Il mito della Torre rivisto attraverso le opere di Celestino Russo

https://www.exibart.com/evento-arte/celestino-russo-babel

di Massimo Biecher

Il testo che segue è stato scritto a seguito della visita della galleria d’arte di Lorenzo Vatalaro sita in zona Brera Milano che esponeva delle opere dell’artista Celestino Russo.
Le emozioni in noi evocate sono poi passate attraverso al setaccio del metodo che abbiamo sviluppato per ri-analizzare i miti dell’antica Grecia.

Il risultato della nostra riflessione intorno al significato simbolico del mito della torre è riassunto nel seguente scritto.

Introduzione

Il mito che ha a che fare con le torri è un mito antichissimo e a noi, che apparteniamo alla cultura occidentale, richiamano in primis le torri campanarie.
Il simbolismo ad esse collegato rimanda al desiderio dell’uomo, o per lo meno di alcuni di essi, a voler ri-collegare il cielo con la terra. Ricordiamo che il sostantivo religione, deriva dal verbo latino religere, dove “re” è un prefisso che significa la ripetizione di un’azione e dal verbo ”lĭgo, lĭgas, ligavi, ligatum, lĭgāre” che vuol dire “legare”, “unire”, “congiungere”, “riunire”.
La torre più famosa di tutte è la torre di Babele che però nei secoli è stata associata all’arroganza dell’uomo, il quale, invece di mettersi in contatto con il creatore, cerca di porsi al suo stesso livello.
Le opere di Celestino Russo pur rifacendosi a questi concetti, suscitano anche altre immagini interiori.
Abbiamo pertanto deciso di osservare queste opere con gli occhi del cuore così come ci invitava a fare il Michelangelo Buonarroti (1475-1564) che nel verso 49 delle Rime:

« Amor, la tuo beltà non è mortale: nessun volto fra noi è che pareggi, l’immagine del cor, che ‘nfiammi e reggi, con altro foco e muovi con altr’ale ».

alludeva ad un particolare tipo di percezione il quale, non arrestandosi all’aspetto esteriore e formale delle cose e delle persone, giunge, tramite il cuore inteso come organo psicologico preposto al riconoscimento delle emozioni, alla cosiddetta φύσις – physys, ovvero alla natura intrinseca, alla qualità innata o all’essenza particolare presente all’interno di ciascuna di esse.

Sarebbero le forme esteriori che scatenano associazioni libere di idee le quali a loro volta, rimandano ad altre immagini per analogia o per sympatheia συμπάθεια (da “σύν” – assieme, con e da πάθος – “sofferenza”, “patimento”, “passione” ma soprattutto “esperienza”, “emozione”, “ciò che si prova”) suscitando altre sensazioni.

alludeva ad un particolare tipo di percezione il quale, non arrestandosi all’aspetto esteriore e formale delle cose e delle persone, giunge, tramite il cuore inteso come organo psicologico preposto al riconoscimento delle emozioni, alla cosiddetta φύσις – physys, ovvero alla natura intrinseca, alla qualità innata o all’essenza particolare presente all’interno di ciascuna di esse.

Sarebbero le forme esteriori che scatenano associazioni libere di idee le quali a loro volta, rimandano ad altre immagini per analogia o per sympatheia συμπάθεια (da “σύν” – assieme, con e da πάθος – “sofferenza”, “patimento”, “passione” ma soprattutto “esperienza”, “emozione”, “ciò che si prova”) suscitando altre sensazioni.

Premessa all’analisi

Prima di analizzare le opere di Celestino Russo sentiamo il bisogno di soffermarci sul significato della torre in sé. Che cosa è la torre? Quali immagini suscita ? A cosa rimanda per similitudine e corrispondenza ?
Come abbiamo accennato nell’introduzione, la torre è qualcosa che avvicina, è una sorta di ponte verticale che ha l’ambizione di collegare non tanto terre o nazioni diverse ma mondi o dimensioni diverse.

Ma quali mondi in particolare ?
Per scoprire ciò, anche in questo caso, abbiamo deciso di applicare lo stesso metodo di indagine che adoperiamo per la pubblicazione degli articoli che hanno per protagonisti i miti dell’antica Grecia nei quali, invece di soffermarci sulle vicende che afferivano ad una religione politeista ormai estinta, in accordo con il modello della psicologia archetipica di James Hillman vi troviamo la metafora del mondo della psyche, delle emozioni e dei sentimenti rappresentati per mezzo di storie che ricordano più i sogni notturni che descrizioni di eventi dotati di senso compiuto.
Per comprendere gli archetipi incarnati dalla torre siamo partiti con la ricerca etimologica del sostantivo come veniva pronunciato in greco antico per vedere successivamente se esso fosse in grado di evocare da un punto di vista immaginale negli antichi e a noi ai giorni nostri, a livello inconscio, particolari significati.

Etimologia del sostantivo torre
La parola «torre» in greco antico si scriveva πύργος – pyrgos che derivava dal verbo πυργόω – pyrgoo che significa “munire di torri”, “fortificare”, ma anche “ingrandire”, “esagerare” ed addirittura “magnificare” ed “esaltare”, ma anche “essere altero”.
Da questi primi indizi è più facile comprendere perché alla torre venga associata l’arroganza di chi cerca di elevarsi, esaltarsi, di chi esagera.
Ma tra i significati che rinveniamo nei vocabolari consultati, abbiamo trovato anche “andare a testa alta”, “alzarsi in piedi” e “raddrizzarsi”.

Questi ultimi due in particolare, non suggeriscono a nostro avviso tanto la sfacciataggine di un superbo, quanto piuttosto sembrano riferirsi a colui che conscio di sé, dei propri pregi e difetti, affronta la vita “a testa alta“. Interessante anche il fatto che la preposizione περί – peri, significa “rotatoria”, “rotondo” e “tondeggiante” e “smussato” che rimandano proprio alla forma delle torri del Russo.


Non siamo in grado di affermarlo con certezza, ma è possibile che l’artista scolpendo e dando forma alle sue creazioni possa essersi lasciato inconsciamente guidare dal significato intrinseco del termine, dall’essenza che sta dietro alla torre in sé.
In altre parole avrebbe praticato quella che per gli antichi greci era la τέχνη – tekné, ovvero l’arte, l’abilità di rappresentare sia l’oggetto che la sostanza andando al di là di ciò che è visibile agli occhi.

Originalità delle rappresentazioni di Celestino Russo

Che cosa ha attratto in particolare la nostra curiosità ?
Il fatto che oltre ad esservi delle torri che puntano verso l’alto, ve ne sono alcune che sembrano spingersi verso il basso. Il che ci ha portati ad immaginare un cammino in discesa, verso le profondità dell’anima, dove è possibile fare conoscenza profonda di noi stessi.
Inoltre i pezzi forgiati dall’interno ci fanno pensare al cammino sempre lento e tortuoso che il ricercatore di sé deve compiere quando va alla ricerca del proprio contenuto rimosso, senza sapere cosa troverà e quanto in fondo si spingerà nella sua ricerca.

Così come alcune sculture che appaiono incomplete, che ci ricordano chi inizia il proprio cammino, in questo caso in salita, e poi, per tutta una serie di motivi, lo interrompe.

A questo punto mossi dallo spirito che aleggia in uno dei motti dello scrittore Saint-Exupéry ossia, « l’essenziale è invisibile agli occhi », ci siamo domandati, non tanto se questo fosse l’intendimento dell’artista, quanto invece, in base ai nostri studi riguardo ai μθοι – mithoi rivisti in chiave psicoanalitica, quale altro significato si celasse dietro alle due categorie di torri. In altre parole, quali sarebbero i significati psicologici che questi simboli incarnerebbero al di là delle più facili e scontate attribuzioni ?

In base agli studi compiuti, derivati dall’analisi di alcune opere artistiche rinascimentali che si erano ispirate alla teologia orfica, che ricordiamo era una forma di religiosità monoteista andata perduta e che circolava tra filosofi e ceti abbienti dell’antica Grecia, nonché dalla rilettura che abbiamo condotto a riguardo del mito di Orfeo ed Euridice, siamo giunti alle seguenti associazioni.

Le torri che salgono


Le torri che sembrano elevarsi incarnerebbero l’archetipo di quel ponte tra mondi, quello che Marsilio Ficino definì l’Anima Mundi.

«L’Anima [mundi] – ψυχή, si può chiamare il centro della Natura, l’intermediaria di tutte le cose, la catena del mondo, il volto del tutto, il nodo e la “copula mundi».
Tratto da: «Theologia platonica», III, 2, traduzione di Nicola Abbagnano di Marsilio Ficino (1433-1499)

È grazie al Rinascimento che l’Anima cessa di possedere unicamente un significato spirituale e diventa il sinonimo di quella che oggi chiamiamo psyche, termine coniato dal teologo ed umanista Philipp Melanchton che fu amico e consigliere personale di Martin Lutero, ovvero quelle facoltà della mente che riguardano il mondo delle emozioni dei sentimenti.

È tipico di questo periodo, la ri-traduzione dei testi dell’antica Grecia, dove la ricerca dei significati dei lemmi all’interno dei vocabolari non avviene più pensando di avere a che fare con storie mitologiche che riguardavano protagonisti leggendari appartenenti ad una religione politeista, bensì con racconti metaforici il cui scopo era di rivolgersi al cuore di ciascuno di noi, ovvero al nostro lato emozionale.
Ma anche la scoperta di nuovi testi antichi che si credevano perduti, portati con sé da intellettuali e uomini

appartenenti alla chiesa ortodossa che parteciparono al concilio di Ferrara Firenze del 1438 1449, il quale riuscì a ricucire temporaneamente lo scisma avvenuto tra la Chiesa occidentale e la Chiesa ortodossa avvenuta nel 1054.

Fatte queste premesse, l’Anima Mundi, secondo il modello dei filosofi neoplatonici che partecipavano alle sessioni di studio che si tenevano presso l’Accademia Neoplatonica di Careggi (FI), andrebbe immaginata come una sorta di contenitore di quegli archetipi che per Platone ed il suo erede Plotino sarebbero a fondamento della creazione sensibile, dove ci sono i prototipi di tutte le anime particolari o individuali e con le quali essa rimane in costante collegamento.

Ma anche gli archetipi di quelle immagini che popolano il mondo interiore dell’uomo e che sarebbero la causa di emozioni e sentimenti primitivi, intensi e profondi, impersonati, all’interno del pantheon degli dei, dalle figure dei Titani.

Ecco che secondo questa chiave di lettura, l’uomo che è proteso verso l’alto non è più l’uomo che con arroganza vuole porsi a livello del creatore (secondo la teogonia orfica infatti l’Uno creatore è ineffabile ed inconoscibile, pertanto il peccato di hybris in questo contesto non è contemplato), bensì è colui che vuole comprendere, per dirla similmente al filosofo neoplatonico Damascio (450 – 532), i principi primi, quelli che gli permettono di comprendere il Tutto, di distinguere la singolarità nella pluralità, di comprendere le leggi che regolano l’animo umano e che quindi influenzano anche la propria.

