Universalmente conosciuti come BIAS, i tratti cognitivi rappresentano vere e proprie scorciatoie di pensiero, deviazioni dal percorso logico originario (quindi basate sul ragionamento) dovute all’esigenza della nostra psiche di operare un efficace risparmio cognitivo, come contrapposizione difensiva alla gran mole di stimoli e alla importante quantità di informazioni, che giungono a noi, ogni giorno e in ogni momento.
Ottimizzazione quindi, tesa a risparmiare tempo, impegno e fatica, nel decidere di conseguenza a quegli stimoli. A volte, queste scorciatoie, ci permettono di prendere decisioni immediate, senza appunto implicare troppe risorse mentali e di tempo ma, altre volte, inducono una errata interpretazione della realtà, ovvia conseguenza alla concatenazione di errori di valutazione e di ragionamento, capace di distorcere e snaturare la realtà stessa.
Il concetto di base, che agisce per mano di questi meccanismi, è quello secondo cui siamo esseri emotivi con una spiccata tendenza alla razionalizzazione – non esseri razionali tout court – quindi agli esatti antipodi del vetusto Cogito ergo sum, di cui abbiamo abbondantemente parlato in altre sedi e in altri articoli, abilmente destituito di fondamento, dal Prof. Antonio Damasio, nel libro “L’errore di Cartesio”. Una razionalizzazione che tende a creare quelle strategie cognitive preimpostate, quella serie di scelte strategiche pronto uso o pronta cassa, finalizzate al minore dispendio di risorse e all’utilizzo semplice di schemi e strategie comportamentali.
I Bias conosciuti e codificati dalle Neuroscienze moderne sono moltissimi, ma altrettanti sono quelli ancora non codificati, al punto che, ipotizzarne un numero definitivo è cosa ardua, forse impossibile. Si suppone comunque, a titolo di esempio, che siano circa duecento quelli più importanti.
Tra questi, giusto per citare le principali macro-categorie, troviamo quelli di giudizio, di memoria, individuali, di gruppo, di decisione, di motivazione, etc., raggruppati a loro volta per sovraccarico(troppi stimoli, tutti insieme), scelta(la cernita di quelle informazioni, per risparmiare la memoria), fretta (per risparmiare od ottimizzare il tempo) e per mancanza(la mente umana unisce i puntini e, in assenza di informazioni complete ed esaustive, le immagina, le deduce dal contesto o, semplicemente, le crea).
E, scendendo nello specifico, non possiamo dimenticare i Bias ritenuti tra i più importanti in assoluto, i “fantastici tre” che, nel bene e nel male, dominano la mente umana di tutti noi, nessuno escluso: il Biasdiconferma(la ricerca inconscia delle tesi che danno ragione alle nostre convinzioni e alle nostre credenze, escludendo in automatico tutte le altre), quello di colpa o merito(i risultati positivi sono merito nostro, mentre quelli negativi sono colpa d’altri) e quello di eccessiva fiducia (in noi stessi e nelle nostre capacità, sovrastimandole, salvo poi sottostimare i rischi e i pericoli correlati a ciò che facciamo).
In questa sede ci occuperemo del secondo citato, ossia del Bias di colpa o merito e del suo aspetto più interessante, ovvero il particolare meccanismo di elaborazione, attribuzione e delega delle responsabilità.
Per effetto di questo tratto cognitivo che semplifica, come gli altri, le esperienze umane, sentiremo un automobilista dire “mi sono venuti addosso”, oppure “ho evitato un incidente” qualunque sia stata la dinamica dell’incidente, in funzione della sua attribuzione inconscia di colpa o merito relativa allo sgradevole episodio. Allo stesso modo, uno studente distinguerà la responsabilità di un cattivo voto, dal merito di uno positivo, arrivando a dire, delegando la responsabilità, “il professore mi ha messo 3”, in aperta contrapposizione cognitiva con il più autocelebrativo “ho preso 7”.
Probabilmente derivante dal colpa e merito, di estrema importanza e interesse è la variante della responsabilità esterna, ovvero la convinzione di non essere responsabili (di non aver colpe) delle proprie azioni e del risultato conseguente dipendendo, quest’ultimo, esclusivamente da fatti e forze al di fuori del nostro controllo (almeno secondo il tratto cognitivo in questione). Si tratta di una scorciatoia che ci porta a cercare le responsabilità al di fuori della nostra sfera d’influenza, fino a credere ai complotti, alle macchinazioni, ai poteri superiori e occulti sempre pronti a tramare contro di noi e a remare contro il nostro destino.
Questa convinzione ci libera dell’ansia della decisione, proteggendoci dall’insoddisfazione e dalle delusioni provocate dai nostri errori, portando il pensiero a ruotare ossessivamente intorno a questo concetto e rendendolo incapace di reagire e di uscire dal pantano dell’auto-inganno.
Questo tratto cognitivo – e il conseguente assetto mentale – porta a sentirsi protetti e tutelati, perché andrà tutto bene (ti ricorda qualcosa?), che tanto, presto o tardi, qualcuno se ne occuperà e, con un po’ di fortuna, ci toglierà le castagne dal fuoco. Un modo come un altro per rifiutarsi di crescere, di assumersi le proprie esclusive responsabilità, facendo leva inconscia sul ricordo di un’infanzia perduta, di quando erano i nostri genitori a decidereper noi, sollevandoci dall’incomodo onere, nel bene o nel male.
È più facile dare la colpa delle nostre umane miserie a chiunque, o a qualunque cosa, al di fuori di noi, pur di non guardarci allo specchio, per non dover puntare quell’indice indagatore contro noi stessi e contro le nostre scelte. Anche contro le mancate scelte (perché anche non scegliere, è una scelta) foriere di conseguenze immediate o future. E pur di trovare un’attenuante o una giustificazione ai risultati che la nostra vita, per nostra mano ottiene, siamo pronti a darne la colpa alla divinità (scegli tu quale, a tuo piacere), al destino, all’oroscopo, ai concorrenti, al mercato, alla crisi, alla pandemia, ai russi, agli americani e, perché no? ai cinesi e ai talebani.
Insomma, a qualunque cosa (o persona, o evento, o forza sovrannaturale) che abbia a che fare con quelle nostre scelte e con le nostre azioni, anche quando siamo gli unici fautori di esse, quindi gli unici artefici di quel destino che, nella nostra idea, ci rema contro.
Mai inganno fu più distruttivo dell’esito e lesivo della dignità di pensiero.
La libertà consapevole di scegliere e di agire spaventa, genera stati d’ansia e d’angoscia, derivati dalla paura di fare i conti anche con se stessi, riconoscendo con serenità i propri errori e sfruttandoli come insegnamento, punti fermi dai quali ricominciare, senza che la nostra autostima e la nostra autovalutazione ne escano sconfitte.
Il lato più deleterio di questo Bias (come di quasi tutti i Bias, del resto) è la velocità con la quale agisce, il senso d’urgenza motivato solo dal risparmio di energie e mai da necessità reali (fatto salvo il Bias di autoconservazione). Occorre invece prendere le distanze da questa fretta, dal pensiero precipitoso e affannato, soprattutto quando siamo alle prese con decisioni di grande importanza. Un passo indietro, in questi casi, è ciò che può far la differenza, tra successo e fallimento o, melodrammaticamente parlando, tra la vita e la morte, razionalizzando le emozioni e la “pancia”, facendo sì che ci indichino un percorso da prendere, ma solo dopo averci ragionato, supportandole razionalmente.
Valutati i pro e i contro, insomma, con lucidità e oggettività.
Facile? Proprio per niente. Anzi, è addirittura difficile riconoscere questo meccanismo cognitivo nei nostri stessi processi logici e nel nostro vissuto quotidiano. Per contro, possiamo facilmente riscontrare il meccanismo diresponsabilità esternanella vita quotidiana al di fuori di noi, o negli altri, ad esempio quando i leader politici di riferimento che si propongono come unici risolutori di un problema che dipende e deriva sempre da altri, o è stato ereditato dai predecessori, che quindi esula dalle proprie responsabilità, proponendosi come difesa dalla minaccia (crea un nemico comune e avrai un elettorato) in favore del singolo e della collettività, finora trascurata e indifesa.
A condizione che tutti, singolo e collettività, abdichino al controllo e alla verifica del reale rischio, del vero problema e delle corrette soluzioni adottate.
Il tratto cognitivo della responsabilità esterna, se da una parte ci protegge dall’incertezza presunta e ci rassicura da un pericolo che, spesso non è così reale come veniamo suggestionati a credere, per contro, pretende in pegno i nostri beni più preziosi: la libertà, l’autonomia, il senso di responsabilità e la capacità di operare una scelta consapevole.
Una condizione a dir poco vessatoria e per nulla equa, a ben vedere, cui opporre necessariamente un ragionamento attivo, che non sia estraneo alle scorciatoie, ma che, a condizione di conoscere noi stessi e le nostre emozioni, conservi integra la capacità di valutare e di sfruttare a nostro beneficio queste ultime, lasciando spazio all’istinto, cum grano salis!
Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.
Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.
Che nesso c’è tra le emozioni e la leadership efficace?
E’ possibile guidare se stessi e gli altri, pensando di ignorare le dinamiche interne dell’anima ?
In questo articolo parleremo di come le emozioni siano una componente basilare dell’individuo e di come essa svolga un ruolo importante nella relazione in genere e nello specifico tra leader e follower.
“La maggior parte della pubblicità non fa tanto appello alla ragione quanto all’emozione.”
Erich Fromm (psicoanalista e sociologo)
1 – Leadership: comunicare bene, è sufficiente?
La prima cosa che ci viene in mente parlando della leadership, è la capacità di guidare se stessi ed i nostri collaboratori dopo aver stilato una scala di priorità, grazie alle quali scaturiranno le linee guida che permetteranno di raggiungere gli obiettivi prefissati, rispettando nel contempo il budget economico messo a disposizione.
Negli ultimi anni, inoltre, ha preso piede la consapevolezza che per raggiungere obiettivi sempre più stringenti è necessario che l’ambiente lavorativo sia pervaso da entusiasmo e per fare ciò è necessario fornire al proprio team delle motivazioni.
Ma al centro di questa visione, aggiungiamo noi, ci sono persone che si relazionano gli uni con gli altri comunicando.
Concretamente, come avviene questo scambio di contenuti ?
Il primo mezzo che ci viene in mente é la parola.
La parola é un “ponte”, un tramite, che permette il passaggio di informazioni da una persona all’altra,
Etimologicamente, comunicare deriva dal latino “commūnĭcāre”, che a sua volta deriva da “cŭm” insieme a, con, contemporaneamente a, e da “mœnīre” che tra i vari significati include anche, rendere accessibile ed aprire.
Pertanto comunicare in senso più ampio, significa ad aprire il proprio mondo agli altri, a condividere le idee, scambiare pareri e nel nostro caso, coinvolgere i collaboratori sia nella fase che precede le scelte che poi nel debriefing, quando arriva il momento di tirare le somme e valutare i risultati raggiunti.
Ma per comunicare, non basta, né tantomeno è sufficiente, conoscere bene una lingua e l’arte del saper parlare in pubblico e scopo di questo articolo è andare in cerca di quei presupposti a priori, che rendano la comunicazione verbale veramente chiara ed efficace od in altre parole, essere ragionevolmente sicuri si il che il messaggio sia stato realmente compreso dal nostro interlocutore.
“Il problema principale della comunicazione é dare per scontato che essa sia realmente avvenuta”. George Bernard Shaw
Come l’esperienza ci insegna, seppur siamo in possesso di una buona cultura ed abbiamo frequentato dei corsi di formazione, la conversazione basata sul linguaggio continua ad essere caratterizzata da incomprensioni, equivoci e fraintendimenti di vario tipo.
Pensiamo per esempio quanta letteratura fonda la sua esistenza sul cosiddetto “qui pro quo” e di come la trama della storia verta intorno alla risoluzione dei malintesi e quindi al chiarimento finale tra i protagonisti.
Il motivo di ciò risiede nel fatto che l’approccio che si focalizza prevalentemente sul contenuto e sulla modalità delle informazioni da scambiare, parte dal presupposto che essa è una questione che coinvolge aspetti semantici, sintattici o grammaticali.
Ma il dialogo tra le persone avviene anche su un livello differente, che come vedremo, ha un’importanza tutt’altro che trascurabile.
E’ quella che si rivolge non tanto all’aspetto logico/razionale della mente, ma a quella parte del mondo interiore dell’individuo, fatto di emozioni e sentimenti.
2 – La comunicazione non verbale
Questo aspetto merita a nostro avviso di essere preso in maggior considerazione.
Sul posto di lavoro, almeno ufficialmente, non c’è spazio per le emozioni, mentre nello sport, questa presa di coscienza ha fatto capolino già da tempo, perché qui più che in altri ambienti, é risultato evidente che solo dall’emozione può scaturire quel qualcosa in più che renda possibile una prestazione eccezionale, oppure, quella resistenza senza la quale, non si potrebbero superare allenamenti durissimi.
Siccome il timore è che le emozioni possano intaccare la prestazione lavorativa del singolo o che, turbando la sensibilità altrui, finiscano per influenzare il rendimento dei colleghi, esse di norma, vengono ignorate o tutt’al più, ritenute lecite solo all’interno di ambiti ben delineati, come le ricorrenze, il raggiungimento di obiettivi particolarmente ambiziosi o al contrario, quando la situazione congiunturale è complicata e bisogna richiamare il gruppo a fare dei sacrifici.
Ma che ne siamo consapevoli o meno, esse sono un ingrediente fondamentale della nostra esperienza e che fanno capolino in ogni circostanza della nostra vita.
