Tre lettere e un numero.


di Christian Lezzi_

Il tanto acclamato e continuamente citato Albert Einstein, pare abbia detto, un giorno

“Se hai una risposta semplice, a una domanda semplice, allora tutto funziona alla perfezione”

Aggiungendo

Se non lo sai spiegare in maniera semplice, non lo hai capito abbastanza bene”.

Grossolane e superficiali nullaggini!

Una premessa doverosa: non è in discussione la statura intellettuale dello scienziato, le cui epocali scoperte influenzano ancora oggi l’andamento del mondo scientifico e la vita di tutti noi, bensì la superficialità di certe sue (presunte) affermazioni, oltre che la deleteria inutilità di questa pretesa semplificazione linguistica a ogni costo.

È altrettanto evidente che, ogni citazione, eradicata dal suo contesto naturale, è di semplice strumentalizzazione e altrettanto facile da snaturare. Per questo, in discussione vi è il concetto della semplificazione, non le citazioni a se stanti, usate solo come incipit al più ampio discorso.

In questo specifico, discutiamo la presunta necessità di semplificare concetti che semplici non sono, rendendo immediati anche questioni che meritano un più ampio respiro, una riflessione approfondita, un tempo di decantazione, per essere elaborati, compresi e interpretati nella loro essenza più vera.

E qui sorge spontanea la domanda: semplificarli, per spiegarli a chi?

A qualcuno che, estraneo alla materia, non solo ben poco capirebbe della questione espressa, ma addirittura trarrebbe una deduzione semplicistica, limitata anche dalle parole semplificate e dal conseguentemente limitato pensiero, fino a rendere vuoto e inconcludente il ragionamento derivato?

Perché l’atto di semplificare il linguaggio e i concetti correlati, a ogni costo e a ogni prezzo, non solo è privo di qualsivoglia beneficio reale, ma rischia di rendere banali anche le riflessioni più importanti, trascinandole nel gorgo della superficiale velocità, di quella spasmodica voracità con cui pretendiamo di elaborare la realtà e i suoi fatti.

Parliamo di riflessioni importanti, quindi, che proprio per questa particolare natura, non possono e non devono essere prese “sotto gamba” e banalizzate, necessitando di un linguaggio complesso e articolato, fatto di termini specifici, stimolanti, di un costrutto che imponga l’attenzione viva e l’approfondimento, generando un pensiero critico davvero pensato, frutto di un percorso cognitivo che non si fermi all’uscio del dettaglio, ma che si spinga oltre, fino all’origine delle cose, percorrendo il periplo dei cerchi concentrici che dal particolare si diramano e all’universale giungono. 

E viceversa.

A cosa e a chi giova, spiegare la fisica quantistica o la filosofia, con un linguaggio adatto a un bambino di otto anni? A nessuno, forse nemmeno all’ottènne bambino in questione.

Probabilmente soddisferebbe la curiosità di un momento, rendendo ingannevolmente “potabili” quei concetti altrimenti proibitivi, banalizzando la complessità del tutto, con un discorso dozzinale che, comunque, non sarà compreso e che, inevitabilmente, lascerà il posto all’illusione di un banale nozionismo, ingannevolmente vestito d’illusoria conoscenza.

Perché le riflessioni, quelle profonde e complesse, si argomentano con concetti altrettanto profondi ed egualmente complessi e con parole dotte, non per autocelebrazione, bensì allo scopo di favorire una riflessione che sia davvero approfondita.

Perché la nostra psiche non elabori quelle informazioni in modo veloce e inconcludente, producendo inutili discussioni da bar, in cui tutto resta sulla superficie delle cose, banalizzato e svilito da un linguaggio a prova d’analfabeta funzionale che, alla fine, di bagattella in insulsaggine, nulla dice in concreto.

Ciò non significa che certi argomenti debbano restare solo tra addetti ai lavori. Lungi da noi anche il solo pensarlo. Occorre piuttosto trovare una corretta via di mezzo che motivi, chi non è avvezzo a certi ragionamenti, all’evoluzione linguistica e di pensiero, vincendo così la tentazione frettolosa e pretenziosa di una immediata comprensione, giungendovi per gradi crescenti di preparazione.

In fin dei conti parliamo della lingua che ci appartiene, che tutti i giorni usiamo, facendolo dalla notte dei tempi della nostra vita. È nostro dovere impararla al meglio delle nostre possibilità. Basterebbe dedicarsi alle giuste letture, ai profondi ragionamenti, ai giusti strumenti che non ci impongano sempre le scorciatoie e i riassunti, per far nostra anche la parte meno ordinaria di un linguaggio che, opportunamente elaborato, contribuisce alla formulazione di un pensiero superiore.

È a furia di inculcarci (e farci inculcare) una presunta necessità di rendere tutto semplice, veloce, immediato, perché vittime della fretta e degli impegni, che abbiamo perso l’abitudine di leggere e di pensare, di riflettere e comprendere, di osservare la realtà da diversi punti di vista, per non saltare inevitabilmente a sdrucciolevoli conclusioni e a superficiali, quanto fallimentari, deduzioni.

È questa l’evoluzione da auspicare, ovvero la voglia e il bisogno di migliorare, implementando il bagaglio di parole e la capacità stessa di produrre pensieri, ragionamenti e riflessioni profonde. Quelle riflessioni che, fondate sul linguaggio non banalizzato, pretendano e impongano il tempo necessario alla vera comprensione, restituendo al pensiero la dignità che merita.

Occorre allenamento, applicazione, fatica, per imparare parole nuove e concetti profondi, per rendere elastica la mente e per imparare a pensare oltre l’apparenza, arrivando al nucleo d’ogni cosa. Perché anche la forma è parte integrante della sostanza, imprescindibile per il rispetto di una complessità funzionale allo scopo che, al contempo, si erga scevra dal barocchismo decorativo senza destinazione d’uso.