Marsilio Ficino (1433-1499) ritratto in un affresco del Ghirlandaio che si trova all’interno della chiesa di Santa Maria Novella immagine tratta da: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Marsilio_Ficino_-_Angel_Appearing_to_Zacharias_(detail).jpg

Le torri che scendono verso il basso


Le torri che scendono invece, richiamano in noi il racconto del mito di Orfeo ed Euridice, quando il figlio di Eagro e Calliope si reca nell’Ade alla ricerca della propria amata, morta appena dopo il matrimonio.
Notoriamente l’Ade, similmente al Tartaro, viene liquidato, a nostro avviso in maniera semplicistica, come il regno delle tenebre e della morte.

Come, perché e quando entrambi i termini abbiano smarrito il loro significato originario, non è dato sapere, ma se vogliamo interpretare i racconti mitologici in chiave psicologica, dobbiamo andare prima di tutto in cerca del significato che presumibilmente essi evocavano tra gli antichi.

Usiamo anche in questo caso il verbo evocare perché, i sostantivi, gli aggettivi ed i verbi del greco antico, non erano solamente dei segni, e quindi non seguivano le rigide regole della semiotica moderna, bensì impersonando dei simboli, erano metafore che rimandavano ad altri significati, soprattutto all’ambito dell’anima/psyche.
Pertanto, secondo il vocabolario Liddel-Scott-Jones, Ἀίδης – aides/Ade, è composto dalla particella α – alfa privativa, un elemento che indica la negazione di quanto espresso dal sostantivo successivo, e dal verbo δεν.

δεν – ideìn a sua volta, è l’infinito del verbo εδον – eidon, che significa “vedere”, “scorgere”, “guardare”, “osservare”, “considerare”, ma anche, “percepire”, “provare”, “sentire (emozioni)”, “guardare in direzione di ..” e “vedere mentalmente”.
Pertanto a livello di immagine mentale, l’Ade veniva percepito dagli antichi come uno spazio dove «non-si-vede», dove vi è l’«impossibilità a guardare», in quanto non vi è ancora non è arrivata la Luce, in altre parole, dove secondo la psicoanalisi moderna alberga il materiale inconscio e rimosso.
È da qui che nascono quelle sensazioni fastidiose ed inspiegabili, quel brusio di sottofondo interiore, quelle sensazione di disagio inspiegabili che fintantoché restano sottotraccia ci condizionano, ci inducono in comportamenti solo apparentemente irrazionali ma che in realtà hanno una loro logica ed assumono un loro senso compiuto solo se contestualizzati all’interno delle leggi che guidano la psyché.
Stiamo parlando di un luogo destinato a restare oscuro fino a quando non saremo in grado di rendere conscio il materiale psichico inconscio.
La torre che scende pertanto, incarnerebbe il lavoro di conoscenza di sé, quello che viene fatto quando riflettiamo perché determinate esperienze evocano in noi certi stati d’animo piuttosto che altri oppure, quando ci rivolgiamo ad un esperto per affrontare un percorso personale di tipo psicoanalitico.

Conclusione

Non siamo in grado di immaginare se questi fossero per davvero gli intenti dell’autore, magari solamente in forma inconscia appunto, oppure di colui che le ha commissionate, ma quella che qui abbiamo esposto è la nostra personale sensazione, la trasposizione di quello che queste opere hanno saputo far risuonare dentro di noi.

Riteniamo inoltre che dal punto di osservazione da cui abbiamo effettuato questa indagine, che queste sculture possano altresì definirsi neo-rinascimentali nel senso che ciascuna di esse non è soltanto la concretizzazione di immagini che appartengono al mondo interiore dell’artista, ma che contengono anche riferimenti al mondo della psiche.

Esattamente com’era intesa l’arte del periodo che va all’incirca dal 1450 fino a tutto il 1500.
Perché quando un’opera artistica, rimanda a significati che fanno riferimento al mondo psiche, al mondo delle emozioni e dei sentimenti, essa ci indica la strada verso quella conoscenza che gli antichi chiamavano la γνθι σαυτόν – gnōthi saytón, in altre parole, la conoscenza di sé.


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Enciclopedia Treccani on line
http://www.miti3000.it/mito/index.htm Mitologia e d’intorni
https://books.openedition.org OpenEdition è una piattaforma online di libri per le scienze umane e sociali. Più della metà sono ad accesso libero.
https://www.gutenberg.org/ebooks/
https://www.hellenicgods.org/


Massimo Biecher

Appassionato fin da ragazzo di fisica nucleare, elettronica e computer, entrato nel mondo del lavoro scopre che la sfera emozionale è importante tanto quanto quella razionale.

Ricoprendo all’interno delle aziende ruoli di sempre maggior responsabilità, osserva che per avere successo, oltre ad investire in ricerca e sviluppo ed in strumenti di marketing innovativi, le organizzazioni non possono prescindere dal fatto che le emozioni giochino un ruolo determinante tra i fattori critici di successo.

Grazie ai libri del Prof. Giampiero Quaglino, viene a conoscenza delle più moderne teorie sulla leadership ed in particolare quelle del docente dell’Insead, Manfred Kets de Vries, con cui condivide la visione secondo la quale non esistono modelli di leadership vincenti, ma solo relazioni efficaci tra gli individui.

Nel 2014 la rivista “Nuova Atletica”, organo ufficiale della Federazione Italiana Di Atletica Leggera, gli commissiona una serie di contributi sulla leadership per allenatori professionisti, coerente con le teorie che quotidianamente cerca di mettere in pratica sul lavoro.

Appassionato anche di filosofia, va alla ricerca instancabile di un modello che metta al centro l’individuo e ne rispetti l’unicità ma che al contempo, sia riconducibile a dei principi da cui cui tutto “principia”, convinto che la cultura e la superspecializzazione della scienza e della tecnologia moderna, conduca ad un inevitabile frammentazione dell’Io.

Ritiene di aver trovato ciò che cercava, riscoprendo la filosofia platonica e di Plotino e nella rilettura dei miti greci attraverso le lenti della psicologia archetipica introdotta dallo psicoanalista junghiano James Hillmann assieme ad i contributi dei filosofi E. Casey, L. Corman e dell’antropologo J.P. Vernant.

Pubblica con cadenza mensile sul magazine “karmanews.it” articoli che reinterpretano i miti dell’antica Grecia in chiave psicoanalitica, ritenendoli una metafora dei travagli dell’anima che, mediante l’uso di immagini e di racconti fantastici, si rivolgono direttamente al cuore e quindi all’inconscio.




Quando i miti animano le organizzazioni [parte 1]

di Massimo Biecher

Se invece di analizzare il mondo del lavoro in un’ottica analitica, lo leggiamo simbolicamente attraverso le lenti della psicologia archetipica, esso ci svela lati inediti ed insospettabili.

Introduzione


Negli gli ultimi due anni analizzando i miti dell’antica Grecia ( qui ) abbiamo appreso come essi non siano soltanto i protagonisti di una religione politeista ma che, in accordo con il modello della psicologia archetipica, interpretano i sentimenti e le emozioni che vivono in ciascuno di noi.

Per quanto riguarda le organizzazioni aziendali, c’è chi le chiama imprese, chi aziende, altri società, sono a disposizione innumerevoli libri che le analizzano proponendo soluzioni per renderle più redditizie ed efficienti e che forniscono consigli ai dirigenti su come trasmettere entusiasmo e passione ai loro collaboratori.

Il nostro scopo, invece, è quello di sostituire questa interpretazione con la visione che abbiamo mutuato ed adattato da una frase sovente ripetuta da James Hillmann il quale, citando il poeta inglese John Keats, diceva «Chiamate, vi prego il mondo -la valle del fare anima-  e allora scoprirete a cosa serve il mondo». Noi invece, adattandola a questo contesto preferiamo dire «Chiamate, le organizzazioni -le valli del fare anima- e allora scoprirete a cosa esse realmente servono».

Ma cosa si intende per fare anima ? 

Si tratta di qualcosa di più e di più profondo che porre l’individuo al centro delle aziende, come anche noi abbiamo fatto negli articoli pubblicati otto anni fa sulla rivista edita dal Coni “Nuova Atletica ricerca in Scienze dello Sport”, rivista riservata agli allenatori di atletica leggera (vedere bibliografia), ma adesso, riteniamo che sia arrivato il momento di fare un ulteriore salto di qualità e comprendere che i luoghi di lavoro sono anche spazi dove ognuno, interagendo con l’ombra dell’altro, ombra nel senso junghiano del termine, fa quello che gli antichi greci, chiamavano la «γνθι σαυτόν– gnothi sayton» ovvero, «la conoscenza profonda di sé».

In quest’ottica, il cosiddetto «posto di lavoro», da mezzo di sostentamento, luogo per conseguire il successo personale, ma anche talvolta “covo di vipere”, diventa il posto dove il nostro Ego, ovvero il lato «costruito» che facciamo vedere agli altri e che in primis nasconde a noi stessi la nostra vera ed unica essenza, si scontra con i lati oscuri, i cosiddetti lati ombra dei nostri colleghi e superiori con lo scopo aureo di aiutarci a «fare anima».

D’altro canto proprio Carl Jung, il “nonno” della psicologia archetipica soleva dire: «Non si diventa illuminati perché si immagina qualcosa di chiaro, ma perché si rende cosciente l’oscuro».

Ma per poter rendere visibile questo materiale non ancora elaborato, da noi tanto temuto ma che non necessariamente contiene aspetti malvagi o negativi, dobbiamo prima, in accordo con il modello che abbiamo preso in prestito dalla psicologia archetipica, riconoscere l’ombra sotto forma di miti che pervadono l’organizzazione e poi, identificare gli dei che simbolicamente agiscono dentro di noi, perché “fare anima” vuol dire iniziare a comprendere le imperscrutabili dinamiche che operano all’interno della nostra psiche, anche e soprattutto grazie a coloro con i quali trascorriamo, magari senza provare alcuna particolare simpatia, otto o più ore, al giorno.

Ecco allora che questo universo di anime, tenute assieme da una comune finalità materiale, dove ciascuna di esse porta con sé le proprie fragilità, paure e talvolta nevrosi, può trovare un nuovo ed inedito senso nell’andare a lavorare.

Da questa nuova prospettiva, le relazioni tra leader e follower e tra colleghi di ufficio, sono finalizzate non solo ad attività concrete ma anche in modo, apparentemente subordinato, «a conoscere sé stessi».

In questa maniera per ciascuno di noi, il posto di lavoro assume una nuova valenza, ovvero diventa lo spazio dove facciamo il percorso di individuazione, dove facciamo esperienza delle leggi che governano la psiche, dove riconosciamo i nostri talenti, o meglio, dato che quest’ultima affermazione è un po’ troppo inflazionata, è lì dove si scoprono i miti, nel nostro caso, gli dei dell’antica Grecia, che incarnano i nostri desideri, le nostre ambizioni ed aspirazioni.

Se coloro che ci leggono per la prima volta trovassero il nostro lessico inconsueto, li invitiamo a consultare alcuni articoli, specialmente i primi, che abbiamo dedicato alla rilettura dei miti dell’antica Grecia rivisti sotto le lenti della psicologia archetipica già pubblicati qui.

Prima di scoprire quali sono i veri miti che agiscono dentro di noi, cominciamo ad esaminare alcuni falsi miti che permeano inconsciamente le organizzazioni. 

Il mito dell’organizzazione


Il primo mito da sfatare è quello di ritenere che esista una sorta di creatura che trova il suo senso solo nel produrre o trasformare un bene od un servizio in qualcos’altro, mentre secondo la visione che stiamo proponendo, essa trova il senso più autentico, quando essa, per dirla alla Hillman «fa da teatro ai miti che la posseggono».