Anche quella lavorativa.
Pensare di ignorarle con l’intento di renderle inoffensive é inutile, anzi quando ciò accade, esse operano dentro di noi come la lava incandescente che scava le gallerie nelle profondità della terra e si trasformano in quelle che secondo alcuni studiosi, sarebbero le cause delle malattie psicosomatiche.
Ma prima o poi esse manifestano la loro azione e più tardi questo accade, più lo faranno in maniera eclatante e talvolta esplosiva.
Pensiamo per esempio ad un attacco di rabbia o più semplicemente ad una crisi di pianto causata da un sentimento di dolore troppo a lungo represso.
Sono perennemente presenti e benché agli occhi di molti non appaiano visibili, per coloro che invece hanno occhi per vedere, orecchie per sentire ed un cuore per comprendere, la loro manifestazione appare evidente.
Anzi, per certi versi, lo fanno in maniera “assordante”.
“Noi gridiamo quello che siamo.”
Uno degli assunti fondamentali della psicologia junghiana.
Da queste premesse comprendiamo il motivo perché in alcune circostanze ed in particolare sul luogo di lavoro, vengano viste con un certo sospetto, in quanto rivelerebbero il nostro stato interiore più autentico che, grazie alla timidezza, al rispetto delle convenzioni dettate dall’educazione oppure dalla convenienza, resta celato.
Pensiamo per esempio al caso in cui esse lasciassero trapelare il disappunto per le scelte fatte dal capo, o più semplicemente, quando sono spie rivelatrici di emozioni distruttive latenti come l’aggressività e quindi, potrebbero mettere a rischio l’integrità del gruppo.
Secondo alcuni, le emozioni in fabbrica od in ufficio, sarebbero apportatrici di confusione che generano inefficienze, ostacoli alla comprensione reciproca ed allo svolgimento ordinato dei compiti da eseguire, mentre come vedremo più avanti, andrebbero interpretate come la spia di un malessere, di un problema o di un conflitto, sia personale che di gruppo e noi, similmente a quando sul cruscotto della nostra automobile si accendesse una spia di allarme, invece di prenderle in seria considerazione, decidessimo di ignorarla.
A complicare il quadro, interviene, la concezione dicotomica che caratterizza tutt’ora il pensiero occidentale, il quale divide in maniera spesso tranchant i fenomeni in “bene o male”, “buoni o cattivi”, “favorevoli od ostili”, che ha fatto si che si creasse nei tempi passati tra i filosofi, una netta distinzione tra l’attività meccanica del corpo e l’attività intellettuale del pensiero, ignorando o trascurando invece, il cosiddetto “convitato di pietra”, cioè l’universo delle emozioni, riservandole non solo un ruolo secondario ma ritenendole in alcuni casi, il vero nemico del pensiero logico/razionale.
Per molti secoli, infatti, la sfera delle emozioni è stata confinata al mondo spensierato dei bambini od al più tollerato con benevola indulgenza quando riguardavano il genere femminile.
Per il resto veniva relegato alla ristretta cerchia di poeti ed artisti.
Questa dialettica filosofica era più che comprensibile in passato, in quanto nasceva dalla necessità di placare le ansie del vivere quotidiano accentuate dall’arretratezza del sapere scientifico e dove, le malattie e le guerre, contribuivano a rendere la vita ancora più insicura ed incerta.
3 – La palestra delle emozioni
Ora, quand’è che le emozioni cominciano a manifestarsi e a svilupparsi dentro di noi ?
Tutto ha inizio quando tra la madre ed il figlio appena nato, si instaura un’intesa basata non sul linguaggio verbale ma sullo scambio di sorrisi, occhiate e mugolii di vario tipo, che a loro volta, non sono altro che il mezzo con il quale le emozioni vengono manifestate all’esterno.
Esse sono di vario tipo e vanno per esempio, dalla manifestazione del piacere di rivedersi, il desiderio di ricercare un contatto visivo, il bisogno di mangiare, il compiacimento quando questo piacere viene soddisfatto, e così via.
E’ questa la prima forma di comunicazione tra individui ed é a tal punto universale che, quando un piccolo, nato e cresciuto per un certo periodo di tempo in un paese se, prima dell’instaurarsi della relazione verbale, viene adottato in un’altra nazione, tra la nuova madre ed il bambino si crea egualmente un affiatamento.
Cogliamo l’occasione per far notare che un modo diverso per veicolare sentimenti ed emozioni é la musica, la quale, facendo appello proprio al linguaggio primordiale di cui stiamo parlando, viene compresa in qualunque parte del mondo, anche ed indipendentemente dall’epoca in cui é stata composta o dal paese di provenienza dell’autore.
Amore, odio, attrazione, repulsione, piacere, disgusto, compiacimento, disprezzo, ammirazione, fastidio, stupore, terrore, serenità, rabbia, delirio di onnipotenza, senso di frustrante solitudine, pace, serenità, compassione, calma, nervosismo, comprensione, giudizio, attrazione, repulsione, desiderio di unione, vengono vissute da ciascuno di noi come vibrazioni che si propagano all’interno e tramite le espressioni del viso ed il linguaggio del corpo, vengono trasmesse e captate da chi ci sta di fronte, innanzitutto a livello inconscio.
Emozioni che possono essere comprese solo da chi é capace di empatia, ovvero, da chi é in grado di sintonizzarsi con il mondo interiore altrui.
Dovremmo soffermarci un po’ su questa dote assai importante.
4 – L’empatia: alleata delle relazioni efficaci
L’empatia consiste nel saper cogliere, afferrare il mondo emozionale dell’altro, di percepirne i moti interiori ed i sentimenti.
Tutto ciò che insomma, ha ben poco a che vedere con il mondo della logica e della razionalità.
Iniziamo con l’osservare che la capacità di sintonizzarsi sulle emozioni altrui é sviluppata più nelle donne che negli uomini perché, come abbiamo visto, é compito della madre prendersi cura del neonato in quanto, coglierne il linguaggio non verbale, è una questione di vitale importanza.
Ma anche gli uomini, non tutti in egual maniera, sono dotati di questa medesima capacità che é fondamentale a prescindere per instaurare relazioni sociali soddisfacenti.
Perché, se da un lato é vero che affinché lo scambio di idee sia produttivo é indispensabile possedere l’abilità di parlare e di saper esporre con chiarezza le proprie idee in pubblico, ma affinché essa sia anche persuasiva e convincente é imprescindibile entrare in sintonia con l’universo dell’anima del nostro interlocutore.
Ogni emozione è un messaggio, il nostro compito è ascoltare… Gary Zukav (divulgatore scientifico e coach)
A nostro avviso per convincere un collaboratore, non é sufficiente studiare od elaborare tecniche di comunicazione verbali e “body languages” appropriati ad ogni situazione, ma é anche necessario prendere coscienza di quanto le dinamiche del profondo degli esseri umani influiscano, sia sulla qualità della trasmissione, che sulla comprensione dell’argomento.
Perché esiste sempre un significato sottinteso che va “al di là” di quello che volevamo esprimere verbalmente e che viene percepito da ognuno dei nostri interlocutori in maniera completamente diversa.
Infatti se é ormai acquisito che durante una conversazione possano avvenire sia equivoci causati da errori di pronuncia, che quando sono inconsapevoli sono detti lapsus freudiani, sia da interferenze esterne come il rumore, ben sintetizzato dal modo di dire “capire fischi per fiaschi..”, meno scontata invece, é l’influenza che le emozioni hanno quando si tratta di attribuire ad un’espressione verbale un ben determinato significato.
Il detto “mai parlare di corda in casa dell’impiccato” descrive bene questo concetto.
Un termine che per qualcuno rappresenta uno strumento di lavoro e per un’altra persona evoca emozioni legate a spensierati giochi infantili, purtroppo a certuni, potrebbero evocare fatti tragici legati alla propria vita familiare, facendo rivivere le stesse sensazioni di tristezza, di dolore e lutto che aveva provato a suo tempo.
Perché ad ogni parola noi associamo un’emozione e ciascuno di noi lo fa in maniera unica, in un modo che dipende dal proprio vissuto esperenziale.
E’ grazie all’empatia se riusciamo a metterci in sintonia con il mondo interiore del nostro collaboratore e a far si che la l’interlocuzione sia più efficace e meno condizionata da sentimenti che evocano stati d’animo che possono “inquinare” il reale contenuto del messaggio.
Quando é il momento che le decisioni e le azioni prendano forma, i sentimenti contano almeno quanto il pensiero razionale e spesso anche di più.
Daniel Goleman (psicologo e scrittore)
5 – Leadership ed indulgenza: chi l’avrebbe mai detto ?
Ma esiste un aspetto dell’empatia che è importante nella stessa misura, che consiste nell’attitudine di saper ascoltare i sentimenti dentro di noi, per capire chi siamo veramente e che, quando questo ascolto é onesto e sincero, ci insegna ad essere più indulgenti sia nei confronti di noi stessi che degli altri.
L’indulgenza di cui stiamo parlando, non ha nulla a che vedere con il perdono.
L’indulgenza, che deriverebbe secondo un’interpretazione simbolica, dal latino “indulgentĭa” a sua volta composto da in”, cioè verso e dal verbo“dulcāre” che significa addolcire, sarebbe quell’arte che consiste nel saper vedere negli altri, come in se stessi, sempre il lato più dolce, ovvero quello migliore.
Un primo effetto é che col tempo grazie ad essa, impariamo ad astenerci dal giudizio, ovvero a comprendere che i nostri pensieri e le nostre azioni, come quelli di chi lavora a nostro fianco, si fondano sempre su dei buoni motivi, che dipendono, ovviamente, dal vissuto di ciascuno e da come gli obiettivi lavorativi impattano sulla propria autostima.
Questo tipo di consapevolezza, che si acquisisce solo col tempo, ci mette in condizione di collaborare alla creazione di un ambiente di lavoro, che sia produttivo ma allo stesso tempo sereno.
A chi piacerebbe lavorare in un ambiente eccessivamente competitivo e perennemente sottoposto a stress di ogni genere?
Costruire e mantenere un clima emozionale positivo dovrebbe essere la prima preoccupazione di chiunque gestisca un team, sportivo od aziendale che sia.
Paolo Trabucchi (psicologo e sportivo, fondatore della teoria della resilienza nello sport)
Ma cosa significa in concreto?
6 – La relazione leader e follower consapevole del potere delle emozioni
Significa innanzitutto accettare chi ci sta di fronte per quello che é, e nel contempo, tenere conto di un’altro assunto della psicologia junghiana, che a prima vista potrebbe apparire contraddittorio o bizzarro ovvero, che quando troviamo qualcosa di detestabile in qualcuno, in realtà la critica è rivolta, senza esserne consapevoli, anche e soprattutto a quegli aspetti del suo carattere che sono simili ai nostri ma con i quali, o non abbiamo ancora fatto pace, o semplicemente, non sono ancora emersi dal magma caotico ed indifferenziato del nostro inconscio.
Per lungo tempo, si é creduto che bastasse acquisire una buona cultura generale per essere tolleranti, per accettare chi da un punto di vista caratteriale é diverso da noi.
In realtà dietro al rifiuto di accettare una persona o al pregiudizio nei suoi confronti, non c’è soltanto un condizionamento culturale, ma anche e soprattutto un influenza esercitata dal mondo interiore che è rappresentato dalle emozioni.
Tutto ciò che degli altri ci irrita può portarci alla comprensione di noi stessi.
C.G. Jung (psicoanalista)
Anche se questo ragionamento può sembrare assurdo, come é possibile infatti, “che dentro di me ci sia un aspetto che io detesto ? “, esso ci appare più comprensibile se pensiamo che, così come un diapason in quiete può risuonare anche quando gliene viene posto accanto uno che si trova già in stato di vibrazione, parimenti, quando qualcosa di indefinito dell’altro ci dà particolarmente fastidio, è il segnale che ci dovrebbe suggerire che dentro di noi, convive un aspetto molto simile.
E per capire in che modo le emozioni ci condizionino e di come a causa loro, ci relazioniamo con gli altri, per esempio i nostri collaboratori, é importante dare inizio ad una riflessione riguardo il proprio mondo interiore.
Anche quelli più oscuri intendiamoci, di quei lati che la psicoanalisi junghiana definisce la nostra “ombra” e che consiste sia in tutto ciò che ancora non è emerso nella parte conscia, sia da quello che nella letteratura é descritta molto bene dalla figura del personaggio del romanzo “Lo strano caso del dr.Jekyll and mr. Hyde” , dove Hide in inglese, significa appunto, “nascosto”, ovvero, il lato nascosto di chi di giorno curava i malati e salvava le vite, mentre di notte si trasformava in un personaggio sadico e malvagio.
L’uomo sano non tortura gli altri, in genere è chi è stato torturato che diventa torturatore.
C.G. Jung (psicoanalista)
Perché conoscere se stessi è un buon modo per iniziare a comprendere anche gli altri e che ci permette di acquisire col tempo un’altra qualità, talvolta sottovalutata, ma da noi ritenuta altrettanto cruciale in ambito lavorativo.
Stiamo parlando dell’astensione dal giudizio.
L’astensione dal giudizio non è solamente un concetto astratto, ma qualcosa che influisce in maniera determinante e positiva sulla motivazione e quindi sulla prestazione del collaboratore, perché anch’egli e talvolta più di noi, é dotato di empatia e pertanto in grado di “percepire” se abbiamo fiducia di lui o se siamo prevenuti nei suoi confronti.
Ed è importante che questo spirito sia sincero e non costruito, perché nel secondo caso l’incongruenza tra ciò che diciamo e come lo diciamo, verrebbe svelata ed interpretata come un tentativo di manipolazione.
