Il senso del dovere: una forma di rispetto?

Anna Cervetto [ annalatati_sketch]_Piovra_Orange Series

di Christian Lezzi_

Tutti noi abbiamo guardato (forse anche più volte) le varie trasposizioni televisive delle umane vicende di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Ninni Cassarà, Boris Giuliano e tutte le altre vittime di quella immonda vigliaccheria che, genericamente, chiamiamo mafia. Film (o telefilm) che, a volte bene, altre molto male, puntano l’occhio indagatore sulle vicende del diretto interessato, sul suo lavoro, tra luci e ombre, sulle vittorie professionali e le umane sconfitte, su ciò che lo ha portato alla morte e, a volte, come nel caso di Falcone, anche al pubblico linciaggio (guitto mediatico, Falcon Crest, il giudice abbronzato, l’amico dei socialisti… ce le ricordiamo queste infamie, lanciate al suo cospetto da buona parte dei “giornalisti” italiani?).

Si parla solo di rimbalzo, spesso come se fosse una componente secondaria, il poco importante contorno al piatto di portata, della loro famiglia, delle persone ugualmente importanti che, del personaggio principale, hanno condiviso ansie e dolori, gioie e paura, percorsi di vita e, a volte, di morte.

Per quanto sia stato da poco l’anniversario della morte di Falcone (23 maggio) e appena passato quello di  Borsellino (19 luglio), e per quanto non sia mai abbastanza lontano nella memoria l’estremo loro sacrificio (29 anni) non è dei protagonisti del Pool antimafia e del maxiprocesso di Palermo, che voglio parlare. Non di mafie ma di rispetto e, per una volta, voglio dare luce e voce a chi, silenziosamente, ha rischiato e sofferto, pur di restare al fianco dei protagonisti di queste brutte storie di sopruso e inumana violenza. Mogli, figli, in primis, travolti dal pericolo che, dal loro congiunto, come un cancro, si è esteso fino a loro. Famiglie intere stravolte dal cambiamento delle abitudini, dovuto alle minacce e alla non-vita sotto scorta, tra canne di pistola e luci blu. Qualunque cosa, ogni sacrificio, pur di restare accanto alla persona amata che, non per eroismo (e di questo abbiamo già parlato qui  ) bensì per un altissimo senso del dovere e dello Stato, hanno deciso di giocare il proprio ruolo fino alle estreme conseguenze, fino a quel sacrificio, di cui avrebbero fatto volentieri a meno, che era parte del gioco.

“Io accetto, ho sempre accettato, più che il rischio le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall’inizio che dovevo correre questi pericoli. La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi, come viene ritenuto, in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare dalla sensazione che, o financo, vorrei dire, dalla certezza, che tutto questo può costarci caro.”

(Paolo Borsellino, a proposito di senso del dovere).

Ed è proprio di senso del dovere, inteso come forma di rispetto per le altre persone coinvolte dalle nostre scelte e dalle nostre azioni, che desidero parlare. E voglio farlo riportando alla memoria di tutti noi, un episodio di vita quotidiana, di desiderio di normalità e di ritorno alla vita, che comunque di rispetto e di senso del dovere, nobilmente si ammanta. Quella percezione di un dovere che non è un obbligo, bensì una scelta, libera, sofferta, ragionata, ma voluta e difesa perché sfida l’inevitabile, che ci fa alzare in piedi e dire “Presente“, quando la situazione lo richiede. Senza eroismi. Solo perché è giusto così.

Oggi voglio parlare di loro, anzi, di una di loro, in particolare. Tra i tanti, diretti congiunti dei troppi caduti per mafia, voglio ricordare l’integrità morale e la forza d’animo di Lucia Borsellino, senza per questo sminuire il sacrificio e l’abnegazione dei suoi fratelli minori Fiammetta (la piccola di casa) e Manfredi, il secondo nato. E nemmeno privando di memoria il sacrificio e la disponibilità di Agnese, madre e moglie esemplare che mai, nemmeno per un istante, vacillò nel suo appoggio al giudice, ben consapevole del rischio e anzi, cosciente della certezza di quanto, prima o poi, soprattutto dopo lo scempio di Capaci, sarebbe accaduto anche a suo marito.

