Finestra sui social – twitter: Gregory Acs (@AcsGregory)
Signore e signori, con questo profilo twitter abbiamo il piacere di inaugurare una rubrica con la quale, ad insindacabile giudizio della redazione, in ogni articolo vi presenteremo un profilo social, scelto adducendo motivazioni e ragioni, di volta i volta, tra le più disparate.
Nel caso di @AcsGregory, però, non abbiamo bisogno di arrampicarci troppo sugli specchi: la TL è piena zeppa di fotografie straordinarie. Le sue.
Trailer: Greco e Latino, in Architettura. La serie.
Cominciamo col botto, facendovi entrare virtualmente nella più bella Architettura del mondo (… e ci dispiace per le altre?.. No, non ci dispiace per nulla: non c’è storia, anzi Storia che tenga. Il Pantheon “è” l’Architettura).
E proseguiamo chiarendo subito che questo articolo vuole essere “solo” il trailer di una corposa serie nella quale parleremo di Architettura. Non aspettatevi però archistar modaioli o archistarlettes da rivista patinata; tratteremo solo di Architettura Classica, considerandola soprattutto come linguaggio. Parleremo allora di comunicazione; parleremo del greco e del latino, nelle loro versioni architettoniche. Racconteremo di capitelli, colonne, trabeazioni, ovuli e astragali; ne illustreremo la Prosa, Poesia, Grammatica, Sintassi, Eccezioni e …strafalcioni. (Maiuscole e minuscole non sono casuali) E soprattutto lasceremo la parola alle immagini, tutte originali e – necessariamente – di qualità superlativa. Già, armati di fotocamera, non si possono sfidare delle meraviglie in pietra e mattoni, corrispondenti a quelle su carta di Omero, Cicerone e Virgilio, senza esserne all’altezza. Ecco un’anteprima, e…a presto.
Sempre più spesso capita di vedere in giro per le città (piccole o grandi che siano) degli spazi pubblici riqualificati con nuovi elementi di arredo urbano che incentivano a socializzare e rilassarsi, piste ciclabili colorate, panchine e fioriere in posti normalmente usati come parcheggi o carreggiate.
E’una “tendenza” che piace sia ai cittadini, sia alle Pubbliche Amministrazione e che, sebbene forse in Italia stia prendendo piede solo ora, viene utilizzate nelle grandi metropoli mondiali già da diversi anni.
Stiamo parlando dell’Urbanismo Tattico, ovvero un processo di rigenerazione urbana a basso costo economico, ma elevato impatto sociale.
Tre sono le caratteristiche principali:
– coinvolgimento delle realtà locali, quali residenti e non delle zone interessate, associazioni, gruppi di volontariato
– basso costo delle opere
– velocità di realizzazione e reversibilità
I lavori ottenuti, che ridisegnano quindi alcune locations specifiche della città come piazze, incroci, zone di passaggio, hanno il compito di ridefinire il concetto di “mobilità” nell’epoca post Covid, elemento da non sottovalutare data anche la necessità di limitare le auto private e potenziare “Car Sharing” e “Micromobilità”(scooter, monopattini elettrici, biciclette a pedalata assistita).
Ma il loro vantaggio è soprattutto quello di far aumentare il benessere della comunità, sia per quando riguarda il senso di appartenenza, sia per promuovere una socialità “sana”, lontano per qualche ora dagli effetti del mondo digital.
Tanto entusiasmo per queste tecniche non convenzionali di riqualificazione urbana si è visto a Milano, ad esempio con il progetto “Piazze Aperte” – realizzato in collaborazione con Bloomberg Associates e con il supporto della National Association of City Transportation Officials(NACTO) e della Global Designing Cities Initiative – ha consentito ai milanesi di riappropriarsi di spazi altamente trafficati, facendo in modo che i cittadini potessero così vivere in prima persona il loro quartiere.
Talvolta, per compiere le opere, vengono anche chiamati artisti di fama internazionale del calibro di Camilla Falsini (delle più famose illustratrici italiane), che ha messo a disposizione la sua arte proprio per ridisegnare uno dei luoghi simbolo del quartiere Isola, Piazza Tito Minniti.
L’urbanismo tattico rappresenta davvero una soluzione che piace a tutti e che serve per creare empatia, collaborazione e dare origine a nuovi spazi.
Può fornire supporto ed affiancare la fase di progettazione iniziale di nuovi interventi, ma può anche essere un mezzo efficace per “sanare” e quindi riqualificare davvero alcuni spazi che, per svariati motivi, hanno via via perso la loro identità e funzione.
Questo tripudio di colori e vivacità comporta però anche delle problematiche importanti da risolvere.
Le auto non spariscono, anzi potrebbero ingorgare vie limitrofe e rendere così un incubo svolgere i normali spostamenti quotidiani, i commercianti potrebbero avere delle difficoltà nelle operazioni di carico – scarico delle merci e atti vandalici potrebbero vanificare il lavoro svolto.