Purtroppo, non é sufficiente frequentare un corso che ci insegna ad entrare in sintonia con l’altro, per esempio mediante tecniche di ricalco posturale, perché, se non siamo eccellenti attori, veniamo subito smascherati dall’inconscio altrui e tutto quello che diciamo, da un certo momento in poi finisce di perdere ogni credibilità.
Anzi, cogliamo l’occasione per riflettere sul fatto che, quand’anche fossimo dei professionisti della recitazione, dobbiamo ammettere per forza di cose che i nostri rapporti con gli altri non sarebbero basati sulla sincerità, ma sull’ipocrisia.
E quindi, estendendo il ragionamento, dovremmo affermare che “in primis” non saremmo onesti con noi stessi e si verrebbe a creare uno scollamento sostanziale tra quello che diamo a vedere e quello che siamo veramente.
Quante volte ci è capitato dire di una persona, all’apparenza simpatica e gentile, dire che “.. però ha un qualcosa che non mi convince”, oppure che ci appare “viscida”, “costruita”, “non genuina” od “inafferrabile” ?
Ci farebbe piacere che pensassero le stesse cose anche di noi ?
Perché il linguaggio delle emozioni, che si manifesta tramite il linguaggio del corpo, ci tradisce sempre.
Dischiudere a noi stessi il nostro mondo interiore, quello inconscio, ci aiuta a capire chi siamo veramente e quindi a scoprire che, sebbene ogni individuo sia una creatura unica e speciale, siamo tutti “guidati” dalle medesime leggi universali.
Ecco che iniziando a prestare ascolto alle nostre emozioni e a darle sempre più spazio, si fa strada un nuova sensibilità e di conseguenza, comprendiamo quanto esse orientino il modo in cui affrontiamo la vita e fino a che punto esse sono in grado di condizionare le nostre scelte e decisioni.
Anche quelle lavorative.
Esse sono onnipresenti, scelgono per noi durante i nostri acquisti, ma ci guidano senza che ce ne accorgiamo anche nella scelta dei nostri partner, dei nostri collaboratori, dei nostri studi, degli obiettivi che ci poniamo e dei rischi che siamo in grado di assumerci sulla vita o sul lavoro.
Spetta a noi mediante un indulgente lavoro di introspezione renderci consci della loro influenza.
Io non voglio essere alla mercé delle mie emozioni. Io le voglio usare, divertirmi con loro e dominarle.
Oscar Wilde – Il ritratto di Dorian Gray
7 – Il segreto per integrare le emozioni a lavoro ? Umiltà, umanità ed umorismo.
Abbiamo qui appena iniziato a scoprire che le emozioni sono un universo complesso ed articolato.
Non basta un breve testo come questo per spalancarne le porte e per intraprendere un cammino verso la scoperta di quanto sia ricco ed articolato il mondo che si cela dentro ciascuno di noi.
Fare questa ricerca é sicuramente impegnativo, ma il risultato sarà certamente appagante.
È vero che scendere negli abissi della nostra anima può darci all’inizio una sensazione di smarrimento.
E’ comprensibile infatti, di aver paura di scoprire che da qualche parte internamente, si annidi magari un signor Hyde, tenuto a bada solo dall’educazione e dall’autocontrollo.
Ma forse, é probabile che il nostro lato scuro non sia poi così sinistro e pericoloso.
Oppure di temere che esista un aspetto del nostro carattere che possa risultare sgradevole alla vista degli altri.
Che poi ci domandiamo se in realtà, sia veramente così..
Pensiamo per esempio a tutte quelle volte che ci siamo stupiti di quando qualcuno si è rivolto a noi dicendo ci che eravamo interessanti proprio grazie a quegli aspetti della nostra personalità che invece ci parevano di poco conto, se non addirittura imbarazzanti.
Ma al ritorno da questa ricerca, saremo totalmente rinnovati e rinforzati nella consapevolezza di quello che siamo e valiamo.
Vi invitiamo ad osservare e riflettere infine, che abbiamo evitato consapevolmente di usare il termine “cambiati”.
“Γνῶθι σεαυτόν” – Conosci te stesso
Iscrizione ritrovata presso il tempio di Apollo a Delfi
C’è chi chiama questo percorso, un cammino in discesa, che però non va inteso come un sentiero facile, ma nel senso che esso é più simile all’esplorazione di uno speleologo all’interno della terra ed il cui premio finale sarà il dono dell’umiltà.
Soffermiamoci per un momento su di essa che essendo considerata una virtù, viene assimilata alle cose eteree, celesti ed irraggiungibili, ma che invece, se intesa nel suo significato allegorico, dovrebbe entrare a far parte della cassetta degli attrezzi del leader efficace.
Fatta la premessa che, in questo contesto stiamo privilegiando l’interpretazione figurata rispetto a quella letterale, umiltà deriva etimologicamente dal latino “humilis” cioè basso, vicino al suolo e dal sostantivo “humus” che sta’ per suolo o terra.
Ma questi sono gli stessi vocaboli che fornirebbero la radice al temine umorismo che quindi, metaforicamente parlando, indicherebbe la capacità di vedere con distacco ciò che sta in basso, ciò che c’è sotto o ciò che si nasconde in profondità.
Ecco allora che per umiltà, non si intende quell’attitudine autolesionista che farebbe di noi una persona che ha poca stima di se’, non conscia del proprio valore e dei propri meriti, bensì la consapevolezza che sviluppa colui che, avendo compiuto un viaggio verso il centro della terra interiore, acquisisce una nuova facoltà: l’umanità.
Perché, come dice Manfred Kets De Vries, professore presso l’Harvard Business School, docente presso l’INSEAD, e l’Università di Amsterdam:
“Umiltà, Umanità ed Umorismo, sono le vere doti di un leader.”
Appassionato fin da ragazzo di fisica nucleare, elettronica e computer, entrato nel mondo del lavoro scopre che la sfera emozionale sia importante tanto quanto quella razionale.
Ricoprendo all’interno delle aziende ruoli di sempre maggior responsabilità, osserva che per avere successo, oltre ad investire in ricerca e sviluppo ed in strumenti di marketing innovativi, le organizzazioni non possono prescindere dal fatto che le emozioni giochino un ruolo determinante tra i fattori critici di successo.
Grazie ai libri del Prof. Giampiero Quaglino, viene a conoscenza delle più moderne teorie sulla leadership ed in particolare quelle del docente dell’Insead, Manfred Kets de Vries, con cui condivide la visione secondo la quale non esistono modelli di leadership vincenti, ma solo relazioni efficaci tra gli individui.
Nel 2014 la rivista “Nuova Atletica”, organo ufficiale della Federazione Italiana Di Atletica Leggera, gli commissiona una serie di contributi sulla leadership per allenatori professionisti, coerente con le teorie che quotidianamente cerca di mettere in pratica sul lavoro.
Appassionato anche di filosofia, va alla ricerca instancabile di un modello che metta al centro l’individuo e ne rispetti l’unicità ma che al contempo, sia riconducibile a dei principi da cui cui tutto “principia”, convinto che la cultura e la superspecializzazione della scienza e della tecnologia moderna, conduca ad un inevitabile frammentazione dell’Io.
Ritiene di aver trovato ciò che cercava, riscoprendo la filosofia platonica e di Plotino e nella rilettura dei miti greci attraverso le lenti della psicologia archetipica introdotta dallo psicoanalista junghiano James Hillmann assieme ad i contributi dei filosofi E. Casey, L. Corman e dell’antropologo J.P. Vernant.
Pubblica con cadenza mensile sul magazine “karmanews.it” articoli che reinterpretano i miti dell’antica Grecia in chiave psicoanalitica, ritenendoli una metafora dei travagli dell’anima che, mediante l’uso di immagini e di racconti fantastici, si rivolgono direttamente al cuore e quindi all’inconscio.
Ho sempre cominciato a leggere l’odissea dal quinto libro. Quando Odisseo, che è stato per molti anni fermo sull’isola di Ogigia, al centro dell’oceano, infelice sposo della dea Calipso, può finalmente prendere il largo per tornarsene a casa sua.
Odisseo è già stato per mare, ovviamente. Ha vagato per anni, di isola in isola, ma stavolta è tutto diverso.
È la volta ‘buona’.
Lo capiamo subito.
È la sua seconda volta. Seconda vita. Seconda opportunità.
La seconda vita è quando stacchiamo alcuni fatti dal continuum del passato e li cominciamo a vedere come una partita che si è svolta. L’abbiamo persa. Era un gioco di cui non conoscevamo le regole, neanche sapevamo di giocare una partita!
Incontriamo una persona, rispondiamo a un messaggio, accettiamo un invito… siamo come gli ubriachi: non possiamo sapere che sviluppo avranno quei semplici gesti. Così Odisseo, ogni volta sbarca su un’isola – che può fare? Ha sete e fame – gli viene incontro qualcuno: è un cannibale? Una maga? Lo catturerà? Lo avvelenerà? Lo accoglierà con delicatezza?
Non può saperlo. Non possiamo. Procediamo a tentoni. Facciamo amicizia, cambiamo lavoro, lèggiamo un libro; ma non distinguiamo un giorno dal precedente, non sappiamo che cosa stiamo iniziando: abbiamo appena conosciuto il nostro migliore amico o la persona che ci distruggerà, il lavoro della vita o l’esperienza più atroce che mai consoceremo?
La prima vita è quella dell’esposizione, della nudità, del fallimento in agguato…
Ma impercettibilmente impariamo, giorno dopo giorno, isola dopo isola, e quando abbiamo un po’ di tempo cominciamo a vedere i fili invisibili che legano le cose fatte, i dettagli che ci sfuggivano, il disegno si svela e … ha senso!
A quel punto vorremmo rigiocare la partita! Stavolta sceglieremmo con cura il campo, anticiperemmo le mosse dell’avversario, risparmieremmo le forze per quegli ultimi minuti concitati, entreremmo sulle gambe dell’attaccante che segnerà a porta vuota (meglio un rosso che un goal allo scadere)
E però non è possibile.
Quante vite abbiamo?
Tante.
Quella fatta di ciò che ci è capitato, e quella che abbiamo plasmato secondo un’idea che ci siamo inventati di ciò che siamo, che vogliamo. La seconda vita inizia quando scegliamo, quando distinguiamo nel flusso degli accadimenti uni spazio per la scelta.
La decima isola per Odisseo è quella giusta, perché non ha più niente: non navi, non compagni, nemmeno vestiti. Ha solo le sue capacità: la sua intelligenza e la sua parola fluente.
Quando Odisseo parlava, ci dice Omero, tutti stavano in silenzio, meravigliati, e le sue parole erano come fiocchi di neve che scendono dal cielo e ricoprono ogni cosa.
Immagine straordinaria! E che dobbiamo rivivere con lo sguardo mediterraneo e la pelle temprata dal sole e dal sale di chi vive in mare.
Ma anche senza quelle straordinarie capacità, quando una vita si presenta come storia e distinguiamo un tema, un inizio, uno sviluppo di fatti, un senso… questa è già la seconda vita, in cui la prima appare ormai come ritaglio, la sua casualità riscattata, il suo tempo riguadagnato, la sua oscurità chiarificata.
Possiamo ormai, come Odisseo alla corte dei Feaci, dire chi siamo. Qual è la nostra casa. La nostra anima gemella. Non quelle che la sorte o il caso ci hanno assegnato, ma quelle scelte, strappate alle contingenze, desiderate con ardore in tutti i porti e in tutti i mari solcati, nell’ora “che – dice Dante – volge al disìo ai navicanti ‘ntenerisce il core”.
Alzi la mano chi non ha mai vissuto un periodo della propria vita dove tutto va a rotoli…!
Davide, trentenne e protagonista della storia, si laurea e dopo i festeggiamenti piuttosto “briosi” inizia ad affacciarsi al mondo del lavoro. All’inizio il protagonista affronta la ricerca con tranquillità, quasi con leggerezza, sicuro che la tipologia di lavoro che sta cercando sarà sicuramente disponibile.
Con il passare del tempo la realtà sarà del tutto diversa e l’euforia iniziale si trasformerà gradualmente in preoccupazione e, quasi, in angoscia.
I colloqui che sostiene sono quasi paradossali e Davide è molto bravo a difendere la propria dignità.
Quanti giovani o neolaureati si trovano a dover lottare, e quasi elemosinare, un posto di lavoro dignitoso che consenta loro di costruirsi un proprio futuro? L’offerta formativa è molto vasta ma quanti posti di lavoro sono realmente disponibili per consentire un adeguato collocamento ai giovani che investono (anche economicamente) sul proprio futuro?
Non è retorica, è un problema sociale sul quale non dovremmo abbassare l’attenzione.
In questa fase, anche famiglia e vita sentimentale sono per Davide fonte di sofferenza.
I social, in particolare Facebook, e il vizio del fumo sono le uniche ancore di salvezza del ragazzo ma fino a che punto sono efficaci?
Facebook è sempre più una vetrina per chi ha bisogno di affermare se stesso nella società, condivisione di luoghi comuni o mezzo di divulgazione di basso profilo per utenti facilmente manovrabili.
Le sigarette hanno un costo, non solo sul portafoglio.
Come uscirne?
La grande passione del protagonista sembra essere la sua ultima ancora di salvezza, fino a quando…
All’inizio ho trovato un pò di difficoltà ad immedesimarmi nella storia; il punto di vista maschile del racconto è diverso dall’approccio femminile all’interpretazione degli eventi.