Ma io voglio ricordare Lucia, perché all’epoca dei fatti era solo una ragazza di 23 anni, magra e delicata, forse troppo sensibile per sopportare senza piega la scorta, la paura, l’esilio forzato all’Asinara, le corse nella claustrofobica auto blindata e quel telefono che, in casa Borsellino, seminava il terrore a ogni squillo.

Lucia, che tra mille disagi interiori, dovuti non solo alla situazione contingente, ma anche all’età fragile di per sé, al suo diventare donna, giorno dopo giorno, al bisogno negato (per forza di cose) di libertà e indipendenza, alla necessità di essere serena e di non aver paura, che seppe, nonostante tutto e malgrado tutti, farsi interprete di un’educazione morale eccellente (grazie a papà Paolo e a mamma Agnese) e di un altrettanto eccellente senso del rispetto e del dovere che mai fu solo parole o sterile proclama.

Lucia Borsellino, nel mio immaginario incarna il senso del dovere e del rispetto quanto (e forse più) del suo indimenticato genitore. Quel dovere così sintetizzato dall’insegnamento del Dalai Lama “Segui sempre le tre R: Rispetto per te stesso, Rispetto per gli altri, Responsabilità per le tue azioni”. Perché, in estrema sintesi, il rispetto è anche una forma di responsabilità, quando la responsabilità diventa un dovere.

“Segui sempre le tre R: Rispetto per te stesso, Rispetto per gli altri, Responsabilità per le tue azioni”.

DALAI LAMA

Fu Lucia a voler vedere e a ricomporre i resti martoriati del padre, nella camera mortuaria, nel tentativo di restituirgli quella dignità che la bestialità del tritolo aveva cancellata, distruggendo il suo corpo e quel sorriso che mai dimenticheremo.

Un atto di coraggio, quello di Lucia, che preannuncia l’essenza della donna che sarà, ricca di valori e di forza etica, di senso del dovere, della capacità di dire “ci penso io”, anche quando si trattava di avvolgere di dolorosa pietà (per quanto possibile) i resti del suo povero papà, morto da poche ore.

A tutti noi capita di rinviare un impegno, un appuntamento, solo perché piove, perché siamo stanchi, perché siamo pigri, perché abbiamo altro da fare o perché, tutto sommato, di quell’impegno ci importa poco, togliendo de facto il rispetto alle persone da esso coinvolte. Ma Lucia no, lei ha risposto “Presente“, anche nel momento probabilmente più duro e cupo della sua vita. Un “Presente” che, nelle sue sfumature, aveva la voce di Paolo, artefice di quell’educazione e della trasmissione di cotanto senso civico.

Ed è proprio frutto di quella educazione, di quella formazione genitoriale, di quella percezione del dovere, se Lucia, pochi giorni dopo i tristi fatti di via D’Amelio, con i resti carbonizzati del padre ancora negli occhi (temo per sempre nella mente) decide di onorare l’impegno di un appello universitario, nonostante le validissime giustificazioni che poteva addurre e alle quali nessuno avrebbe potuto obiettare, presentandosi alla commissione e sostenendo un esame universitario, tra lo stupore di professori e studenti presenti..

Perché rispettare i propri impegni, la parola presa, farsi carico dei doveri assunti, è un atto di rispetto, forse il più alto e nobile che l’essere umano possa esprimere e tributare. E Lucia Borsellino, grazie anche all’esempio di Paolo, ne è stata insuperabile interprete, rispettando la memoria di suo padre, le aspettative della sua famiglia, il lavoro dei docenti e la sua stessa dignità.

Oriana Fallaci ha scritto e non a caso: “Non si fa il proprio dovere perché qualcuno ci dica grazie, lo si fa per principio, per sé stessi, per la propria dignità”. Quella dignità che Paolo Borsellino, come tutte le altre vittime di mafia, ha rispettando, pagando con la vita il suo inarrestabile senso del dovere. 

“Non si fa il proprio dovere perché qualcuno ci dica grazie, lo si fa per principio, per sé stessi, per la propria dignità”.