Solitamente ci si sforza di dare un senso all’esistenza di una impresa tramite la cosiddetta «mission aziendale» (se si usasse il temine missione si correrebbe il rischio di svelare un non detto, ovvero che si pretende dai collaboratori la medesima cieca ed incondizionata obbedienza che vige nelle congregazioni ecclesiali), ma che guarda caso, “freudianamente” viene appeso all’ingresso delle mense o dei bagni di alcune aziende quasi a voler sottintendere che essa è destinata a restare nel “Tartaro”, ovvero nei luoghi oscuri, profondi e quindi inconsci, dell’ ”Anima collettiva aziendale”.

La missione aziendale diventa così quella che lo psicoanalista britannico Donald Winnicot, speriamo che bonariamente ci perdoni per aver trasportato il suo termine al di fuori degli ambiti tradizionali, chiamerebbe “il falso sé dell’organizzazione”, che in questo specifico caso, si identificherebbe con il tentativo di rimuovere lo scopo che non viene esplicitato, ovvero: «Noi esistiamo per fare soldi». 

Non contestiamo questo assunto che anzi, riteniamo legittimo, ma il non ammetterlo, lo relega nell’inconscio dell’”anima dell’impresa” e lo trasforma in quel non detto, il cui silenzio col tempo diventerà così assordante, da oscurare quella che con un superfluo anglesismo, verrà chiamata “mission”.

L’azienda, invece, è molto di più, ed infatti, parafrasando e ricontestualizzando James Hillman «essa non è tanto una risultante di forze e pressioni, quanto piuttosto l’attuazione di scenari mitici» dei quali purtroppo viene fraintesa e talvolta mistificata, la sua essenza più intima.

Quando sentiamo dire «Il capo non riconosce le mie idee», oppure «il capo non vale nulla e se Io fossi al suo posto farei meglio di lui..» oppure, quando si sente ripetere il refrain «se l’azienda non va come dovrebbe è tutta colpa di Tizio», quest’ultimo, precisiamo, è il classico esempio del capro espiatorio, significa che, da un punto di vista archetipico, stanno agendo inconsciamente tre scenari mitici e quindi inconsci.

Nel primo caso è il dio Chronos ad entrare in azione o meglio, l’istanza psichica da lui simbolizzata, che sebbene affermasse pubblicamente «Io non sarò mai come mio padre Urano», similmente al genitore rinnega la sua progenie, o meglio ancora, fuor di metafora, usa le idee dei collaboratori senza riconoscerne pubblicamente il contributo.

Il secondo rappresenta il dio  Φαέθων – Phaeton che per invidia o per senso di inferiorità nei confronti dell’amico πφος– Epafos, il figlio di Zeus, prende le redini del carro del padre Apollo per dimostrare il proprio valore ed invece combina un vero e proprio disastro.

Ed in fine nel terzo caso, il Tizio del terzo esempio incarna la Chimera (dal greco χίμαιρα – chimaira , capra) il mostro che simbolizzando le contraddizioni, le incapacità a far fronte alle difficoltà che coesistono all’interno del luogo di lavoro, va invece sacrificato, fuor di metafora isolato, per placare i sensi di colpa causati dall’incapacità di misurarsi in maniera creativa, con quelli che sono i veri problemi che attanagliano l’azienda.

l mito della tecnica e della ragione


Un altro mito che pervade le aziende è di ritenere che per poter superare le crisi e le difficoltà, per essere vincenti sul mercato e primeggiare sui concorrenti, bisogna operare sempre in modo logico e razionale, investire in strumenti che permettono di migliorare sia l’efficienza produttiva che l’organizzazione del lavoro.

In realtà anch’esso è figlio della repressione e della negazione dell’ansia causata dall’angoscia di perdere il posto del lavoro, che è lo strumento per procacciarsi il sostentamento (gli utili nel caso degli azionisti) e che nel nome della fiducia incrollabile nei confronti della Ragione, finisce per deprimere, umiliare e ledere gli aspetti a nostro avviso più autentici e preziosi degli individui, ovvero le loro emozioni, i loro sentimenti e la loro dignità.

Il mito del controllo 


Un altro mito, o come la definisce la psicoanalisi prevalente, la formazione reattiva, causata dalla paura negata e/o repressa che l’azienda possa fallire, consiste nel controllo.

Ogni azienda, ogni istituzione o associazione ha la doverosa necessità di istituire dei sistemi di controllo finalizzati alla verifica che non vi siano dispersioni, furti, sprechi di denaro o di tempo.

Talvolta, questo processo, da mezzo finalizzato ad una corretta ed oculata gestione ad ogni livello e funzione, sfugge di mano e diventa il fine. Quando ciò avviene, il sintomo rappresentato da questo mito, si manifesta tramite colei o colui che mette in atto questi controlli, il quale (ovviamente ciò non è sempre vero), più che temere di perdere il controllo sulla struttura, è preoccupato di perdere il controllo di sé.

Ma quand’è che si teme di perdere il controllo di sé stessi? 

Si perde il controllo di sé tendenzialmente quando si teme di non avere abbastanza fiducia nelle proprie qualità e nel proprio valore.

Ma direte, com’è possibile che manger laureati nelle università più prestigiose, che hanno frequentato Master presso le scuole di formazione più rinomate e che esteriormente appaiono dotati di sicurezze granitiche, dovrebbero avere poca fiducia in sé stessi?

Perché sono esseri umani. (e a questo punto si potrebbe parlare, ma questa volta non ci asterremo, del falso mito secondo cui il conseguimento di un titolo di studio comporti anche un’espansione della consapevolezza di sé e quindi, al progressivo raggiungimento dell’equilibrio interiore).

A tal proposito, il professore di Harvard ed dell’Insead, Manfred Kets de Vries, ha pubblicato diversi libri, alcuni dei quali li trovate in bibliografia, che smascherano il mito del dirigente freddo, infallibile e risoluto.

Il problema è che queste paure ed insicurezze, si riverberano sia sui familiari, ma questo attiene alla loro sfera privata, che sulle aziende, portano a definire sistemi di pianificazione e monitoraggio che, nei casi più esasperati, portano a distrarre le risorse umane (e non) che gli sono state affidate da quelle che sono le vere priorità del business, ma soprattutto pregiudicando la tanto agognata efficienza.

Pertanto, quella che dovrebbe essere la medicina il cui compito dovrebbe essere quello di prevenire il male, finisce per diventare il veleno che distrugge, paralizza e soffoca le aziende.

Ma c’è un altro effetto collaterale, questa volta un sottinteso, che riguarda i collaboratori e che consiste nel trasmettere loro il messaggio del, «Io non mi fido di te».

Ciascuno di noi avrà probabilmente, almeno una volta nella vita sperimentato quanto distruttiva possa essersi rivelata, soprattutto durante la fase di crescita e sviluppo, la sfiducia da parte di una figura di riferimento, genitore o insegnante che sia e riuscirà pertanto ad immaginare facilmente gli effetti che la sfiducia ha sulla motivazione.

Il mito del cambiamento e della crisi come opportunità di crescita


Un altro mito che pervade le aziende é quello che riguarda non tanto un aspetto della filosofia Zen rappresentato dal miglioramento continuo, ma quello che riguarda la sua ombra, in senso junghiano ovviamente, del mito del cambiamento.

Soprattutto in questi tempi di crisi, leggiamo e ci sentiamo dire che «la crisi è un’opportunità» ed anzi, per poterle prevenire, saremmo costretti a cambiare continuamente.

A dire il vero, questa filosofia viene efficacemente già applicata nei settori creativi come quello della moda, dello spettacolo e dell’arte, ma riversarla tout court a tutti gli altri settori senza prima un’adeguata verifica se il cambiamento comporta un miglioramento o meno, può anche essere pericoloso.

Questo mito, purtroppo, nasconde anche un’insidia che finisce per popolare l’inconscio collettivo dell’organizzazione e che consiste nel concetto non verbalizzato e quindi sottaciuto, che «se tu non cambi, sei fuori».

Ora, al di là degli inevitabili timori riguardanti il proprio destino economico, che però esulano dal nostro contesto, ciò che si rivela letale per la stabilità emozionale e psichica dei collaboratori è che si sta dicendo a livello subliminale: «tu così come sei non mi piaci» evocando quindi sempre a livello inconscio immagini legate all’infanzia, quando eravamo costretti a modificare il nostro comportamento per essere accettati dai nostri genitori.

Quest’ultimo non detto, a nostro avviso è ben più destabilizzante della sottintesa mancanza di fiducia fatta risuonare dall’eccesso di controllo, perché qui il vero tema, non è «cosa posso modificare affinché l’azienda per cui lavoro resti competitiva» ma risuona fino al piano più intimo e primordiale che c’è in noi.

Ovvero, “Cambiare per non perdere l’amore dei nostri genitori”.

Continueremo la nostra analisi nella prossima uscita.


Bibliografia

  • Daniel Goleman (1996): “Intelligenza emotiva” – Rizzoli editore
  • Daniel Goleman (1998): “Lavorare con intelligenza emotiva” – Rizzoli editore
  • Gian Piero Quaglino: Leadership (2005) ed. Cortina.
  • Gian Piero Quaglino: Psicodinamica della vita organizzativa (1996) ed. Cortina
  • James  Hillman – Articolo di presentazione della Psicologia Archetipica sul sito Treccani:
  • James Hillman – Re-visione della psicologia Edizione Adelphi 1983
  • James Hillman – Il codice dell’anima Adelphi 1996
  • Jean Sinoda Bolen : Gli dei dentro la donna (1993) Casa editrice Astrolabio
  • Jean Sinoda Bolen. Gli dei dentro l’uomo. Casa editrice Astrolabio. 1995
  • Jean-Pierre Vernant – Mito e religione in Grecia antica 2009
  • Manfred Kets de Vries – Danny Miller (1992)  “L’organizzazione nevrotica: una diagnosi in profondità dei disturbi e delle patologie del comportamento organizzativo” Raffaello Cortina”
  • Manfred Kets de Vries – Leader, giullari e impostori (1996) – Raffaello Cortina editore
  • Manfred Kets de Vries  – Successi e fallimento della Leadership – Ferrari e Sinibaldi 2017
  • Massimo Biecher : Evoluzione del concetto di leadership nel mondo delle aziende italiane e statunitensi – Cosa rende un leader una persona di valore che ha impatto sulle persone? – Nuova Atletica ricerca in Scienze dello Sport – ANNO XLII – N. 244-245 ripubblicato sul sito academia.edu
  • Massimo Biecher : L’altra faccia della leadership. Saper guidare le persone verso gli obiettivi  Nuova Atletica ricerca in Scienze dello Sport – ANNO XLII – N. 246 ripubblicato sul sito academia.edu
  • Massimo Biecher : La responsabilità degli obiettivi – Nuova Atletica ricerca in Scienze dello Sport- ANNO XLII – N. 247-248 ripubblicato sul sito academia.edu
  • Massimo Biecher : Emozioni e Leadership Nuova Atletica ricerca in Scienze dello Sport  – Nuova Atletica ricerca in Scienze dello Sport – ANNO XLII – N. 249 – ripubblicato sul sito academia.edu