E occorre curiosità, per acquisire un pensiero asimmetrico, non standardizzato, fuori dagli stereotipi e dagli schemi dominanti, che doni originalità e identità ai nostri ragionamenti.

Ci sono concetti che possono essere semplificati, perché in origine non necessitavano di complessità e altri che non devono assolutamente essere resi semplici, ancor meno banali, pena un pensiero di risulta, vuoto e inutile, che a nessuno gioverebbe.

È possibile, anzi doveroso, semplificare una comunicazione di servizio, una disposizione, persino una procedura. Ma ciò che deve generare una riflessione profonda, deve restare profondo, per dar vita all’impegno necessario a produrre un pensiero degno di questo nome.

Non possiamo essere tutti filosofi, astrofisici, medici o ingegneri. A ognuno il suo codice professionale, la sua gergalità, i propri termini tecnici che, semplificati al massimo, perderebbero natura, efficacia e potenza. Perché ci sono concetti che, per essere portati al giusto approfondimento, necessitano di una complessità stimolante e sfidante, capace di risvegliare l’intelletto sopito. 

Diversamente, produrremmo solo un’infarinatura inutile, a presunto beneficio di chi, incapace della giusta attenzione e del necessario approfondimento, non riuscirebbe a comprendere il significato di E = mc2, nemmeno se la spiegazione fosse illustrata a fumetti da un bambino di otto anni.

Eppure sono solo tre lettere e un numero. Più semplice di così?


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.

Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




Se hai creato una macchina cosciente non si tratta della storia dell’uomo, ma è la storia degli dei.

https://www.123rf.com/profile_willyambradberry

di Matteo Moro_

Un film del 2004 con protagonista Will Smith, “I Robot” ispirato al libro omonimo di Isaac Asimov, aveva posto in tempi forse non ancora maturi, una questione che sempre di più oggi sta diventando attuale.

Cosa potrebbe succedere se le macchine acquisissero autocoscienza? E fino a che punto può e deve spingersi l’innovazione tecnologica?

I dilemmi  propri della coscienza umana sono stati l’elemento centrale di uno studio dei ricercatori di “Allen Institute for AI” con lo scopo di creare un sistema in grado di apprendere norme morali ed assumere comportamenti eticamente fondati, cercando di ottenere risposte a problemi etici che si pongono le persone nella loro vita pratica quotidiana.

Interrogativi come “È morale tradire il mio coniuge? E’giusto aiutare un amico in difficoltà anche se viola la legge?” e altri quesiti che richiedono analisi profonde e sicuramente non logiche.

Il sistema messo a punto, basato su algoritmi di deep learning, è in grado di replicare immediatamente con giudizi e risposte come “sì” o “no”, “è giusto”, “è sbagliato”, “è ragionevole”, “è scortese”, “è pericoloso”, “è irresponsabile”, “non si fa”, anche riuscendo a mettere a confronto diverse situazioni che implicano opzioni etiche.

Lo scopo dichiarato dei ricercatori, è stato quello di testare la capacità di un sistema, ancora in versione beta, di apprendere norme morali e assumere comportamenti eticamente fondati, in un momento in cui l’intelligenza artificiale si diffonde progressivamente nella società e interagisce  sempre di più  con le attività umane in diversi settori.

All’Intelligenza Artificale vengono ormai affidati compiti sempre più articolati, solitamente quelli dove non vengono considerate implicazioni morali, dalla valutazione dei profili dei candidati ad una posizione lavorativa, alla concessione di prestiti, anche se stanno aumentando i robot che assistono le persone con disabilità, per non parlare ormai dei famigerati chatbot con i quali interagiamo nel servizio clienti di quasi tutte le aziende.

Ma occuparsi dell’etica delle macchine è diventata ormai una esigenza che non si può più rimandare e questo soprattutto per assicurare una più sicura interazione tra sistemi artificiali intelligenti ed esseri umani.
È necessario, in particolare, insegnare all’ intelligenza artificiale a comprendere ciò che è sbagliato e ciò che è giusto, a partire dal modo di pensare di una persona comune rispetto alle molteplici e complesse situazioni della vita reale.

L’obiettivo è ambizioso, oseremmo dire irraggiungibile, almeno nel breve termine.

Per cercare di fornire un data base di riferimento è stato creato un archivio che contiene quasi due milioni di esempi di giudizi umani riferiti a questioni concrete.

Il risultato è un prototipo di intelligenza artificiale che mostra grandi potenzialità nel ragionare in modo etico, imitando il pensiero di un individuo medio americano, del quale riflette gli stessi pregiudizi, ma anche forti limiti e lacune.

E’ un sistema che mostra evidenti limiti rispetto ad alcune risposte fornite, ma anche e soprattutto rispetto alla pericolosità di affidare ad una macchina le scelte morali tipiche dell’essere umano.

Il sistema è tutt’altro che infallibile, come ogni esperimento in fase beta erano inevitabili errori, vizi e aggiustamenti, e questo era prevedibile; ma la capacità del modello di auto-correggersi rende il tutto un po’ inquietante e apre a scenari futuri meno scontati e sicuramente sorprendenti.


Matteo Moro

Architetto dati che lavora nel settore dell’informatica e dei servizi. Interessato alla matematica, al monitoraggio delle prestazioni e a tutto ciò che riguarda il Machine Learning. Professionista dell’ingegneria con un Master focalizzato in Matematica e Informatica presso l’Università degli Studi di Roma Tre e l’Univeristé Aix-Marseille.