perché la considero importante, ci ho molto riflettuto. È grazie a quella domanda ( e ad un video di Roberto Saviano che mi ha ispirato) se ho deciso di parlare di Walter Bevilacqua, per suggerire un esempio di ciò che ritengo comportamento eroico, di colui che, secondo me, merita l’appellativo di Eroe.

Perché gli eroi esistono, ma sono rari come i più puri dei diamanti e, spesso, si nascondono ai clamori della notorietà.

Walter era un uomo di 68 anni, un pastore della Val d’Ossola, un vecchio alpino, una penna nera nata e cresciuta a pochi passi dal confine, tra una transumanza e un alpeggio estivo. 

Nulla di particolarmente eroico, fin qui…

Cammin di vita facendo, un triste giorno, Walter si ammala di una grave patologia renale e, tra visite e farmaci, inizia il calvario della dialisi. Le sue condizioni non migliorano e viene iscritto alla lista d’attesa per il trapianto, unica soluzione prospettata dai medici che lo hanno in cura. Passano i giorni, con loro i mesi e, la vita di Walter, per forza di cose, continua, tra terapie, lavoro e acciacchi vari, più o meno come sempre, sperando ben poco in quella soluzione chirurgica, unico orizzonte possibile a difesa della sua stessa vita.

Era un uomo solo e solitario, Walter, cresciuto dal nonno Camillo, dal quale aveva imparato a non risparmiarsi mai, vissuto tra i monti, con le sue pecore che, nel tempo, erano diventate la sua unica famiglia (eccezion fatta per le sorelle Mirta e Iside), il suo gregge naturale. E aveva imparato molto da quel gregge, che non è solo omologazione o imitazione, sinonimo di cieca e sciocca obbedienza, per questo usato spesso come esempio negativo efficace. Un gregge, Walter lo sapeva bene, è anche stare insieme per difendersi, uniti e compatti, per sopportare i rischi e i conflitti, per superare insieme le asperità della vita, per supportarsi a vicenda.

Friedrich Nietzsche ha scritto: “Il piacere di essere gregge è più antico del piacere di essere io: e finché la buona coscienza si chiama gregge, solo la cattiva coscienza dice: io.”

C’è molta nobiltà anche in un gregge di pecore, se solo ci sforziamo di guardarlo da un’altra angolazione, scevra dagli annosi stereotipi e secondo un diverso paradigma. Ma noi umani, ormai incapaci di fare quadrato e di essere gregge, secondo l’alta e solidale accezione, propensi a essere folla (che del gregge è la versione peggiore) forse lo abbiamo dimenticato.

Ma torniamo a Walter.

Un gran lavoratore il nostro pastore, innamorato delle sue montagne, appassionato di agricoltura e molto legato ai suoi animali. Del resto, erano il suo mondo e si dice di lui che non abbia mai fatto un giorno di vacanza dalle sue attività, mai un’assenza, mai una lamentela. Ma forse sono cose che si dicono ai funerali. 

Non importa, non è questo che rende speciale Walter Bevilacqua.

Nell’attesa del trapianto, l’uomo inizia a pensare che forse, quel rene, debba andare ad altri, a chi lo merita di più, a chi ha una famiglia a cui pensare, un gregge umano di cui occuparsi, al contrario di lui che non deve occuparsi d’altri che non siano il suo gregge di pecore. Un pensiero sempre più presente, nella mente del pastore, che gli toglie il sonno, gli lascia il tormento e gli spegne il sorriso, per la paura di portare via, l’ultima opportunità, a chi ritiene più meritevole di lui, a chi quel rene ha più motivi desiderarlo. Per ottenerlo.  Almeno secondo la sua personale etica e la sua soggettiva – in questo caso indiscutibile – morale. 

Se mai arriverà, quel rene. E se mai si troverà, in esso, la piena compatibilità.

