The Ferragnez.


La [non] recensione di Cristiana Caserta_

The Ferragnez mi sono piaciuti.

Ovvio. Sono fatti per piacere. Sono un prodotto. Come un pacchetto di patatine. Sapidità, croccantezza, grassi: chi lo produce sa il fatto suo e ci mette dentro tutte quelle cose che ti terranno con le mani dentro al sacchetto anche se non hai fame, anche se sai che fanno ingrassare e il loro apporto nutrizionale è irrilevante.

No. Ovvero: forse.

È vero che ci sono tutti gli ingredienti per tenere lo spettatore davanti al video il tempo necessario. Montaggio: le scene durano un secondo meno del giusto, ti lasciano col desiderio di vedere meglio qualunque cosa tu stia vedendo: una villa sul lago, una strada di Milano, un interno. Fotografia: nitida, lucente. Ti lascia un ricordo di rosa e di azzurro. Di cameretta per bambini. Di città a misura. Niente di troppo moderno né di troppo antico. Giusto. E di giusta distanza, anche. La telecamera non invade con primi piani, né si allontana con campi lunghi. Se sceglie, sceglie di non scegliere. Di non interferire. Sceneggiatura: sapiente. I fili narrativi si alternano e si intrecciano, senza stancare. Il jingle vintage, in stile telefilm anni ’80, impacchetta il tutto come quelle belle scatole rosse di Cipster o di Ritz che ci portavamo nelle gite scolastiche e in cui finivano cento manine appiccicose (poi ‘pulite’ sui sedili dei pulman).

Cioè, la serie amplifica proprio il modo in cui Ferragnez hanno costruito la loro immagine negli ultimi due anni.

A misura di Chiara. Rassicurante. Classica, a suo modo. 

Bionda. 

The blonde family.

Ma l’ingrediente più giusto sono loro: i personaggi. Croccanti.

Sono ricchissimi, giovani, belli e di successo. Quindi non proprio ‘personaggi’. Perché il ‘personaggio’ deve avere qualcosa da raccontare. 

E che possono raccontare? 

Serie analoghe, tipo i Kardashian, hanno giocato con ingredienti da junk food: pettegolezzi, litigate, ostentazione del lusso, vacuità estrema. Decine di altri prodotti hanno seguito l’esempio fino a saturazione meritando la messa alla berlina di tutto l’ambiente finto-vip vero trash in Don’t look up.

Ferragnez fa una scelta (necessariamente) diversa. 

Va a scavare nella psicologia dei personaggi e trova momenti di verità. 

[Ora, bisogna dire che lo snobismo assoluto di quelli che la ‘cultura’ l’hanno appiccicata in fronte come un tatuaggio fake, di quelli che vanno via con l’acqua, nega in genere che l’interiorità possa albergare all’interno di jeans strappati ed essere espressa con eloquio non propriamente vario e padrone di tutti i modi e tempi verbali. E bisogna aver frequentato molte aule scolastiche – da adulti – per sapere che ovviamente non è così. Ha la stessa ricchezza interiore di un pensoso critico cinematografico in giacca di tweed un diciottenne tatuato o una bionda che appella tutti con: “amore!”]

Certo, per giustificarla, sia la ricerca che la trouvaille psicologica, bisogna – nei Ferragnez – che ci sia lo psicologo e il set adatto (come se senza il professionista ad hoc, non si fosse in grado di auto-scavare dentro di sé) ma comunque…

Momenti di verità. Verità che affiorano in mezzo a tutti quegli ingredienti ‘blonde’ che abbiamo detto prima. Verità che la cinepresa non capisce e la regia non traduce. Lasciate grezze. 

Federico che è incapace di godersi il successo di Fedez. Ci arriva attraverso troppa insicurezza, troppi errori, troppi dubbi. E quando arriva, è già stanco. Non si fida. Né di sé stesso né dei propri risultati. Li sente scarsi. È impacciato nell’universo blonde di Chiara. Vorrebbe a volte essere altrove. Si presta a parlarne con lo psicologo, si sforza di rendere accettabile, positiva, presentabile la sua (in)sofferenza. Parla del suo essere stato bullizzato. Ma lo sforzo di normalizzazione resta. 

Come se chiedesse alla telecamera e a noi spettatori di confermargli che sì, è ‘normale’ sentirsi così!

Chiara: solare, quieta, solidale, generosa, attiva, equilibrata, paziente. 

Ansiosa, a volte, e spaventata dalla sofferenza psicologica del marito. Ma un’ansia fattiva e laboriosa. La sera di Sanremo manda il figlio a dormire dai nonni per concentrarsi nello spingere i suoi followers a votare il marito. Come darle torto? Avrei fatto anch’io così. 

Arriva seconda.

Come ti senti quando lui è così?” – chiede lo psicologo (e allude ai frequenti momenti down di Federico). 

Come quando avevo quattordici anni” – risponde Chiara di getto (e la telecamera non va ad indagare con un primo piano, a riprova della casualità). 

Cioè – si scopre – alle prese con la separazione dei genitori, cioè sgomenta nella scoperta della fragilità altrui, lei che sembra fatta davvero di un’altra sostanza. Non molto terrena. Inconsapevolmente celeste. Laura e Beatrice. 

Troppa. Per Federico, ma un po’ per tutti. Infatti, gioca spesso di rimessa. Attenta a non urtare gli altri con troppa perfezione. Si inventa qualche insicurezza. Capisce che serve. 

Finto? Vero? Ben confezionato? Non saprei. 

Tenero. Come lo sono a volte i ragazzi (e anche gli adulti) quando scoprono che c’è il mondo di fuori e c’è il mondo dentro e che quel mondo è complesso e diverso in ciascuno; e, una volta trovata questa loro e altrui interiorità, se la rigirano fra le mani perplessi, senza sapere bene cosa farne. 

Nell’attesa, fanno una foto e la postano su Instagram.


Cristiana Caserta_

LinkedIn Top Voice 2020; 

Scrivo, studio, insegno materie con le tecnologie, sono pratica di formazione, giornalista free lance, multipotenziale.




Buona vita.

di Valeria Frascatore_

Scrivo di getto, di ritorno da un viaggio ipnotico e catalizzante dentro me stessa, nel corso del quale mi sono imbattuta nuovamente, dopo più di venti anni, nella versione complementare della mia personalità:quella del tutto sconosciuta, a me per per prima, la zona d’ombra che resta irrimediabilmente nascosta dietro una parete puntellata di spunti, a tratti ironici, a tratti seri e profondi che mi sono sempre illusa di riuscire a dosare in maniera appropriata nella realtà di tutti i giorni, in modo da gestire le relazioni interpersonali senza farmi troppo male.