Massimo Biecher

Ha lavorato per medie e grandi aziende, anche quotate alla borsa di Milano, sia del settore costruzioni civili che del settore beverage, organizzando e gestendo canali e reti di vendita in Italia e all’estero. Attento osservatore delle dinamiche relazionali, trova nella psicodinamica organizzativa ed in particolare nelle pubblicazioni del prof. Gian Piero Quaglino e dello psicanalista e docente di Harvard e dell’INSEAD, Manfred Kets de Vries, un modello nel quale l’individuo viene posto al centro del mondo del lavoro.Questa visione fa si che il focus si sposta dalle organizzazioni alle relazioni interpersonali, analizzate mediante gli strumenti forniti dalla psicoanalisi di stampo junghiano.Combinando questi studi con la pratica operativa, su una rivista edita sotto l’egida del Fidal-CONI e di un comitato tecnico scientifico intitolata “Nuova Atletica: ricerca in scienze dello sport”, ha pubblicato diversi articoli che si proponevano di illustrare questa visione agli allenatori di atletica leggera chiamati non solo ad ottenere risultati ma soprattutto a formare e trasmettere valori positivi ai giovani atleti. Successivamente, spinto dalla necessità di ricercare una prospettiva che ponesse al centro il mondo delle emozioni e degli impatti che esse hanno sul mondo del lavoro, è approdato agli studi dello psicoanalista americano James Hillman, il quale, partendo dalla riscoperta del mondo classico che è avvenuta durante il rinascimento italiano per merito di alcuni intellettuali come Marsilio Ficino, Nicolò Cusano, Giambattista Vico e molti altri, ha scorto nel modello che, nei simboli e nelle immagini contenute nei racconti della mitologia greca, intravvede la strada che conduce alla conoscenza di sé ed alle leggi che regolano i rapporti tra le persone.Dal 2020 pubblica mensilmente su un web magazine articoli che, rileggendo attraverso le lenti della psicologia archetipica i miti dell’antica Grecia, mirano a far tornare in vita immagini, emozioni e sentimenti che essi evocavano negli antichi.Ha partecipato con dei contributi personali alla pubblicazione di due libri, ed uno, di cui è il solo l’autore, uscirà a breve.




Il Leone di San Marco

Nel quarto superiore del simbolo della Marina Militare compare il Leone di San Marco, secolare simbolo della città di Venezia e della sua antica Repubblica.
Detto anche “Leone Marciano” o “Leone Alato”, è la rappresentazione simbolica dell’evangelista san Marco, raffigurato in forma di leone alato.
Altri elementi osservabili sono l’aureola, il libro e una spada tra le zampe in varie combinazioni

La simbologia del Leone di San Marco deriva dalla leggenda secondo la quale un angelo sotto forma di leone alato si presentò al Santo, naufragato in laguna, proferendo le parole: «Pax tibi Marce, evangelista meus. Hic requiescet corpus tuum» (Pace a te, Marco, mio evangelista. Qui riposerà il tuo corpo) preannunciandogli che in quel luogo, un giorno, il suo corpo avrebbe trovato riposo e venerazione. Il libro, associato al Vangelo, ripropone spesso le parole del leone: «PAX TIBI MARCE EVANGELISTA MEVS».

Numerose le interpretazioni simboliche riguardo alla combinazione tra spada e libro:

il solo libro aperto è ritenuto simbolo della sovranità dello Stato;

il solo libro chiuso è invece ritenuto simbolo della sovranità delegata alle pubbliche magistrature;

il libro aperto e la spada non visibile a terra è ritenuto simbolo della condizione di pace;

il libro aperto con la spada impugnata sarebbe invece simbolo della pubblica giustizia.

il libro chiuso con spada impugnata, è infine ritenuto simbolo di stato di guerra;

Altri elementi significativi, infine, il leone poggia le zampe anteriori sulla terra e quelle posteriori sull’acqua: particolare riferimento al saldo potere di Venezia sulla terra e sul mare.

Cieli sereni
🇮🇹
PG




Tre lettere e un numero.


di Christian Lezzi_

Il tanto acclamato e continuamente citato Albert Einstein, pare abbia detto, un giorno

“Se hai una risposta semplice, a una domanda semplice, allora tutto funziona alla perfezione”

Aggiungendo

Se non lo sai spiegare in maniera semplice, non lo hai capito abbastanza bene”.

Grossolane e superficiali nullaggini!

Una premessa doverosa: non è in discussione la statura intellettuale dello scienziato, le cui epocali scoperte influenzano ancora oggi l’andamento del mondo scientifico e la vita di tutti noi, bensì la superficialità di certe sue (presunte) affermazioni, oltre che la deleteria inutilità di questa pretesa semplificazione linguistica a ogni costo.

È altrettanto evidente che, ogni citazione, eradicata dal suo contesto naturale, è di semplice strumentalizzazione e altrettanto facile da snaturare. Per questo, in discussione vi è il concetto della semplificazione, non le citazioni a se stanti, usate solo come incipit al più ampio discorso.

In questo specifico, discutiamo la presunta necessità di semplificare concetti che semplici non sono, rendendo immediati anche questioni che meritano un più ampio respiro, una riflessione approfondita, un tempo di decantazione, per essere elaborati, compresi e interpretati nella loro essenza più vera.

E qui sorge spontanea la domanda: semplificarli, per spiegarli a chi?

A qualcuno che, estraneo alla materia, non solo ben poco capirebbe della questione espressa, ma addirittura trarrebbe una deduzione semplicistica, limitata anche dalle parole semplificate e dal conseguentemente limitato pensiero, fino a rendere vuoto e inconcludente il ragionamento derivato?

Perché l’atto di semplificare il linguaggio e i concetti correlati, a ogni costo e a ogni prezzo, non solo è privo di qualsivoglia beneficio reale, ma rischia di rendere banali anche le riflessioni più importanti, trascinandole nel gorgo della superficiale velocità, di quella spasmodica voracità con cui pretendiamo di elaborare la realtà e i suoi fatti.

Parliamo di riflessioni importanti, quindi, che proprio per questa particolare natura, non possono e non devono essere prese “sotto gamba” e banalizzate, necessitando di un linguaggio complesso e articolato, fatto di termini specifici, stimolanti, di un costrutto che imponga l’attenzione viva e l’approfondimento, generando un pensiero critico davvero pensato, frutto di un percorso cognitivo che non si fermi all’uscio del dettaglio, ma che si spinga oltre, fino all’origine delle cose, percorrendo il periplo dei cerchi concentrici che dal particolare si diramano e all’universale giungono. 

E viceversa.

A cosa e a chi giova, spiegare la fisica quantistica o la filosofia, con un linguaggio adatto a un bambino di otto anni? A nessuno, forse nemmeno all’ottènne bambino in questione.

Probabilmente soddisferebbe la curiosità di un momento, rendendo ingannevolmente “potabili” quei concetti altrimenti proibitivi, banalizzando la complessità del tutto, con un discorso dozzinale che, comunque, non sarà compreso e che, inevitabilmente, lascerà il posto all’illusione di un banale nozionismo, ingannevolmente vestito d’illusoria conoscenza.

Perché le riflessioni, quelle profonde e complesse, si argomentano con concetti altrettanto profondi ed egualmente complessi e con parole dotte, non per autocelebrazione, bensì allo scopo di favorire una riflessione che sia davvero approfondita.

Perché la nostra psiche non elabori quelle informazioni in modo veloce e inconcludente, producendo inutili discussioni da bar, in cui tutto resta sulla superficie delle cose, banalizzato e svilito da un linguaggio a prova d’analfabeta funzionale che, alla fine, di bagattella in insulsaggine, nulla dice in concreto.

Ciò non significa che certi argomenti debbano restare solo tra addetti ai lavori. Lungi da noi anche il solo pensarlo. Occorre piuttosto trovare una corretta via di mezzo che motivi, chi non è avvezzo a certi ragionamenti, all’evoluzione linguistica e di pensiero, vincendo così la tentazione frettolosa e pretenziosa di una immediata comprensione, giungendovi per gradi crescenti di preparazione.

In fin dei conti parliamo della lingua che ci appartiene, che tutti i giorni usiamo, facendolo dalla notte dei tempi della nostra vita. È nostro dovere impararla al meglio delle nostre possibilità. Basterebbe dedicarsi alle giuste letture, ai profondi ragionamenti, ai giusti strumenti che non ci impongano sempre le scorciatoie e i riassunti, per far nostra anche la parte meno ordinaria di un linguaggio che, opportunamente elaborato, contribuisce alla formulazione di un pensiero superiore.

È a furia di inculcarci (e farci inculcare) una presunta necessità di rendere tutto semplice, veloce, immediato, perché vittime della fretta e degli impegni, che abbiamo perso l’abitudine di leggere e di pensare, di riflettere e comprendere, di osservare la realtà da diversi punti di vista, per non saltare inevitabilmente a sdrucciolevoli conclusioni e a superficiali, quanto fallimentari, deduzioni.

È questa l’evoluzione da auspicare, ovvero la voglia e il bisogno di migliorare, implementando il bagaglio di parole e la capacità stessa di produrre pensieri, ragionamenti e riflessioni profonde. Quelle riflessioni che, fondate sul linguaggio non banalizzato, pretendano e impongano il tempo necessario alla vera comprensione, restituendo al pensiero la dignità che merita.

Occorre allenamento, applicazione, fatica, per imparare parole nuove e concetti profondi, per rendere elastica la mente e per imparare a pensare oltre l’apparenza, arrivando al nucleo d’ogni cosa. Perché anche la forma è parte integrante della sostanza, imprescindibile per il rispetto di una complessità funzionale allo scopo che, al contempo, si erga scevra dal barocchismo decorativo senza destinazione d’uso.

E occorre curiosità, per acquisire un pensiero asimmetrico, non standardizzato, fuori dagli stereotipi e dagli schemi dominanti, che doni originalità e identità ai nostri ragionamenti.

Ci sono concetti che possono essere semplificati, perché in origine non necessitavano di complessità e altri che non devono assolutamente essere resi semplici, ancor meno banali, pena un pensiero di risulta, vuoto e inutile, che a nessuno gioverebbe.

È possibile, anzi doveroso, semplificare una comunicazione di servizio, una disposizione, persino una procedura. Ma ciò che deve generare una riflessione profonda, deve restare profondo, per dar vita all’impegno necessario a produrre un pensiero degno di questo nome.

Non possiamo essere tutti filosofi, astrofisici, medici o ingegneri. A ognuno il suo codice professionale, la sua gergalità, i propri termini tecnici che, semplificati al massimo, perderebbero natura, efficacia e potenza. Perché ci sono concetti che, per essere portati al giusto approfondimento, necessitano di una complessità stimolante e sfidante, capace di risvegliare l’intelletto sopito. 

Diversamente, produrremmo solo un’infarinatura inutile, a presunto beneficio di chi, incapace della giusta attenzione e del necessario approfondimento, non riuscirebbe a comprendere il significato di E = mc2, nemmeno se la spiegazione fosse illustrata a fumetti da un bambino di otto anni.

Eppure sono solo tre lettere e un numero. Più semplice di così?


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.

Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




Di Anime e d’isole.

[Itaca: da Omero a Guccini].

2020 © Silvia Berton

di Cristiana Caserta_

Odisseo dorme.

Disteso sul fondo di una nave.

Per una volta, nell’Odissea, non è lui a governare la nave. 