ORIANA FALLACI

Ma Lucia, sua figlia, ci ha dimostrato che di senso del dovere non si muore soltanto. Di senso del dovere si vive, ci si migliora, ci si allontana dalla bestia (come direbbe Immanuel Kant) dando forma alla propria esistenza, alla propria umanità, alle proprie scelte, perché il senso del dovere è, tutto sommato, l’espressione più immediata e tangibile del rispetto che tributiamo agli altri (coinvolti dalle nostre scelte) e a noi stessi, di quelle scelte artefici e protagonisti, nel bene e nel male.

Grazie Lucia. Il tuo esempio ci ha resi persone migliori.


Note sull’Autore_

Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano. Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




Fra la sella e la terra c’è la grazia di Dio.

Giulia Gellini_ Equino [2009]_tecnica mista.

Ilaria Corsi _

Amare i cavalli vuol dire capirli, sentirli, sognarli. 

Quando avevo dieci anni, un libro di cui ricordo bene la copertina ancora oggi, parlava di una storia ambientata in USA. Natalie, una giovane ragazza, obbligata a trasferirsi in una piccola cittadina rurale, iniziava un’amicizia particolare con il cavallo della fattoria accanto.

Li divideva uno steccato, ma il rapporto, e questo mi colpì molto, era davvero particolare, quasi fosse un vero e proprio amico per lei, al quale confidare le sue emozioni e turbamenti adolescenziali.

Natalie era una ragazza di città in tutto e per tutto. Adorava giocare, ridere con i suoi amici durante le feste di quartiere e fare viaggi nel negozio di fumetti locale per prendere l’ultima copia della sua serie di graphic novel preferita. Quando la mamma le disse di andare a vivere in campagna, fu inevitabile avere una crisi profonda che la portò ad isolarsi. Chi avrebbe mai voluto vivere nel mezzo di Nowheresville? Ma abituarsi alla sua nuova vita di provincia fu meno traumatico grazie al bellissimo cavallo, Ghost. 

Nowheresville fa parte di una serie di libri scritti da diversi autori che mettono in evidenza le relazioni uniche tra le ragazze e i loro cavalli.

Questo libro in qualche modo mi ha segnato ed ha influenzato la mia vita negli anni della adolescenza e della mia prima maturità.

Dunque, fin da piccola, ho sentito un amore smisurato verso questo animale. Crescendo questa mia passione non si è mai spenta e anzi,  è sempre stata un fuoco che anno dopo anno si è alimentato sempre di più. L’arrivo di Contigo un meraviglioso cavallo baio dal cuore d’oro, ha segnato l’inizio della mia esperienza e delle prime gare, le prime sconfitte ma anche le prime vittorie.  Grazie a lui ho capito cosa significa prendersi cura di un animale che conta solo su di te ed insieme a lui mi sentivo sicura, nulla poteva separarci. Tutte le storie hanno una fine, e la perdita di Contigo, è stato il mio primo enorme dolore.

Galopin JB un irrequieto, meraviglioso cavallo morello di 4 anni, ha in parte colmato il vuoto nel quale mi stavo perdendo. Con lui mi sono messa davvero in gioco, siamo cresciuti insieme ci siamo qualificati per gare importanti e le abbiamo anche vinte.



I cavalli sono animali empatici dai grandi occhioni, prendersi cura di loro richiede sacrificio, senso del dovere, amore, passione e non bisogna averne paura. 

Accarezzarlo, alimentarlo e cavalcarlo sono azioni che mi hanno portato negli anni un profondo stato di benessere psicofisico

Sono tutti capaci di inforcare una bicicletta e pedalare, ma in questo caso si tratta di lavorare in sintonia con un animale in quanto essere vivente con un suo pensiero e le sue giornate no, come tutti noi del resto.

L’ippoterapia ha origini empiriche antiche perché il cavallo, con le sue straordinarie doti di sensibilità, di adattamento, di intelligenza è ritenuto, da sempre, e non a torto, “straordinaria medicina”. 
L’uso dell’equitazione a scopo terapeutico ha avuto inizio già nell’opera di Ippocrate di Coo (460-370 a.C.), che consigliava lunghe cavalcate per combattere l’ansia e l’insonnia.

I benefici dell’ippoterapia dipendono in buona parte dalle caratteristiche fisiche e comportamentali del cavallo e, a differenza di altre terapie che utilizzano animali di piccola taglia, l’equitazione prevede una strategia di trattamento che riesce a trasferire integralmente al paziente, le sollecitazioni prodotte dal movimento tridimensionale del cavallo.