Uso il verbo illudersi perché, facendo un breve bilancio delle mie esperienze di vita, devo ammettere che l’essere parecchio intransigente e rigorosa, anzi rigida, mi ha indotto a ergere muri tra me e il resto del mondo in maniera quasi meccanica, ricorrendovi in maniera addirittura aprioristica, senza neppure fare capolino, ogni tanto, con la punta del naso da dietro quel muro, solo per intravedere la minaccia da cui dovessi difendermi volta per volta. Sempre che di minaccia si trattasse, ovviamente.

Se potessi paragonare la mia strategia di vita ad un modulo tattico calcistico direi senz’altro che sono la regina della difesa “a catenaccio” il cui imperativo categorico è:”Non prenderle di santa ragione!”. Punto.

Pensavo di essermi liberata un bel po’ di anni fa della mia versione euforica, adolescenzialmente instabile  ed esuberante. L’avevo salutata a cuor leggero, senza voltarmi più indietro: era la parte irrisolta e frammentata ca van sans dire…l’immagine che non si vorrebbe vedere neppure nel più deformante degli specchi.

E infatti, durante la fase più acuta del mio viaggio interiore dell’ultimo mese e per molte settimane consecutive, ho letteralmente smesso di osservarmi allo specchio: quando capitava di imbattermici, distoglievo lo sguardo e lo abbassavo meccanicamente anche perché, a causa dei disturbi del sonno nel frattempo subentrati, la differenza tra i miei lineamenti e quelli di uno zombie era diventata praticamente nulla. E mi vedevo alterata.

Del resto, lo specchio ci costringe al confronto con tutto ciò che resta inespresso dentro e attorno a noi:e io ho cominciato a non fidarmi più neppure di me stessa, tale era la sensazione di sentirmi sotto una gigantesca lente di ingrandimento che mi generava solo tanto disagio.

Quando si parte per questo tipo di viaggi interiori, il rischio è non poter pianificare il quando e il come del rientro a casa, perché non siamo tutti strutturati alla stessa maniera, nel senso che abbiamo tempi diversi per capitolare dinanzi all’esigenza di ricevere aiuto e non sempre, rispetto alle necessità emotive, ci ritroviamo supportati da persone intuitive e intelligenti.

Capita che nella vita di ognuno di noi si affaccino delle presenze, delle conoscenze, portatrici di affinità, di spunti motivazionali e incentivanti rispetto alle nostre attitudini (anche quelle latenti), che riescono a scuoterci perché toccano delle corde dell’anima specifiche e delicate, tali da mandarci completamente in tilt. Quando ciò avviene, i famosi baluardi eretti a protezione del nostro IO si sgretolano magicamente e appariamo vulnerabili, indifesi e implumi come uccellini. Certi tipi di interazione scatenano un senso di euforia e di estatico piacere, un’allegria smodata, imprudente, tipicamente adolescenziale, appunto, in cui ci si crogiola alimentando una forma di pericoloso distacco dalla realtà che può creare dipendenza e autosuggestione. Vi sono parti della nostra emotività ancora inespresse e oscure che, opportunamente stimolate, ci regalano la convinzione di aver trovato riparo all’insoddisfazione che nutriamo nei confronti di alcuni aspetti della realtà quotidiana (lavoro, famiglia, amicizie, priorità). Perchè, è inutile prendersi in giro, la frustrazione esiste ed è quella che ci impedisce di credere che esista la felicità; anzi direi quasi che, il più delle volte, nel definire la felicità come un’utopia, dimostriamo di conoscere molto meglio il significato dell’espressione frustrazione.

Dunque, ci abbarbichiamo a un cuore con la pretesa (a tratti assurda) di voler costruire, col tempo, un legame…è un desiderio che si sviluppa in modo sano, puro e privo di doppi fini almeno fino a quando non ci porta a voler sublimare quel legame, concependolo come assoluto e assolutizzante nella nostra vita, sostituendolo al nostro vero patrimonio di affetti, punti di riferimento e modelli di vita.

In questa attività di rimpiazzo si concretizza il processo di allontanamento dalla realtà e quel ritrovarsi a mettere improvvisamente in discussione ciò che, fino a quel momento, ciascuno di noi ha costruito, con perseveranza e sacrificio, è decisamente annientante. In fondo fare una conoscenza brillante è esaltante: chi potrebbe affermare il contrario?Peraltro,tutto prende le mosse da un’intesa, da una serie di esperienze arricchenti ed emozionanti che, in una relazione interpersonale, ci fanno sentire quantomai vivi e felici.  Sì, non è affatto facile accettare le conseguenze di questo meccanismo disfunzionale che, peraltro, fa parte delle reazioni inconsce, anche perché, privarsi di una forma di piacere assimilabile a quello carnale – per non dire sessualmente rilevante – significa autopunirsi e farsi tanto male. E si sa quanto sia importante per la corretta sopravvivenza della psiche avere una giusta regolazione del tono dell’umore.

Da un certo punto di vista, nella casistica di cui parlo, possono farsi rientrare anche i legami nati ex novo attraverso i social network. Il fatto è che, a volte, la realtà che viviamo è così carente e avvilente da indurci a investire innumerevoli e altissime aspettative nelle cosiddette “relazioni terze”. Cosicchè, il fallimento di una relazione terza, per scelta nostra o della controparte, viene vissuto con un carico di disperazione abnorme che finisce con l’avere ripercussioni ingiustificate sulla nostra realtà, condizionandoci nelle energie, nell’umore e nelle scelte di vita.

E’ importante ascoltarsi e coltivare con passione i propri interessi ma se il prezzo da pagare è rifugiarsi in un mondo ideale in cui vi sia spazio solo per atteggiamenti celebrativi, sviolinanti e complimentosi a oltranza oppure forzatamente ironici, è bene trovare il coraggio di dire BASTA, di riparare agli errori commessi, di rimodulare la relazione (non necessariamente di troncarla, in assenza di validi presupposti) e di ricominciare ad avere degli scambi moderati e finalmente sani.

Mi reputo fortunata per la durata relativamente breve del viaggio che ho intrapreso. Sono tornata subito indietro grazie anche ad una straordinaria capacità – che persone esperte mi dicono non appartenere ai più – di fare autocritica e di descrivermi dettagliatamente alla luce dei miei errori di percorso e dei miei innumerevoli, rocamboleschi scivoloni. Ho scoperto di avere delle esigenze ancestrali irrisolte legate all’infanzia che hanno favorito certe forme di dipendenza affettiva (la definisco tale anche se non sono certa di utilizzare il lessico adatto) e sto lavorando su questi e su altri gap attraverso i quali recupererò certamente quella parte che sfugge…sfugge a tutti ma principalmente a me.