Dorme un sonno strano, mentre la nave, velocissima, solca l’Oceano e raggiunge un’isola. 

Il lettore ha aspettato tanto questo momento. Di quest’isola si è parlato molto, molte lacrime sono state versate, molta nostalgia spesa; molte volte è sembrata vicina, a portata di mano – anzi, di prua – e altrettante volte si è persa la rotta, e la sua sagoma si è fatta piccola, fino a scomparire…

È Itaca.

che paese? che terra? che uomini vivono qui? è un’isola tutta visibile, oppure è una punta, protesa nel mare, del continente dalle vaste campagne?

Si è appena svegliato e – forse per questo! –  vuole conoscere le coordinate geografiche di un luogo che ancora non riconosce come la sua terra natale. 

Parla con Atena, la sua dea protettrice, e questa risponde: “non è sconosciuta, né straordinaria, è aspra, inadatta ai cavalli, non troppo magra, né troppo vasta

Non è un’isola mitica, un paradiso terrestre: latte e miele non scorrono nei suoi fiumi e non produce frutti spontaneamente: è un’isola reale.

Più che reale: pietrosa. Lo dice Foscolo e lo dice Guccini:e se guardavo l’isola petrosa// ulivi e armenti sopra a ogni collina// c’era il mio cuore al sommo d’ogni cosa// c’era l’anima mia che è contadina”. 

L’anima appartiene a posti che non hanno bisogno di alcuna bellezza sovrabbondante. Questo ci dicono i poeti. E noi apparteniamo a questi posti. Né brutti né belli. Nostri. 

Quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui”: lo dice quell’inquietante Machiavelli, a suo agio nel peggio come nel meglio della politica. Ma la sua casa sono i libri, gli antichi uomini che gli parlano. Lui domanda e loro rispondono.

Uomini che girano il mondo, conoscono cose, imbrogliano, amano, uccidono, mentono, vincono e perdono. E un filo li tiene legati ad un’origine, un focolare, una donna che li aspetta, paziente. La cui immagine deve consolarli mentre vincono e perdono. Mentre vivono. 

Forse nei mattini d’estate, fra empori fenici e città egizie, le narici inebriate da penetranti profumi, come immagina Kavafis.

Itaca è un mito maschile. È un piacere del ritornare che può provare solo chi può andare via. 

Le donne non hanno Itaca. Sono Itaca. La loro pazienza è premiata dal ritorno dei loro eroi, un po’ ammaccati dagli anni: bisogna prendersene cura e aver conservato qualcosa per loro. Un po’ di bellezza, un po’ di dolcezza.

Fin qui, i miti.

Ma ogni mito contiene altri miti, nascosti, potenziali. 

Ci sono miti che i poeti non hanno voluto raccontare. Penelope, per esempio, ad un perfetto sconosciuto – è Odisseo! ma lei non lo sa – racconta uno strano sogno: nella sua casa, a Itaca, ha venti oche che beccano il grano e lei è felice, gioisce guardandole; quando improvvisamente, dal monte, una grande aquila dal becco adunco piomba sulle oche e le uccide. Penelope, allora, piange alla vista delle oche morte, ammucchiate, e si dispera, tanto da dover essere consolata dalle altre donne. 

Finché non le spiegano il significato del sogno: l’aquila è il marito e verrà ad uccidere i suoi rivali-oche. 

Dove il piacere segreto di avere venti oche nella propria aia (invece di un marito-aquila) deve essere confinato nel regno effimero dell’onirico per avere cittadinanza poetica! E però candidamente raccontato ad un altro uomo, che stranamente la attrae (attrazione lecita! essendo costui proprio il marito, perduto e ritrovato). 

Miti indicibili, di cose che accadono nelle notti mediterranee della petrosa Itaca!

Odisseo naturalmente non ha bisogno di sognare. Circe, Calipso, Nausicaa…

Ogni isola è anche una donna, ogni donna è un’attrattiva diversa.  

Solo Dante immagina che il filo si spezzi: Ulisse non vuole tornare. C’è da navigare ancora, c’è da sconfiggere quel vivere bruto che zavorra ogni nostro desiderio; ci sono altri mari da percorrere, altri orizzonti, altri cieli.

Itaca può aspettare. Altre isole ci attendono. 

È la vertigine di un altro sé possibile: un sé totalmente libero.

Infatti, se ne ricorda Primo Levi in quello straordinario capitolo di Se questo è un uomo, quando cerca di spiegare a un giovane compagno di corveé – durante un breve squarcio di relativa libertà dalla sofferenza del lager – il significato di quel verso meraviglioso: 

ma misi me per l’alto mare aperto

Sappiamo come va a finire, il volo folle sopra ogni sentimento ‘dovuto’: con quel mare “sovra noi richiuso”.  


Cristiana Caserta_

LinkedIn Top Voice 2020; 

Scrivo, studio, insegno materie con le tecnologie, sono pratica di formazione, giornalista free lance, multipotenziale.




Un inverno senza fine.

di REDAZIONE FUORI

L’arrivo in Europa della variante sudafricana, indicata con il nome di Omicron, alimenta di nuovo il timore di un “inverno pandemico” senza fine, una visione tragica da film apocalittico.

Al di là di una visione pessimistica della situazione, il timore di una previsione basata su fatti e dati concreti potrebbe essere giustificata almeno riguardo la speranza di una rapida uscita da questa crisi sanitaria (ed economica, e sociale).

Stiamo entrando nel terzo anno di pandemia, e comincia a farsi strada il pensiero di una convivenza con il virus.

La domanda rischia di diventare lecita, forse anche doverosa: “e se non dovesse mai finire? se dovessimo convivere per gli anni a venire con un “inverno” senza fine “?

È una domanda che è utile farsi, perché intanto è necessario attrezzarci con modelli di pensiero che contemplino l’ipotesi peggiore, quella di un’emergenza sanitaria globale che, attraversata una soglia critica, diventa cronica. 

“Stiamo attraversando un periodo temporaneo di sofferenza” ci siamo detti, ” ma non dobbiamo essere pessimisti perché nessuna notte è infinita”.

Bisogna avere la forza di superare il momento di difficoltà, rinchiuderci, pregare il dio che avevamo dimenticato, e aspettare la luce del giorno.

“Torneremo ad abbracciarci tutti”, si diceva dai balconi, tra un canto e l’altro.

Grazie al sostegno di questo archetipo della speranza umana, e dell’umana saggezza, abbiamo retto anche in parte sorretti dalla novità, al primo spaventoso lockdown, poi alla seconda ondata, poi alla terza. 

L’arrivo del vaccino, al netto dei no-vax, annunciava la luce del giorno tanto attesa.

Oggi, ad inizio dicembre 2021, con la quarta ondata che già sommerge buona parte dell’Europa, forse è necessario smettere di contarle. 

Forse è più utile attrezzarci per un lungo viaggio, un viaggio attraverso una stagione che non conosca più l’alternarsi d’inverno e primavera ma soltanto un autunno perenne.

Un viaggio con destinazione sconosciuta.

Farneticazioni apocalittiche in stile hollywoodiano ? 


Se avessimo il coraggio di tenere lo sguardo fisso sull’abisso, potremmo accorgerci che ci siamo già abituati ad un’emergenza permanente, quella ambientale. 

Da decenni viviamo tutti in un mondo le cui condizioni climatiche vanno peggiorando in maniera progressiva, costante e probabilmente incontrovertibile.

Senza rendercene conto, ci stiamo rassegnando, e adattando, a eventi metereologici estremi, estati torride, inverni cataclismatici, devastazioni.

Ci stiamo rassegnando alle crisi migratorie, con le stragi in mare, che non sono più una notizia da prima pagina.

Siamo forse in grado di reagire a questi avvenimenti che occupano ormai la nostra quotidianità? 

Politicamente sappiamo che non ne siamo capaci. 

Il “mezzo successo” della COP26 di Glasgow non è forse un fallimento?

Riconoscere i nostri insuccessi, come comunità, è un passo doveroso e necessario. Prendere coscienza che il modello basato sui cicli di “morte e rinascita” dell’alternarsi delle stagioni applicato alla modello di società nella quale viviamo, comporta il riconoscimento della inadeguatezza della politica convenzionale come soluzione per risolvere i problemi di una comunità che ormai va considerata come una e sola, a prescindere dalla latitudine e longitudine di dove si vive.

La pandemia, e il cambiamento climatico sono scorie tossiche della globalizzazione.

La politica, con le sue cerimonie inamidate ancora basate su procedure del secolo scorso, non sembra in grado di saperle affrontare.

Se l’emergenza sanitaria diventerà cronica, così come ormai sono quella migratoria ed ambientale, si rischia di assistere, come già sta avvenendo in fondo, a forme di potere politico che si basano sulla sospensione o addirittura cancellazione delle consuetudini democratiche.

Le leadership populiste, i partiti che si rifanno al sovranismo, troveranno terreno fertile e sapranno raccogliere consensi dalle persone ormai sfinite da una condizione di continua emergenza sociale e privata.

Prendiamo coscienza che un’epoca è finita, che un’altra è cominciata, e prepariamoci ad affrontarla con uno spirito di adattamento a livello globale, e non con la rassegnazione di miliardi di singoli individui malinconici, rabbiosi e in fondo, disperatamente soli.

Redazione Fuori.




Brebbus.

Foto di Raffaele Montepaone_ Life_ Tutti i diritti riservati_
E’ vietato riprodurre l’immagine senza autorizzazione scritta dell’autore.

di Maria Patrizia Soru_

Adagiato al centro della piana di Uras, al limite nord-orientale del Campidano (in provincia di Oristano), coperto da lussureggianti lecci e macchia mediterranea, Monte Arci svela la sua origine e  storia senza tempo, è un vulcano dormiente.  Trebina LongaTrebina Lada e Corongiu de Sizoa sono le tre vette che richiamano all’immagine di un treppiede, sono ciò che rimane dei tre condotti vulcanici che hanno dato origine al monte ed al suo inestimabile tesoro, l’Ossidiana.

Considerata “l’oro nero della Sardegna”, l’Ossidiana è una “pietra vitrea” rara, di origine vulcanica, la sua formazione è dovuta al rapido raffreddamento della lava a seguito di un’eruzione. Il suo colore è  nero ed in sardo è chiamata “sa pedra crobina” letteralmente “la roccia nera come il corvo”, anche se il suo colore non è sempre uniforme ma cangiante. Se colpita dai raggi del sole è possibile vederne la vitrea trasparenza e talvolta animarsi di diversi colori, dal nero al grigio, dal caldo rosso al marrone o al verde, fino candido bianco.

E’ un viaggio lungo milioni di anni quello dell’Ossidiana, un viaggio che dal centro della terra la porta fino a noi, tra le nostre mani.

Seguendo le sue vie in senso letterale, è possibile ripercorrere la storia del popolo sardo e delle sue tradizioni. Ad onor del vero altre regioni nel Mediterraneo conservano questo tesoro, Lipari, Pantelleria e Palmarola, anche se è certo che i più ricchi siti di estrazione sono quelli del Monte Arci in Sardegna. Sono e forse lo sono sempre stati in quanto i  primi indizi sullo sfruttamento sistematico della risorsa ad opera dei così detti ‘scheggiatori’ specialisti che la preferirono alla Selce, risalgono al Neolitico recente (II metà del V millennio a.C.), epoca in cui si sviluppò la grande officina di Conca ‘e Cannas e l’Ossidiana divenne il cardine degli intrecci commerciali nel bacino del Mediterraneo.