Sicuramente ci vuole l‘impegno e la volontà di tutti, ma come dice Jaime Lerner – architetto, urbanista, ex sindaco di Curitiba (Brasile) “La mancanza di risorse non è più una scusa per non agire. L’idea che l’azione debba essere intrapresa solo dopo aver trovato tutte le risposte e le risorse è la ricetta per la paralisi assicurata. La pianificazione di una città è un processo che consente correzioni”.
Veneta dal sangue pugliese, intraprendente, riservata e creativa.
Attenta nei confronti delle nuove tendenze della comunicazione, con un occhio di riguardo per le campagne pubblicitarie di impatto sociale, innovative e fuori dagli schemi.
Lettrice eclettica, viaggiatrice anche solitaria, dipendente dalla musica e dalle espressioni d’arte come la fotografia, la pittura e la moda.
Amante delle rappresentazioni teatrali, tradizionali e indipendenti.
Non ho un mio blog, ma amo scrivere in quello degli altri.
L’ Arte palliativa.
di Chiara Savettieri
Ho riflettuto sulle cosiddette “mostre immersive“, anche in funzione di un articolo del Giornale dell’Arte che ho letto di recente. Si tratta di ambienti in cui sono proiettati, per dettagli o interamente, capolavori di artisti come Van Gogh, che risulta uno dei più gettonati in questo genere di operazioni.
Entrando si è completamente “immersi” per l’appunto nell’universo artistico di un grande Maestro.
Mi sono sforzata di capire, senza pregiudizi e con un approccio ingenuo, se potessero avere una loro utilità. Queste immersioni hanno un valore conoscitivo? Aiutano a comprendere i grandi artisti del passato? Dunque, un bambino della scuola elementare per esempio, che non sa nulla di Van Gogh, sicuramente viene introdotto ai colori e a certi temi della sua pittura. Per questa fascia di età, una qualche utilità forse c’è. Ma per le altre?
Di fatto, queste mostre proprio attraverso il procedimento immersivo finiscono per travisare le opere, accentuando certi dettagli piuttosto che altri, confondendo le relazioni spaziali e cromatiche stabilite dal pittore, eliminando completamente le dimensioni e il formato delle medesime.
Insomma, l’arte è trasformata in “evento“, in spettacolo, in macchina che suscita emozioni, molto facilmente, che stupisce, ma di cui poi, in fin dei conti, al fruitore non resta nulla di concreto.
Nessuna di queste opere proiettate è stata realizzata per essere ingigantita e “mossa” su una parete.
La mia è una considerazione eccessivamente storicista? Certo, lo storicismo mi insegna che ogni opera va compresa secondo le categorie e il contesto culturale di una data epoca. Quindi da questo approccio, “eventi” del genere sono delle mostruosità.
Di fatto, il problema non è tanto la mostruosità, ma il carattere diseducativo che si insinua in queste operazioni. Tutti possiamo fruire dell’arte anche se non conosciamo il contesto storico, fruizione più superficiale ma pur sempre fruizione, ma per lo meno che l’integrità dell’opera come l’ha pensata l’artista sia mantenuta, che il senso delle proporzioni e delle relazioni formali resti intatto.
O allora, che l’immersione diventi un’opera d’arte vera e propria a se stante, che trae ispirazione dall’artista di partenza (Van Gogh o chi per lui), ma che ne interpreti le opere in modo originale, un po’ come ha fatto Bill Viola con le sue videoinstallazioni ispirate a opere medievali e rinascimentali (artista di altissima levatura che nulla ha a che vedere con questi eventi). Oppure a partire dallo stile di Van Gogh, fare un cartone animato sulla sua vita (il bellissimo Loving Vincent).
Insomma se di immersione si deve parlare, allora che sia sfacciatamente interpretativa e originale, e non apparentemente fedele all’artista che vuole celebrare, ma in realtà subdolamente ambigua e falsa.
Penso che queste mostre immersive siano il frutto di un’epoca che cerca le facili emozioni, che vuole una immediata, sensazionalistica e peraltro falsa comprensione delle cose, che trasforma l’arte in divertissement. L’epoca dei likes in cui si cerca di “compiacere” l’altro, privandolo di stimoli veri, con cose spettacolari ma senza sostanza.
La società palliativa.
Chiara Savettieri
Chiara Savettieri insegna Metodologia della ricerca storico-artistica e Storia della critica d’arte all’Università di Pisa. E’ specialista di storia dell’arte e storia della critica d’arte in Francia tra Sette e Ottocento, di tematiche legate all’età neoclassica (fortuna dei primitivi, rapporti tra arti visive e musica/danza, memoria dell’antico). Si è inoltre occupata del tema della morte nell’arte contemporanea e della rappresentazione dei neri nell’età moderna.
E’ in corso in questi giorni, fino al 30 settembre a Noto [SR] , “D’AMORE DIMORE” , la Personale di Silvia Berton.