Nel frattempo cerco con serietà e dedizione (che fortunatamente mi sono sempre appartenute) di recuperare relazioni, occasioni perse, tempo da dedicare ai miei interessi, di ritrovare sorrisi e affetti perché ho la sensazione che questa breve crisi, durata in realtà solo poche settimane, mi abbia lasciato dentro un vuoto incolmabile.

Mi piace pensare che il 2022 possa essere finalmente consolatorio e rivelatorio: per me e per chiunque ne abbia bisogno. Dedico i miei pensieri di questo momento a tutti quelli che hanno qualcosa da farsi perdonare e da perdonarsi…sarebbe proprio bello che ci riuscissero nell’anno che si appresta ad arrivare. Dopo due anni estremamente complicati, peraltro.

Non è facile trovare i cuori giusti a cui aggrapparsi ma possiamo lavorare per rendere giusto il nostro cuore  e non doverci per forza abbarbicare ma solo appoggiare delicatamente a un’altra persona senza turbarla, soprattutto. Questo è il mio punto di vista. E questo è il mio impegno per il nuovo anno.

Auguri a tutti e buona vita!



Valeria Frascatore_

Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.




La radice di ogni salute è nel tuo cuore.


“La Suprema Condotta è l’Assenza di Sforzo”Tilopa

di Francesca Borromeo

Sembra banale dirlo ma è vero: migliorare la nostra vita, dunque vivere meglio, nasce sempre ed esclusivamente da una nostra decisione. E questo a prescindere dal contesto ambientale e sociale in cui ci si trova. Quindi si tratta esclusivamente di prendere una decisione ed essere coerenti nel metterla in pratica. Il problema è che spesso non sappiamo bene quale decisione dobbiamo prendere.

Naturalmente non esiste una risposta unica e risolutiva a questa domanda, ma penso che esistano diversi modi di approccio, che questi siano alla portata di tutti, e che dunque noi tutti siamo in grado di migliorare la qualità della nostra vita.

Non ce ne accorgiamo, ma durante la nostra quotidianità svolgiamo la maggior parte delle nostre attività in modalità “automatica”. Si chiamano abitudini e sono trappole potentissime. Possiamo invece sostituire tutte le abitudini (sia quelle che riteniamo “buone” che quelle che riteniamo “cattive”) con azioni consapevoli.

Per fare questi piccoli cambiamenti, però, è necessario prendere una decisione.

Le parole disciplina e autodisciplina hanno assunto ormai una accezione negativa e si associano a questi termini sensazioni negative, ad una rinuncia, alla fatica, ma io penso che non sia così.

Proviamo a sostituire la parola DISCIPLINA con la parola CONSAPEVOLEZZA e riusciremo a trasformare le abitudini in azioni, lasciamoci stupire ogni volta che le pratichiamo, facciamole con attenzione con consapevolezza e soprattutto appassioniamoci, stupiamoci. Abbandoniamo l’illusione del controllo. Cosi vivremo una vita senza sforzo.

Rifugiarci nelle nostre abitudini ci da una piacevole (effimera e brevissima) sensazione di sicurezza, ma come un muscolo sempre immobile si atrofizza, così la nostra mente, senza nuovi stimoli, lentamente si spegne. Oggi si dice spesso “uscire dalla propria zona di comfort”. A me non piace molto questo modo di dire, molto abusato, e io credo fermamente che un modo ottimo per migliorare la propria vita, sia quello di prendersi dei rischi, che spesso sono solo frutto della nostra mente, ma che ci permettono di mettere la testa fuori dal recinto che ci siamo (in)consapevolmente costruiti, e comprendere che la ricerca di una sicurezza (illusoria, come tutte le cose), è in realtà una trappola pericolosa.

Ad esempio, possiamo studiare una nuova lingua, che non sia necessariamente tra quelle più usate. Perché dico questo? prima di tutto perché ti permette di tenere in allenamento la tua mente. Se studi ad esempio il cinese, che è una lingua matematica, oltre ad avere stimoli nuovi dovendo affrontare qualcosa di davvero differente, il tuo cervello ti ringrazierà. Ma questo vale in generale per qualsiasi altra lingua. Poi, ti permette di instaurare nuove relazioni, conoscere luoghi e persone nuove, e non sentirti del tutto fuori dal contesto, aprendo sicuramente nuove opportunità di lavoro o studio.

Ama incondizionatamente gli animali. Gli animali hanno la tendenza ad “educarci”, a far emergere i migliori lati della nostra natura. La semplice pratica di accarezzare un cane, ad esempio, tende a darci sollievo, a ricollegarci al nostro corpo e a calmare le nostre menti inquiete. E quando accarezziamo il cane di un’altra persona, o questa accarezza il nostro, solitamente creiamo un contatto, una comunità. 

Pratichiamo Yoga. Gli effetti di questa pratica sono innumerevoli, sia sull’aspetto fisico, sia su quello mentale. Le posizioni allineano corpo e spirito, grazie al lavoro di respirazione, e permettono di prendere consapevolezza di sé e quindi un migliore autocontrollo del proprio stato emotivo. Praticandolo regolarmente, ti sentirai in maggiore sintonia con Te stesso. 

Respira, medita. Chi pratica regolarmente la meditazione di certo già ne conosce i molteplici benefici. La meditazione aiuta a ridurre i livelli di stress, rafforza la salute mentale, offre sollievo ai dolori cronici, migliora la qualità del sonno, dona serenità, consente di acquisire una maggiore consapevolezza. Ad un livello più profondo, la meditazione è una porta verso le nostre radici, il nostro essere più intimo e profondo.

Scrivi. Ho sempre creduto che saper scrivere sia un potere enorme. Poter leggere i propri pensieri, è una forma di controllo della nostra mente che offre enormi potenziali che se sfruttati in modo costruttivo, aumentano la qualità della nostra vita. Un pensiero scritto e più potente di un pensiero che sfuma nel momento stesso in cui prende forma. Tenere una sorta di diario, nel quale appuntare una serie di pensieri, ragionamenti, programmi, da consistenza al tempo che gli hai dedicato.

Impara ad ascoltare. Questa è una enorme opportunità di crescita, spesso sottovalutata, perché saper ascoltare ti permette di imparare attraverso le esperienze degli altri. Condividere quello che fai e ciò che sei ci aiuta ad essere migliori e migliorare il mondo in cui viviamo.

Infine, goditi i momenti. Quando è stata l’ultima volta che ti sei davvero goduto un momento, il sole caldo sul viso, un paesaggio, un libro, della musica o un podcast? Se riesci a riempire questi momenti, e prenderne consapevolezza, diventeranno parte del tuo bagaglio di esperienze, e contribuiranno alla qualità della tua vita.