Noi donne siamo abituate ad analizzare ogni singola situazione da mille punti di vista, ognuno dei quali è l’opposto dell’altro: il tutto intriso di mille emozioni, anche in questo caso, contrastanti!
L’uomo è pragmatico e quando l’ho realizzato, mi sono affezionata a Davide!
Davide è una persona seria, forte e molto rispettosa di se stesso.
Ovviamente fa fatica a reggere il peso degli eventi e alla fine…
Il racconto delle peripezie di Davide avrà vari colpi di scena; questi sta vivendo davvero sulle montagne russe!
Come evolveranno gli eventi? Come andrà a finire?
“Sii impeccabile con la parola” ci offre una lettura molto chiara della nostra società che ancora non riesce a tutelare e valorizzare i nostri giovani; PERSONE serie che hanno tutto il diritto di fare le proprie esperienze in un mondo del lavoro che li rispetti.
“Sii impeccabile con la parola” vuole essere anche uno spunto di riflessione affinché riusciamo a rimettere Facebook nel posto che merita nella nostra vita: forse in fondo !
Ringrazio Matteo Capelli per avermi inviato il suo lavoro; la sua scrittura, come Davide, è simpatica e ironica e mai superficiale!
In bocca al lupo caro Davide! 🙂
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.
Capita più o meno in tutte le lingue, dall’italiano all’inglese, dal russo al francese, che parole molto simili rappresentino, in realtà, concetti diversi, se non proprio diametralmente opposti, per lo meno molto distanti tra di loro. E da qui nasce l’inganno, la confusione, dovuto all’uso improprio delle parole, rese intercambiabili dalla superficialità, ma sostanzialmente diverse nel significato più vero e profondo.
Soprattutto in italiano, lingua particolarmente ricca di sfumature, declinazioni e ambiguità (linguistiche). Un po’ come i “false friends” della lingua inglese, parole che sembrano significare qualcosa, ma solo perché somigliano ad altri vocaboli.
È il caso, giusto per portare un esempio, del termine “Sympathy”, reso particolarmente familiare dai Rolling Stone e dalla loro canzone Sympathy for the Devil. Ma, attenzione, Sympathy, non significa affatto simpatia – eccolo il falso amico che c’inganna con una subdola somiglianza – significa compassione. E tutto il senso del testo, chiarito il significato corretto della singola parola, muta contesto e sostanza.
Potremmo citarne a tonnellate, di esempi in merito, di parole che sembrano qualcos’altro, di termini che somigliano ad altri, che quindi spesso confondiamo e intercambiamo, fino a usarli a sproposito. Perché nell’apparentemente sottile differenza tra due parole simili, può esserci un abisso di sostanziale diversità del significato. O, per lo meno, nella loro applicazione, può comportare meccanismi psicologici e comportamentali del tutto diversi.
Prendiamo in esame, ad esempio, le parole “accettazione” e “rassegnazione”.
Apparentemente (ma solo al primo lontano e frettoloso sguardo) esse sembrano talmente simili da rappresentare il medesimo significato, talmente uguali da ricordare due gemelli omozigoti separati alla nascita.
Ma nella linguistica, l’inganno è sempre in agguato, pronto a indurci in errore, a tentarci con parole dal suono simile, ma dal significato diverso che, se usate alla leggera e senza cognizione di causa, alterano il senso del discorso e del nostro vivere quotidiano.
Proprio come nell’esempio della canzone.
Accettare e rassegnarsi, possono anche sembrare parenti strette, ma convogliano implicazioni psicologiche che impediscono loro di essere intercambiabili. Seppur entrambe implichino l’atto di far propria una nuova e diversa prospettiva, una presa d’atto in merito a ciò che ci accade intorno, implicano schemi mentali e aspettative che, tradotti in atti concreti, mutano di molto il nostro agito.
L’errato uso di uno o dell’altro termine, implica un’alterazione delle nostre percezioni, di come vediamo e percepiamo, distinguendoli, ciò che possiamo ancora controllare e ciò che non possiamo controllare più. Capire la differenza che intercorre tra le due parole (dal punto di vista psicologico, non solo da quello semantico) rende possibile, a noi stessi, il controllo sul nostro atteggiamento, dal quale deriva il comportamento nei confronti degli input che ci arrivano dal mondo circostante, permettendoci di mutare l’elaborazione degli stessi e delle aspettative che nutriamo nei loro confronti.
In altre parole, accettare un evento, implica una risposta cognitiva ed emotiva ben diversa da quando, a quell’evento, ci rassegniamo passivamente e senza volontà alcuna. Un bivio che divide due mete drammaticamente diverse e opposte: controllare attivamente gli eventi o subirli passivamente, lasciandoci magari travolgere da essi, incapaci di reagire al momento, allo stimolo agli accadimenti che ci coinvolgono e, in questo caso, ci travolgono.
Che si scelga la prima o la seconda strada, a cambiare è l’atteggiamento, il modo di porsi nei confronti delle circostanze, laddove il primo caso comporta un ruolo attivo e voluto, mentre il secondo, per ovvio contrasto, un ruolo del tutto passivo e involontario. E quella scelta si riflette sul nostro stato emotivo che, a sua volta, determina un agìto di riflesso, che spesso, nel caso della rassegnazione, porta al piagnisteo, alla lamentela e alla fuga dalla realtà e dalle responsabilità.
E anche queste, le responsabilità, distinguono il percorso. Nel caso dell’accettazione, non solo prendiamo atto dell’accaduto, ma ce ne assumiamo le responsabilità, ovviamente se queste sono riconducibili a noi, almeno in minima parte. Nel caso della rassegnazione, le responsabilità non sono mai nostre ma sempre di soggetti terzi e di eventi al di fuori della nostra sfera d’influenza.
Anche quando, di fatto, di responsabilità oggettive non s’ha traccia.
Ciò accade perché la rassegnazione, a differenza della sua apparente gemella, comporta il giudizio, l’assunzione del ruolo di vittima delle circostanze. Mentre l’accettazione quel giudizio lo sospende, accettando la realtà e vivendola con piglio attivo, per cambiarla e ricondurla al suo proprio beneficio, oppure accettarla (appunto) vivendola con serenità, la rassegnazione diventa il nostro stesso inquisitore, il giudice inflessibile che decide (dal suo esclusivo punto d’osservazione) ciò che è giusto e ciò che non lo è.
Salvo poi omettere che si tratti di deduzioni del tutto soggettive dovute ai capricci di un tiranno.
Operare un distinguo ragionato, tra i due concetti, è una questione di volontà, essendo l’accettazione un processo (per buona sua parte) voluto e consapevole. Si decide di accettare qualcosa, in maniera volontaria e cosciente. Al contrario, la rassegnazione ai fatti della vita, comporta una cessazione di quella volontà, una dismissione della coscienza, a favore di un’inconsapevolezza che ci arreca distonia, malessere e disagio interiore. E che, per effetto di quel malessere, c’impone la resa incondizionata e la delega delle cosiddette colpe.
È un po’ come dire: “voglio cambiare le cose”, oppure “lascio che le cose mi cambino”. Sembrano concetti uguali, ma non è aritmetica. Cambiare l’ordine dei fattori (delle parole, in questo caso) il risultato lo cambia eccome. Così come il variato ordine cambia le nostre percezioni, la risposta a quegli stimoli, lo stato d’animo, le nostre azioni e il risultato che ne consegue.
Mentre l’accettazione impara a perdere con stile, la rassegnazione, come spesso osserviamo nel mondo dello sport (soprattutto del calcio) scarica le proprie responsabilità sull’arbitro, sull’allenatore, sul presidente e sui tifosi tutti.
No, comprendere e fare nostra la differenza tra accettazione e rassegnazione, tra attività e passività del ruolo assunto, non è solo una questione di semantica, ma di acquisita capacità e volontà d’essere felici e di saper stare al mondo.
Occorre coraggio, per accettare qualcosa (un lutto, una malattia, un fallimento). Tanto coraggio e altrettanta forza.
Al contrario, per la rassegnazione, basta la viltà, condita dalla stucchevole capacità di fuggire dalle proprie responsabilità e di piangersi addosso, magari bagnando la spalla di qualcun altro.
Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.
Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.
Viviamo una fase storica piuttosto delicata, carente a vari livelli sul piano formativo.
Il grado di istruzione non rappresenta più un discrimen sociale e sembra quasi che la linea di demarcazione tra addottrinamento obbligatorio e non obbligatorio sia tracciata dai social che, indubbiamente ,non garantiscono alcuna forma di controllo sul livello di recepimento dello sciame di informazioni quotidianamente veicolate.
Si percepisce la mancanza di idonei strumenti attraverso cui educare le coscienze all’autonomia in tema di libera formazione di pensiero e di giudizio, laddove per giudizio non si intende la capricciosità di una teoria volubile ma un vero e proprio costrutto strutturato, ancor meglio se supportato sul piano argomentativo. Oggigiorno praticamente un’utopia!
Esistono,infatti, troppe forme di dipendenza e di condizionamento da opinionismo nozionistico, talmente radicate da rappresentare, a volte, una specie di anticamera dello shit-storming, nel senso che lo alimentano attraverso l’immissione e la condivisione in rete di affermazioni categoriche e perentorie, pronunciate con eccessiva – o a volte senza alcuna – partecipazione emotiva e che finiscono con l’affiancare i casi di vere e proprie offese gratuite disseminate, qua e là, dagli haters a colpi di post e di commenti sui social.
Ferma restando la netta condanna nei confronti di tutto ciò che nel web lede l’altrui immagine e reputazione, ciò che, in alcuni casi, risulta fuori controllo è la tendenza, soprattutto nel mondo dei social, a giocare allo sceriffo a oltranza, nel tentativo di smascherare qualsiasi profilo/persona poco rispondente ai canoni dell’autenticità e della trasparenza.
E’ avvilente constatare che si è persa l’abitudine a distinguere uno schiaffo da una carezza e che, tutti presi dalla caccia alle streghe in rete, come nella vita, non riusciamo a concederci cedimenti emotivi, viviamo nel terrore di essere circondati da approfittatori di professione o,peggio ancora, da esperti di modi affettati e di strategico perbenismo.
Si finisce col tacciare una persona gentile e ben educata di buonismo con la medesima facilità con cui una persona insolente viene accusata di maleducazione e rozzezza! E questo, oltre che paradossale è anche pericoloso, perché provoca nelle persone corrette la sensazione di sentirsi sbagliate e fuori posto.
Inevitabilmente,infatti, l’individuo costruisce il proprio “IO” rapportandosi con l’immagine di sé che riceve come output dal suo approccio con altri individui, anche attraverso occasioni di confronto offerte dalla comunicazione virtuale.
E’ importante essere capiti, anche nel web: è molto facile, invece, essere fraintesi e finire nel calderone degli haters o dei polemici di professione.
Non si può pensare di liquidare con un click,mediante un freddo automatismo, un soggetto pensante e vivo sul piano emozionale per la smania di voler frugare trovando il marcio che lo renda più facilmente attaccabile.
Che triste eredità ci ha lasciato l’esperienza pandemica!
La tendenza a guardare in cagnesco l’altro come se lasciassimo scandire il nostro tempo da un count down in grado di allertarci sulla fregatura che, da un momento all’altro,potremmo rimediare da terzi. Siamo sempre più prevenuti e calcolatori:non ci lasciamo andare…questa è la verità.
L’alternativa non è più scegliere tra una persona che ci piace e una che non ci piace – il che sarebbe sacrosanto e legittimo perché nella vita non si può piacere a tutti – ma tra chi,rimanendo se stesso fino alla fine, ai nostri occhi giustizialisti a oltranza cade per primo in fallo e chi, invece, magari si vende meglio e quindi non commette errori.
Attraverso l’uso del “bannaggio“, della restrizione e del blocco sui social si spazza via tutto ciò che suona anche solo come posticcio e poco convincente: non c’è necessità di arrivare all’offesa…ormai si bollano le persone per molto meno.
E’ un fenomeno, quello della corsa a smascherare il “fake” che è fuori di noi, che spesso tradisce la necessità di disconoscere i nostri stessi limiti, soprattutto l’incapacità di distinguere un essere umano moralmente integro da uno che non lo è. Il sentore, purtroppo, è che al senso di umanità abbiano rinunciato a credere un po’ tutti.
E’ indubbio, però, il giudizio da presunto impostore affibbiato ad altri ci costringe, prima o poi, a fare i conti con noi stessi e con i nostri lati oscuri ma soprattutto con l’esigenza di dover bandire qualcosa o qualcuno che ci ha toccato – sebbene attraverso una forma di relazione virtuale – e che è riuscito a smuovere in noi delle sensazioni scomode.
Scovare ed isolare la falsità,talvolta, è come ottenere una ricompensa e consolarsi per non aver saputo gestire un’ingerenza nella propria vita. E anche una riflessione o un pensiero personale, formulato sotto forma di post o di commento, può essere vissuto come un’entrata a gamba tesa nella vita altrui.
In sintesi, se chi legge determinate parole frutto di scambi su un social conserva dentro di sé degli aspetti irrisolti, questi lo rendono estremamente vulnerabile ad interpretazioni poco felici nel tratteggiare la personalità di chi, dall’altra parte di uno schermo, quelle parole le ha scritte.
Si instaura una sorta di pregiudizio per cui sia gli haters che i personaggi considerati poco “LEGGIBILI” vengono considerati sullo stesso piano.
Il senso della crociata contro il fake nel web è tutto qui: nella paura di dover barattare parti di noi accondiscendendo al riconoscimento dell’altrui autenticità e consentendosi degli scivoloni che, inconsciamente, forse riteniamo di non poterci permettere.