E’ una mostra di una Artista poliedrica che arriva dalla fotografia, passa quindi alla Pittura, e inserisce, come in questa occasione, una esperienza sensoriale e tattile con gli spettatori.
Lo scopo è quello di ampliare ed integrare l’orizzonte di esplorazione della mostra tramite il coinvolgimento dello spettatore a livello personale.
“Spero sia una occasione per ‘guardarci negli occhi’ vedere davvero l’altro…portare i miei lavori dal muro, alla terra, corpo“.
Silvia è veneta di nascita ma, dopo esperienze professionali a Milano e a Tel Aviv, si trasferisce a Noto, in Sicilia.
Il suo stile, minimalista, è ricolmo di significati narrativi profondi e dal carattere molto forte.
Le sue immagini sono state esposte a Milano, Mantova, Brescia, Genova, Copenaghen, Nizza e Rotterdam.
La incontriamo all’ombra delle arcate di Palazzo Ducezio, location della sua Mostra, seduti sui gradini della splendida facciata.
Nella fotografia esistono, come in tutte le cose, delle persone che sanno vedere e altre che non sanno nemmeno guardare.
“Imparare a vedere, è il tirocinio più lungo in tutte le arti.La fotografia per me è stata prima una opportunità professionale quando posavo, e poi un mezzo di espressione potente che mi ha permesso di imparare ad osservare, e che ho usato ed uso tutt’ora. E’ il mio personale diario emotivo. lo sguardo se si guarda veramente, ti porta al di fuori del pregiudizio, ti distanzia dal conformismo che portano inevitabilmente all’ omologazione dell’individuo, cosa che itutti i modi vorrei evitare.“
Se usata per comprendere e migliorarsi, è uno strumento anche terapeutico e di grande utilità.
“Sono d’accordo, anche se spesso è usata in maniera inadeguata e sicuramente è abusata. Il fotografo ha la responsabilità del suo lavoro e degli effetti che ne derivano”
La fotografia, dunque non è stata semplicemente un’occupazione.
“Non l’ho mai considerata solo come tale. Sia quando posavo, e poi successivamente usando la macchina fotografica, io ho sempre portato un megafono con il quale ho cercato di parlare senza usare le parole.
Quanto è importante cercare dentro sé stessi le motivazioni che poi ti ispirano per le tue opere?
“Non direi che è importante, forse la vera parola e’ urgente, necessario. Un dipinto mentre lo si fa travolge di rovinosa bellezza e incurante distruzione…ci lascia vuoti attorno , ma pienissimi nello sguardo e nell’anima.Riappacificati e pronti per la bataglia di un nuovo vuoto“.
La tua pittura è caratterizzata da un processo di riduzione della realtà, dell’anti espressività, da una apparente impersonalità e freddezza emozionale. Una sorta di riduzione minimale delle immagini che diventa una pittura estremamente raffinata, simbolica, sospesa tra sogno e realtà. Ti riconosci in questa descrizione?
“Io cerco di trovare la sintesi della forma, e questo vale sia per la fotografia che per la pittura. L’incongruenza naturale di un gesto, scarna di ricerca, virtuosismi , velleità artistiche . La discrepanza , un graffio , un taglio che apre finestre laddove prima c’erano muri compatti di colore e certezze, questa per me è bellezza“.
Possiamo aggiungere che una lucida irresponsabilità, una forma di anarchia e una latente disobbedienza intellettuale sono il “fil rouge” della tua produzione artistica?
“Posso dire con convinzione che il principale nemico della creatività è il buonsenso“.
Che il valore dell’arte dipenda solo o prevalentemente dal suo valore estetico è sostanzialmente una idea che ci piace pensare che sia vera. Ma, partendo da questo presupposto, come può avere successo un’artista che non tiene in considerazione primaria il valore estetico e magari si esprime attraverso corpi smembrati (è un esempio).
“L’arte forse dice di un futuro…e non sempre piace.L’arte pone domande…e non sempre piacciono“.
Il mercato dell’Arte è un mercato che viene spesso considerato sporco ed inquinato da interessi che nulla hanno a che fare con le emozioni che muovono un artista. Il rapporto tra i mercanti d’arte e l’Artista è davvero così?
“E’ mercato appunto…merx “merce”….merce sentimentale …forse non è propriamente il giusto binomio…Non so se ti ho risposto…“
Quindi a parità di talento è indubitabile che essere notati dal critico influente faccia la differenza, esporre nelle gallerie più importanti faccia la differenza, essere apprezzati dai collezionisti più capaci faccia la differenza e così via….
“Cogliere queste opportunità, accettare il compromesso, può condizionare le libertà espressiva sottoponendo l’artista ad una sorta di “prostituzione” al successo.
Personalmente,in cuor mio io la penso e la vivo così. Per altri, con altre priorità, il pensiero può essere diverso e va rispettato“.
