Di Anime e d’isole.
[Itaca: da Omero a Guccini].
Odisseo dorme.
Disteso sul fondo di una nave.
Per una volta, nell’Odissea, non è lui a governare la nave.
Dorme un sonno strano, mentre la nave, velocissima, solca l’Oceano e raggiunge un’isola.
Il lettore ha aspettato tanto questo momento. Di quest’isola si è parlato molto, molte lacrime sono state versate, molta nostalgia spesa; molte volte è sembrata vicina, a portata di mano – anzi, di prua – e altrettante volte si è persa la rotta, e la sua sagoma si è fatta piccola, fino a scomparire…
È Itaca.
“che paese? che terra? che uomini vivono qui? è un’isola tutta visibile, oppure è una punta, protesa nel mare, del continente dalle vaste campagne?”
Si è appena svegliato e – forse per questo! – vuole conoscere le coordinate geografiche di un luogo che ancora non riconosce come la sua terra natale.
Parla con Atena, la sua dea protettrice, e questa risponde: “non è sconosciuta, né straordinaria, è aspra, inadatta ai cavalli, non troppo magra, né troppo vasta”
Non è un’isola mitica, un paradiso terrestre: latte e miele non scorrono nei suoi fiumi e non produce frutti spontaneamente: è un’isola reale.
Più che reale: pietrosa. Lo dice Foscolo e lo dice Guccini: “e se guardavo l’isola petrosa// ulivi e armenti sopra a ogni collina// c’era il mio cuore al sommo d’ogni cosa// c’era l’anima mia che è contadina”.
L’anima appartiene a posti che non hanno bisogno di alcuna bellezza sovrabbondante. Questo ci dicono i poeti. E noi apparteniamo a questi posti. Né brutti né belli. Nostri.
“Quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui”: lo dice quell’inquietante Machiavelli, a suo agio nel peggio come nel meglio della politica. Ma la sua casa sono i libri, gli antichi uomini che gli parlano. Lui domanda e loro rispondono.
Uomini che girano il mondo, conoscono cose, imbrogliano, amano, uccidono, mentono, vincono e perdono. E un filo li tiene legati ad un’origine, un focolare, una donna che li aspetta, paziente. La cui immagine deve consolarli mentre vincono e perdono. Mentre vivono.
Forse nei mattini d’estate, fra empori fenici e città egizie, le narici inebriate da penetranti profumi, come immagina Kavafis.
Itaca è un mito maschile. È un piacere del ritornare che può provare solo chi può andare via.
Le donne non hanno Itaca. Sono Itaca. La loro pazienza è premiata dal ritorno dei loro eroi, un po’ ammaccati dagli anni: bisogna prendersene cura e aver conservato qualcosa per loro. Un po’ di bellezza, un po’ di dolcezza.
Fin qui, i miti.
Ma ogni mito contiene altri miti, nascosti, potenziali.
Ci sono miti che i poeti non hanno voluto raccontare. Penelope, per esempio, ad un perfetto sconosciuto – è Odisseo! ma lei non lo sa – racconta uno strano sogno: nella sua casa, a Itaca, ha venti oche che beccano il grano e lei è felice, gioisce guardandole; quando improvvisamente, dal monte, una grande aquila dal becco adunco piomba sulle oche e le uccide. Penelope, allora, piange alla vista delle oche morte, ammucchiate, e si dispera, tanto da dover essere consolata dalle altre donne.
Finché non le spiegano il significato del sogno: l’aquila è il marito e verrà ad uccidere i suoi rivali-oche.
Dove il piacere segreto di avere venti oche nella propria aia (invece di un marito-aquila) deve essere confinato nel regno effimero dell’onirico per avere cittadinanza poetica! E però candidamente raccontato ad un altro uomo, che stranamente la attrae (attrazione lecita! essendo costui proprio il marito, perduto e ritrovato).
Miti indicibili, di cose che accadono nelle notti mediterranee della petrosa Itaca!
Odisseo naturalmente non ha bisogno di sognare. Circe, Calipso, Nausicaa…
Ogni isola è anche una donna, ogni donna è un’attrattiva diversa.
Solo Dante immagina che il filo si spezzi: Ulisse non vuole tornare. C’è da navigare ancora, c’è da sconfiggere quel vivere bruto che zavorra ogni nostro desiderio; ci sono altri mari da percorrere, altri orizzonti, altri cieli.
Itaca può aspettare. Altre isole ci attendono.
È la vertigine di un altro sé possibile: un sé totalmente libero.
Infatti, se ne ricorda Primo Levi in quello straordinario capitolo di Se questo è un uomo, quando cerca di spiegare a un giovane compagno di corveé – durante un breve squarcio di relativa libertà dalla sofferenza del lager – il significato di quel verso meraviglioso:
“ma misi me per l’alto mare aperto”
Sappiamo come va a finire, il volo folle sopra ogni sentimento ‘dovuto’: con quel mare “sovra noi richiuso”.
Scrivo, studio, insegno materie con le tecnologie, sono pratica di formazione, giornalista free lance, multipotenziale.