Nel mondo virtuale queste sensazioni risultano addirittura amplificate e spesso dissuadono dallo sperimentare una qualsivoglia forma di comunicazione, anche embrionale, probabilmente perchè il concetto stesso di virtualità continua a rappresentare un mondo a parte rispetto alla tangibilità epidermica tipica delle relazioni interpersonali de visu.
Concedere ad un altro la possibilità di esprimersi in modo spontaneo e reale fa forse paura perché ci porta a pensare che, prima o poi, potrebbe toccare a noi doverci mettere a nudo? Probabile.
Ma fin quando si vivrà di paure e di conflitti irrisolti, reale e virtuale continueranno a muoversi su binari eternamente paralleli.
Vincere l’incomunicabilità in ogni sua forma: vale la pena provarci per dare un senso alla vita, per vivere da persone libere e dimenticare i tristi strascichi anti-sociali lasciati dietro di noi dalla pandemia.
L’autenticità deve poter essere liberata, non perseguita!
Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.
Sogno la rivoluzione dei piccoli gesti – [parte 1]
Alla fine degli anni ’90 rimasi folgorata dal titolo di un libro “La prima sorsata di birra. E altri piccoli piaceri della vita” di Philippe Delerm. Un libretto agile che diventò presto un fenomeno editoriale.
Ma più delle pagine del libro, a intrigarmi fu proprio il titolo. Perché proprio la prima sorsata di birra ha un sapore così speciale e provoca un piacere tanto intenso, molto più di ogni altra sorsata che verrà? È un miracolo di sensazioni che si consuma in pochi secondi prima di svanire, ma che si ripete in ogni occasione.
È vero. Ci sono dei piccoli piaceri capaci di regalarci attimi di felicità pura e genuina. Ci dimostrano che in fondo sono le piccole cose a dare colore alla nostra vita e che non servono gesti eclatanti per farci sentire in pace con noi stessi e con il mondo. Riconoscere e coltivare questi piccoli attimi di felicità è un ottimo esercizio per trasformare i momenti ordinari della vita quotidiana in istanti di straordinaria bellezza.
Quanto più ricca sarebbe la nostra vita se diventassimo collezionisti di attimi di gioia?
E quanto migliori potremmo essere se sapessimo dare il giusto valore ai piccoli gesti?
Le nostre esistenze sono segnate dalle grandi tragedie del nostro tempo. La pandemia ha portato alla luce tutta la nostra fragilità e ci ha messi di fronte alle nostre responsabilità. Siamo la causa del cambiamento climatico e colpevoli di aver innescato un processo di distruzione del pianeta che non siamo più in grado di governare o di sovvertire.
Servono politiche ambientali efficaci e coraggiose, probabilmente impopolari ma essenziali per la nostra sopravvivenza. Ma non possiamo sederci e aspettare che qualcun altro al posto nostro risolva un problema generato da decenni di sfruttamento sconsiderato delle risorse, di devastazione dissennata degli habitat, di strage della biodiversità. Il tutto per perseguire un modello economico insostenibile e ingannevole al quale però nessuno di noi pare voler rinunciare.
Non basta protestare e urlare a gran voce che vogliamo un cambiamento. Dobbiamo essere il cambiamento.
Perché allora non seguiamo la filosofia dei piccoli gesti? Piccoli cambiamenti che non stravolgono la nostra esistenza ma che possono avere un grande valore per la salvaguardia del nostro pianeta. Purtroppo abbiamo interiorizzato una serie di abitudini e di comodità che tendiamo a difendere strenuamente nel timore di perdere qualcosa. Ma non è così! Qualche esempio?
Usare il sapone invece del flacone in plastica di bagnoschiuma, lavarsi i denti con uno spazzolino di bambù e setole naturali, comprare frutta e verdura sfusa e non confezionata nella plastica (e preferibilmente di stagione e a km zero), bere l’acqua della rete idrica piuttosto che acquistarla in bottiglie di plastica, ridurre il consumo di carne, soprattutto quella proveniente da allevamenti intensivi altamente inquinanti, scegliere prodotti per la pulizia della casa ecologici e magari ricaricabili, fare una corretta raccolta differenziata per dare una nuova vita ai materiali – sono tutte piccole azioni che non costano fatica e possono avere un grande impatto sull’ambiente.
Provate a riflettere. I medici ci consigliano di bere 1,5 litri di acqua al giorno. Questo significa 365 bottiglie di plastica all’anno che possono essere risparmiate solo decidendo di bere acqua del rubinetto. Che si traducono in un risparmio di 248 litri di acqua e quasi 30 kg di petrolio necessari per la loro produzione, senza contare le tonnellate di anidride carbonica immesse in atmosfera per il trasporto. Vi rendete conto di quale impatto può avere una scelta così semplice e all’apparenza insignificante?
Piccoli gesti come questo possono fare la differenza se siamo in tanti a farli.
In attesa che i nostri governanti trovino grandi soluzioni ai grandi problemi che ci affliggono, perché non diventiamo protagonisti di piccoli cambiamenti nelle nostre vite?
Ognuno di noi può trovare la propria strada verso la sostenibilità. Basta imparare a porsi una semplice domanda:
Esiste un’alternativa sostenibile che posso facilmente adottare senza fare grandi sacrifici?
Rimarrete stupiti di quante possibilità ci sono e di quanto sia agevole cambiare.
Un piccolo gesto può avviare una rivoluzione?
Sì, se saremo in tanti a farlo.
Giuliana Caroli, classe 1965, lavoro in una grande cooperativa di servizi come Responsabile Comunicazione, ma mi porto come bagaglio una lunga esperienza in ambito consulenziale e formativo.
Scrivo di ciò che conosco e di ciò che mi appassiona. Coltivo la curiosità e alimento le relazioni positive. Detesto l’indifferenza e l’irresponsabilità.
A cosa aspiro? A fare la differenza: per qualcuno, per il pianeta.
Definito da Sigmund Freud come “la più alta manifestazione dei meccanismi di adattamento dell’individuo”, l’umorismo ha una connotazione liberatoria in senso positivo, essendo un sintomo indiscutibile d’arguta intelligenza, di prontezza mentale, di elasticità e di apertura, atto a indagare e a decodificare, fuori dagli schemi, il mondo intorno a noi.
Proprio per questa sua capacità di andare oltre gli standard che delimitano uno scambio comunicativo interpersonale, l’umorismo consente, con naturalezza e leggerezza (che non è da confondere con la futilità o con l’inopportuna leggerezza) di scoprire molto degli altri e di noi stessi, arrivando ad apprendere dettagli che, analizzati con rigore logico e con altrettanto eccessiva serietà, difficilmente scopriremmo.
Ciò accade perché, l’umorismo, supera le difese, gli scudi, le maschere che ognuno di noi, volente o nolente, applica, erge e indossa, per allontanare le paure, i rischi, ciò che non ci fa sentire a nostro agio, che ci espone alla minaccia, tranquillizzandoci e predisponendoci al confronto produttivo e rilassato con l’interlocutore.
E quando una trattativa volta a negoziare, o a mediare (di qualunque natura essa sia) si svolge in piena rilassatezza, grazie anche al piacevole senso dell’umorismo e all’ironia più rispettosa, può accadere ogni magia!
L’umorismo però (o ironia, che dir si voglia) non va confuso con il sarcasmo.
Immaginando le due facce di un’ipotetica medaglia, una faccia (l’ironia) brilla nel sole, mentre la seconda (il sarcasmo) poggia direttamente sul nudo fango. Se il primo è costruttivo, distensivo, arguto e piacevole, se riesce a tradure, in una battuta ilare e in uno scambio ridanciano, l’essenza intelligente di chi la propone, il suo alter ego è cattivo, narcisista, irrispettoso delle altrui sensibilità, pronto a schiacciare e calpestare, distruggere e demolire, pur di primeggiare sull’interlocutore, vivendolo come un nemico da abbattere, prima che diventi offensivo e contundente, in ogni accezione possibile.
In altre parole ed esagerando volutamente i termini, potremmo ben definire il sarcasmo, come un disturbo sociopatico e antisociale del comportamento umano.
Al di là delle battute, è lecito pensare che, se l’umorismo è una forma d’intelligenza (adattiva per Freud, come abbiamo già visto), il suo Mr. Hyde è una materializzazione delle paure più profonde, quelle che condizionano il comportamento e distruggono le relazioni. Il sarcastico umilia offendendo, allo stesso modo dell’arrogante che soverchia urlando.
In entrambi i casi, è la paura a farla da padrona, rubando la scena alla già scarsa autostima del soggetto in questione.
L’umorismo ride con te. Il sarcasmo ride di te. La sottile differenza è tutta qui. Sottile appunto, come una lama tagliente che di buone intenzioni proprio non ne ha.
L’aspetto costruttivo dell’umorismo si concretizza quindi nella sua capacità di mostrarci una diversa prospettiva, un differente punto d’osservazione, una nuova forma mentis nell’affrontare un determinato carico emotivo, spesso inaspettato. La battuta piacevole rompe ciò che potremmo definire iper-focus, ovvero quella concentrazione esagerata sul problema, a discapito della soluzione che perciò diventa invisibile, in cui il primo ruba la scena al secondo, rendendoci incapaci di essere produttivi e risolutivi.
Non a caso, lo psicologo americano Richard Bandler ha scritto “Se siete seri, siete bloccati. L’umorismo è la via più rapida per invertire questo processo. Se potete ridere di una cosa, potete anche cambiarla”.
E ciò ci porta a dissacrare (deo gratias) lo status quo, il “si è sempre fatto così”, l’assurdo “squadra che vince non si cambia”, “finché la barca va…”, per affrontare le situazioni con un pensiero diverso, alternativo, leggero nella sua profondità, mirato a costruire una soluzione con il sorriso sulle labbra e con il giusto atteggiamento.
Un pensiero “laterale” che punta a fiaccare le resistenze, attaccandole laddove non se lo aspettano, proprio come nella strategia militare, come avrebbe detto l’indimenticato professore maltese Edward De Bono, famoso per i suoi sei cappelli per pensare, per il suo fine umorismo e l’altrettanto affilata intelligenza.
Quando parliamo di umorismo, quindi, definiamo un’alternativa positiva, proattiva, aperta al mondo intero che ne evidenzia gli aspetti ridicoli, così come mette in ridicolo la seriosità stessa, nostra e di molte persone, dall’apparenza rigida, con quel fare inflessibile, perché sorridere si può, anche nelle questioni più importanti, esattamente come una battuta ce la si può e ce la si deve concedere, per sopravvivere alla seriosità senza freno e senza prospettiva. Soprattutto senza soluzione. L’ironia alleggerisce le atmosfere più plumbee, assorbe gli urti, rende più confortevole un percorso che, diversamente, sarebbe scomodo o impervio, quasi impossibile da praticare.
E ponendosi come alleviatore, positivo e proattivo, alleggerisce i conflitti, distendendo gli animi, ponendoli in condizione di collaborare, limando alla base quelle asperità che inaspriscono gli scambi e rendono poco propizie le circostanze, accorciando le distanze che sporcano il momento d’ansia, paura e incertezza.
Un momento d’attrito concreto e potente, dovuto alla differenza tra stato desiderato e stato reale, ovvero una distonia relativa alla realtà che stiamo vivendo, evidentemente diversa da ciò che ci aspettavamo, che genera disagio. E quel disagio, prima che diventi stato ansiogeno, non può che essere risolto dall’adattività (altrimenti definita come l’arte di stare al mondo) di cui sa essere capace solo una mente pronta, sveglia e intelligente. Una mente che, spesso, si concretizza in un’uscita con stile, atta a rompere schemi e tensione e che, strappando un sorriso agli astanti e a noi stessi, cambia il modo di vedere le cose in tutti i presenti.
Una caratteristica umana, quindi, molto affine al più blasonato e abusato concetto di resilienza, che può essere allenata, rafforzata, affinata, tanto dalla nostra cultura, quanto dalla nostra curiosità e dall’ambiente circostante. Ma, soprattutto, una battuta d’arguto spirito, non trova spazio in assenza di ascolto attivo e costruttivo, nonché rispettoso dell’altro nel senso più vero.
Agli esatti antipodi del sarcasmo, che l’altro nemmeno lo ascolta, tutto teso e concentrato a scovare l’altrui tallone d’Achille, quel punto debole verso il quale vibrare il mortale colpo, nell’illusione d’apparire brillante.
Ed è la stessa storia a ricordarci come, anche nelle crisi più nere, quelle che hanno segnato il nostro passato, influenzando il nostro futuro, una battuta arguta ha sempre avuto spazio e, a volte, alleggerendo gli animi, ha contribuito a risolvere la querelle.
Perché serio, non vuol necessariamente dire serioso.
Immaginare cambia il presente e prepara il futuro, mentre ci aiuta a sopportare un passato spesso ingombrante. Ci consola per ciò che non sappiamo o non possiamo essere e ci conforta, grazie a una risata, per ciò che davvero siamo, staccandoci da una routine pesante o da un momento che, in fatto di pesantezza, rischia di diventare un macigno e aiutandoci a sopportare ciò che di noi poco ci piace, ridendoci sopra, proprio grazie all’ironia che, soprattutto quando rivolta verso noi stessi, rappresenta l’apice nobile dell’arguzia umana.
E ristabilisce il giusto rapporto tra reale e percepito, perduta o sovrascritta dall’ipertrofia dell’ego, di norma talmente piccolo da ingannarsi, fino a sentirsi un gigante, in preda al delirio egocentrico, riconquistando il corretto equilibrio tra le parti e prendendo le distanze da noi stessi e dalla nostra (spesso) ingombrante personalità.
È una questione di stile, di buonsenso e di misura, l’ironia che accomuna.