Il compromesso è una strategia che inevitabilmente è presente in ogni tipo di contrattazione, e dunque la vera domanda è, “sono disposto a scendere a ricatti”?
“Ognuno ha il diritto ed il dovere di guardarsi davanti allo specchio e darsi una risposta. Fatto ciò può prendere una strada o l ‘altra in assoluta libertà, pace e coscienza“.
In qualsiasi mercato la manipolazione dei prezzi da parte degli operatori causa distorsioni, carenze ed inefficienza. Ma nelle sue caratteristiche peculiari , il mercato dell’arte primaria funziona e l’arte contemporanea genera decine di miliardi di dollari di entrate ogni anno. La domanda è : la manipolazione dei prezzi, paradossalmente, non sembra garantire una carriera stabile per le élite e per gli artisti.
“La stabilità è importante perché molti artisti impiegano decenni per maturare e produrre i loro lavori migliori.Se non avessimo tempo di fronte a noi per maturare, alla fine forse non potremmo produrre opere di livello….o semplicemente non potremmo mangiare“.
I commercianti e i collezionisti d’arte credono tutti di avere un ruolo decisivi nell’arte e per la vostra attività e, interessi finanziari a parte, sono preparati per questo ruolo perchè molti di loro sono veri esperti d’arte che vivono non solo di, ma anche e sinceramente, per l’arte. Praticamente trascorrono tutta la vita nel settore, si aggiornano, studiano la storia dell’arte e collocano l’arte contemporanea nel suo contesto storico. Questo gli va riconosciuto: sanno cogliere ciò che la maggior parte di noi “non addetti ai lavori”, non sapremmo cogliere.
“E’ innegabile e giusto che sia così. Questo è un settore nel quale le masse non sono decisive. Facciamo un paragone con un altro mezzo culturale, diciamo la tv per esempio, dove i gusti della maggior parte della popolazione determina la programmazione e la produzione futura. Se ciò accadesse anche nell’Arte, la richiesta del mercato si attesterebbe ad un livello omogeneamente basso. La pittura, ma ogni forma d’arte e di cultura, è una cosa privata; si lavora solo per pochi. Può non piacere questo concetto, ma è un dato di fatto”.
A parità di talento e di qualità di contenuti, è corretto dire che sarà l’artista che più e più spesso si esprimerà, che si proporrà al pubblico, che si collocherà nelle “grazie” dei collezionisti che contano , ad avere un maggior e più duraturo successo?
” Il principio è lo stesso che vale per altre professioni. Se uno scrittore non scrive e non pubblica, non è uno scrittore, anche se ha talento. Inutile nasconderlo: creare arte è una libertà, ma come tutte le libertà per essere tale ha la necessità di dargli forma e sostanza, altrimenti resta una sacrosanta libertà ma individuale e basta, praticata per essere tale, e come tale, essendo alta, ben poco si interesserà ad essere riconosciuta e gli basterà essere vissuta solo da chi la crea”.
Da quello che abbiamo potuto comprendere osservando le tue opere, è che tu hai un profondo rispetto per te stessa ed un concetto di dignità molto radicato. A volte può sembrare una forma di ego, una considerazione molto alta del tuo lavoro e della tua vita.
“In realtà forse ho grande rispetto di quello che amore e lacrime sanno fare e credo che vadano maneggiate con cura,sempre“.
Silvia Berton si avvicina al mondo della fotografia inizialmente come modella; presto però si interessa più al processo creativo che sta dietro l’obbiettivo, che non a farne da soggetto. Il suo stile, anche se di natura minimalista, rimane denso di carattere, forza e narrazione. Le sue sono immagini che chiedono di fermarsi, riflettere e lasciarsi assorbire. L’immaginario compositivo sembra provenire quasi da un’altra dimensione e lascia un’impressione duratura. Le composizioni di Silvia creano un’atmosfera seducente e ci portano con lo sguardo in una storia che dobbiamo ancora capire. Quando osserviamo il suo lavoro ci sembra di scivolare nel sogno di qualcun altro: è reale, senza essere vero. E’ misterioso, passionale e quasi sempre ci lascia con un respiro in sospeso, senza raccontarci mai il finale della storia.
I Cimiteri – “dormitori” nell’etimologia dal greco: [koimeterion] luogo dove si va a dormire – sono certamente anche “luoghi della memoria”, memoria per chi ritrova un caro estinto, un figlio, una moglie, una madre, ma anche memoria di un tempo terreno ormai andato, non solo per chi lì “riposa”, ma anche di un tempo storico e artistico ormai irrimediabilmente passato.
Lo sono in particolare i cosiddetti “cimiteri monumentali”, storici, talvolta enormi di altrettanto grandi città, dove ritrovare, ma anche ammirare, tombe che risalgono ai primi del ‘900, se non ad anni antecedenti.