Quel momento arriva, portando con sé il turno di Walter. È il momento della speranza, quella concreta, che ha una data e una procedura. Il rene si trova e la compatibilità biologica è tale, da permettere il trapianto che salverà la vita al vecchio alpino ossolano.

Citando Roberto Saviano, “la realtà si muove per paura, per interesse, per piacere, per necessità”. Ma non quella di Walter, che si muove verso l’altro, a tutela di altre vite, forse più importanti e meritevoli della propria, per altruismo e per spirito di sacrificio.

Per spirito di gregge.

Walter ha deciso. Non accetta di vivere, se questo implica consegnare a morte certa un’altra persona. Non toglierà la speranza a chi, restando in vita, potrà dare a sua volta vita ad altre persone. No, non farà quel trapianto. Lascerà il rene a chi è dietro di lui, nella lista dell’eterna e lancinante attesa. Lo lascerà a chi è più giovane, a chi ha una famiglia, a chi ha moglie e figli di cui occuparsi, a chi ha ancora speranze, ancora un futuro.

Walter rifiuta il rene e, con un gesto d’immensa umanità e di infinita solidarietà, tanto forte quanto silenzioso, pregno di quello schivo pudore che solo il vero eroe sa avere, dona la sua stessa vita a un’altra persona, a qualcuno che ritiene, secondo il suo insindacabile giudizio, più bisognoso e meritevole di lui. 

Non per istinto, ma per ragionamento e per libera scelta.

Inevitabilmente, con il passare del tempo, le sue condizioni si aggravano e, durante la dialisi cui settimanalmente si sottopone, presso l’ospedale San Biagio di Domodossola, il suo immenso cuore cede. La sua bara sarà portata a spalla dagli alpini della sezione di Varzo, i suoi amici di sempre, tra le lacrime delle sorelle e il ricordo che, di lui, fa il parroco del paese, Don Fausto Frigerio.

Proprio a Don Fausto, Walter aveva confessato, parlando della sua drammatica decisione: “C’è chi ha più bisogno di me. Sono in molti che aspettano quest’occasione. Persone che hanno famiglia, che hanno più diritto di vivere di me. È giusto così” e questa frase, questo modo di pensare agli altri, prima che a se stesso, la dice lunga sulla filosofia di vita di Walter Bevilacqua.

Personalmente non so dire se, al suo posto, avrei agito allo stesso modo e forse, accantonate le ipocrisie e i “machismi” del caso, nessuno di noi può sinceramente rispondere a cotanta domanda. 

Lui lo ha fatto e tanto basta.

Era un contadino Walter, un pastore, un alpino, un uomo d’altri tempi, di montagna e di frontiera, un fratello per qualcuno, un amico per altri. Ed è soprattutto un Eroe, lui sì, questa volta al presente, perché gli Eroi, quelli veri, quelli lontani dalla retorica patinata e dalle facili ipocrisie, quelli dotati di una straordinaria umanità, donando la propria vita, vivono per sempre.


Nota sull’Autore_

Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano. Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




FUOCO.

Giulia Gellini – Incontro impalpabile -tecnica mista 70 x 50 – 2019

di Maria Patrizia Soru_

Sono sacre le mie origini, in me è parte della creazione. Ribelle, desiderio degli uomini mi sono fatto catturare. Servo della vita o strumento degli dei, vivo oggi imprigionato tra mani candide consacrate che al crepuscolo di un giorno stabilito per devozione, liberano la mia forza in falò che illuminano la notte, purificando fedeli chini dinnanzi alla mia luce, al mio calore.

Profano è il mio nome se a liberarmi è una mano vestita di fuliggine mossa da occhi celati da una maschera che tra la folla incita alla danza. 

Mio è il potere di invadere sguardi e consumare sentimenti sfidando il tempo. Fulmineo come l’ardere di un campo di grano in estate tra il calore del sole e l’alito del vento. O lento, sotto la cenere, memore chioma di quercia ora sottili grigi capelli. Puoi sentire il mio calore poggiando la mano al centro del cuore, un calore lieve e persistente più forte del freddo della morte.