Il parallelismo tra la tridimensionalità del cammino umano e l’andatura del cavallo dà la possibilità a soggetti che non hanno mai camminato o che camminano con schemi motori scorretti, di trovarsi in una situazione paragonabile ad una deambulazione corretta e fisiologica, sperimentandone quindi gli effetti concatenati a livello del bacino, del tronco, e in generale degli arti superiori.

Questa Attività generalmente è programmata ed inserita all’interno di un più ampio progetto riabilitativo, e viene svolta da una serie di figure professionali come i medici specialisti, i terapisti della riabilitazione, gli istruttori di equitazione, gli operatori sociosanitari e gli assistenti volontari specificatamente preparati, motivo per cui viene praticata in un numero limitato di Centri Ippici in possesso di tutti i requisiti necessari.

Un altro beneficio è riscontrabile sulla reattività del sistema nervoso simpatico.

Paralisi cerebrali infantili, forme spastiche, deficit motori derivanti da traumi, sono tutte patologie che possono essere curate anche in sella. 

Il disciplinare tecnico è molto articolato e varia a seconda delle esigenze specifiche. Di fatto il paziente può salire sul cavallo da solo o con un accompagnatore, il cosiddetto maternage

Secondo uno studio pubblicato su Frontiers in Public Health da studiosi della Tokyo University of Agriculture il cervello dei bambini che vanno a cavallo avrebbe una reattività maggiore, in quanto le vibrazioni prodotte durante la cavalcata, risultano particolarmente efficaci nell’attivare tale sistema.

Per avallare questa tesi è stato condotto un esperimento nel quale un gruppo di 106 bambini di età compresa tra i 10 e i 12 anni, è stato sottoposto ad alcuni test prima e dopo aver cavalcato per 10 minuti su un pony e aver camminato a piedi per 10 minuti. Nel primo test ai bambini, dopo aver visionato per 200 millisecondi dei quadrati di colore rosso, giallo o blu su uno schermo, veniva richiesto di premere velocemente un tasto qualora sullo schermo fosse comparso il quadrato giallo o blu, e di astenersi invece con la comparsa del quadrato rosso. In questo test di tipo comportamentale è stata riscontrata la differenza più rilevante: 25 bambini su 54 (46,3%) hanno migliorato infatti il proprio punteggio dopo la cavalcata, dopo la passeggiata invece, soltanto il 26,9% è riuscito a migliorarsi.

Il secondo test, invece, consisteva nell’eseguire 30 addizioni tra numeri ad una sola cifra in rapida successione. In questo caso non ci sono state differenze rilevanti in termini di risultato, ma si è registrato che per il 72,2% dei bambini che erano stati a cavallo, la velocità di completamento del test era notevolmente migliorata. 

Ma perché il cavallo ha questo enorme potenziale? 

Io credo che tra uomo e cavallo si crea una connessione, una relazione che amplifica la capacità degli animali di trasmettere e stimolare emozioni. Loro hanno una spiccata vocazione sociale e chiunque abbia preso le redini in mano sa come il cavallo sia estremamente reattivo agli stimoli.

Cavalcare implica una sintonia con un’altra creatura, esperienza che tornerà poi molto utile anche fuori dal maneggio, ed associabile ad un potente antistress.

A questo si aggiunge anche l’attività effettuata a terra, il cosiddetto grooming, cioè il prendersi cura dell’animale attraverso la pulizia e la cura del suo mantello. 

Un’attività ad alto contatto che facilita la nascita di un rapporto emozionale tra cavallo e paziente. 

Il piacere e l’emozione nell’eseguire questi gesti di cura, aiutano a sviluppare competenze relazionali e amplificano anche i risultati motori ottenuti in sella.

Io ci ho messo del tempo per farmi accettare da questi esseri meravigliosi, e non ho  alcun dubbio che senza di loro, non sarei la donna che oggi sono.