Perché ammirare? Perché troviamo tombe e opere scultoree (arte funeraria) realizzate con rara maestria, per quello che al tempo era un vero e proprio mestiere che dava lavoro a molti “maestri” e “discepoli”, garzoni di bottega che lavoravano in veri e propri “atelier”.
Maestria di bozzetti, modelli e poi sculture, che purtroppo è andata perduta nel tempo, per un cambio di paradigma, di mentalità, della legge della domanda e dell’offerta, in un tempo il nostro, certamente molto standardizzato e appiattito anche nell’arte funeraria.
Un tempo quello andato, in cui per una famiglia generalmente benestante (questo va detto), era importante lasciare un segno imperituro della vita e delle opere del “caro estinto”. Segno anche di uno “status sociale”, non scevro di una certa ostentazione. Lo si comprende non solo dalla sontuosità di certe tombe, ma anche dagli epitaffi, talvolta mini-biografie che ancora oggi decantano le “opere buone” di chi ci ha lasciato, ma al contempo sono, vorrebbero essere, segno dell’amore, della stima, della gratitudine, di chi è rimasto a piangere il lutto.
Non di meno sono segno di un afflato verso la “vita oltre la vita”, la speranza, la fede, il fato, Dio e i suoi Angeli. Sono opere intrise di tristezza, di dolore, ma anche di certezze, di speranza, di misticismo.
Se ci si sofferma sull’inevitabile incuria, sul deposito della polvere quasi indelebile che crea sulle figure un effetto “al negativo”, come una luce che sembra partire dal basso, più che dall’alto, ci si rende conto ancor di più del tempo trascorso e che ormai morti sono anche coloro che questi morti hanno sepolto…. eppure quel “monumento” è lì, a richiamare la nostra attenzione su una vita di cui nulla conosciamo tranne ciò che l’epitaffio riporta e sulla bellezza e la simbologia di quell’opera di maestria.
Sono luoghi, incredibili, densi di un silenzio avvolgente, di una sacra pace, di una straniante solitudine, affascinanti per chi come me, ama la fotografia, e già prima luogo di “studio”, quando frequentando il Liceo Artistico, ci si spostava presso un cimitero vicino, per avere più “materiale” da ritrarre che non fossero solo gli ormai logori soggetti della gipsoteca dell’istituto.
Questo, o perlomeno anche questo, è l’affascinanteCimitero Monumentale di Staglieno, presso Genova, alla cui visita vi invito e le cui foto da me scattate (solo alcune), qui vi propongo. Struggente, la sezione delle tombe dei fanciulli morti in tenera età, anch’esse decorate da piccole sculture.
Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti. Appassionato di Design e Fotografia.
Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.
Un bar illuminato. Dentro: due uomini, una donna vestita di rosso, un barista. Fuori, una città vuota e buia.
[l’uomo col cappello]
La sera era umida. L’umidità sembrava trasudare dagli angoli bui delle strade, dove l’aria era quasi solida. Maleodorante. Si calò la falda del cappello sulla fronte e affrettò il passo per sfuggire a quegli angoli tetri, a quel buio malsano.
Un bar inondava di luce gialla la strada.
Entrò, di malavoglia. Suo malgrado, quasi.
Non voglio tornare a casa.
Il pensiero gli attraversò rapido la mente, così veloce che non ebbe tempo si scacciarlo e restò sgomento, come colpito da una pallonata con un pugno di ragazzini insolenti e spavaldi intorno,ad aspettare una sua reazione. E quei ragazzini erano i suoi pensieri. Insolenti.
Li scacciò via.
Andò a sedersi nel posto più lontano possibile dall’unico altro cliente del bar, così da non sentirne la solitudine. O da non fargli sentire la sua.
Ordinò un caffè.
Non gli importava se non avrebbe dormito, la notte. Amava casa sua, di notte. Quando gli altri dormivano.
[la donna vestita di rosso]
Alzò lo sguardo, e fuori dalla finestra era già buio. Era sera ed era digiuna. Fece scivolare il libro per terra, gli occhi le facevano male, si tolse gli occhiali e si massaggiò l’attaccatura del naso. La lettura la prendeva. Ma, a volte, doveva smettere di leggere: c’era qualcosa – una frase, un pensiero, un parola – che si faceva strada nella sua testa, ma come sfocata, inafferrabile. La sentiva precipitare dentro di sé, girare a vuoto, vorticare, fino a trovare un altro pensiero, una parola – gemella – che l’avrebbe illuminata.
Doveva fare altro mentre questo accadeva.
Uscì.
L’aria umida della sera la sorprese. Attraversò la strada deserta e si vide riflessa nella vetrata del bar. Oltre la sua immagine, dentro, c’erano due uomini. Andava spesso in quel bar. Quasi ogni giorno, in realtà. Sedeva sempre allo stesso posto, da cui poteva vedere le finestre del palazzo di fronte.
Le piaceva guardare dentro le case, dalle finestre. Le piacevano le case.