Ardo tra le mani di chi scrive, dipinge, scolpisce, suona strumenti. Coloro, invado l’aria, sfreccio velocemente nella mente e nei cuori di chiunque lavori con passione. Di chi sogna e spera in un futuro migliore. 

Io amo ascoltarlo ardere nel camino, e mi sento parte del suo mondo, se pur piccola, come la fiamma di una candela. 

 Come fuoco”

Forse questo non è il modo più ortodosso per accingersi ad affrontare un argomento così delicato come quello degli incendi in Sardegna. Ho scelto di citare me stessa, di usare le parole con le quali poco tempo fa descrivevo un aspetto della mia isola, un’isola dove il fuoco non sempre richiama alla mente immagini di morte e terrore, ma è sinonimo di cultura e tradizione, d’amore e passione. Tra quelle parole non posso negare vi sia un’immagine vivida di distruzione, un campo di grano in fiamme, una quercia, sono metafora d’amore ma sono anche quanto di più vicino alla brutalità del fuoco, all’immagine di sofferenza che ogni sardo porta nel cuore soprattutto in questi giorni, da quando il Monte Ferru è rimato vittima del fuoco, un fuoco che a distanza di una settimana ancora arde ed ha distrutto più di 20.000 ettari di bosco.

Non è facile affrontare un argomento che tocca l’anima in prima persona, nel quale è impossibile trovare una giustificazione, un argomento che ha i tratti vividi di una piaga dolorosa, una ferita sempre aperta che quando sembra potersi rimarginare, viene ravvivata, resa sempre più ampia e profonda perché è la mano dell’uomo a volerlo, perché esistono esseri umani che godono nel vederla “sanguinare”.

L’impiego del fuoco in ambito agropastorale in Sardegna così come in tutte le regioni del mondo dedite a questa vocazione, risale ad epoche molto remote: esso veniva impiegato come strumento per la creazione o pulitura dei campi, o per il rinnovo dei pascoli. Non meno importante è sempre stata la sua funzione sacrale, un connubio di rispetto e riverenza che l’uomo da sempre, dedica a questo elemento della natura, riconoscendone la sua forza e la sua vitale importanza tali da forgiare l’identità culturale di interi popoli, tra i quali appunto, il popolo sardo. Il fuoco in Sardegna è parte essenziale della cultura e delle tradizioni legate ad un paganesimo mai estirpato impregnato di saggezza e rispetto per la vita e per la natura.  

L’incendio invece è sempre è stato un male endemico dell’isola, attribuibile totalmente o in parte a pratiche colturali radicate sia nel mondo contadino che in quello pastorale: l’incendio è “appiccato abitualmente dai pastori per ripulire i pascoli, per fertilizzare e migliorare il cotico erboso, o per favorire il ricaccio dei giovani polloni delle essenze arbustive invecchiate, e per narbonare; od ancora causato accidentalmente dai contadini con l’abbruciamento delle stoppie.”

In Sardegna l’incendio venne considerato un delitto e come tale perseguito da precise norme fin da epoca giudicale. La Sardegna nel Medioevo era divisa in quattro Giudicati, ognuno col suo sovrano, il suo parlamento, il suo esercito e le sue leggi.
L’insieme delle leggi prende il nome di  Carta de Logu perché “su logu” (il luogo) era il territorio dello stato dove queste leggi arano in vigore.

La Carta de Logu promulgata prima del 1392 dalla Giudicessa del giudicato d’Arborea Eleonora De Serra Bas  che governò in nome dei figli minorenni, Federico e Mariano V D’Arborea tra il 1383 ed il 1403, consta di 198 articoli dei quali cinque contenuti nella terza sezione sono gli Ordinamentos de fogu (Ordinamenti del fuoco) dal cap. XLV (45) al cap. XLIX (49) e sono atti a disciplinate, reprimere e punire in materia di incendi.