Per ulteriori informazioni:

https://www.fise.it/


Nota sull’autore_

Ilaria Corsi, classe 1998, Laureata in Design della Comunicazione allo IED, ex campionessa giovanile di equitazione, categorie salto ad ostacoli e dressage, da sempre una sognatrice con una voglia indomabile di scoprire il mondo e lasciare un segno. Innamorata della creatività, del mondo degli eventi, con il sogno nel cassetto di riuscire un giorno a farsi “posto fra i grandi”. Espansiva, affettuosa, chiacchierona, solare, con la voglia di “spaccare il mondo”, sempre di corsa. Affascinata dalle persone che non hanno paura a dire la propria opinione che non si nascondono “dietro a un dito”, che non si fermano davanti a un “no” che si oppongono agli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Amante degli animali sostiene che “grazie a loro possiamo superare ogni nostra paura più grande, bisognerebbe parlare di più di come gli animali aiutino noi esseri umani a superare le nostre paure”.




Tra ragione e follia.

One of six woodcuts to the chess story The Royal Game by Stefan Zweig. Artist: Elke Rehder, Germany.

di Borislav Mancini_

Si è sempre associato il gioco degli scacchi ad una rappresentazione simbolica di una guerra strategica, una attività tipicamente machiavellica.

Ma io li ho sempre considerati come una sorta di ragionamento esasperato, di lucida follia, che può portare ad un black out mentale.

Il ragionamento estremamente razionale, portato alle estreme conseguenze, ti può a volte trascinare  in un loop astratto dove il pensiero rischia di perdersi, e così la ragione.

Per questo si parla di ossessione, e di conseguenza, è facile comprendere perché la letteratura spesso si avventura lungo il cammino cercando di seguirne il filo, fino a sfiorare e in certi casi, raggiungere la follia.

Seguire il proprio ragionamento e quello del proprio avversario cercando di anticiparne le mosse, in un rincorrersi di aspettative e conoscenza di se stessi e dell’altro, è tipico di un certo tipo di psicoanalisi, e dunque ha a che fare in senso lato, anche con la pazzia.

Tra le migliaia di libri che trattano l’argomento, alcuni possono presentare sfaccettature interessanti che ovviamente invito ad approfondire. La difesa di Lužin” di Vladimir Nabokov ad esempio, spiega in qualche misura quanto ho descritto. L’autore, appassionato giocatore degli scacchi, ammette che nel corso dei suoi vent’anni d’esilio ha dedicato un’enorme quantità di tempo alla composizione di problemi scacchistici, al punto che si rammarica che negli anni più prolifici della sua vita, lo studio maniacale del gioco e delle sue infinite potenzialità mentali, abbia preso così tanto tempo da fargli trascurare altre esperienze, che rimpiange di non poter ormai più fare. La vita del protagonista del romanzo,  Lužin, era fatta di pedine da muovere sulla scacchiera; di strategie nuove da creare ogni volta, di partite da vinceredi avversari da battere. Fuori dalla scacchiera, nulla ha senso per Lužin, e nulla davvero esiste. La resa dei conti di questa “malattia” si riassumente nella convinzione che porta il protagonista del racconto a convincersi che una perversa combinazione di mosse sia stata ordita dalla vita contro di lui e che debba escogitare una difesa valida per non soccombervi.

Samuel Beckett, nel suo romanzo “Murphy” sceglie di far ruotare tutta questa ossessione intorno al protagonista che, verso la fine del romanzo, gioca un’epica partita a scacchi con il signor Endon. Murphy inizia a lavorare come infermiere in un ospedale psichiatrico e scopre che la pazzia dei pazienti è un’attraente alternativa all’esistenza cosciente. Attraverso le potenzialità artistiche e metaforiche degli scacchi, cerca senza riuscirci di riprodurre il gioco simmetrico e ciclico del suo rivale, nella stessa misura in cui è incapace di lasciarsi andare a manifestazioni che non siano speculari a quelle del suo malato avversario.

Il legame tra un’innata propensione al gioco degli scacchi e l’incompetenza sociale, sia determinata da una qualche forma di malattia mentale o meno, è così stretto nel nostro quadro immaginifico da diventare un tratto caratteristico che va a incastrarsi nella descrizione di un carattere timido e schivo. Senza voler approfondire troppo l’argomento,negli anni Settanta del secolo scorso era diventato di moda credere che lo schizofrenico nella sua follia sia in un certo senso più vicino alla verità di noi tutti, nella nostra cosiddetta sanità. 