Un uomo col cappello era seduto al suo posto e beveva un caffè. Gli si sedette accanto e ordinò un panino e un caffè. Voleva stare sveglia. Finire il libro. Fermare il maëlstrom della sua testa. Avrebbe dormito poi.
[l’uomo col cappello]
La vide arrivare , una macchia rossa, guardare la sua immagine riflessa nella vetrata, sistemarsi i capelli. Entra – pensò. E contemporaneamente: nonentrare. Cercò riparo dall’assurdità dei suoi pensieri nella parete di fronte. Nelle bottiglie di liquore ordinatamente allineate. Non la guardò entrare, ma intuì di averla accanto perché emanava un profumo leggero: limone, forse. Il barista gli sorrise e gli chiese se volesse altro; fece cenno di no con la testa. Poi sorrise anche a lei e scambiarono qualche parola; poi lei sembrò immergersi in qualche pensiero, come se cercasse di mettere a fuoco qualcosa.Note di un jazz invasero la stanza. Si innervosì. Rimpianse la calma e il silenzio di prima, prima che lei entrasse. Lei sarebbe uscita, il barista avrebbe sicuramente spento la radio e smesso di sorridere, sarebbe tornato il silenzio, ma sarebbe stato diverso. Un silenzio diverso. E lei sarebbe sparita nella notte, chissà dove. Ignara.
Quel pensiero lo incupì.
Meglio andarsene. Prima che tutto ciò accadesse.
[l’uomo di spalle]
… ci sono scrittori che sanno scrivere solo di una cosa, ossessionati; e pittori che sanno dipingere solo una cosa: cattedrali, ninfee, mani. Leonardo era un pittore di mani. L’ultima cena. Le mani di Gesù. Come quelle di un direttore d’orchestra. Che cosa sono i gesti di un direttore d’orchestra?
Se lo era sempre chiesto…
Le mani di quei due seduti di fronte. Le guardava da un bel po’. Si sfioravano. Lei aveva divorato il suo panino e orasi guardava intorno come stupita di essere in un bar. Come se vedesse per la prima volta il barista e l’uomo col cappello accanto a lei. L’uomo era nervoso, invece. Si spostò impercettibilmente verso di lei, incerto se iniziare una conversazione o alzarsi. Lei lo guardò e gli chiese qualcosa, indicando un punto oltre i vetri, dall’altra parte della strada.
[il barista]
Certi uomini sono misteri che è meglio non voler indagare. Abissi.
Come quell’uomo che beveva il caffè. Gli chiese se volesse qualcos’altro. Ne aveva visti tanti da dietro il bancone di quel bar… Ma lei gli avrebbe parlato, si capiva. C’era quell’audacia, quella spavalderia…Sorrise.
Accese la radio. La musica scacciò via la sua tristezza.
“Secondo lei chi ci abita in quella casa? “- indicò una finestra spalancata, sul palazzo di fronte, dall’altro lato della strada.
Lui seguì con lo sguardo il gesto di lei, oltre il suo braccio, oltre la mano nel buio verde.
” Uno scrittore? “
“Già! Domanda idiota. Si vedono i libri.Lei legge?“
“Sì.”
“Lei scrive?“
“Un po’.Cosa legge?“”
“Saggi, biografie, di scienziati specialmente “
“Lei cosa scrive?”
“Niente di così intelligente…“
“L’intelligenza è sopravvalutata“
“Perché? Io ho una sconfinata ammirazione per le persone intelligenti”
Lei fece una smorfia e si fermò un secondo a pensare. Poi si adombrò.
“Non sono quasi mai felici“
“Lei è felice?“
“Sì.“
“Nessuno risponde “sì” a questa domanda. Non sta bene.“
Oggi ho dimenticato di mettere nella borsa del mare auricolari, libri… (ho portato solo una Settimana Enigmistica, ma sono andata dritta al Bartezzaghi, l’ho finito e l’ho posato) .
Non ho niente da fare….
Fra un bagno e l’altro osservo le persone sotto gli ombrelloni vicini.
Le coppie mi attirano.
La mia preferita è quella accanto a me. Non giovanissimi, lui fisico da Steve Jobs, occhiale rotondo occhi azzurri sguardo serio, lei alta bionda super fumatrice. Non parlano tanto, forse si sono già detti tutte le cose importanti. Forse lui ha già rinunciato a farla fumare di meno e lei ha trovato altri pensieri da coltivare mentre lui è assorto. È un tipo assorto, lui. Si capisce.
Se parlano, parlano a bassa voce. Lui legge, mi pare di aver visto ” Il gabbiano Johnatan Livingstone“. Non ne deve essere entusiasta…
Lei prende il sole, quieta. Con atermica, atarassica, stoica tranquillità.
Non hanno un pensiero, apparentemente. Non guardano telefono nè orologio, non sprecano un gesto, non si danno pena del clima inclemente.