 Nello specifico è interessante notare come al capitolo XLV (45) si punisca l’incendio di natura accidentale  con ammende di £ 25 e il rimborso dei danni provocati.
Il capitolo XLVI (46) punisce l’incendio doloso di case e il capitolo XLVII (47)  l’ incendio di terreni coltivati  prevedendo pene molto più severe: la pena di morte nel primo caso “… e siat juygadu dellu ligari a unu palu, e fagherillu arder…” ovvero: “il colpevole venga legato al palo e fatto ardere ”, mentre nel secondo caso sancisce che  “ … e si non pagat issa… saghitsilli sa manu destra” letteralmente: “ e se non paga gli si tagli la mano destra”, qualora l’incendiario non fosse stato in condizioni di risarcire il danno cagionato 

Altre norme della Carta de Logu riguardavano la prevenzione degli incendi, come  “il divieto di bruciare le stoppie prima dell’8 settembre e l’obbligo di provvedere alla difesa del villaggio e delle aree coltivate mediante apertura di fasce parafuoco (sa doha) entro il 29 giugno (Santu Pedru de Lampadas), pena, in caso contrario, il pagamento di un’ammenda di soldi 10 per abitante del villaggio.” 

Si evince una forte consapevolezza del reale e terribile impatto che gli incendi nel tempo avevano sulla conservazione dei boschi, percepiti come ricchezza della collettività e come tali, oggetto di tutela. Nelle aree boschive tuttavia l’uso del fuoco colturale era di fatto accettato o tollerato, e dal fuoco, impiegato come strumento colturale, facilmente potevano originarsi degli incendi che divenivano incontrollabili ardevano per settimane intere e distruggevano superfici forestali vastissime.
Si prevedeva così, anche “la pena in solido per il villaggio..” nell’eventualità che il colpevole non venisse individuato (istituto detto incarica): i Giurati del villaggio erano tenuti ad eseguire le indagini e a provvedere alla cattura dei colpevoli entro 15 giorni, “…pena una multa di £ 30 per il villaggio grande e di £ 15 per il piccolo, oltre a 100 soldi a carico del Curatore.”

La preoccupazione per gli incendi non si estinse in epoca giudicale. Nel Parlamento del Duca di Gandia, don Carlo Borgia conte di Oliva (1612-1614), venne prevista una “pena di due anni di galera a chi avesse appiccato fuoco nelle zone ove si erano praticati innesti di ulivi”, inoltre “si raccomandava che i prelati minacciassero la scomunica a carico degli incendiari.”
I provvedimenti erano atti a proteggere beni considerati fonte di ricchezza, le piante che col loro prodotto potevano concorrere ad accrescere il reddito dell’isola affrancandola dalle importazioni d’olio di oliva dalla Andalusia.
Successivamente, sotto Filippo III di Spagna (1578-1621), si prese ulteriore coscienza della pericolosità e della vastità  del fenomeno e si cercò di reprimerlo con norme idonee, quale quella contenuta nelle Prammatiche spagnole al capo XI del titolo 42, che ripropose “l’istituto della responsabilità collettiva nel caso che gli autori dell’incendio fossero rimasti ignoti. […]”

Con la Carta Reale 29.8.1756, in epoca sabauda venne introdotto il “divieto di impiegare il fuoco per eliminare la vegetazione e coltivare nuove terre” o per “procurare pascoli più abbondanti”. Col Pregone del 2 aprile 1771, n. 66, si fece divieto “d’accensione di fuochi sotto le piante o nelle loro vicinanze (art. 68), pena il risarcimento dei danni e l’ammenda di scudi 25”.

Venne inoltre prescritto “ l’obbligo per “i passeggieri, che faranno fuoco nelle montagne, dove sogliono soffermarsi.” di spegnere il fuoco stesso prima di abbandonare il sito, ” pena un’ammenda di lire 25, oltre il risarcimento dei danni.”