L’umorismo scioglie i conflitti e alimenta il confronto (già questo concetto sarebbe sufficiente per renderlo di studio obbligatorio a scuola!) perché solo chi ride con gli altri, anche di se stesso, può essere definito brillante. Chi ride degli altri, dei loro sentimenti e delle loro debolezze, puntando a umiliare l’altrui debolezza, è solo un disgraziato meritevole di poco ironica pietà.
Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.
Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.
Conoscere se stessi, come se fosse facile, così presi dal quotidiano apparire, dall’ordinario essere (o, per lo meno sembrare) qualcosa che agli altri piaccia, per essere apprezzati, accolti, coinvolti nell’Io collettivo che tanto agogniamo.
Conoscere se stessi, come se fosse semplice da fare e non solo da dire, come se già non fossimo presi, oberati ogni momento, dal vuoto concetto, dal fuorviante miraggio dell’essere se stessi, qualunque cosa voglia significare questo arido modo di dire, seppur consapevoli che ogni azione, ogni pensiero, ogni molecola di umanità, ogni scintilla di vita che ci anima, come un potente propulsore che ci spinge fino alle stelle, ci conduce al miglioramento di noi stessi e del mondo intorno a noi.
Perché la vita è crescita continua – diversamente vita non è! – senza sosta e senza ristoro, per non accontentarsi di ciò che si è e per ambire a ciò che si vuole essere, che si vuole fortemente diventare, in un percorso (a ostacoli) che muove dallo stato attuale e ci conduce a quello desiderato.
Parliamo quindi di auto-coscienza e di auto-consapevolezza, la seconda come ovvia conseguenza della prima (e forse anche viceversa), di presa di contatto con se stessi, con le metaforiche fattezze celate in profondità, nell’intimo, necessarie a scoprire chi siamo, come siamo, quali obiettivi vogliamo raggiungere e quali vette vogliamo scalare.
Coscienza e consapevolezza di se stessi e delle proprie emozioni, utili e necessarie a conoscere, prima di ogni altro aspetto, i nostri stessi limiti, le carenze che ci trasciniamo dietro, le lacune che ci rendono incompleti, i margini di miglioramento sui quali possiamo attivamente agire e adoperarsi per completare quel percorso di apprendimento ed elevazione che ci rende, per dirla con Lao Tse, non solo intelligenti, da conoscere gli esseri umani, ma anche saggi, da conoscere noi stessi.
Tutto il resto è una vita nell’illusione, nella più sterile aspettativa di ciò che non può essere, o che, in realtà è ben diverso da come lo immaginavamo, presi come siamo dal sogno che c’inganna e che ci porta fuori strada, dall’illusione soggettiva e superficiale che ci delude.
Occorre quindi, per conoscere se stessi davvero, lungi dall’inganno, conoscerle a fondo quelle emozioni, per imparare a gestirle senza ignorarle, senza rimuoverle o respingerle in profondità, per capirle e reagire a esse nel modo più consono e opportuno (che non è mai l’emozione, il problema, ma come noi reagiamo al suo palesarsi), indagando i motivi che le hanno generate, il perché di quel sentire, di quello stato d’animo, di quella rabbia o di quella tristezza, eviscerandole nella loro più realistica verità, soppesandone il vero carico e il reale peso, senza cedere alle nostre soggettive aspettative, per smontarle e depotenziarle, fino a riderci sopra e trasformarle in emozioni positive o, per lo meno, in qualcosa di meno potenzialmente pericoloso.
Ed è proprio qui la difficoltà: razionalizzare le proprie emozioni, ai confini della nostra natura emotiva, senza cadere nel grave e ormai ben noto errore di Cartesio, perché noi umani, nonostante il lascito intellettuale del filosofo francese (ad esempio il suo fuorviante cogito ergo sum) siamo esseri emotivi che pensano, non esseri razionali che si emozionano.
E la differenza, a ben riflettere, è di vitale importanza.
Analizzare noi stessi, quindi. E le nostre stesse emozioni, allo scopo di superare l’abbaglio delle aspettative e del costrutto immotivato della nostra fantasia. Allo scopo, può essere utile e opportuno confrontarsi con gli altri, discutendo gli accadimenti secondo il nostro e il loro personale punto di vista, aprendosi al confronto più edificante, perché non sia solo la nostra miopia, o l’angolo d’osservazione sbagliato, a determinare il nostro sentire a proposito, ma l’attenta e corale analisi dell’insieme.
Impariamo, cammin facendo, ad apprezzarci. Impariamo a darcela, quella metaforica pacca sulle spalle, ad applaudire i nostri sforzi, ad apprezzare ciò che abbiamo fatto e come lo abbiamo fatto, festeggiando il risultato, seppur piccolo, che abbiamo raggiungo e conseguito, senza mai sminuirci, senza nicchiare, senza falsa e castrante modestia, senza dar per scontato il successo conquistato a fatica, per quanto piccolo e marginale esso possa essere.
Che a darci addosso, ad additarci e auto-accusarci, a urlare contro noi stessi, a inveire contro i nostri stessi fallimenti, a darci degli idioti per ogni piccola mancanza, siamo fin troppo bravi!
Sono i piccoli passi, sommati nel tempo, a completare una maratona. L’insieme delle piccole attività, dei piccoli gesti sommati tra di loro, a portarci ai più grandi risultati. Anche a quelli che ritenevamo impossibili. Se non impariamo ad apprezzare quei singoli e apparentemente inutili passi, mai potremo apprezzare (e nemmeno concludere) il sovrumano percorso lungo 42 kilometri e 195 metri, che si snoda dalla partenza al traguardo dell’antica corsa.
Non è ciò che facciamo una volta sola nella vita, magari per caso o per fortuna, a dirci di noi e del nostro futuro. Solo ciò che sapremo rendere quantificabile, misurabile e ripetibile, saprà dirci dove possiamo andare e aiutarci ad andarci davvero.
Se ti riesce una sola volta, hai avuto fortuna. Se puoi ripeterlo nel tempo, hai una strategia per il futuro.
Impariamo a capirle, quelle emozioni, non solo a comprenderne il perché, ma a valutarne l’intensità e l’incidenza sul nostro stato mentale, in funzione delle risorse a nostra disposizione, della fase della giornata che stiamo vivendo, delle energie di cui disponiamo in quel momento (la stanchezza è bravissima a esacerbare gli animi), del contesto generale e personale, in cui esse prendono vita.
Estrapolato dal contesto, nulla ha più lo stesso significato. E ciò vale anche e soprattutto per le parole, che quelle emozioni sanno così bene descrivere e ingigantire nella nostra mente, nel bene e nel male.
Non può esservi felicità alcuna, se non impariamo ad apprezzarci, se non altro perché solo accettandoci potremo conoscerci meglio. Non c’è modo di migliorare qualcosa che non si conosce, come non c’è modo di migliorare chi si limita a essere ciò che è convinto di essere, tanto in senso diminutivo che accrescitivo, dando per scontato e per assodato che così sarà per sempre, per tutta la sua vita, perché lui così c’è nato!
Conoscerci, interrogarci, apprezzarci, valutarci, stimolarci, premiarci, per superare le frasi fatte e continuare il cammino dentro noi stessi e nel mondo, lontani dalla frustrazione delle aspettative immotivate e della carente autostima, ben protetti dai colpi della vita, dai falsi miti e dai modi di dire avulsi dal contesto e dalla logica.
Sii te stesso, è lo stato attuale. Rappresenta ciò che sei qui e ora, dice molto di ieri e di oggi, ma ben poco (se non proprio nulla) di cosa potenzialmente tu potrai fare, diventare ed essere domani.
Conoscere se stessi, nell’intimo più profondo, è la sfida più entusiasmante, quella che ci porta allo stato desiderato, che porta all’eccellenza (o, per lo meno, da quelle parti) con cognizione di causa.
Nel primo caso sarà una mera accettazione dello status quo, a vincolarci e a permetterci di essere solo in un certo modo, nel rifiuto più totale di crescere e di progredire, chiusi al cambiamento e alle novità. Nel secondo caso, avremo un punto di partenza, un campo base dal quale muovere la nostra scalata verso un Io migliore, evoluto, progredito, dalla mente aperta sempre alla ricerca, pronto a diventare davvero ciò che, da sempre, sognava di essere.
D’altra parte, non si fanno mille e mille corsi di formazione, che siano tecnici o di crescita personale, per rimaner se stessi, ma per conoscersi e imparare a migliorarsi, tirando fuori da noi stessi, con intelligenza e applicazione, la nostra versione migliore. In attesa di scoprire la prossima versione, quella ancora migliore!
Sii te stesso e la tua vita sarà pregna di frustrazione. Conosci te stesso e la tua intera esistenza ti ringrazierà!
Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.
Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.
“Qualcuno aveva fatto qualcosa” – 11 settembre 2001.
Erano le tre del pomeriggio mentre mi si allentava la mandibola guardando alla TV quella che sembrava la versione alla Blair Witch Project di un film di Michael Bay.
Un grosso buco, da cui usciva fumo nero, piazzato poco sotto la cima di una delle Torri Gemelle, quella con l’antenna.
“Un incidente?” – pensai-.
A smentirmi arrivò un aereo da fuori l’inquadratura. Dritto, orizzontale. Si schianta. Forte. Veloce. Esplode. Un buco di fuoco sull’altra Torre, quella senza antenna.
Non era un incidente. E non era neppure un mockumentary. Era reale. Stava succedendo adesso.
Trascorsi il resto della giornata incollato alla televisione. Vidi gli incendi divampare, le persone ridotte a puntini neri lanciarsi dalle Torri, nel pomeriggio le Torri collassarono inesorabili e precise, come nei filmati dei crolli controllati.
Vidi i pompieri, la polizia, il groviglio di travi di acciaio, detriti di calcestruzzo, la polvere sbiancava i volti in preda al panico, i cavi elettrici come arterie recise. In serata, altrettanto inesorabile, crollò anche il Building WTC 5.
Andai a dormire tardi, mentre i cronisti mostravano frammenti di discorsi di George W. Bush, ci spiegavano che si era trattato di un attentato terroristico ad opera di Al-Qaida, ennesimo gruppo terroristico islamico dal nome a me incomprensibile, di stanza in Afghanistan. Avevo 20 anni all’epoca, a stento sapevo dove si trovasse l’Afghanistan, sapevo solo che era una delle ex-repubbliche socialiste sovietiche e che il nome Al-Qaida mi suonava incomprensibilmente uguale a quello di tutti gli altri innumerevoli gruppi di fanatici religiosi medio-orientali, Fatah, Hamas, Hezbollah, chi vattelapesca sciita e chi come-si-chiama sunnita. Cinquanta sfumature di odio.
Andai a dormire dopo aver assistito agli effetti fisici del potere della religione, ormai storia antica in Occidente, che tornavano a farsi sentire dopo oltre duecento anni dall’Illuminismo.
Da allora sono passati 20 anni; nel frattempo, oltre a imparare dove si trova l’Afghanistan, ho imparato anche che le religioni monoteiste, le tre cosiddette “del libro”, nascono essenzialmente per normare e regolamentare comunità eterogenee e distribuite su vasti territori, attraverso l’utilizzo di una narrazione suggestiva. Nel caso dell’ebraismo la legge religiosa serviva a conservare, e tenere insieme dal punto di vista delle tradizioni e prassi, una comunità frammentata e sparsa per tutto il mondo conosciuto, la cui priorità era il mutuo e vicendevole soccorso in territori perennemente stranieri. Nel caso del cristianesimo, e del cattolicesimo soprattutto, la legge religiosa serviva alla diffusione del culto stesso, ovvero funzionale alla moltiplicazione del clero e alla sua accumulazione di ricchezza e consolidamento del potere, centrale e locale (lo stesso fenomeno che avviene nelle grandi aziende, solitamente quelle ad azionariato pubblico, quando si moltiplicano le scrivanie dei dirigenti). Nel caso dell’Islam, la legge religiosa era funzionale a supportare la conquista indiscriminata, essendo la cultura dei popoli medio-orientali per motivi di scarsità di risorse locali, votata al saccheggio e alla conquista di territori più prosperi (la stessa cosa la facevano i Vichinghi, altra cultura radicata in un territorio climaticamente ostile).
Le società occidentali classiche, quelle greco-romane politeiste, erano di gran lunga più laiche di quanto noi siamo riusciti ad essere dal XVIII secolo in poi; a tenerle unite e renderle omogenee era solo la legge e non, come attuato dalle religioni cristiane e musulmane, la narrazione della legge. Basti pensare a quanto fosse inclusivo e rispettoso l’atteggiamento della Roma imperiale nei confronti delle culture locali delle proprie colonie, di certo molto più di quanto lo siano stati i Gesuiti in America latina nel XVI e XVII secolo, per non parlare invece dei Saraceni nel Mediterraneo ai tempi in cui noi ci godevamo il nostro Medio-Evo.
La religione monoteista nasce sostanzialmente per risolvere il problema di “omogeneizzare” usi e costumi di numerose ed eterogenee comunità, ciascuna con stratificazioni storico-culturali profondamente diverse, al fine di consolidare la gerarchia di potere. E per far bene questo lavoro devi disporre di tre cose: leggi chiare da imporre, una storia suggestiva con cui convincere e delle scuse con cui tacitare qualsiasi obiezione. Ovvero prassi, promesse e dogmi.