Francesca Borromeo

Imprenditrice solidale, pratica Yoga e meditazione da diversi anni. Attrice di Teatro, Camminatrice, Sognatrice.




Gli stupidi ben informati.

Emilio_Gomariz

di Valentina Serafin 

La libertà di informazione è, bene o male, garantita da costituzioni e da leggi.

I media che ricoprono il nostro pianeta, con le loro reti, si dichiarano liberi, ma lo sono davvero, oppure sono in catene? Non è, di fatto, ipotizzabile una rivoluzione democratica, né una politica degna di tale nome, se non si affronta la situazione complessa della comunicazione.

Parlare di punto di non ritorno potrebbe sembrare eccessivo, eppure il nostro Paese si trova, oggi, ad un livello assolutamente insufficiente, se parliamo di qualità e libertà dell’informazione.

Senza una vera libertà in questo settore nevralgico, non ci può essere vera democrazia.

Naturalmente, non stiamo parlando di mancanza di libertà di espressione o di parola, condizione propria di regimi totalitari che, grazie a Dio, non ci riguardano, ma i vincoli sono sempre più virtuali, invisibili, tali da condizionare il pensiero comune, indirizzandolo.

La libertà di espressione, così come la conosciamo oggi, in questa forma, è il frutto di lunghe lotte, che hanno assicurato ai giornali e ai media di poter stampare, trasmettere, informare in modo (apparentemente) libero.

Certo, questa libertà è garantita dalla Costituzione e dalla Legge, ma sempre di più in una forma simbolica che, con il tempo, si è andata modificando, rimodellandosi su esigenze editoriali e di partito.

Oggi, la platea di strumenti informativi è impressionante. A volte, può sembrare anche eccessiva, vista la quantità di dati a disposizione e come questi vengano modificati a proprio uso e consumo. Ma se ognuno di questi strumenti è anche in piccola parte “non libero”, la somma totale, poi, diventa preoccupante, perché si rischia di cadere in un conformismo illiberale.

L’opinione pubblica è spesso considerata dominatrice e onnipotente, giudice ultimo, senza possibilità di appello. Ma, in effetti, e allo stesso tempo, questa è quotidianamente condizionata, in modo subdolo, dunque possiamo certamente dire che è manipolata. Questo accade perchè esiste una condizione di oligopolio con una concentrazione limitata di grandi realtà editoriali, irraggiungibili dalle minoranze ideologiche, che, essenzialmente, sono rese inermi da questo strapotere.

Il lettore, lo spettatore e l’ascoltatore, che vengono dichiarati “protagonisti”, in realtà sono ridotti a soggetti passivi ed inconsapevoli.

Non hanno alcun diritto.

I risultati della cosiddetta “libertà d’impresa mediatica” sono insignificanti.

L’opinione pubblica, il lettore, il cittadino, si difendono come possono e arretrano: abbandonano progressivamente gli strumenti più “difficili” e soggiaciono a quelli più “facili”. Vanno sempre meno in edicola ad acquistare i quotidiani e si consegnano inerti e inoffensivi di fronte alla tv, assimilando improbabili notizie che gli si accavallano nella mente in un turbine di realities, “Grandi Fratelli”, serie tv e news accomodate.

In una società che rivendica (giusti) diritti per qualsiasi minoranza e categoria, nessuno ha mai pensato di garantire i diritti dei lettori e ascoltatori?

Il “lettore”, inteso nel senso più ampio del termine, oggi, di fatto, non ha sufficienti garanzie sul prodotto che acquista e quelle poche che ha sono disattese.

Eppure, questi sono consumatori di una merce ben più delicata di altre, perché condiziona la salute mentale e democratica.


Valentina Serafin collabora con PIUATHENA ed ha una esperienza pluriennale come Presentatrice, Conduttrice TV e Speaker radiofonica, acquisita collaborando con le più importanti realtà del settore.




36 minuti [Don’t Look Up].


La [non] recensione di Cristiana Caserta_

Purtroppo, non sono riuscita ad andare oltre i 36 minuti, nella visione di Don’t look up, il film dell’anno. 

Leonardo Di Caprio e Meryl Streep soliti mostri di bravura non sono bastati a trattenermi. Neanche Jennifer Lawrence, che pure mi piace molto e che nel film funziona un po’ come certi personaggi pirandelliani: l’unico sano in un mondo di matti. O come la bambina vestita di bianco nella Grande Jatte di Seurat, che ci guarda fra dame senza volto che pescano nel fiume col vestito della festa, scimmiette al guinzaglio e cani in libertà. 

Il surreale. Quando cioè si dà veste realistica a qualcosa che non lo è, reale, con l’intento chiaro di ingrandire, enfatizzare, evidenziare un fenomeno per portarlo all’attenzione. Si prende qualcosa di irreale e lo si porta nella realtà, per fartelo guardare meglio e farti capire che tanto irreale non è. Perché si suppone che prima non lo vedevi. 

Confuso com’era.

(La fine di una classe sociale e di un intero passato, in Seurat).

E che cos’è che dobbiamo vedere? Il modo malato in cui la nostra (ho dei dubbi su ‘nostra’: c’è molta american way of life), la ‘nostra’ società reagisce all’emergenza. Siamo stupidi. Non capiamo che le vicende sentimentali dei personaggi dei reality, gli scandali dei politici, le elezioni di midterm sono poca roba.

In confronto alla vita stessa sul pianeta terra. 

Perché è di questo che si parla: di un evento sicuramente distruttivo dell’intera umanità di cui nessuno vuol sentire parlare. 

E allora, ovvio, lo spettatore è preso dall’ansia di vedere trionfare il bene sul male: la preoccupazione per la vita del pianeta su quella per la rottura sentimentale fra due pseudo divi dei social. E mentre è preso da quest’ansia e capisce che è nelle mani di una dottoranda – perché il regista ha già fatto fuori, come credibilità, sia l’esercito che l’accademia – è però anche confortato dal sapere che no, lui o lei, lo spettatore o spettatrice (lo spettatore è uno che è informato, lo sa che il maschile non è inclusivo!) sicuramente reagirebbe in un altro modo! Se nello studio ovale ci fosse lo spettatore/spettatrice col cavolo che li avrebbe fatti aspettare ore su un divanetto, i due scienziati! Pagando pure venti dollari due snack e mezza acqua!