L’insieme di queste norme manifestano l’attenzione delle istituzioni verso un evento che non finiva di produrre ingenti danni al patrimonio boschivo. Tali norme ciò nonostante, venivano osservate solo in parte; come nella Gallura, dove infrangere sistematicamente i divieti connessi all’accensione dei fuochi nella stagione estiva, era motivo da parte del feudatario per esigere un “balzello suppletivo” denominato capretta di fuoco (oveja de fuego) consistente nella corresponsione di una capra in cambio del permesso di accendere fuochi in tutte le stagioni.
Vittorio Emanuele I, col Regio Editto riguardante gli incendi del 22.7.1806, oltre a reiterare le norme in uso sopra elencate, introdusse due importanti novità riguardo il divieto di metter fuoco nelle terre nel periodo estivo e prima dell’ 8 settembre:” la perdita, a carico del trasgressore, della superficie coltivata e del suo frutto, a favore del Monte Granatico e l’obbligo di munirsi di apposita autorizzazione del Giudice del luogo per impiegare il fuoco dopo l’8 settembre “. Introdusse  inoltre il divieto di pascolo per un anno sui terreni oggetto d’incendio  in violazione di legge, “..sotto pena di sei scudi per ogni capo di bestiame”.
“[…] il Codice di Carlo Felice (Leggi civili e criminali del Regno di Sardegna) prevedeva ” la pena di morte per chiunque avesse appiccato dolosamente il fuoco a case, magazzini od altri edifici entro o contigui al popolato (art. 1958) o a case o capanne abitate (art. 1959), e la galera a tempo a chi volontariamente avesse incendiato piante in piedi o atterrate e a legne e legnami ammassati o in catasta, nonché a vigne, oliveti e coltivi. […]”

Ma non tutti incendi erano dovuti a cause colturali. Molti erano espressione del malessere del mondo rurale che attraverso modifiche legislative si vedeva “derubato” di consolidati o supposti diritti, spesso secolari. Ne sono un esempio gli effetti dell’Editto delle chiudende, le ripercussioni che si ebbero a seguito delle tagliate eseguite sui boschi di roverella negli anni ’30 e ‘40, oltre alle reazioni dopo la metà XIX secolo, nel mondo rurale in conseguenza dei mutamenti intervenuti nell’organizzazione della proprietà terriera.

Uno sguardo alla storia, un veloce excursus può aiutare almeno in parte a capire per quale motivo il problema degli incendi, non conosca ancora una fine e non venga relegato definitivamente al passato. I tempi sono cambiati e le leggi si sono evolute abbandonando il risvolto drastico e disumano della pena di morte o il taglio della mano. La stessa evoluzione a livello umano non ha accompagnato però alcune menti insensibili che nascoste sotto la maschera di presunti diritti, o sotto quella altrettanto ignobile della vendetta, del “dispetto”,  per poter  “lavorare” o per denaro  liberano la potenza del fuoco contro l’habitat che li nutre e permette di respirare. Niente giustifica questo gesto, niente ne crea il diritto e niente dovrebbe alimentarne neanche il solo pensiero.

Quale gesto è più deplorevole del muovere la mano contro chi inerme non si può difendere, piante ed animali. E poco importa se talvolta a perire tra le fiamme è carne umana. Tra il 1945 e il 2013 a causa degli incendi in Sardegna sono rimaste uccise 67 persone ed altre 17 sono rimaste ferite in modo grave. Tra questi, il 28 luglio del 1983,  9 persone persero la vita e 15 rimasero gravemente ferite nel rogo della collina di Curraggia a Tempio Pausania (SS), mentre cercavano di strappare al fuoco, case alberi ed animali. La loro vita per la vita, così i miei occhi vedono quel sacrificio umano che niente ha insegnato così come la pena di morte, così come il taglio della mano.

Per i boschi e per la natura è impossibile non provare gli stessi sentimenti, le stesse emozioni e sensazioni di fronte alla devastazione del fuoco. Credo ci voglia coraggio come per togliere la vita ad un essere umano nel scegliere il giorno, cogliere il momento, capire la direzione del vento, meditare, preparare l’innesco e liberare il male. 