La solfa è sempre la stessa : la divinità è antropomorfa, il suo concept è creato dagli uomini a propria immagine e somiglianza e viene pertanto istintivamente accettato. In quanto antropomorfo predilige chi rispetta le leggi riportate nel testo di riferimento, riservandogli un posto speciale dopo la morte; per tutto ciò che non si riesce spiegare (anche compreso il perché dovrei accettare tutto ciò o perché me la passo così male nonostante faccia il bravo) la risposta è semplice: è la misteriosa volontà di dio (in altri termini “è così perché lo dico io”).
Questo risulta il modo più efficace di inculcare norme e comportamenti nelle menti degli uomini che, a causa della consapevolezza della propria finitezza, hanno terrore della morte, sono sollevati all’idea che se rigano dritto e fanno ciò che gli si dice avranno un posto in prima fila nel regno dei cieli (o nella janna, o nell’Eden) con gran gioia di chi così si garantisce decenni o secoli alle redini del potere (prelati, imam o altri santoni).
Peccato che un orafo tedesco di nome Gutenberg, verso la metà del 1400, abbia inventato la stampa a caratteri mobili e abbia così avviato lo scardinamento, almeno in Occidente, del primato culturale (in realtà meramente tipografico) della religione cattolica, rendendo possibile la divulgazione anche di testi differenti da quelli approvati dal consiglio vaticano.
Tuttavia l’uomo rimane essenzialmente lo stesso, nonostante la rivoluzione illuminista, l’affermarsi delle scienze empiriche, lo sviluppo commerciale, le scoperte geografiche, i prodigi della tecnica, egli non ha ancora sconfitto la paura di morire.
A partire dal XVIII secolo però il suo orizzonte di soddisfazione delle aspettative si è accorciato; mentre i suoi omologhi servi della gleba o uomini liberi di qualche secolo addietro riponevano tutte le aspettative nella vita oltre la morte, adesso le sue aspettative si sono imborghesite, e stavolta vuole godersela preferibilmente prima della sepoltura.
In questo modo tutte le nuove idee liberali, filosofiche, scientifiche ed economiche tipiche del tardo illuminismo, vanno a riempire il vuoto lasciato dall’ormai demodé religione cattolica, assumendone così le stesse forme – prassi, promesse e dogmi- nelle forme dell’idealismo (soprattutto di stampo Hegeliano e Marxista).
Il più grande sforzo di laicizzazione della cultura Occidentale dai tempi dell’Impero Romano si risolve così nella nascita delle ideologie.
La solfa è sempre la stessa : il modello ideologico/politico/economico è antropomorfo, il suo concept è creato su misura dagli uomini che vi riversano le loro aspirazioni terrene, che verranno puntualmente soddisfatte qualora siano rispettate le condizioni di base del modello stesso. Qualora questo non accada, la colpa sarà dell’esecutore e giammai del modello, eventuali dissensi ed eterodossie prevedono la tacitazione forzata o il ludibrio pubblico o accademico.
Tutte le ideologie sono accomunate dalla promessa della realizzazione di una società perfetta, prospera e senza rischi, in pratica il vecchio Paradiso/Janna/Eden ora non è più ultraterreno ma realizzabile hic et nunc; dobbiamo solo essere tutti d’accordo e se non sarà proprio un paradiso daremo la colpa a qualcuno che non ci sembrava troppo convinto e ricominceremo con ancor più convinzione.
Dio, nella sua essenza, è solo il nome che diamo a quella casualità che domina buona parte delle nostre esistenze, offrendoci opportunità ed esponendoci a rischi; l’altra parte delle nostre esistenze, quella in cui cogliamo le opportunità o tentiamo di mitigare i rischi, si chiama libero arbitrio.
Secondo le ideologie novecentesche, dio (la casualità) è superato dal modello ideologico stesso (che si fonda su una promessa realizzabile, ovvero predittivo, dall’esito certo), a patto che ciascuno aderisca ai pre-requisiti del modello stesso, ovvero che lo si accetti incondizionatamente, ovvero che ciascuno rinunci al libero arbitrio.
Il perché sia i precetti religiosi quanto le costrizioni ideologiche facciano così rapida presa nelle menti umane, credo sia facile da spiegare.
L’uomo conserva sempre e comunque l’istinto di auto-conservazione animale e al contempo deve convivere con la consapevolezza della propria finitezza. Vuol dire che ha coscienza della impredicibile casualità che domina la sua vita e, mediamente, è maggiormente terrorizzato dai rischi a cui potrebbe essere esposto di quanto non sia ingolosito dalle opportunità che gli si possono presentare.
L’osservanza dei precetti religiosi lo illude di garantirsi una vita prospera nell’aldilà mentre le rinunce imposte dall’ideologia lo illudono di garantirsi una vita sicura nell’aldiqua. Con grande gioia di tutti i ministri di fede, imam, commissari, segretari di partito, gerarchi, duci e ducetti che di volta in volta tengono le redini della gerarchia.
La tradizione cristiana, con il libero arbitrio, ha consentito all’occidente di potersi emancipare dalla religione stessa, pur sostituendola successivamente con le ideologie; ci sono voluti circa quattro o cinque secoli per emancipare parzialmente l’occidente dalle credenze e ancora oggi c’è tanto da fare sul piano della laicizzazione istituzionale, sia religiosa che ideologica.
La tradizione islamica, che in luogo del libero arbitrio prevede la sottomissione, invece incorpora in un unico colpo sia la religione che l’ideologia e pertanto è, sostanzialmente, ferma al palo uguale a sé stessa da parecchi secoli.
Nel caso dell’occidente a trazione cristiana, il processo di emancipazione dalle credenze è agevolato dall’alfabetizzazione diffusa.
Nel caso dei paesi a trazione musulmana, vista l’impossibilità di sostituire le credenze con le ideologie in quanto queste ultime già incorporate nella legge religiosa e, soprattutto tenuto conto dell’elevato tasso di analfabetismo, è praticamente impossibile pensare di poter emancipare una roba del genere nell’arco di un ventennio (ma neppure nell’arco di mezzo millennio).
Quel giorno, l’11 settembre 2001, ho quindi assistito allo scontro – fisico – di due retaggi storici molto diversi e, allo stato dell’arte, totalmente inconciliabili tra loro.
Simbolicamente sembravano la classica forza inarrestabile che si scaglia contro il classico oggetto inamovibile, solo che qui non siamo nel mondo dei simboli e lo scontro si è risolto con esplosioni, crolli e tanti morti.
Il giorno dopo il crollo delle Torri Gemelli, la narrazione era già abbondantemente all’opera.
George W. Bush parlava di guerra al terrore, “Non dimenticheremo”, il volto di Osama Bin-Laden, il ricercato numero uno, era su tutti i canali, ad una prima occhiata del tutto identico al classico arabo con barba e turbante uscito da un’edizione illustrata delle Mille e Una Notte, ma senza tappeto volante.
Quella stessa notte, scoprì più tardi, non ero stato l’unico a dormire poco.
Oriana Fallaci aveva scritto di getto “La Rabbia e l’Orgoglio” mettendo in parole il pensiero (e soprattutto il sentimento) di molti di fronte all’accaduto; J.M. Straczynski in quella stessa notte aveva buttato giù la sceneggiatura del n. 36 di Amazing Spider-Man, infondendo negli eroi superumani lo stesso shock, il senso di impotenza, il dolore, che molti semplici umani su entrambe le sponde dell’Atlantico stavano provando.
Potere della narrazione polimorfa. Quella cosa che ha preso il posto, nell’immaginario collettivo occidentale, dell’ideologia.
In Occidente la fine della Seconda Guerra Mondiale aveva, in via ufficiosa, decretato il declino delle ideologie, almeno del fascismo e del nazismo. Per il comunismo ci vorrà qualche decennio in più, del resto l’Unione Sovietica era tra i vincitori, quindi alcuni orfani ideologici avevano ancora un modello di società perfetta cui aspirare salvo poi scoprire, dopo la caduta del muro di Berlino, che quella società perfetta era costata circa 15 milioni di morti e non era riuscita neppure ad inventare gli assorbenti igienici per le donne.
Nei fatti a decretare il declino delle ideologie fu in realtà la diffusione della televisione.
Non dimentichiamo che l’ideologia aveva solo sostituito nell’immaginario collettivo il ruolo che fino all’Illuminismo ricopriva la narrazione religiosa.
Per colmare quel vuoto, per saziare la fame umana di credere in qualcosa, occorreva qualcosa di nuovo, una narrazione che ancora una volta veicolasse regole e portasse promesse, ma stavolta senza commettere l’errore del dogmatismo.
Quindi occorreva non una sola narrazione centralizzata, ma tante narrazioni apparentemente diversificate.
In questo modo la pluralità delle narrazioni avrebbe consentito di eludere l’imbarazzo del non-spiegabile senza più ricorrere al dogma, bensì rimandando ad un’altra narrazione, complementare o antitetica.
In pratica, a partire dagli anni ’50, è stato liberalizzato il mercato delle narrazioni e, di conseguenza, si è aperta a tutti la possibilità di scalare, in maniera stavolta non cruenta, la gerarchia di potere, rendendo così la capacità economica equipollente al potere costituito.
Le prime narrazioni sono state quelle veicolate da chi ereditava il potere politico, da Hollywood a Cinecittà, dalla narrazione anti-comunista a quella anti-fascista, l’importante era stabilire il primato culturale dello status quo vigente, stigmatizzando i demeriti altrui e romanzando i meriti propri.
In quegli anni gli italiani, che in meno di due secoli erano passati dal predominio culturale religioso cattolico a quello fascista (con intermezzi liberali di cui molti ancora oggi faticano a ricordare figuriamoci a coglierne il significato), ora guardavano golosamente Lascia o Raddoppia, sperando di parteciparvi per rimpinguare le proprie finanze (aggirando così la fatica dell’ascensore sociale), acquistavano i vinili dei cantanti di Sanremo, facevano la fila al cinema per vedere i film americani e acquistavano gli abiti dei divi, si indebitavano per acquistare la 500 o una casa di nuova costruzione.
Il potere era liberalizzato. I potenti e gli aspiranti potenti avevano trovato il modo più efficace per consolidare le loro posizioni, non più con l’imposizione fideistica né con quella ideologica, non con violenza e prevaricazione ma offrendo a tutti un catalogo vastissimo di favole a cui credere; invece di dilapidare finanze nazionali per imporre la propria visione, oggi si vedevano invece remunerati per le narrazioni che andavano propinando.
La narrazione mainstream è così divenuta la cifra culturale dell’Occidente post-bellico, un capolavoro di pluralismo che, in mezzo a tanto materiale di terz’ordine, ha generato tuttavia numerosissimi esempi di rilievo ma che, sostanzialmente, ha distrutto il tetragono paradigma della fissità culturale che aveva caratterizzato i secoli precedenti.
La diffusione di internet e dei social network, a partire dall’anno 2000, ha ulteriormente liberalizzato il mercato delle narrazioni, scardinando il primato di televisione e cinema, rendendolo democraticamente accessibile a chiunque abbia qualcosa da dire, indipendentemente se trattasi di balle belle e buone o di analisi approfondite e circostanziate.
La narrazione mainstream, compresa anche quella della contro-cultura degli anni ’70 che di fatto era talmente diffusa da essere mainstream esattamente come la televisione pubblica, fino agli anni ’90 aveva sempre un azionariato di supporto di cui si limitava ad essere espressione propagandistica.
L’avvento di internet ha invece ribaltato i ruoli creando uno spazio, quello della narrazione polimorfa, dove andare a pescare idee da cooptare.
Quindi, invece di proporre al pubblico narrazioni da acquistare, faticose da confezionare secondo i dettami dell’azionariato di supporto e ancor più faticose da rendere appetibili per il pubblico, perché non andare a raccontare al pubblico direttamente quello che vogliono sentirsi dire, visto che ce lo scrivono loro stessi?
Geniale.
Perché invece di spremerci le meningi per azzeccare ciò che vuole che piace al pubblico e vuole l’azionariato, non pescare ad arte tra quelle idee compatibili, già pronte, che sembrano più popolari per poi rivenderle a tutti?
Dal 2010 in poi è stato infatti possibile, a patto di disporre di un po’ di soldini, dire all’azionariato di potere esistente cosa piaceva al pubblico, che a sua volta poteva efficacemente dire al pubblico cosa doveva piacergli.
Una manna per gli aspiranti gruppi di pressione emergenti: chiunque può oggi mettere in circolo una balla qualsiasi, con un investimento minimo guadagnarsi qualche migliaia (o milione) di visualizzazioni, per poi farsi cooptare il contenuto da un esponente di potere (mediatico o istituzionale) che a sua volta lo renderà narrazione ufficiale, senza tener conto che magari si trattava di una panzana colossale.
La solfa è sempre la stessa: questo racconto è corretto e fondato perché soddisfa il tuo bias di conferma (invece di promesse io ti offro certezze, cioè quelle che già possiedi ), unica regola per poter rimanere nel nostro circolo di illuminati è contrastare con ogni mezzo a tua disposizione qualunque parere differente (invece di regole a cui sottostare io ti offro un popolare ruolo di araldo della verità, ti faccio direttamente prelato), in caso di dubbi o di domande aspetta il sequel, o il prossimo post, dove troverai altre “verità e indizi” per saziare il tuo bias di conferma (invece di dogmi io ti offro un fantastico piano di fidelizzazione, una forma di dipendenza culturale).
Ora, tenuto conto che il grosso della gente smette di avere dubbi e di imparare cose nuove tra i 25 e i 30 anni, e che da quel momento trascorrerà il resto della sua vita alla forsennata ricerca delle mitiche parole “Hai ragione!” immaginiamoci gli effetti devastanti che la narrazione polimorfa può avere nei confronti di masse di persone che votano, che lavorano, che consumano e che interagiscono mutuamente fra loro.
