Greenwashing, il lato oscuro della sostenibilità.

di Francesca Bux

“Investire nel Pianeta” è il tema scelto per la Giornata Internazionale della Terra del 2022 appena trascorsa.

Ogni anno, dal 1970, un mese e un giorno dopo l’equinozio di primavera, si celebra quella che è considerata la più grande iniziativa al mondo dedicata all’ambiente.

Obiettivo principale: sensibilizzare l’opinione pubblica sulla salvaguardia del pianeta, della biodiversità, promuovere l’uso sostenibile degli ecosistemi terrestri e invertire il degrado dei terreni.

Le Nazioni Unite, nel 2016, hanno scelto il 22 Aprile per adottare ufficialmente l’Accordo di Parigi, che rappresenta l’impegno più importante mai firmato contro la crisi climatica globale.

L’obiettivo del trattato è molto chiaro e prevede l’incremento comunitario di azioni mondiali e il suo raggiungimento può essere riassunto in 3 punti fondamentali:

– contenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto dei 2 °C oltre i livelli preindustriali e di limitare l’aumento a 1,5 °C

– aumentare la capacità di adattamento agli effetti negativi dei cambiamenti climatici, promuovendo la resilienza climatica e lo sviluppo a basse emissioni di gas a effetto serra, con modalità che non minaccino la produzione alimentare;

– rendere i flussi finanziari coerenti con un percorso che conduca a uno sviluppo a basse emissioni di gas a effetto serra e resiliente al clima.

Tutto molto bello e soprattutto estremamente necessario.

Ma cosa significa esattamente la tematica scelta e quali demoni si possono celare dietro una così nobile causa?

“Investire nel Pianeta” è un chiaro riferimento a come la finanza privata – influenzata e guidata spesso anche dalle nostre scelte individuali – è probabilmente uno dei più grandi acceleratori dei capovolgimenti di cui abbiamo bisogno per dare una svolta e mettere un freno ai disastri naturali causati solo dalla nostra noncuranza e senso di onnipotenza.

E’ quindi abbastanza semplice dedurre come, prendendoci cura della nostra Madre Terra, arrivino anche i vantaggi economici.

E qui entra in scena un termine che si è fatto conoscere molto negli ultimi tempi.

Stiamo parlando del Greenwashing.

Origine del nome:

Si tratta di un neologismo nato dalla sincrasi tra le parole “green” (il colore associato da sempre all’ambiente e al movimento ambientalista) e “whitewashing” (imbiancare e – in senso figurato – nascondere qualcosa).

La sua origine viene fatta risalire all’ambientalista statunitense Jay Westerveld, che per primo lo impiegò nel 1986 per stigmatizzare la pratica delle catene alberghiere, che facevano leva sull’impatto ambientale del lavaggio della biancheria per invitare gli utenti a ridurre il consumo di asciugamani, quando in realtà l’invito era mosso quasi esclusivamente da motivazioni economiche (nello specifico, era relativo a un taglio nei costi di gestione).

Ora noi lo utilizziamo per indicare una strategia di comunicazione adoperata da certe imprese, organizzazioni o istituzioni politiche finalizzata a costruire un’immagine ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale, con l’unico scopo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi per l’ambiente dovuti alle proprie attività o ai propri prodotti.

Esempio: avete sentito parlare della “JoinLife Collection” di Zara?

E’ una campagna sostenibile intrapresa dall’azienda, per mostrarsi sensibile alle conseguenze dei propri prodotti sull’ambiente.

Peccato che, come spiega a Will uno dei più agguerriti nemici di questa pratica, nonchè esperto in sostenibilità ambientale e sociale nella moda, Matteo Ward, analizzando le componenti di un capo presentato sul sito, è possibile notare come un tessuto composto da più di due diversi tipi di fibre non possa essere riciclabile. 

Inoltre, le stesse fibre derivano da combustibili fossili: questo significa che,lavaggio dopo lavaggio, viene rilasciata della microplastica.

E tutto ciò non è assolutamente né green, né Eco-friendly, né tantomeno etico.

I danni che conseguono un’attività di Greenwashing spaziano dalla perdita di credibilità a quello più serio che consiste nella mancanza di un’azione concreta per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità.

Per questo motivo, è fondamentale l’identificazione delle aziende che realmente hanno incorporato la sostenibilità all’interno della propria organizzazione, soprattutto per gli investitori ESG (Environmental, Social, Governance. Viene utilizzato nel settore economico/finanziario per indicare tutte quelle attività legate all’investimento responsabile (IR), che perseguono gli obiettivi tipici della gestione finanziaria tenendo in considerazione aspetti di natura ambientale, sociale e di governance). 

Il rischio, altrimenti, è quello di finanziare progetti e imprese che non apportano alcun beneficio per l’ambiente e le persone, vanificando così tutti i princìpi e le buone intenzioni della tematica di questa giornata.


Francesca Bux

Classe 1984.

Veneta dal sangue pugliese, intraprendente, riservata e creativa.