Un incendio di vaste proporzioni ha effetti devastanti non solo sulla regione che lo subisce, ma anche sulle persone che quella terra amano profondamente. 

Si narra che i sardi siano talmente legati alla loro isola che tutte le volte che si allontanano dal luogo natale per amore o per “cercare fortuna”, lascino una parte del loro cuore e dell’anima sulla banchina o fuori dal terminal dell’aeroporto o semplicemente al confine della provincia. Anima e cuore sono pronte a vagare in preda alla nostalgia ed in cerca di consolazione tutte le volte che la mente e il corpo lontani ne sentono il desiderio. 

Vagano tra le antiche vie di città o paesi tra i profumi inebrianti del cibo e delle feste. Vagano tra i boschi di querce e lecci per udire il canto degli uccelli, scorgere l’ombra del cervo. Vagano tra Domus de Janas e nuraghi in cerca delle loro radici. Vagano tra mirto, ginepri lentisco e rosmarino fino a giungere in riva al mare per contare i granelli di quarzo o ingannare il tempo facendo scorrere tra le mani la sabbia sottile come quella delle clessidre. 

Quando un luogo amato scompare in preda alle fiamme, la sofferenza non è dissimile a quella della perdita di un familiare, di una persona cara. L’anima, il cuore, perdono la loro gioia, la loro consolazione, il loro rifugio ed è difficile trovare conforto, perché quel luogo come fosse una persona, non esiste più, sarà per sempre perduto.

La terra bruciata assume l’immagine che nella tradizione contraddistingue la sofferenza della donna sarda quando perde il suo amato, quando il “fato” il destino la condanna a sopravvivere al proprio figlio, quando il dolore deve essere coperto per poter essere mostrato con dignità. La donna veste il lutto, il nero della gonna e dello scialle che avvolge in un abbraccio le spalle ed il capo. Così la terra arsa privata del suo amore più grande, la fauna e la vegetazione mostra vestita di nero, immobile, la sua dignitosa sofferenza. Non il canto di un uccello, non il fruscio di una foglia, solo l’odore acre del fumo, del carbone, della cenere e della morte.

Questo nella mia mente è un incendio, un rogo voluto, desiderato ed augurato con estremo disprezzo per la vita.

La storia ha evoluto le sue leggi ma in Sardegna non è riuscita a porre rimedio a ciò che forse poche, ma agli atti ancora troppe persone sentono come lecita azione perché radicata come tratto culturale o strumento di protesta sociale. 

Da sarda rinnego con tutta me stessa chi si appella alla consuetudine per giustificare, chiudere gli occhi, non tutelare e vigilare sul nostro patrimonio boschivo, sulla nostra terra, sui nostri animali.

So per certo che le “mani” della maggior parte dei sardi “candide” o “vestite di nera fuliggine” se pur “mosse da occhi celati da una maschera”, non libererebbero mai la forza del fuoco contro le proprie case, i propri campi, i boschi e quanto racchiudono e proteggono. I figli di questa terra conservano un ancestrale rispetto così per la natura così per il fuoco.Io nel mio piccolo rimango vicina alla mia terra in lutto e pazientemente aspetto, aspetto perché so che sotto il dolore palpita la vita. Aspetto di scorgere tra il nero del suo “scialle” il luccicare verdeggiante dei primi fili d’erba che hanno il sapore del perdono, di un sorriso. Aspetto e prometto che non sarà più lasciata sola. Aspetto e prometto ciò che so che tutta la Sardegna desidera, vuole.


Nota sull’ Autore_

Maria Patrizia Soru è una Guida Turistica Archeologica.
Appassionata di Storia e letteratura della Sardegna, è alla continua ricerca di immagini e parole capaci di raccontarne il passato, il presente ed il futuro della sua Terra.