E con questo la trappola, per quanto mi riguarda, è già scattata: “cara spettatrice” – stavolta il regista parla con me – “eccoti un posto in prima fila per guardare lo spettacolo di quanto siamo stupidi! Dove ‘siamo’ è una simpatica e inclusiva bugia, lo sai, vero? Perché tu spettatrice non sei stupida, lo sappiamo! Non pensiamo certo che tu avresti difficoltà a spiegare al Presidente degli Stati Uniti come e perché una cometa ci distruggerà e lo sappiamo che tu non preferiresti avere una stellina tatuata sul braccio all’avere scoperto una cometa con un super telescopio, essendo al contempo una strafiga come Jennifer Lawrence! Tu, spettatrice, sei intelligente! “

Ed ecco perché ho preferito cambiare canale (anzi: uscire da Netflix; ‘cambiare canale’ rivela un boomer che non sono).

C’è – è innegabile – una certa gioia collettiva nello scoprirsi idioti, nel proclamarlo a gran voce, nel compiangere la fine morale dell’umanità che ne anticipa – di sei mesi – e anche forse legittima la fine fisica. Non ha torto Meryl-Commander in chief-Streep quando ricorda sarcasticamente quante riunioni di emergenza ha fatto, quante volte il mondo stava per finire e non è finito, quanti disastri ci sembrano ultimi e poi non lo sono. Quante volte dovevamo cambiare e non siamo cambiati. 

Signora mia, non ci sono più nemmeno i disastri di una volta!

Quelli che mettevano paura davvero.

Questa gioia collettiva del dirsi pessimi non so se sia figlia del credersi salvi (siamo pessimi, ma io no, alla fine, ‘io’: sono buono/a) o se sia voglia di dare le colpe – e c’è un vasto campionario nel film di sicuri colpevoli, pressoché tutti – accantonando per un momento il fatto che come non c’è un pianeta B per i buoni così non c’è per gli innocenti. 

O se sia infine l’orgoglio di averlo capito, quanto pessimi siamo. Non era difficile, invero. E anzi dovremmo sentirci mortificati dal fatto che sia necessario rendere caricaturali certi comportamenti perché ce ne accorgiamo. Quei 36 minuti mi sono sembrati come i telefoni coi tasti grandi, declamati a gran voce dalla ex bimba Cappuccetto rosso: telefoni per nonnini sordi e presbiti. 

Dunque, mi pare di capire: già sapevamo che il Colpevole, dopo essere stato il Maggiordomo, era l’Esercito, era il Presidente, era la Stampa, era la Televisione. E noi gli Eroi (annovero con piacere l’ingresso dei dottorandi e degli ex professori-che-pubblicano fra gli Eroi, i quali erano già tipicamente ex-qualcosa: ex alcolisti, ex poliziotti, ex colpevoli). Ora dobbiamo aggiornare la lista: Influencer dobbiamo aggiungere, e anche Capi di Gabinetto. In attesa che diventino ex e dunque anch’essi Eroi. Non si può essere Eroi mentre si è qualcosa. Mi è chiaro anche questo. O prima, o dopo. 

Scoccia ribadire l’ovvio, ma, laddove la scelta giornaliera non è fra l’estinzione dell’umanità e il litigio fra divi social, e noi non siamo l’Esercito degli Stati Uniti, la Carta Stampata e nemmeno gli Influencer di casa nostra, tocca andare sempre a distinguere, a districare, a scegliere, volta per volta, se e cosa dire sui social, se togliere o mettere il nostro stupido like, se essere furbi o intelligenti, generosi o scialacquatori, arroganti o determinati. Fare scelte un po’ sottili.  Solitarie. Off-Netflix. Quando in ballo ci sono poste piccole, al limite dell’invisibile. 

E anche, siamo chiamati, a distinguere le emergenze, e numerarle. C’è l’emergenzona e l’emergenzina. E l’emergenza di mezzo. Grigia. Pandemia è un po’ meno di Estinzione dell’Umanità e della Vita sulla Terra, un po’ più di Scandalo Porno-Politico. Surriscaldamento Globale è un po’ più di Pandemia. Variante Omicron un po’ meno di Variante Delta.

È banale, vero?

Non siamo nonnini sordi e presbiti. 

Forse qualcuno.


Cristiana Caserta_

LinkedIn Top Voice 2020; 

Scrivo, studio, insegno materie con le tecnologie, sono pratica di formazione, giornalista free lance, multipotenziale.




I confini del tuo linguaggio sono i confini del tuo mondo.


di Matteo Moro_

Domandatevi da dove venite e cosa volete. Fate altrettanto con il vostro vicino di casa, o con la persona che è immersa totalmente nel suo cellulare sul sedile accanto al vostro in metropolitana.

Una domanda così semplice si basa su una lunga serie di presupposti condivisi: conoscere il significato delle parole utilizzate, conoscere la forma interrogativa di una frase, condividere lo stesso idioma. 

Semplice”, starete pensando. 

Al massimo vi toccherà improvvisare in una lingua straniera che avete appreso al liceo o in una scuola serale.

Ma immaginate ora di dover porre la stessa domanda a degli alieni. 

Da dove si comincia a costruire una forma di comunicazione, quando si proviene da mondi diversi, e non si condivide quasi nulla?

La questione, che apre molti interrogativi di natura filosofica ed etica, mette in discussione l’universalità dei significati del mondo in cui siamo immersi e il modo stesso in cui lo concepiamo. 

L’argomento è stato affrontato in un racconto di Ted Chiang, da cui è stato poi tratto il film “Arrival” [2016] diretto da Denis Villeneuve.

Il racconto dal titolo “Story of Your Life”, tenta di spiegare la difficoltà di un dialogo con uno straniero, in questo caso degli Alieni, che non sia suscettibile di incomprensioni.

La storia narrata ha la caratteristica di essere “palindroma”, cioè può essere “letta” dall’inizio alla fine e viceversa, lasciando poi al lettore la possibilità di comprenderne il senso e il significato linguistico, in un senso o nell’altro.

Questa una delle (molteplici) chiavi di lettura. 

E’ il nostro pensiero che determina il modo in cui ci esprimiamo, o la struttura della lingua che parliamo eserciterebbe un’influenza sul processo di categorizzazione mentale di chi parla?

Benjamin Whorf, noto linguista e antropologo americano, insieme al suo maestro Edward Sapir diede vita a uno dei più famosi assiomi linguistici di sempre, la Sapir-Whorf Hypothesis, secondo cui il nostro modo di esprimerci e comunicare, in tutte le forme e modalità, determina il nostro modo di pensare; è quella che viene comunemente riassunta come ipotesi della relatività linguistica. 