Un po’ li invidio. In un’altra vita vorrei essere così. Essere parte di una coppia così (sarei lui, probabilmente)
C’è una coppia molto più giovane. Di sicuro non sono palermitani. Sono bianchissimi. Abbastanza tatuati. Hanno il telefono perennemente fra le mani, tutto – teli da mare, zaini, libri – dall’aspetto molto tecnico. Sguardi acuti, curiosi, un po’ critici. Sono certa che mentre fanno il bagno pensano ad altre cento cose, compresa la loro evidente difficoltà a rilassarsi.
Un po’ distante c’è una coppia diversissima. Asincrona: lei legge, lui nuota; lei nuota, lui chiacchiera con amici; lei chiacchiera con i piedi in acqua, lui nuota. Quando si incrociano, parlano. Cose concrete: organizzazione di cena, mi pare. Squieti. Ma coordinati: hanno obiettivi, cose da fare, metodi da applicare, ordine da mantenere, tempi – intuisco – da rispettare. A turno, aggiustano il telo da mare, appaiano le infradito sotto il lettino, ripongono con cura ogni oggetto che prendono o usano.
Si somigliano, anche. Scuri, asciutti, attivi. Non riesco a immaginarli dirsi cose intime, no. L’attivismo è nemico giurato dell’interiorità. Le capacità di attenzione sono limitate, secondo me: o le scarpe o i pensieri.
Non potrei neanche in una seconda o terza vita essere parte di una coppia così.
Mi accorgo di essermi sdraiata sugli occhiali… e che tutto intorno a me è disordinato. Anche il mio Bartezzaghi è disordinato, pieno di cancellature e riscritture.
Un uccello plana sulla piscina, beve e torna su. Un po’ a fatica, ha le ali bagnate. Lo seguo con lo sguardo. Vorrei fotografarlo..
Anche le coppie vorrei fotografare.
Mi ricordano un po’ le coppie di Hopper, il pittore dei “nottambuli“. Coppie molto fuori dal canone romantico, lontano da quello a cui pensiamo solitamente quando immaginiamo una coppia: passione, complicità, abbracci, sorrisi, sguardi.
In Hopper non si guardano; ognuno assorto nella sua occupazione.
Eppure a me, come tutta la pittura di Hopper, non comunicano solitudine…
Quella dei nottambuli la amo particolarmente. Cerco di ricostruirle il quadro mentalmente…
Non si guardano, questo me lo ricordo, eppure le loro dita si sfiorano. La faccia di lui … non si vede, nascosta dalla falda del cappello; anzi no, controllo: è impassibile, guarda severo e spigoloso dritto davanti a sè; ma il suo corpo è leggermente obliquo rispetto al bancone del bar, il braccio che lo separerebbe da lei è rimosso; il suo corpo – una massa di ombra densa e scura – è come aperto alla luce che lei emana, dal rosso della sua maglia, dal castano dei suoi capelli.
(No, non è la luce gialla che viene dall’alto, è una luce sua, di lei; sì, sono sicura che lei è vestita di rosso, non voglio controllare)
Potrebbe anche essere – ho sempre pensato guardandoli – che le loro solitudini stiano per incontrarsi… che le loro mani – i colori dei loro corpi – ne sappiano di più dei loro occhi, così distanti.
Che sfiorarsi sia una fine e un inizio. Che ancora fra loro tutte le parole siano da dire e la città, così verde e tetra intorno, così geometrica e vuota, sia in attesa di sapere.
Lo scorso 15 Luglio si sono celebrati i 115 anni dello storico e prestigioso marchio di auto italiane, LANCIA .
Si è riproposto all’attenzione l’ultimo logo del marchio, che non è una vera novità dato che risale al 2007, ma forse siamo talmente disabituati a vederlo, che può apparire novità di oggi
Lancia ha una importantissima storia di #design automobilistico e notissima tradizione di auto sportive. Chi non conosce o non ricorda la Stratos disegnata da Gandini per Bertone, nata dall’evoluzione della Dreamcar Stratos Zero del 1971. Concept veramente avveniristico per quegli anni e che personalmente mi ricorda i bozzetti di Syd Mead, designer e illustratore americano scomparso nel Dicembre 2019. La Stratos motorizzata Ferrari, vincerà 3 Campionati del Mondo Rally (1974, 1975, 1976) e numerose altre gare e importanti piazzamenti. Anche non considerando un modello tanto stratos…ferico (se mi è concesso il gioco di parole), cosa dire della Lancia Fulvia Coupé disegnata da Piero Castagnero (che si ispirò pare, ai motoscafi Riva del tempo) o della Lancia Delta nelle loro versioni HF? Auto che definiremmo “iconiche” e che tali rimangono.