La novella degli scacchi” di Stefan Zweig non è come nei casi precedenti un romanzo, ma un racconto che l’autore scrisse nel 1941, pochi mesi prima di suicidarsi, nel pieno della seconda guerra mondiale e ovviamente dell’incubo nazista. In questo caso, la componente angosciosa è largamente presente, come una sorta di marchio indelebile. Tema centrale del racconto sono ovviamente gli scacchi, mondo a cui l’autore si appassionò negli anni in cui visse a Petropolis. Gli scacchi erano per Zweig l’unica vera distrazione dal lavoro. La trama di partenza è semplice. A bordo di una nave da crociera il dott. B. e il signor Czentovič, giocano una drammatica partita a scacchi, come nel capolavoro di Ingmar Bergman, Il Settimo sigilloIntorno alla scacchiera si sfidano due persone profondamente diverse. Il dottor B. è dotto, elegante, rappresentante della cultura del vecchio mondo, colta e raffinata, di quell’età d’oro di matrice Ottocentesca, a un passo dal definitivo tramonto. L’altro, invece, nonostante sia il campione mondiale in carica, è un uomo rozzo, arrogante e profondamente venale, espressione di quel mondo che si sta sfrontatamente affermando.Non si tratta di una semplice partita ma di una vera e propria resa dei conti con la vita. Una sfida fra due uomini diversi ma uniti dal mistero e da due esistenze avvolte in una enigmatica nebbia.

Con rare eccezioni, i personaggi delle storie citate vivono in funzione del loro mestiere e sembrano vedere il mondo attraverso il filtro di una scacchiera, avendo di fronte personaggi fortemente alienati dal mondo, vivi e capaci quasi esclusivamente quando si tratta di giocare. In tutti i casi è presente un forte dualismo, una contrapposizione appassionata tra scacchisti che si considerano l’uno la nemesi dell’altro. La presenza di un acerrimo rivale è quasi obbligata, e nel caso degli scacchi è curioso notare come a questo violento dualismo si accompagni un’evidente vena sociologica. 

In fondo, il giocatore di scacchi è libero di scegliere ad ogni mossa varie possibilità. Ma ogni mossa comporterà una serie di conseguenze ineluttabili. La necessità di compiere un certo tipo di mossa, determinerà il risultato finale, facendo si che questo non sia il risultato del caso, ma di una decisione consapevole e ragionata. Un confronto tra libertà e destino, fra conoscenza e impulso. Tra ragione e follia.

Note sull’autore_

Borislav Mancini è nato a Kiev nel 1964 dove il padre Pietro, ingegnere, lavorava per una multinazionale italiana. La madre Alina Solovyova appartiene ad una famiglia altolocata della capitale ucraina.

Trasferitosi in italia da ragazzo, ha compiuto gli studi superiori a Roma prima, e Udine successivamente dove si è Laureato in Lingue e letteratura extraeuropea presso l’università di Udine. Appassionato di scacchi sin da bambino, è stato nella TOP 100 del Live rating mondiale.




Il Romanzo dei Tre Regni

Di Anonimo – From an ancient Chinese book (1591), Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=547716

(di Mattia Marchetti Aloisio 马天龙)

“L’Impero, una volta unito si dividerà’, una volta diviso si riunirà, così’ è sempre stato”

E’ con questa frase che si apre uno dei più importanti libri nella storia e cultura cinese, un libro che ha avuto un impatto così forte che si dice perfino il Presidente Mao ne avesse una copia con sé.

Il libro in questione e’ il Romanzo dei Tre Regni, ed insieme al Viaggio verso Ovest, i Briganti della Palude ed Il Sogno della Camera Rossa, e’ uno dei Quattro Grandi Classici della Letteratura cinese.

Il Romanzo e’ stato scritto da Luo Guangzhong e tratta della storia cinese dal 180 d.c. (praticamente durante il regno dell’Imperatore Commodo) al 280 d.c. (durante il regno dell’Imperatore usurpatore Procolo).

La storia parte dalla caduta della Dinastia Han e l’inizio della Dinastia Jin. Questo periodo, almeno all’inizio, e’ caratterizzato da diversi signori della guerra locali che si combattono tra loro cercando di riunificare il Regno ed essere nominati Imperatore o al massimo sopravvivere in un periodo di tumulto; Da questo caos, appunto, tre Regni Wei, Wu e Shu, con i loro Sovrani e generali si ergeranno e combatteranno per il dominio finale.