E che, nonostante la proliferazione delle fonti scritte, s dimostrano sempre più pigri e refrattari a leggere più di due frasi subordinate.
La Babele polimorfa di internet, in cui è possibile sentire sedicenti esperti di economia che parlano di corbellerie euro-scettiche, milioni di utenti che condividono il negazionismo anti-semita, migliaia di persone che organizzano convegni per mostrare le evidenze a sostegno della teoria della terra piatta, esponenti politici convinti che ai vertici bancari vi siano i Rettiliani.
Tutte narrazioni che fanno leva sul bisogno innato dell’essere umano di credere in qualcosa; tutte narrazioni che, per la loro essenza di latrici di “verità fideistiche” sono intrinsecamente divisive.
Una volta ero convinto che il laicismo avesse un valore intrinseco.
Ritenevo che l’emancipazione dalle credenze religiose nell’ambito delle decisioni, soprattutto quelle che hanno impatto fuori dalla propria sfera individuale, fosse un presupposto necessario per qualunque forma di progresso.
Evidentemente mi sbagliavo.
Perché il laicismo collettivo che auspicavo presupponeva a sua volta una generale presa di coscienza, una cultura, una preparazione e un criticismo che la maggior parte delle persone semplicemente non ha.
In assenza di questi pre-requisiti, il tramonto della religione (un tempo oppio dei popoli) ha solo generato un vuoto enorme nelle menti delle masse.
L’alluvione di informazioni che ci travolge da oltre 50 anni ha poi riempito nelle menti di massa quel vuoto lasciato dalla scomparsa della religione, che è stata via via sostituita dell’ideologia politica, dall’ortodossia lealista-istituzionale, dal complottismo, dalle bagatelle mediatiche.
Per ritrovarci oggi a vivere in un mondo composto da masse di estremisti assortiti, con a disposizione un catalogo sconfinato di argomenti (più o meno futili) su cui prendere bellicosamente posizioni antitetiche. Alla faccia della maieutica Socratica o della certezza dialettica Hegeliana.
Per farvi capire quanto sia forte il potere della narrazione, provate oggi a ribadire in pubblico un fatto reale, supportato da dati concreti come questo: l’Italia e la Spagna sono i Paesi Europei con il minor numero di “femminicidi”, sia in valore assoluto che come percentuale della popolazione.
Eppure, se ci si azzarda a profferire una simile affermazione, ci si espone al linciaggio pubblico.
Questo avviene perché, in oltre un decennio, sono tantissime le aziende operanti nel cosiddetto terzo settore che hanno trovato ampi spazi di crescita e remunerazione proprio veicolando una narrazione che prevede di classificare il fenomeno come strage.
Queste aziende, negli ultimi 15 anni, sono cresciute creando posti di lavoro, effettuando investimenti e generando un volume di affari notevole (basti pensare che nel mio comune, di poco più di 100.000 abitanti, l’Accordo Quadro triennale stipulato nel 2016 con una di queste ONLUS prevedeva una remunerazione di circa € 100.000 annui a fronte del servizio d counseling psicologico e del gazebo Codice Rosa da installare presso l’Ospedale), un tale giro economico ha bisogno di essere continuamente alimentato pena la sua palese insostenibilità, attraverso la pressione politica e la veicolazione della narrazione stragista.
Basti pensare che un fenomeno statisticamente ben più rilevante, quello delle morti sul lavoro che si aggirano nell’ordine delle 1.000 unità annue, non gode di alcuna popolarità nell’immaginario collettivo poiché narrativamente poco veicolato, in quanto la sua narrazione non è cooptata da nessun azionariato di riferimento operante sul mercato, essendo la problematica appannaggio dei sindacati (che non operano in regime di libero mercato e che comunque non sarebbero capaci di agire di conseguenza) ed è chiaramente in conflitto con interessi economici dal maggior peso specifico che sono tranquillamente in grado di tacitare, o di far ignorare ai media mainstream, la narrazione stragista.
Il potere democraticamente eletto non può prescindere dagli effetti di massa della caotica narrazione polimorfa, ciò vuol dire che quella tecnica nata proprio per legiferare e consolidare la gerarchia di potere (la narrazione) nella sua attuale forma polimorfa è in grado di modellare l’indirizzo del potere poiché, essendo più rapida della narrazione mainstream, riesce a scovare nuove nicchie di malcontento laddove nessuno dei narratori mainstream aveva pensato di guardare.
Così accade che le deliranti cazzate scritte a ruota libera contro il signoraggio bancario diventino elementi di campagna elettorale, gli sfoghi complottisti per spiegarsi come mai non si è diventati ricchi come promesso dalla pubblicità diventano agenda di partito (o di “movimento” che suona meno elitario), inneggi al duce che “ha fatto tante cose buone e faceva andare i treni puntuali” (i treni all’epoca erano semplicemente molti di meno), fino ad arrivare ai pareri pseudo-scientifici dei no-vax che spesso non riescono neanche a mettere in ordine decrescente le percentuali di rischio.
La narrazione religiosa offriva una vita prospera nell’aldilà, la narrazione ideologica offriva una vita sicura nell’aldiqua, la narrazione polimorfa offre un po’ di popolarità e uno sfogo immediato dei propri rigurgiti oggi stesso.
L’uomo, nel suo intrinseco bisogno di credere in qualcosa, ha drasticamente ridimensionato le sue aspettative, passando dalla beatitudine eterna ad un pugno di like.
La narrazione mainstream degli Stati Uniti, per cercare di accaparrarsi nicchie di consenso, ha via via rimodulato la sua reazione agli attentati dell’11 Settembre, passando dal proclama di vendetta “Non dimenticheremo” alla più hollywoodiana “Guerra al terrore”, per poi trasformarla (quando i consensi repubblicani hanno cominciato a scemare) nella ben più nobile e sofisticata “Esportazione di democrazia”. Facendole fare poi un rassicurante salto tecnologico col cambio di presidenza, in cui Obama, eroe del popolo, non volendo mollare il medio-Oriente (evidentemente la Clinton e Kerry hanno ancora molti affari in sospeso da quelle parti, tra smercio di uranio impoverito ed emancipazione dell’Iran dai combustibili fossili in chiave nucleare) iniziò ad utilizzare intensivamente i droni nella regione: per il pubblico si trattava di un videogioco in fondo, in cui nessun militare americano rischiava la pelle. Infine con Trump, che oggi sembra un seppur esecrabile esempio di coerenza, ci si decide ad iniziare il tanto atteso disimpegno militare NATO dell’Afghanistan, da attuarsi secondo una road-map che prevedeva il raggiungimento di precisi obiettivi di stabilità (politica ma soprattutto militare) da parte del paese prima di ritenerlo sufficientemente e democraticamente autonomo.
Tuttavia, nei 20 anni di narrazioni presidenziali, la narrazione polimorfa, con il suo portato di manichee divisioni e di violente polarizzazioni antitetiche, ha colpito ben più profondamente delle conferenze stampa dalla Casa Bianca.
Lo slogan politico statunitense post 11 settembre è passato dall’essere un atto che “Non dimenticheremo mai” ad una situazione in cui semplicemente “qualcuno aveva fatto qualcosa” (Ilhan Omar, membro Democratico della Congresso USA, 23 marzo 2019).
L’esportazione della democrazia, la guerra al terrore, il primato dei valori moderni liberali, l’ascensore sociale a trazione capitalista, la conciliazione di libertà e sicurezza, tutto cancellato, rimangiato, abiurato pur di rosicchiare nuove nicchie di consenso, pescando dal mare del malcontento polimorfo in vista delle presidenziali 2020.
Infine, pur di cancellare al più presto gli effetti delle scelte presidenziali precedenti (tra cui c’erano anche quelle di Obama), il neo-eletto presidente Joe Biden offre lo spettacolo di un’America cento volte più inesistente sul piano internazionale di quella di Trump : disimpegna le truppe di stanza in Afghanistan con una ritirata rapida e raffazzonata, nessuna road-map, nessuna milestone, nessun obiettivo di stabilità. Fuori, via, tutti, subito, tranquilli lasciate dietro basi, armamenti, tanto i nostri fratelli afghani sono ormai al sicuro, ci lasciamo dietro uno stato laico, stabile e democraticamente determinato.
Ai talebani, che nel frattempo se ne stavano rintanati nelle loro caverne e di sicuro avevano parecchie entrature nel governo democraticamente eletto di Ashraf Ghani, sono bastati quattro giorni per riprendersi quello che la missione NATO aveva faticosamente e dolorosamente costruito in 20 anni.
A suggellare il tutto, i discorsi di Biden all’indomani della conquista talebana di Kabul sembrava un’imitazione anacronistica dei discorsi di George W. Bush, la narrazione ufficiale ha cortocircuitato dopo aver tentato di inseguire la narrazione polimorfica per 20 anni, ritrovandosi ad usare le stesse parole e le stesse “giustificazioni” di quando era cominciata l’occupazione NATO e da cui i Democratici avevano promesso di prendere le distanze. O più probabilmente, il discorso gli è stato scritto da un social media manager che, come la maggior parte delle persone, non ha memoria storica.
Di sicuro la democrazia non si esporta, di sicuro non si crea un aspirante ingegnere se si regala un Lego Technics ad un bambino di 3 anni che sa solo scavare la sabbia con pala e secchiello.
È simbolico che di fronte al più preoccupante evento internazionale di quest’anno, dalle nostre parti la Babele pubblica discuta animatamente di altrettanti, ben più futili, estremismi.
Tipo gli estremisti no-vax che danno addosso agli ortodossi del vaccino (e viceversa, spesso da entrambi gli schieramenti non si sanno mettere in ordine decrescente le percentuali di rischio).
I crociati della libertà che danno addosso ai lealisti del Green Pass (e viceversa, spesso da entrambi gli schieramenti nessuno ha mai letto Tocqueville, Locke e neppure il nostrano Einaudi).
Gli antifascisti che danno addosso ai fascisti (e viceversa, spesso da entrambi gli schieramenti nessuno saprebbe individuare neppure le date o i presupposti storici dei fenomeni).
Oppure le femministe integraliste che danno addosso agli storicisti patriarcali (qui invece nessun viceversa, pena il linciaggio pubblico, o secondo alcuni la carcerazione preventiva).
Il laicismo da solo non basta a garantire il progresso, ci vuole molto altro, ci vogliono anni di curiosità e preparazione.
La maggior parte di noi evidentemente ha ancora solo bisogno di credere strenuamente in una puerile favola che li veda sempre rigorosamente nella parte del buono (noi) in lotta contro il cattivo (loro).
Una volta per schierarsi dalla parte dei “buoni” bastava un sacramento, o una conversione o un diritto di nascita.
Oggi, per schierarsi fieramente dalla parte dei “buoni” e imbracciare le armi contro i “cattivi”, basta leggere qualche post su internet.
In un simile contesto, è facile capire perché gruppi estremisti religiosi abbiano ancora così tanta presa in molte aree del pianeta, perché i loro valori integralisti sono, in realtà, ancora in larga parte condivisi dalla popolazione in virtù di secoli di stratificazione “culturale” a senso unico. Il loro oscurantismo è tetragono, solido, si fonda sull’ignoranza e sulla fame di credenze, non accetta compromessi e grazie all’analfabetismo diffuso è graniticamente autoreferenziale.
D’altro canto, è altrettanto facile capire che il combinato disposto di pluralismo indiscriminato unito alla becera democratizzazione della narrazione, in assenza di meccanismi individuali di salvaguardia intellettuale, ci rende estremamente vulnerabili e a perenne rischio di radicalizzazione su qualunque questione, anche le più puerili.
A noi occidentali sono state regalate le barchette con cui navigare il mare della narrazione polimorfa ma, purtroppo, la maggior parte naufraga perché le bussole per orientarsi nella navigazione restano a pagamento, costano impegno e preparazione.
I talebani trovano più efficace negare direttamente che il mare esista, che l’unico orizzonte culturale possibile sia quello, ben più circoscritto e controllabile, di una caverna afghana.
Andrea Avolio è un millennial DOC. Nato nel 1981, è cresciuto negli anni ’90 illudendosi che il futuro apparteneva alla sua generazione e che tutti si sarebbero arricchiti (compreso lui). Si è laureato nel 2006 in Ingegneria Elettronica e ha iniziato a lavorare in contemporanea con la peggiore crisi economica degli ultimi 80 anni. Attualmente rientra a pieno titolo nelle statistiche sulla sua generazione perché, a dispetto della sua ininterrotta stabilità lavorativa, non dispone di alcuna liquidità finanziaria. La cosa non lo turba minimamente perché la sua vera aspirazione è diventare un eclettico (termine obsoleto, oggi si dice tuttologo) ed è a buon punto perché ha già raggiunto il livello di qualunquista finemente edotto. E’ un supernerd, colleziona comics, ama i blockbuster e il buon cinema, adora la musica prog (in tutte le sue declinazioni) ma nell’intimità ascolta il metal, legge libri che solitamente vendono poco, è un estimatore di vini, distillati e abiti stilosi (soprattutto scarpe e pochettes), unico sport praticato è la contemplazione a livello agonistico, è un liberale convinto, è sufficientemente curioso da riuscire ad imparare cose nuove anche dopo i 30 anni e pare addirittura che riesca a convincere parecchie persone circa le sue competenze in ambito filosofico, economico, politico ed esoterico, ritiene che il lavoro specializzato sia sopravvalutato, è aconfessionale, detesta la gente perché preferisce gli individui, parla fluentemente inglese, sa cucinare, pulire la casa e possiede la patente B.
Come tutte queste cose possano coesistere senza aver mai subìto un TSO resta un mistero.