“La nostra analisi di ciò che ci circonda e viviamo, segue linee tracciate dalle nostre lingue madri.  Le categorie e le tipologie che individuiamo nel mondo dei fenomeni non le troviamo lì come se stessero davanti agli occhi dell’osservatore; al contrario, il mondo si manifesta in un flusso caleidoscopico di impressioni che devono essere organizzate dalle nostre menti, cioè soprattutto dai sistemi linguistici nelle nostre menti. Noi tagliamo a pezzi la natura, la organizziamo in concetti, e nel farlo le attribuiamo significati, in gran parte perché siamo parti in causa in un accordo per organizzarla in questo modo; un accordo che resta in piedi all’interno della nostra comunità di linguaggio ed è codificato negli schemi della nostra lingua…”.

Nel racconto a cui abbiamo accennato, gli Alieni offrono la possibilità di comprendere la propria facoltà comunicativa, conoscendo la quale si riesce a concepire il loro concetto di tempo non lineare, ma circolare e, di conseguenza, a concretizzarlo in una possibilità, in un dono. Il dono di aprire, figurativamente parlando, un varco nel cerchio dello spazio-continuum, per permettere alla mente umana l’ingresso e uno sguardo nuovo, proiettato in avanti.

Conoscere il futuro, in fondo, significa guardare i propri errori, per comprenderli ed evitare quindi di (ri)commetterli.

Si ritorna allora all’ipotesi di Sapir-Whorf: Il linguaggio incide sulla visione delle cose e dunque se è vero che la lingua che parli determina il tuo modo di pensare, allora è altrettanto vero che, studiandone una nuova, è come se il tuo cervello subisse una decodificazione.

Whorf stesso sosteneva che “Non possiamo parlare affatto, se non accettiamo l’organizzazione e la classificazione dei dati che questo accordo stipula […] significa che nessun individuo è libero di descrivere la natura con assoluta imparzialità, ma è costretto a certi modi di interpretazione, anche quando si ritiene completamente libero.

A dimostrazione della natura intrinsecamente interpretativa del linguaggio, la stessa teoria ha due diverse interpretazioni, una versione forte e una debole.

La prima è nota come determinismo e afferma che il nostro pensiero è interamente determinato dalle strutture della lingua; la versione debole della teoria è definita invece relativismo: le strutture delle lingue eserciterebbero un’influenza sul processo di categorizzazione mentale di chi parla.

“Se si tracciano dozzine di linee di forme differenti, le si nota subito come classificabili nelle categorie di “rette”, “contorte”, “curve”, “zig zag”, perché i termini linguistici contengono in se stessi un carattere stimolante la classificazione. Noi vediamo e udiamo e facciamo altre esperienze in un dato modo in gran parte perché le abitudini linguistiche della nostra comunità ci predispongono a certe scelte di interpretazione.”

Che propendiate per l’una o l’altra interpretazione della teoria , sappiate che la lingua che usate ogni giorno non è così neutra e ovvia come avete sempre immaginato. Ogni volta che parliamo forniamo una rappresentazione simbolica e tangibile della nostra mente e del modo in cui concepiamo il mondo.


Matteo Moro

Architetto dati che lavora nel settore dell’informatica e dei servizi. Interessato alla matematica, al monitoraggio delle prestazioni e a tutto ciò che riguarda il Machine Learning. Professionista dell’ingegneria con un Master focalizzato in Matematica e Informatica presso l’Università degli Studi di Roma Tre e l’Univeristé Aix-Marseille.




Fallo di reazione.

Sophie Jodoin_Study for headgames

di Christian Lezzi_

Nello sport (soprattutto di squadra e di contatto, calcio in primis) si definisce così, quell’atto scorretto e spesso violento, sicuramente posto fuori dal regolamento vigente, mosso in risposta al torto ricevuto. Una violenza che risponde alla violenza, una scorrettezza che ne paga un’altra, un momento d’impazienza e di frustrazione che reagisce ai gesti o alle offese ricevuti.

Mi offendi? Ti ingiurio! Mi tiri un calcio? Ti restituisco un pugno! 

Banale e ancestrale, istintivo e animale, codificato perfino dai sacri versi dell’occhio per occhio e dalle leggi sulla legittima difesa (che ne regolando anche un suo eventuale eccesso colposo). 

È indiscutibile che, una violenza, sia sempre da condannare con forza e decisione, chiunque l’abbia agita, qualunque sia stata la causa scatenante. Perché il ricorso alla violenza, sia essa fisica o verbale, è la fine del dialogo, della civile coesistenza e dell’urbano convivere. Rompe la fiducia interpersonale, tirando fuori il peggio di noi. 

Un atto bestiale quindi, etologicamente parlando, da condannare tout court, senz’appello alcuno, a prescindere dalle situazioni, condizioni e contesti a margine. Fatta salva forse l’esasperazione che, se proprio non giustifica, per lo meno riesce a rendere più comprendibile l’atto di risposta.

Attenzione! Spiega, ma non giustifica.

La violenza, anche quando è conseguenza inevitabile di gravi mancanze, operate nei nostri confronti, è sempre e comunque un atto da stigmatizzare e punire. Se le dispute si potessero risolvere a suon di pugni, vivremmo ancora sugli alberi, ma siamo esseri umani (comunque animali), seppur dotati di parola e intelletto, intrisi di impulsi e paure, tic e fobie, ambizioni e frustrazioni, emozioni e (neanche a dirlo) reazioni, convogliate da pulsioni spesso ataviche e inspiegabili, anche a noi stessi, data la natura istintiva di ogni reazione brutale.

Per sbagliato che sia, resta impensabile che un atto lesivo, ricorrente e continuato nel tempo, presto o tardi, non finisca per scaturire una reazione contraria, determinata dal momentaneo crollo nervoso ed emotivo, quando la rabbia acceca e impedisce il controllo ragionato. È nella natura delle cose, fa parte del funzionamento degli esseri emotivi che pensano (quali tutti noi siamo), incapaci di gestire in toto quelle emozioni, quando snervati e stressati oltre ogni umana sopportazione.

Ed è proprio l’atto lesivo ripetuto, stante la condanna alla reazione, quello da crocifiggere, rappresentando la mano che arma la proverbiale pistola, una mancanza di rispetto e una grave carenza attitudinale all’umana interazione sociale.

Una mancanza di rispetto! Eccolo il nodo gordiano nel ragionamento.

La violenza è sempre sbagliata, per quanto la reazione, atta a contrastarla o a contenerla, a volte sia legittima (è infatti prevista come tale dal codice penale) e altre sia sproporzionata (eccesso colposo). Ma ciò che troppo spesso estromettiamo dal ragionamento, è il rispetto per l’altro, che nell’azione lesiva ripetuta e continua, quasi sistematica, viene omesso, negato, stravolto e calpestato. Come calpestata è la pazienza di colui che, quella mancanza di rispetto, sopporta e subisce, finché la misura è colma e scocca la proverbiale scintilla.