Attenta nei confronti delle nuove tendenze della comunicazione, con un occhio di riguardo per le campagne pubblicitarie di impatto sociale, innovative e fuori dagli schemi.

Lettrice eclettica, viaggiatrice anche solitaria, dipendente dalla musica e dalle espressioni d’arte come la fotografia, la pittura e la moda.

Amante delle rappresentazioni teatrali, tradizionali e indipendenti.

Non ho un mio blog, ma amo scrivere in quello degli altri.




Designer for the Planet, Stella McCartney, H&M: stile e sostenibilità a braccetto nell’epoca moderna.


di Francesca Bux

In pochi ci avrebbero mai scommesso, ma il colosso della moda (ai primi posti da sempre delle industrie più inquinanti al mondo) è tra i più attenti all’impatto ambientale delle sue produzioni, diventando così uno dei punti di riferimento alla lotta contro la devastazione dell’ecosistema, con l’entusiasmo degli amanti del fashion con uno stile di vita eco-friendly. 

La concezione di shopping etico si allarga e, in aggiunta alla cosmetica vegan, prodotti alimentari equosolidali, detergenti solidi e plastic-free, i migliori acquisti ecologici riguardano capi in cotone organico, ecopelle in fibra di mais, poliestere riciclato.

Tutto ciò è apparso ben chiaro sotto i riflettori appena spenti della Milano Fashion Week, dove la maggior parte dei brand ha presentato collezioni che vogliono smarcarsi dall’equazione “moda = frivolezza”, dando spazio a una ventata di aria giovane, innovativa ma soprattutto green.

Ecco quindi andare in scena la 5°edizione del progetto “Designer for the Planet”: brand emergenti rigorosamente Made in Italy, che hanno fatto della sostenibilità la componente fondamentale per la realizzazione delle loro collezioni. 

Un intero spazio all’interno del Fashion Hub ha ospitato quest’anno gli stilisti Acidalatte, BENNU, DassùYAmoroso, Raree Show e Vernisse, giovani talenti che vogliono influenzare positivamente le nuove generazioni, proponendo vestiti alla moda e unici nella loro realizzazione.

Handmade, vecchi abiti second hand, recupero di capi e tessuti provenienti da deadstock e armadi vintage, sono stati il filo conduttore che ha rappresentato i lavori proposti, il tutto unito ad un’elevata sensibilità nei confronti delle tematiche sociali, quali l’accettazione di se stess*, la libertà di osare e la fluidità di genere.

Tra gli innumerevoli vantaggi del riutilizzo dei materiali, spicca la capacità di ridurre la produzione di nuovi capi e il conseguente inquinamento che ne deriva.

Lo sa bene anche Stella McCartney, pioniera del movimento di moda di lusso sostenibile (“Pioneering a sustainable luxury fashion movement”), che da oltre vent’anni si impegna in una produzione etica e cruelty-free.

La celeberrima Falabella bag, borsa lanciata nel 2010, incarna senza ombra di dubbio l’anima del suo marchio: la pelle molto morbida è stata realizzata con olii vegetali, mentre le fodere vedono l’utilizzo dibottiglie in plastica riciclate, senza tuttavia togliere lusso ed eleganza al prodotto.

Una sensibilità moderna e responsabile, che ha portato la stilista a fare scelte sempre più ambientalista, implementando ad esempio l’uso della viscosa sostenibile e del cashmere rigenerato al posto del cashmere vergine.

Non sono da meno i grandi colossi quali l’azienda di abbigliamento svedese “H&M”. Da tempo, infatti, il brand si dimostra attento alle tematiche di sostenibilità, tanto da dichiarare che:”Il nostro obiettivo è che tutti i nostri articoli siano prodotti con materiali riciclati o provenienti da fonti sostenibili entro il 2030. Il 65% dei materiali che usiamo lo è già.”

Una volontà così tanto forte da portare perfino alla realizzazione della collezione Conscious choice: capi creati con almeno il 50% di materiali sostenibili, come appunto il cotone biologico o il poliestere riciclato.

Spazio quindi anche a foglie di ananas, rifiuti di canapa, vecchie reti da pesca e vetro riciclato.

L’importante è iniziare ad aprire lo sguardo verso un futuro dalle scelte più consapevoli, compiendo azioni concrete che rispettino l’ambiente e smettano di danneggiare la natura.

Prima che sia troppo tardi.


Francesca Bux

Classe 1984.

Veneta dal sangue pugliese, intraprendente, riservata e creativa.

Attenta nei confronti delle nuove tendenze della comunicazione, con un occhio di riguardo per le campagne pubblicitarie di impatto sociale, innovative e fuori dagli schemi.

Lettrice eclettica, viaggiatrice anche solitaria, dipendente dalla musica e dalle espressioni d’arte come la fotografia, la pittura e la moda.

Amante delle rappresentazioni teatrali, tradizionali e indipendenti.

Non ho un mio blog, ma amo scrivere in quello degli altri.