“Pietra di fuoco” anche questo nome le appartiene, richiamo alla calda e rossa lava che una volta spenta e modellata dall’uomo cerca ancora il “ rosso calore”, quello del sangue. Quel sangue che probabilmente intrise le mani di colui che per primo scoprì che la “pietra nera”  era facile da scheggiare e modellare in oggetti acuminati indispensabili per la vita ma indissolubilmente legati alla morte. Dagli utensili d’uso quotidiano, quali lame e raschiatoi probabilmente per la lavorazione delle pellialle armi da getto: le punte di freccia. Strumento indispensabile per la vita è una punta di freccia in ossidiana issata in cima ad un sottile bastone tra le mani di un cacciatore in cerca di una preda per sfamarsi, per sfamare. La stessa punta di freccia assume un altro significato tra le mani di un guerriero in cerca del “nemico”, pronto a difendere o difendersi seminando morte e dolore all’interno del genere umano.

Una pietra così affascinante ed importante per la sopravvivenza, ha assunto presto un valore ed un significato speciale a tutela della persona e come ornamento, un uso intimo e personale, l’amuleto.

Gli oggetti destinati ad uso personale, sono strettamente legati all’ambito tradizionale che negli anni li ha replicati sostanzialmente immutati, tanto da risultare difficoltoso distinguere visivamente gli esemplari antichi da quelli recenti.
“L’amuleto” vero e proprio non è prezioso nei materiali e non è mai di grandi dimensioni. Il materiale usato per le montature è sempre l’argento in lamina, talvolta dentellata, o lavorato a filigrana. Le catenelle che uniscono i diversi elementi che li compongono sono costituite da perline di varia forma e differenti materiali, legate tra loro con maglie anch’esse d’argento; la tecnica di lavorazione è solitamente piuttosto elementare. Assai rilevante è però il significato magico-religioso che gli amuleti hanno assunto nella loro lunghissima storia. In Sardegna non si è sviluppata una “magia colta” come quella persiana, giudaica o egiziana, profondamente legata allo studio dei problemi dello spirito e del movimento degli astri a cui si connetteva non solo il conteggio del tempo ma ogni evento naturale.

Gli amuleti ebbero vasta diffusione. Sono questi gli oggetti concreti che la magia semplice, popolare, impiega come strumenti di difesa, con efficacia specifica o generale, contro qualsiasi sofferenza che derivi da cause sconosciute, pertanto ritenute soprannaturali. “Per la loro forma o per la struttura della loro materia, arricchiti talvolta da formule magiche, incorporano la potenza che attiene al soggetto divino di cui sono riconosciuti simbolo e la esercitano in favore di chi li tiene vicini portandoli sulla persona, appesi a capo del letto o della culla, posti sotto il cuscino o fissati alle vesti.” Dovrebbero assicurare benessere, abbondanza e fortuna, tenere lontani i pericoli e preservare dalle malattie e dai malefici.
Gli amuleti formati da più oggetti magici, collegati da una catena o saldati direttamente tra loro, ottengono un effetto maggiore: ogni singolo elemento infatti è dotato di una propria forza che si somma a quella degli altri per concorrere, nel modo più efficace, a tutelare chi li possiede contro i diversi malefici. L’uso dei talismani è documentato sin dall’Età del ferro; dal periodo tardomedioevale e rinascimentale sussistono  anche numerose rappresentazioni iconiche e letterarie in ambiente cristiano.

In Sardegna, più che in altre regioni, sono stati rinvenuti antichi amuleti del pantheon egizio e di quello punico che da esso dipende. Tuttavia, col mutare dei tempi e dei costumi, se pure numerose credenze magiche hanno continuato a sopravvivere, gli amuleti hanno subito numerose variazioni, causate dal sovrapporsi di altre culture sino ad essere gradualmente sostituiti da tipologie diffrenti. Una nuova era, per l’universo magico della Sardegna, ha avuto inizio nel corso del XIII secolo quando arabi ed ebrei, provenienti dal Maghreb e dalla Spagna meridionale, stabilirono relazioni commerciali dirette con l’Isola.

La presenza in Sardegna di persone che, come gli antichi egiziani, affiancavano alla religione alcune pratiche esoteriche, può spiegare la sostanziale comunione tra simbolismo religioso cristiano e sovrapposizioni di culture più antiche, una confluenza che ha plasmato le credenze e le pratiche magico-religiose popolari dell’isola. “Le caratteristiche pratiche ad esse legate sono rimaste in uso sino all’inizio del Novecento, nonostante gli anatemi lanciati dal Sinodo di Cagliari sin dal 1652 e costantemente replicati da quelli successivi, nei quali si condanna esplicitamente la magia e l’uso di portare con sé amuleti. Ma pressoché ovunque la volontà popolare manifesta una forte resistenza nel  coltivare una ritualità estranea alla religione ufficiale.”
La credenza nel “malocchio”, ovvero nei poteri malefici espressi per mezzo dello sguardo, è documentata per la prima volta in testi magici egizi della fine dell’Antico Regno, duemila anni prima della nascita di Cristo, ma le sue origini risalgono certamente a tempi ancora più lontani, ad un epoca mitica nella quale l’uomo primitivo vedeva nel sole e nella luna l’occhio destro e sinistro della divinità celeste primordiale.
L’osservazione degli effetti talvolta malefici, prodotti dallo “sguardo” dei due “pianeti-occhi” sui campi e sulle acque, generò la convinzione che l’origine di qualsiasi sofferenza fosse causata dall’influenza del cosi detto “occhio cattivo”. Poi, quando la capacità di emanare questa forza venne attribuita ad alcuni individui ritenuti, forse a causa del loro aspetto, possessori anche del tutto inconsci di tale prerogativa, la superstizione del “malocchio” raggiunse una diffusione enorme. A seguito della credenza secondo la quale la persona, prendendo contatto attraverso il simbolo con il suo modello, diviene “una porzione di quell’essere “magico” e acquisisce l’immunità e la tutela dalle sue influenze malefiche”, così da permettere agli amuleti degli “occhi” di godere  di grande diffusione e popolarità.

Il mistero della fecondità della donna e della terra è il primo fenomeno che l’uomo si è prefisso di controllare e favorire attraverso la forza magica. Si può presumere che ad assicurare la fertilità siano state preposte, già in epoca paleolitica, le celebri statuette definite, “Dea Madre” che sono state ritrovate in molte regioni dell’Europa e dell’Asia e, in gran numero, anche in Sardegna.

Amuleti con conchiglie marine, ritenute sin dalle origini dell’uomo una potente tutela contro il malocchio, sono stati ritrovati in Sardegna nelle tombe puniche. Le stesse virtù delle conchiglie sono state attribuite nella religione giudaico-araba agli opercoli di alcuni gasteropodi come il Turbo rugosus che per la sua forma, richiamante quella dell’occhio, è divenuto l’amuleto deputato più di ogni altro a proteggere gli occhi da ogni male. Per questa funzione, nella religione popolare cristiana, si ritrova accoppiato ad un’immagine sacra ed è denominato “occhio di Santa Lucia”.

Il corallo che un tempo era ritenuto una pietra, deriva la sua valenza “amuletica” dal colore rosso, questa volta da identificare come simbolo del sangue che, per i popoli antichi rappresentava l’energia vitale in conseguenza del fatto che, alla perdita del sangue nell’uomo e nell’animale, si accompagnava la fine del vigore e la morte. Perciò il colore rosso fu ritenuto portatore delle stesse forze misteriose del sangue e quindi capace di dispensare forza e vitalità. 
Vi è inoltre la teoria che abbina alcune pietre alle costellazioni zodiacali e ai pianeti del sistema solare, la cui influenza ricade sulla vita terrestre, tale teoria era riconosciuta sin dai Caldei, anche se  di connessione tra Zodiaco e gemme si parla anche nella Bibbia e, nel III secolo, San Girolamo osservò una precisa corrispondenza tra dodici pietre preziose e i pianeti.
“Anche l’ambra, il giaietto ed altre pietre fossili, che derivano la valenza magica dall’essenza della struttura della loro materia danno vita a molti amuleti sardi. Ad esse si accompagnano altre pietre, quali il diaspro, l’onice e l’agata che si collegano alle gemme gnostiche”. Nel corso del tempo a tutte queste si sono sostituite, sempre con funzione terapeutica, “pietre” di pasta vitrea bianca o colorata con ossidi metallici in rosso, in blu azzurro e in verde. A queste sono stati dati simbolicamente la forma sferica e il colore associati ai pianeti  considerati come perfetti e divini e guidati da angeli, dei quali le pietre racchiudono gli influssi particolari nell’ambito del complesso sistema sia magico che astrologico e religioso, che determina il simbolismo dei colori. La sfera di vetro rosso, insieme con quella azzurra o con quella verde è il simbolo degli occhi di Horo che così sono descritti nei papiri delle Piramidi.  In questi si legge appunto che gli occhi erano uno rosso e l’altro azzurro o verde. 
Nella tradizione magica giudaico-araba, ed anche in Sardegna, venne attribuito lo stesso valore agli occhi di Santa Lucia. 

Valenze diverse hanno invece la pietra bianca “Perda ’e latti”  (la pietra di latte) e la pietra nera, chiamata a seconda delle aree geografiche della Sardegna, SabegiaPinnadellu o Kokko .  La prima provvede a non far mancare il latte nel seno materno, mentre l’altra, in giaietto o ossidiana, lenisce ogni dolore ed è ritenuto protegga contro tutti gli animali velenosi.

L’ossidiana esprime quindi, ancora oggi il suo potere e la sua valenza magica attraverso un ornamento/amuleto semplice e di forma sferica che simboleggia l’occhio. Un occhio buono a protezione di un altro occhio cattivo che genera is Mazzinas ( le fatture e le maledizioni in lingua sarda) o S’ogu malu (l’occhio cattivo) che si posa sul soggetto. Si narra che se il supporto d’argento sul quale è incastonato arriva a spezzarsi, la persona è stata in pericolo di vita per via di una maledizione e l’amuleto ha offerto se stesso a protezione imprigionando al suo interno  il maleficio. Qualora questo dovesse accadere il talismano andrebbe sostituito poiché saturo ed incapace di proteggere ancora.

La tradizione secolare prevedeva che questo amuleto venisse regalato dalle mamme, dalle madrine o dalle nonne alle spose, alle donne in attesa ed alle ragazze che diventavano adulte, ma anche ai neonati in forma di spilla da nascondere nella culla. Prima di essere donato doveva essere benedetto attraverso le preghiere in lingua sarda dette “Brebbus” con funzione di protezione.

Sacro e profano accompagnano tra i secoli la storia dell’ossidiana in Sardegna rendendo sempre vivo ed attuale l’interesse per una pietra che altrimenti sarebbe stata dimenticata.

Non sono in grado di valutare quanto ancora il “potere magico” di questa pietra influenzi la scelta di farne o farsene dono. Ho vacillato a lungo come sospesa in equilibrio su un filo tra razionale ed irrazionale, per capirne il fascino ed il potere. So per certo che l’ossidiana ha accompagnato la mia vita sin da bambina nei frammenti di pietra che raccoglievo nelle scampagnate con i miei genitori attirata dal nero lucente. Così come è altrettanto vero che in fondo, anche se so di non credere in nessuna superstizione, con serenità posso ammettere che quella pietra mi a colpito al cuore. 