Il Romanzo, come opera letteraria puo’ essere paragonato un po’ all’Iliade ad ai racconti Arturiani, in quanto descrive un periodo storico ma ci inserisce tematiche fantastiche, come la magia; ma non e’ solo l’insieme del reale e del fantastico che porta a fare questa comparazione, è soprattutto l’uso di tropi letterari e l’utilizzo di personaggi come manifestazione di virtu’ e difetti.

Troviamo cosi’, a distanza di tempo e spazio con Omero e Chrétien de Troyes, personaggi che sono simbolo di virtu’ e vizi come lo sono Achille, Ettore, Lancillotto o Mago Merlino; nello specifico:

Liu Bei, il protagonista della storia, discendente indiretto dell’Imperatore Han, e colui che ha avuto la chiamata per ristabilire l’ordine. E’ descritto come un uomo giusto ed onorevole, tipo Re Artu’.

Cao Cao (leggasi Tzao Tzao), Signore del Regno di Wei, e’ il “nemico”, colui che attraverso macchinazioni politiche in stile Macchiavelliano riuscira’ a prendere il controllo della Corte. E’ descritto come manipolativo, scaltro ed altamente pericoloso.

Zhuge Liang, il mentore, l’uomo vivente piu’ intelligente, colui che riesce a creare piani dentro piani e si dica avere doti magiche tipo prevedere il futuro leggendo le stelle, come Mago Merlino per Re Artu’, lui sara’ la guida politica per Liu Bei.

Zhao Yun, che come Parsifal o Galahad, e’ il simbolo delle piu’ alte virtu’ cavalleresche, il classico cavaliere senza macchia e senza paura e che, si dice, nessuno e’ riuscito a battere in duello.

Zhang Fei, il classico personaggio iracondo tipo Achille, ed alcolizzato, e dotato di forza sovrumana.

Ma questi sono solo alcuni dei personaggi in questa epica, la storia copre un arco temporale notevole e molti, troppi, personaggi sono coinvolti.

C’e’ un pero’, anche piuttosto grosso. Come l’Iliade, anche il Romanzo e’ stato scritto anni dopo che gli avvenimenti sono effettivamente accaduti, cio’ comporta che molto di quello che e’ scritto non sia esattamente la verita’. Esistono infatti due scritti: “Gli Annali dei Tre Regni” e la sua espansione “Annotazioni agli Annali” che effettivamente raccontano cio’ che e’ accaduto in quegli anni.

L’epica di Luo Guangzhong, dev’essere vista secondo un ottica particolare, il suo intento non era proprio quello di scrivere la storia per se, ma usare la storia ed i personaggi come strumento per promuovere la cultura confuciana, e forse a quello di creare un epica. Questo ha portato a notevoli differenze di eventi storici e caratterizzazione dei personaggi stessi: molti dei personaggi sono stati totalmente tagliati fuori e molti altri “ridimensionati” in cio’ che effettivamente hanno fatto; altri hanno dovuto subire caratterizzazioni con connotazioni anche negative, partendo da Cao Cao in persona e si pensa anche di Yuan Shao; mentre altri sono stati esaltati molto di piu’ della controparte storica, in primis Liu Bei.

Ma nonostante le differenze, il Romanzo ha comunque portato tutti questi personaggi dalla storia al mito; ed il tutto nella cultura cinese. Il Romanzo infatti, ha avuto un impatto enorme nella societa’ e cultura cinese, tanto che gli effetti si vedono tutt’ora: alcuni modi di dire ed espressioni derivano da persone ed accadimenti descritti nell’epica; una parte delle opere teatrali si rifa’ al Romanzo, cosi’ come le maschere; sono state prodotte due serie televisive, diversi film e gli eroi sono comunemente personaggi di videogiochi.

“L’Impero, una volta unito si dividerà’, una volta diviso si riunirà, così è sempre stato”.

Note sull’autore dell’articolo:

Mattia Marchetti Aloisio 马天龙 vive in Cina a Ningbo, Zhejiang da oltre 20 anni ed è specializzato in Brand Identity | Archetype Branding | Customer Care | Social Media Manager.

Mattia Marchetti Aloisio 马天龙