Fai pace con la tua storia.

di Mario Barbieri

C’è una serie, abbastanza recente e ancora disponibile su Netflix, che pur nel suo “fantascientifico” o supposto tale soggetto, propone degli spunti di riflessione tutt’altro che banali.

La prima suggestione, la prima domanda che potrebbe salire alla mente, durante o alla fine della visone di questa 1a stagione – io non so se ne vorrei una 2a tanto la 1a potrebbe considerarsi “finita”, anche se con scenari completamente aperti – è quella che scaturisce di fronte al ritorno di persone scomparse: un dono dal Cielo o un evento potenzialmente capace di distruggere la nostra vita e il nostro “equilibrio”?

Non si tratta di uno scenario da “Il ritorno dei morti viventi” o da “L’invasione degli ultra-corpi” (film cult del 1956), anche se alcuni elementi potrebbero dirsi comuni, ma del veder prendere o ri-prendere vita, persone, individui, esseri, in tutto e per tutto umani, con i loro pensieri, emozioni e apparentemente motivazioni.
Non necessariamente dei morti resuscitati, ma anche “cloni” coesistenti con i loro “originali” – talvolta persino la “versione migliore” del proprio originale – che prendono a convivere nella stessa piccola comunità, costretta a vivere in un disabitato paesino finlandese, bloccato dall’eruzione di un enorme vulcano, le cui ceneri rendono grigio il vivere dalla terra al cielo.

È interessante scoprire la reale profonda motivazione che giustifica, muove, queste genesi: conflitti, sentimenti, paure, speranze, rimpianti, angosce, segreti, amori infranti o sospesi, sono questi in realtà il seme piantato in una fantascientifica – verosimilmente aliena – roccia vulcanica, dalle cui profondità come da un utero, queste figure emergono e iniziano a vivere e convivere con il mondo esterno.
Immaginiamo, i nostri sogni o anche i nostri incubi, quando, credo non di rado, rincontriamo persone non necessariamente decedute, ma perse nella storia e nel tempo, a noi legate per un qualsivoglia motivo e trasferiamo questi sogni, queste persone, nella concreta realtà del giorno dopo, al nostro risveglio.
Scenari e situazioni, consolatorie a volte, di ritrovata gioia anche, ma tal altre, cariche di angosce, di ritrovati conflitti, di introspezioni dolorose… Figure che ritornano.

Quanti avvenimenti, persone, situazioni, abbiamo rinchiuso nel nostro passato per poi “buttar via  la chiave”? Abbiamo chiuso quel sottoscala, quell’abbaino della nostra memoria, quel luogo rimasto oscuro e freddo, come le viscere del vulcano della “fiction”, scegliendo coscientemente di non ritornarvi per nessuna ragione.
Non è che tutto ciò sia sbagliato, talvolta è necessario, è questione di legittima difesa, la necessità di voltare pagina, ma è pur sempre un sorta di realtà sospesa, un binario morto che abbiamo deciso e voluto attivando quello scambio, per restare noi sui binari che procedono verso quell’orizzonte che si spera più sereno.

Tutto questo in una serie televisiva, su uno di canali più in voga, sotto le mentite spoglie di una serie fanta-thriller dagli scenari inverosimili (per noi forse) ma assolutamente realistici?
Beh si, può essere, può essere quando c’è un certo spessore di trama, sceneggiatura e regia (anche se Finlandese ;-), perché no?

A questo punto non vi dirò il titolo della serie, il senso non era una “promo”, ne tanto meno – Dio me ne scampi e liberi – “spoilerare” come usa dire, è solo un invito a riflettere sulle vostre, nostre vite, semmai dovesse capitare quanto fantascientificamente raccontato.

Il senso ultimo è tutto nel titolo di questo articolo.

Per il resto avete abbastanza spunti per andare a cercare la serie da cui sono partito per il mio sproloquio (io me la sono già vista tutta)…

Poi magari ne riparleremo.

Note sull’Autore

Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti.
Appassionato di Design e Fotografia.

Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.

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