Da bambina sono sempre stata abituata alla presenza dei nuraghi, delle domus de janas o delle tombe dei giganti. La storia faceva parte del paesaggio, ne era complementare, ed il tempo che passava aveva un significato sconosciuto. A otto anni è presto per innamorarsi così come è presto per capire chi si vuole diventare. Poi capita che a varcare la porta della mia classe in terza elementare sia un omino curvo su se stesso che tra le mani tiene una piccola teca di legno e vetro, contenente il frutto delle sue passeggiate al di là degli argini che contengono il Tirso. Adagia sulla cattedra inconsapevole, ciò che diventerà una parte della mia vita, il mio quanto mai “remoto” futuro. Quando ho guardato attraverso il vetro ho visto, distese fiere  su un purpureo velluto, punte di freccia d’ossidiana capaci dopo millenni di trafiggere ancora, non le carni, ma l’anima ed il cuore. Di quella piccola lezione di preistoria sarda, credo di aver assimilato ogni singola pausa, respiro, parola, mente gli occhi fissavano le frecce e la mia mente produceva immagini tinte di sangue e mille emozioni. Quelle poche ore, non mi hanno mai abbandonata, anche quando la mia vita sembrava aver preso un’altra direzione e quella punta di freccia in ossidiana tornava puntuale alla mente e mi faceva battere il cuore. Ora forse posso ammettere che il  mio presente è legato ad un inconsapevole “ arcaico cupido-cacciatore”, abile nel modellare e fissare la punta di freccia in ossidiana sul suo sottile bastone, abile nell’averla saputa lanciare oltre il tempo e lo spazio immaginabili, dritta verso la mia anima ed indelebile nella mente.

Non so cosa potrà pensare chi leggerà questo testo sospeso tra storia e superstizione ma, su di me l’ossidiana del Monte Arci, ha compiuto un incantesimo che va oltre il razionale e forse di non semplice comprensione.

Per approfondimento vedi il libro : Gioielli, Storia, linguaggio, religiosità dell’ornamento in Sardegna,  2004 (pag. 83-87); ILISSO EDIZIONI, Collana di ETNOGRAFIA E CULTURA MATERIALE / Coordinamento: Paolo Piquereddu.

http://www.sardegnacultura.it/documenti/7_49_20060414131456.pdf

https://www.sardegnaturismo.it/it/esplora/museo-dellossidiana

https://www.youtg.net/canali/turismo/sardegna-fuori-rotta/121-sardegna-fuori-rotta/15053-il-monte-arci-i-suoi-segreti-e-l-ossidiana-un-viaggio-con-sardegna-fuori-rotta

https://www.donnadifiori.info/donna-fresia/cucci-amuleto-delle-donne-sarde/

http://www.tottusinpari.it/2018/12/27/la-via-dellossidiana-loro-nero-in-sardegna/

https://www.sardegnaturismo.it/it/esplora/parco-del-monte-arci


Maria Patrizia Soru è una Guida Turistica Archeologica.
Appassionata di Storia e letteratura della Sardegna, è alla continua ricerca di immagini e parole capaci di raccontarne il passato, il presente ed il futuro della sua Terra.




La nostra storia.

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di Luca Bottari_

Il vagone della Metro A, direzione Battistini, singhiozza e procede. Il passo insicuro nel suo incedere borbottante è costante, somiglia alla storia dei suoi passeggeri. Scriviamo le nostre storie ordinarie o magnifiche bucando le città con un vagone metro o attraversandole a piedi, con il muso sfatto per la pioggia di problemi che ci casca ogni giorno in testa e con gli occhi rivolti in preghiera verso lo stato Vaticano. Salvo strappi benevoli del destino ci ricorderanno al massimo i nostri nipoti. Dopo di loro l‘obliò, molti di noi non saranno mai esistiti e di conseguenze nemmeno estinti.

I ragazzi nei vagoni brontolano, sbuffano, si allungano in pachidermiche mosse di stretching nonostante la loro evidente smagliante forma fisica. Non provano a costruire la loro storia. Se non ritengono di essere in grado di incastrare quei mattoncini uno sopra l’altro si potrebbero spendere per vivere grazie al potere dell’immaginazione nella storia di qualche eroe da romanzo storico. Non intercetteranno mai in cloud il mio auspicio anche se sono costantemente connessi.

La comunicazione silenziosa ed efficace dei loro e dei nostri telefoni ha quasi soppresso il volo d‘immaginazione che ci regalava la pagina stampata. La nostra storia di vita a metà tragitto, a metà romanzo, era meno scontata perché si confondeva con il protagonista di vicende lontane che ci rendevano più leggeri ed allo stesso tempo più cupi. Il vero volo low cost era quello che intraprendevamo grazie ai nostri occhi che correvano pagina dopo pagina, ora umidi di malinconia e rabbia, ora impiastricciati di desiderio erotico. Il libro era il viatico per spaziare in terre lontane a costo zero, era il lenzuolo di Snoopy con cui consolarsi dopo le note severe di un professore severo, era un grumo di farina per impastare il pane della conoscenza.

Noi tutti peniamo, sudiamo, speriamo e ci inginocchiamo al cospetto della durezza della vita ma oggi le armi in pugno sono smussate in punta, perché un cellulare non sarà mai la spada nella roccia per nessuno di questi ragazzi. Non è facile incrociare lo sguardo di un giovane uomo attento solo a quel mondo in quella scatoletta paradossalmente perfetta.

Senza guardarci non ci riconosceremo più.


Luca Bottari.

Ho avuto la fortuna di viaggiare con mia madre hostess per non stupirmi ogni volta di come siamo tutti cittadini di un mondo diverso,disunito,ma con i stessi connotati. Conoscere lingue diverse e poter scegliere di studiare il cinema e le arti senza seguire un percorso di studi tradizionale (forse piu’utile ai fini pratici) mi ha portato verso la scrittura con naturalezza e coscienza.Vincere premi letterari non mi ha legittimato a scrivere ma mi ha fatto capire che non solo il solo a sognare.Ho collaborato con diverse riviste letterarie e di cinema per dire in piccolissima parte la mia. Ho lavorato nel hotel management e vissuto a New York per respirare un aria internazionale ma amo al contempo anche le dimensioni locali ridotte dei paesini italiani.




FUOCO.

Giulia Gellini – Incontro impalpabile -tecnica mista 70 x 50 – 2019

di Maria Patrizia Soru_

Sono sacre le mie origini, in me è parte della creazione. Ribelle, desiderio degli uomini mi sono fatto catturare. Servo della vita o strumento degli dei, vivo oggi imprigionato tra mani candide consacrate che al crepuscolo di un giorno stabilito per devozione, liberano la mia forza in falò che illuminano la notte, purificando fedeli chini dinnanzi alla mia luce, al mio calore.

Profano è il mio nome se a liberarmi è una mano vestita di fuliggine mossa da occhi celati da una maschera che tra la folla incita alla danza. 

Mio è il potere di invadere sguardi e consumare sentimenti sfidando il tempo. Fulmineo come l’ardere di un campo di grano in estate tra il calore del sole e l’alito del vento. O lento, sotto la cenere, memore chioma di quercia ora sottili grigi capelli. Puoi sentire il mio calore poggiando la mano al centro del cuore, un calore lieve e persistente più forte del freddo della morte.

Ardo tra le mani di chi scrive, dipinge, scolpisce, suona strumenti. Coloro, invado l’aria, sfreccio velocemente nella mente e nei cuori di chiunque lavori con passione. Di chi sogna e spera in un futuro migliore. 

Io amo ascoltarlo ardere nel camino, e mi sento parte del suo mondo, se pur piccola, come la fiamma di una candela. 

 Come fuoco”

Forse questo non è il modo più ortodosso per accingersi ad affrontare un argomento così delicato come quello degli incendi in Sardegna. Ho scelto di citare me stessa, di usare le parole con le quali poco tempo fa descrivevo un aspetto della mia isola, un’isola dove il fuoco non sempre richiama alla mente immagini di morte e terrore, ma è sinonimo di cultura e tradizione, d’amore e passione. Tra quelle parole non posso negare vi sia un’immagine vivida di distruzione, un campo di grano in fiamme, una quercia, sono metafora d’amore ma sono anche quanto di più vicino alla brutalità del fuoco, all’immagine di sofferenza che ogni sardo porta nel cuore soprattutto in questi giorni, da quando il Monte Ferru è rimato vittima del fuoco, un fuoco che a distanza di una settimana ancora arde ed ha distrutto più di 20.000 ettari di bosco.

Non è facile affrontare un argomento che tocca l’anima in prima persona, nel quale è impossibile trovare una giustificazione, un argomento che ha i tratti vividi di una piaga dolorosa, una ferita sempre aperta che quando sembra potersi rimarginare, viene ravvivata, resa sempre più ampia e profonda perché è la mano dell’uomo a volerlo, perché esistono esseri umani che godono nel vederla “sanguinare”.

L’impiego del fuoco in ambito agropastorale in Sardegna così come in tutte le regioni del mondo dedite a questa vocazione, risale ad epoche molto remote: esso veniva impiegato come strumento per la creazione o pulitura dei campi, o per il rinnovo dei pascoli. Non meno importante è sempre stata la sua funzione sacrale, un connubio di rispetto e riverenza che l’uomo da sempre, dedica a questo elemento della natura, riconoscendone la sua forza e la sua vitale importanza tali da forgiare l’identità culturale di interi popoli, tra i quali appunto, il popolo sardo. Il fuoco in Sardegna è parte essenziale della cultura e delle tradizioni legate ad un paganesimo mai estirpato impregnato di saggezza e rispetto per la vita e per la natura.  

L’incendio invece è sempre è stato un male endemico dell’isola, attribuibile totalmente o in parte a pratiche colturali radicate sia nel mondo contadino che in quello pastorale: l’incendio è “appiccato abitualmente dai pastori per ripulire i pascoli, per fertilizzare e migliorare il cotico erboso, o per favorire il ricaccio dei giovani polloni delle essenze arbustive invecchiate, e per narbonare; od ancora causato accidentalmente dai contadini con l’abbruciamento delle stoppie.”

In Sardegna l’incendio venne considerato un delitto e come tale perseguito da precise norme fin da epoca giudicale. La Sardegna nel Medioevo era divisa in quattro Giudicati, ognuno col suo sovrano, il suo parlamento, il suo esercito e le sue leggi.
L’insieme delle leggi prende il nome di  Carta de Logu perché “su logu” (il luogo) era il territorio dello stato dove queste leggi arano in vigore.

La Carta de Logu promulgata prima del 1392 dalla Giudicessa del giudicato d’Arborea Eleonora De Serra Bas  che governò in nome dei figli minorenni, Federico e Mariano V D’Arborea tra il 1383 ed il 1403, consta di 198 articoli dei quali cinque contenuti nella terza sezione sono gli Ordinamentos de fogu (Ordinamenti del fuoco) dal cap. XLV (45) al cap. XLIX (49) e sono atti a disciplinate, reprimere e punire in materia di incendi.