Come una goccia che a poco a poco, scava la roccia. Anche a quella roccia salterebbero i nervi, se solo li avesse.

Una questione di rispetto. Forse aveva ragione Bukowski quando, probabilmente stanco dei rimproveri e degli appunti mossi al suo atteggiamento, senza che venisse contestualmente analizzata la causa scatenante la reazione, scriveva: “La manipolazione è quando ti rimproverano per la tua reazione alla loro mancanza di rispetto”. Una citazione che, seppur leggermente fuori contesto, ci è utile a chiarire il concetto.

Certo, la violenza è sempre sbagliata (e tre!), anche quando è una risposta snervata a quella subita, seppur solo verbale o di atteggiamento, perché siamo esseri fallibili, soggetti alla neurochimica del nostro cervello e alla cultura ambientale che c’impone un codice comportamentale. E abbiamo una pazienza, tutt’altro che illimitata e, al pari nostro, umanamente fallibile.

Per questo prevenire è meglio che curare, laddove la prevenzione assume le sembianze di un comportamento rispettoso dell’altro e delle sue istanze, spesso legittime e motivate.

Forse è proprio nella prevenzione, nel buon gesto a prescindere, la quadratura del cerchio, se solo fossimo disposti a sostituire la fallace astrazione della legittima difesa (anche e soprattutto nel caso del suo eccesso colposo), con una più moderna e inclusiva, oltreché concreta, idea di legittimo rispetto preventivo, potenzialmente più capace di edificare un’agognata, nuova e migliore, società civile.


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.

Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




Quando le informazioni mancano, le voci crescono.

di Valentina Serafin 

La credibilità delle fonti che forniscono informazioni e la qualità dei contenuti stessi, in un modello di società come la nostra, immersa totalmente in una comunicazione disordinata e non sempre verificabile, è ancor più messa in discussione da una sterminata disponibilità di strumenti comunicativi e una quasi totale mancanza di forme di intermediazione.

Lo sviluppo di idee che si trasformano in decisioni e poi successivamente in azioni, non può prescindere dalla disponibilità di informazioni corrette e verificate.

Le informazioni devono necessariamente essere disponibili in forma comprensibile, nel modo più chiaro possibile, senza distorsioni e in forma tale da poterne verificare l’attendibilità.

E’ ormai un mondo diverso: la produzione e la condivisione delle informazioni si è praticamente ridotta in tempo reale. Il modo di comunicare è totalmente cambiato, il tono, la forma del linguaggio, la grafia stessa e alcune parole hanno totalmente perso o cambiato significato.

E’ innegabile che siamo di fronte ad una vera e propria rivoluzione culturale, linguistica e comportamentale. Siamo noi stessi gli artefici e allo stesso tempo i destinatari.

La cultura, ad esempio, una volta era destinata ad ambienti circoscritti, così come il mondo della ricerca, di cui oggi si parla in particolare, e dunque anche molti altri settori, oggi, sono chiamati loro malgrado a confrontarsi con una platea sterminata di commentatori ed “esperti” , che possono sostenere teorie non supportate da dati scientifici, e renderle immediatamente pubbliche, trovando anche , ma non solo, attraverso i nuovi media ampia risonanza, consenso e seguito.

Naturalmente non è solo storia recente: attraverso una comunicazione distorta per uso strumentale sono nate, cresciute e prosperate ideologie che hanno fatto la drammatica storia del mondo.

Ma oggi è ancora più semplice indirizzare comportamenti e decisioni su argomenti anche molto delicati, pensiamo alla alimentazione, la salute, con il rischio di conseguenze drammatiche.

Il dissenso critico va sempre dimostrato e verificato, applicando il metodo scientifico, e non ricorrendo ad una narrazione accattivante e persuasiva, ma priva di dati.

Quando accade questo, il pifferaio magico è in grado di incantare il seguito di topini, farli entrare in un mondo di teorie, supposizioni, quanto meno discutibili, e farsi seguire verso destinazioni pericolose e rischiose per loro e la comunità che intendono rappresentare.

La responsabilità della comunicazione condivisa, la competenza per poterne parlare, dovrebbero sempre essere il punto di partenza senza le quali non è nemmeno il caso di mettersi in cammino.

Una buona ed efficace comunicazione, capace di sapersi muovere con strumenti e contenuti credibili,  e all’interno di un campo di competenza riconosciuto e riconoscibile, favorisce la crescita di cittadini consapevoli ed informati, e permette loro di comprendere la complessità che caratterizza la nostra Società attuale, esercitando anche una importantissima funzione formativa.

Non stiamo parlando di semplificare concetti e dati che per loro natura devono essere inseriti in griglie complesse ed interpretabili da professionisti del campo, ma saper fornire strumenti idonei per interpretare una mole di informazioni affinchè l’affollamento informativo, amplificato dai vari media, non si trasformi in un incomprensibile rumore di fondo che non aiuta ad orientarsi.

Strumenti capaci di unire e integrare culture e «mondi» diversi, capaci di intrigare e interessare i «nativi» e i «tardivi» digitali. 

Perché per tutti l’accesso alle conoscenze, alle informazioni, al riscontro delle fonti sono strumenti necessari per sviluppare la comprensione critica dei dati e l’usabilità degli stessi. 


Valentina Serafin collabora con PIUATHENA ed ha una esperienza pluriennale come Presentatrice, Conduttrice TV e Speaker radiofonica, acquisita collaborando con le più importanti realtà del settore.




L’amore quando c’era – Chiara Gamberale

Un libro ben scelto ti salva da qualsiasi cosa. 

Persino da te stesso”

Illustrazione di Anna La Tati Cervetto
Rubrica a cura di Sara Balzotti_

Casa editrice: Mondadori 

Data di pubblicazione: 05 maggio 2020

Genere: narrativa 


L ‘amore quando c’era racconta momenti di vita di coppia che in un modo o nell’altro abbiamo vissuto tutti, dietro ai quali si nascondono dinamiche legate ad un rapporto con noi stessi non del tutto risolto o a traumi ancora sanguinanti.

Amanda è single e non riesce a instaurare rapporti di coppia duraturi; qualcosa la rende inquieta e non riesce a darsi le giuste risposte.

Un giorno la donna propone un tema sulla felicità ai suoi alunni; i lavori che le vengono restituiti le fanno scattare qualcosa che la obbligano a guardarsi dentro alla ricerca di quello che non riesce a farla stare bene.

Almeno una volta è successo a tutti noi; nei momenti in cui ci sentiamo fragili, e un pò soli, ci guardiamo indietro alla ricerca della persona che abbiamo amato e con la quale non abbiamo più rapporti. 