Dobbiamo quindi temo stendere un velo pietoso sui modelli generati dagli ibridi “Lancia-Chrysler” (più Chrysler che Lancia), nati da dinamiche aziendali che poco hanno a che fare con l’ormai centenaria storia del marchio e non possiamo che rimanere perplessi oggi, quando come ignari nuovi potenziali clienti, affascinati dalla storia rievocata, cercando la “gamma” Lancia sul sito del Marchio, troveremmo ben… due modelli! In realtà due varianti del medesimo modello, la ormai anch’essa storica Ypsilon, che per quanto la si rimaneggi, attualizzi e vivacizzi, rimane un modello nato nel 2003 e che vede la Seconda Serie datata all’ormai lontano 2011(!) che in questi anni non ha visto altro che cambio di livree, allestimenti, accessori.
Che dire? Accanimento terapeutico, minestra riscaldata e continuamente ri-scodellata? Certo possono sembrare conclusioni dure, ma è proprio il fulgido passato che rende più gramo l’attuale presente. Si prospetta un futuro pienamente elettrico per la Ypsilon, ma auguriamoci non si tratti solo del propulsore e ancor più che si possa vedere una rinascita, una nuova fioritura di modelli che questo Marchio merita, perché è un pezzo di Storia dell’Automobile che non è conosciuto solo qui in Italia, assolutamente no.
Con questo primo articolo intendiamo indagare, proporre riflessioni e approfondimenti alle innumerevoli e diversificate proposte del mondo del Design che rappresenta, insieme ad altre forme di Arte, una eccellenza italiana [e non solo].
Vi rimandiamo inoltre al link qui sotto dove troviamo ulteriori proposte, casi studio, e progetti innovativi che meritano maggiore attenzione e approfondimento.
Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti. Appassionato di Design e Fotografia.
Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.
Le Olimpiadi di Tokyo si sono concluse, sappiamo tutti com’è andata, siamo tutti giustamente euforici e grati, per le vittorie degli Atleti che rappresentavano la nostra Italia.
Sono già stati spesi e versati “fiumi di inchiostro”per lo più “digitale”, sul valore e i valori, sui significati, sulle metafore, soprattutto in questo Tempo. Non assenti critiche o lamentazioni, ma tutto sommato passate in secondo piano. Anche tanto è stato scritto, sulle storie e magari gli aneddoti, di questo o quell’ atleta, inevitabilmente, ma non giustamente, rispettando personaggi “più popolari” o mediaticamente appetibili e discipline popolari più di altre, ma credo non abbastanza e temo come si usa dire, si “spegneranno i riflettori” con la stessa velocità con cui si è spenta la mitica fiamma su quel braciere.
Quindi care TV, private o meno, che ci inondate di storie e storielle, non tutte poi così importanti e di spessore, tali da giustificare ore di trasmissione o che qualcuno che abbia un minimo d’altro da fare, debba rimandare per stare davanti ad un qualsivoglia schermo. Che ci sciorinate tra cuoricini e lacrime, carrambate (mitica Raffaella) e comparsate, apparizioni di ectoplasmi – tali credo siano – che si sono agitati nell’ultima casa di un qualche fratello o misteriosa isola ipoteticamente sperduta in lontano atollo. Che ci svelate verità nascoste del VIP del momento, che sinceramente potevano rimanere ancora nascoste sino alla fine dei giorni, perché non mettete su una belle trasmissione, un “format” di guarda caso 40 puntate, che ci racconti del prima e se vogliamo anche un po’ del dopo, della storia, le fatiche, i sacrifici, le rinunce, le attese, le delusioni, ma evidentemente anche i sogni, le soddisfazioni e le prospettive, di questi Atleti, di queste donne e uomini, che hanno scelto un percorso certamente non semplice, in discipline – e sottolineo #discipline – tutte esigenti, totalizzanti, ma certamente esaltanti che regalano a noi “atleti solo per partecipazione” tante emozioni e a Loro anche medaglie e riconoscimenti (ma “uno su mille ce la fa”), gloria magari fugace, ricchezze penso poche, ma una dimensione, una ragione, una crescita, un’umanità che, senza farne degli eroi (certamente Christian Lezzi sarebbe d’accordo), possono diventare un riferimento, uno stimolo, un (buon) esempio per “adulti e bambini”, certamente per tanti giovani la cui unica aspirazione è talvolta solo aumentare il numero dei “followers”, non importa come purché sia. Dove porta invece una #passione, laddove “al cuor non si comanda”, ma quel cuore, quella passione, comanda ed educa mente e corpo sino a diventare uno splendido tutt’uno.
Magari potremo anche raccontare di chi “nell’ombra”, ma quella buona, umile che non chiede la ribalta, questi Atleti, ha aiutato, educato, sostenuto, tecnicamente formato. Penso alle Famiglie e agli Allenatori e perché no anche ai cosiddetti “sponsor” che negli sport cosiddetti “minori”, non lo sono a fine di lucro.
Insomma, raccontiamo le loro storie, non lasciamo che si rispolverino solo alla prossima Olimpiade se per età e risultati potranno di nuovo esserci. Sarebbe davvero un grande spreco!
Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti. Appassionato di Design e Fotografia.
Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.