 Nello specifico è interessante notare come al capitolo XLV (45) si punisca l’incendio di natura accidentale  con ammende di £ 25 e il rimborso dei danni provocati.
Il capitolo XLVI (46) punisce l’incendio doloso di case e il capitolo XLVII (47)  l’ incendio di terreni coltivati  prevedendo pene molto più severe: la pena di morte nel primo caso “… e siat juygadu dellu ligari a unu palu, e fagherillu arder…” ovvero: “il colpevole venga legato al palo e fatto ardere ”, mentre nel secondo caso sancisce che  “ … e si non pagat issa… saghitsilli sa manu destra” letteralmente: “ e se non paga gli si tagli la mano destra”, qualora l’incendiario non fosse stato in condizioni di risarcire il danno cagionato 

Altre norme della Carta de Logu riguardavano la prevenzione degli incendi, come  “il divieto di bruciare le stoppie prima dell’8 settembre e l’obbligo di provvedere alla difesa del villaggio e delle aree coltivate mediante apertura di fasce parafuoco (sa doha) entro il 29 giugno (Santu Pedru de Lampadas), pena, in caso contrario, il pagamento di un’ammenda di soldi 10 per abitante del villaggio.” 

Si evince una forte consapevolezza del reale e terribile impatto che gli incendi nel tempo avevano sulla conservazione dei boschi, percepiti come ricchezza della collettività e come tali, oggetto di tutela. Nelle aree boschive tuttavia l’uso del fuoco colturale era di fatto accettato o tollerato, e dal fuoco, impiegato come strumento colturale, facilmente potevano originarsi degli incendi che divenivano incontrollabili ardevano per settimane intere e distruggevano superfici forestali vastissime.
Si prevedeva così, anche “la pena in solido per il villaggio..” nell’eventualità che il colpevole non venisse individuato (istituto detto incarica): i Giurati del villaggio erano tenuti ad eseguire le indagini e a provvedere alla cattura dei colpevoli entro 15 giorni, “…pena una multa di £ 30 per il villaggio grande e di £ 15 per il piccolo, oltre a 100 soldi a carico del Curatore.”

La preoccupazione per gli incendi non si estinse in epoca giudicale. Nel Parlamento del Duca di Gandia, don Carlo Borgia conte di Oliva (1612-1614), venne prevista una “pena di due anni di galera a chi avesse appiccato fuoco nelle zone ove si erano praticati innesti di ulivi”, inoltre “si raccomandava che i prelati minacciassero la scomunica a carico degli incendiari.”
I provvedimenti erano atti a proteggere beni considerati fonte di ricchezza, le piante che col loro prodotto potevano concorrere ad accrescere il reddito dell’isola affrancandola dalle importazioni d’olio di oliva dalla Andalusia.
Successivamente, sotto Filippo III di Spagna (1578-1621), si prese ulteriore coscienza della pericolosità e della vastità  del fenomeno e si cercò di reprimerlo con norme idonee, quale quella contenuta nelle Prammatiche spagnole al capo XI del titolo 42, che ripropose “l’istituto della responsabilità collettiva nel caso che gli autori dell’incendio fossero rimasti ignoti. […]”

Con la Carta Reale 29.8.1756, in epoca sabauda venne introdotto il “divieto di impiegare il fuoco per eliminare la vegetazione e coltivare nuove terre” o per “procurare pascoli più abbondanti”. Col Pregone del 2 aprile 1771, n. 66, si fece divieto “d’accensione di fuochi sotto le piante o nelle loro vicinanze (art. 68), pena il risarcimento dei danni e l’ammenda di scudi 25”.

Venne inoltre prescritto “ l’obbligo per “i passeggieri, che faranno fuoco nelle montagne, dove sogliono soffermarsi.” di spegnere il fuoco stesso prima di abbandonare il sito, ” pena un’ammenda di lire 25, oltre il risarcimento dei danni.”

L’insieme di queste norme manifestano l’attenzione delle istituzioni verso un evento che non finiva di produrre ingenti danni al patrimonio boschivo. Tali norme ciò nonostante, venivano osservate solo in parte; come nella Gallura, dove infrangere sistematicamente i divieti connessi all’accensione dei fuochi nella stagione estiva, era motivo da parte del feudatario per esigere un “balzello suppletivo” denominato capretta di fuoco (oveja de fuego) consistente nella corresponsione di una capra in cambio del permesso di accendere fuochi in tutte le stagioni.
Vittorio Emanuele I, col Regio Editto riguardante gli incendi del 22.7.1806, oltre a reiterare le norme in uso sopra elencate, introdusse due importanti novità riguardo il divieto di metter fuoco nelle terre nel periodo estivo e prima dell’ 8 settembre:” la perdita, a carico del trasgressore, della superficie coltivata e del suo frutto, a favore del Monte Granatico e l’obbligo di munirsi di apposita autorizzazione del Giudice del luogo per impiegare il fuoco dopo l’8 settembre “. Introdusse  inoltre il divieto di pascolo per un anno sui terreni oggetto d’incendio  in violazione di legge, “..sotto pena di sei scudi per ogni capo di bestiame”.
“[…] il Codice di Carlo Felice (Leggi civili e criminali del Regno di Sardegna) prevedeva ” la pena di morte per chiunque avesse appiccato dolosamente il fuoco a case, magazzini od altri edifici entro o contigui al popolato (art. 1958) o a case o capanne abitate (art. 1959), e la galera a tempo a chi volontariamente avesse incendiato piante in piedi o atterrate e a legne e legnami ammassati o in catasta, nonché a vigne, oliveti e coltivi. […]”

Ma non tutti incendi erano dovuti a cause colturali. Molti erano espressione del malessere del mondo rurale che attraverso modifiche legislative si vedeva “derubato” di consolidati o supposti diritti, spesso secolari. Ne sono un esempio gli effetti dell’Editto delle chiudende, le ripercussioni che si ebbero a seguito delle tagliate eseguite sui boschi di roverella negli anni ’30 e ‘40, oltre alle reazioni dopo la metà XIX secolo, nel mondo rurale in conseguenza dei mutamenti intervenuti nell’organizzazione della proprietà terriera.

Uno sguardo alla storia, un veloce excursus può aiutare almeno in parte a capire per quale motivo il problema degli incendi, non conosca ancora una fine e non venga relegato definitivamente al passato. I tempi sono cambiati e le leggi si sono evolute abbandonando il risvolto drastico e disumano della pena di morte o il taglio della mano. La stessa evoluzione a livello umano non ha accompagnato però alcune menti insensibili che nascoste sotto la maschera di presunti diritti, o sotto quella altrettanto ignobile della vendetta, del “dispetto”,  per poter  “lavorare” o per denaro  liberano la potenza del fuoco contro l’habitat che li nutre e permette di respirare. Niente giustifica questo gesto, niente ne crea il diritto e niente dovrebbe alimentarne neanche il solo pensiero.

Quale gesto è più deplorevole del muovere la mano contro chi inerme non si può difendere, piante ed animali. E poco importa se talvolta a perire tra le fiamme è carne umana. Tra il 1945 e il 2013 a causa degli incendi in Sardegna sono rimaste uccise 67 persone ed altre 17 sono rimaste ferite in modo grave. Tra questi, il 28 luglio del 1983,  9 persone persero la vita e 15 rimasero gravemente ferite nel rogo della collina di Curraggia a Tempio Pausania (SS), mentre cercavano di strappare al fuoco, case alberi ed animali. La loro vita per la vita, così i miei occhi vedono quel sacrificio umano che niente ha insegnato così come la pena di morte, così come il taglio della mano.

Per i boschi e per la natura è impossibile non provare gli stessi sentimenti, le stesse emozioni e sensazioni di fronte alla devastazione del fuoco. Credo ci voglia coraggio come per togliere la vita ad un essere umano nel scegliere il giorno, cogliere il momento, capire la direzione del vento, meditare, preparare l’innesco e liberare il male. 

Un incendio di vaste proporzioni ha effetti devastanti non solo sulla regione che lo subisce, ma anche sulle persone che quella terra amano profondamente. 

Si narra che i sardi siano talmente legati alla loro isola che tutte le volte che si allontanano dal luogo natale per amore o per “cercare fortuna”, lascino una parte del loro cuore e dell’anima sulla banchina o fuori dal terminal dell’aeroporto o semplicemente al confine della provincia. Anima e cuore sono pronte a vagare in preda alla nostalgia ed in cerca di consolazione tutte le volte che la mente e il corpo lontani ne sentono il desiderio. 

Vagano tra le antiche vie di città o paesi tra i profumi inebrianti del cibo e delle feste. Vagano tra i boschi di querce e lecci per udire il canto degli uccelli, scorgere l’ombra del cervo. Vagano tra Domus de Janas e nuraghi in cerca delle loro radici. Vagano tra mirto, ginepri lentisco e rosmarino fino a giungere in riva al mare per contare i granelli di quarzo o ingannare il tempo facendo scorrere tra le mani la sabbia sottile come quella delle clessidre. 

Quando un luogo amato scompare in preda alle fiamme, la sofferenza non è dissimile a quella della perdita di un familiare, di una persona cara. L’anima, il cuore, perdono la loro gioia, la loro consolazione, il loro rifugio ed è difficile trovare conforto, perché quel luogo come fosse una persona, non esiste più, sarà per sempre perduto.

La terra bruciata assume l’immagine che nella tradizione contraddistingue la sofferenza della donna sarda quando perde il suo amato, quando il “fato” il destino la condanna a sopravvivere al proprio figlio, quando il dolore deve essere coperto per poter essere mostrato con dignità. La donna veste il lutto, il nero della gonna e dello scialle che avvolge in un abbraccio le spalle ed il capo. Così la terra arsa privata del suo amore più grande, la fauna e la vegetazione mostra vestita di nero, immobile, la sua dignitosa sofferenza. Non il canto di un uccello, non il fruscio di una foglia, solo l’odore acre del fumo, del carbone, della cenere e della morte.

Questo nella mia mente è un incendio, un rogo voluto, desiderato ed augurato con estremo disprezzo per la vita.

La storia ha evoluto le sue leggi ma in Sardegna non è riuscita a porre rimedio a ciò che forse poche, ma agli atti ancora troppe persone sentono come lecita azione perché radicata come tratto culturale o strumento di protesta sociale. 

Da sarda rinnego con tutta me stessa chi si appella alla consuetudine per giustificare, chiudere gli occhi, non tutelare e vigilare sul nostro patrimonio boschivo, sulla nostra terra, sui nostri animali.

So per certo che le “mani” della maggior parte dei sardi “candide” o “vestite di nera fuliggine” se pur “mosse da occhi celati da una maschera”, non libererebbero mai la forza del fuoco contro le proprie case, i propri campi, i boschi e quanto racchiudono e proteggono. I figli di questa terra conservano un ancestrale rispetto così per la natura così per il fuoco.Io nel mio piccolo rimango vicina alla mia terra in lutto e pazientemente aspetto, aspetto perché so che sotto il dolore palpita la vita. Aspetto di scorgere tra il nero del suo “scialle” il luccicare verdeggiante dei primi fili d’erba che hanno il sapore del perdono, di un sorriso. Aspetto e prometto che non sarà più lasciata sola. Aspetto e prometto ciò che so che tutta la Sardegna desidera, vuole.


Nota sull’ Autore_

Maria Patrizia Soru è una Guida Turistica Archeologica.
Appassionata di Storia e letteratura della Sardegna, è alla continua ricerca di immagini e parole capaci di raccontarne il passato, il presente ed il futuro della sua Terra.