Dopo tanti anni impulsivamente Amanda decide di mandare una mail al suo ex fidanzato, Tommaso, con il quale aveva vissuto una storia d’amore molto intensa ma che aveva lasciato all’improvviso, senza motivazioni evidenti.

Amanda gli scrive per inviargli le sue condoglianze per la perdita del padre.

Inizia così uno scambio di corrispondenza virtuale, all’inizio dai toni formali dove l’uomo apprezza il pensiero della ex e pone la conversazione su un tono distaccato.

Entrambi si ricordano l’affetto provato reciprocamente; Amanda è cosciente del dolore causato a Tommaso quando lo lasciò improvvisamente.

Tommaso è sposato e ha due bambini: una vita all’apparenza perfetta.

È proprio l’affetto che li ha legati a far aumentare la confidenza delle conversazioni; il mezzo informatico, senza contatto umano, rende più semplice lasciarsi andare a confidenze, momenti di riflessione e ricordi di una passione vissuta.

Piano piano la vita familiare e coniugale di Tommaso non si presenta più così soddisfacente e completa.

Perché i figli mettono così in difficoltà i coniugi?

I due protagonisti resisteranno alla tentazione di rivedersi?

Armanda riuscirà a trovare la sua serenità?

I temi affrontati Chiara Gamberale non sono nuovi e risultano già dibattuti sotto tanti punti di vista; leggerli fa sempre comunque riflettere e ci fa buttare un occhio sullo stato della nostra quotidianità…!


Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!

A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.

https://www.francesia.it/freetime/consigli-di-lettura/




Sublima le tue imperfezioni.

di Valeria Frascatore_

Di norma i tasti sono complessivamente ottantotto: cinquantadue bianchi e trentasei neri.

Alt, non è un indovinello! Perché ne sarebbe troppo scontata la soluzione.

Il pensiero corre alla gamma di combinazioni musicalmente possibili e alla nostra vita, il cui ritmo viene scandito dalle dita che si muovono, abili, sulla tastiera, in una mirabile alternanza di contrasti e conflittualità di opposti in grado,però, di realizzare un’idea di convivenza armonica tra quei tasti bianchi e neri.

Un tremito sottile scuote il corpo e l’anima mentre, rapiti, sperimentiamo la strabiliante familiarità delle vibrazioni del suono realizzando che ci rianima e ci consola:qualche volta induce perfino a iniziare a canticchiare il motivo accennato dallo strumento. Succede a tutti e non si richiede affatto di dar prova della perfetta intonazione per partecipare a una forma di esibizione corale.

La melodia ci fa sentire vivi, vivi nel presente…nel qui e ora.

Pure la vita va vissuta così: ricordando sempre che ci sono momenti in cui il mondo deve rimanere ad attenderci fuori. Non importa se per un minuto o per un’ora.

E noi dobbiamo favorire questo salvifico isolamento senza sviluppare sensi di colpa, affinché ogni angolo della nostra mente possa essere permeato da energia: quella che ciascuno di noi è perfettamente in grado di irradiare mentre, con un’inconfondibile – a tratti goffa – presenza, cerca di farsi strada nel mondo.

Possiamo limitarci ad ascoltare un’armonia che si sviluppa attraverso l’alternanza del bianco e del nero, oppure scegliere di comporla e suonarla in prima persona, decidendo dove condurrà noi e il nostro pubblico.

Non è una valutazione agevole e, spesso, passa attraverso il dubbio, il pianto e l’incapacità di frenare i contristati sussulti di un cuore frastornato che,però, trova sempre il modo di tornare a palpitare quando la musica è nuova, intensa e struggente.

Una vita veramente libera è innanzitutto una vita responsabile e alla conquista di sé stessi , di uno spazio in cui la coscienza delle proprie, infinite potenzialità espressive si identifica con l’affermazione incondizionata dell’IO che, senza alcuna pretesa di egotismo, emerge dall’ombra del qualunquismo e dell’ovvietà e, appunto, vive.

L’uomo è libero quando trova l’incastro giusto rispetto al puzzle dell’esistenza: quello che si sceglie da solo, non quello che altri vorrebbero scegliere per lui.

La libertà non è preda di facili seduzioni, rifugge dalle convenzioni, dagli standard e dai luoghi comuni ma il motivo non risiede in una diversità che ha del mostruoso o del ridicolo: in fondo, è un privilegio essere dotati di un patrimonio spirituale attraverso il quale poter sancire il proprio distacco da un mondo manovrato a dovere dalla logica della privazione, dello stantio e del nulla più assoluto.

Il pericolo vero,tutt’al più, è subire una coazione, diretta e indiretta, della propria volontà: essere pilotati come marionette, da chi, facendo leva sulla disistima di sè e sulla sfiducia nelle proprie capacità, dimostra di non arrendersi all’idea che si possa vivere affrancati e non omologati.

Al contrario, chi si affranca, si salva sempre e necessita di un rigeneramento emozionale continuo per non perdere di vista il bisogno, quasi ancestrale, di stabilità che dovrebbe rappresentare l’ideale traguardo dell’esistenza.

E quell’angosciosa inquietudine che, irrimediabilmente, ci assale astraendoci dall’anonimo cortometraggio di una realtà in cui, senza accorgercene, stiamo vegetando  – e non vivendo – va coltivata, perché ci sta avvertendo che la musica è cambiata e noi non la stiamo ascoltando.

Se, dall’esterno, sopraggiunge un tocco indulgente sui tasti bianchi e neri, consente di non farci smarrire il senso della melodia e di non rinunciare alla musicalità che accompagnano i singoli vissuti, ma alla fine tocca a noi dover gestire le energie, gli obiettivi, l’ardita ripidezza di alcune scale musicali.

Insomma, bisogna essere disposti a salire su una montagna russa con la consapevolezza che ne scenderemo completamente – ma positivamente – stravolti.

Come quei pianisti, un po’ invasati,che accompagnano l’esecuzione dei loro brani con movenze smodate:veri e propri spasmi, che sembrano interessare tutto il corpo e non solo le dita delle mani.

A prima vista sembrano pazzi: in realtà, sono i veri vincenti…quelli che,della vita, hanno capito tutto.

Il pianoforte ha una precisa collocazione rispetto all’ambiente in cui la sua musica risuonerà:dobbiamo imparare a pensare a noi allo stesso modo.

Perciò, è auspicabile che il pianto duri solo il tempo di un concerto per lasciare il posto, nel domani, a un sorriso pieno, schietto e disimpegnato che si vada a disegnare, lieve lieve, sul volto:sarà il sorriso di chi, grazie al suono di una melodia finalmente riconoscibile, avrà imparato a esercitare e a far valere il proprio diritto a vivere da persona libera.


Valeria Frascatore_

Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.