Finestra sui social – Twitter: Olga Tuleninova (@olgatuleninova)
Si muove tra Parigi, Londra e le capitali della Europa Danubiana solo su strada ferrata a bordo di carrozze blu con la scritta dorata: “Compagnie Internationale des Wagons-Lits et des Grands Express Européens “.
Nel vagone pullmann, tra profumo di caffé, ostriche e champagne, servita, riverita e coccolata dai magnifici sette della Brigade di bordo, discetta di Arte e mondanità con banchieri con baffi a manubrio e nobilesse ristorate e restaurate.
dettaglio finale: quanto sopra è tutto falso, non sappiamo chi sia e assolutamente nulla di lei… ma ci piace immaginarla così!
Il Mondo a colori di Natino
Negli indimenticabili ’60, la Casa Editrice Fabbri lanciò una collana editoriale di successo: “I Maestri del Colore” , che contribuì non poco alla diffusione della Storia dell’Arte a livello popolare nell’Italia del boom economico. In cinque anni uscirono in edicola 278 fascicoli settimanali, ognuno dedicato ad un artista, o ad un fenomeno particolare della pittura. La qualità della pubblicazione era assicurata da firme molto prestigiose e da una eccellente confezione tipografica, che permetteva la riproduzione delle opere in tavole di grande formato. Il tutto associato ad un prezzo abbordabile (dalle 300 lire nel 1963 alle 380 lire, nel 1967).
Ma della collana ne parleremo a breve in maniera più specifica. La premessa ci serve semplicemente per dire che una ipotetica prosecuzione dell’impresa dedicata ai contemporanei non potrebbe certamente fare a meno di riservare un fascicolo ad un artista che davvero può fregiarsi a ragion veduta del titolo di “Maestro del Colore”: Natino Chirico.
Natino è un idealista, un sognatore: lo si capisce dai suoi soggetti, che rende sempre iconici: Don Chisciotte, uno dei suoi preferiti. O dalla sua Italia. Nato a Reggio Calabria, profondamente innamorato della sua terra, non perde l’occasione di omaggiare le sue radici con delle opere che esaltano la bellezza della cultura mediterranea.
Lo è anche perché crede fermamente, e rappresenta magistralmente nei valori da mantenere e recuperare: Amicizia e Solidarietà, per esempio, dipinta con i volti e le biciclette di Gino Bartali e Fausto Coppi.
Che sia un sognatore lo si percepisce dai suoi numerosi omaggi a Chaplin e Fellini che riescono, ed è difficile impresa, ad evocare la magia del mondo dei due Maestri.
Bisogna aggiungere che il suo è un amore spassionato proprio per tutto il mondo del Cinema: non si contano le opere dedicate ad attori e registi, colti e rappresentati infallibilmente nelle loro espressioni più riconoscibili.
Vogliamo poi parlare delle Attrici….?
Retrospettiva in VR: Una mostra di Natino Chirico sulle Donne del Cinema (2011, allo Spazio Metastasio 15 di Roma, una galleria d’Arte purtroppo non più esistente)
“Napul’è mille culure”, cantava Pino Daniele. Questa la Piedigrotta di Natino Chirico:
Se siano più importanti le parole, o le immagini, è un quesito che infiamma le discussioni e anima le speculazioni filosofiche, fin dalla notte dei tempi. La domanda è semplice, quasi banale nella sua linearità. Ciò che è complicato è cogitare una risposta che sia possibile argomentare, sostenere, difendere, perché sia accettabile oltre la mera elaborazione soggettiva del concetto.
Nel novero dei sistemi rappresentazionali dell’umana psiche (di cui non tratteremo in questa sede) si dice spesso che l’uomo – inteso come specie, non come genere sessuale, con buona pace del politically correct che tutto incattivisce e complica – sia prevalentemente visuale, elaborando i concetti per associazione d’immagini, prima ancora che per parole e pensieri. Vero, ma solo in parte e solo in funzione stringente del contesto e del proprio stato d’animo (a seconda quindi del metaprogramma in uso in un determinato momento, ma nemmeno di questo parleremo in questa sede). Ne consegue il detto “Un’immagine vale più di mille parole”. Un motto popolare che non spiega in funzione di cosa e secondo chi, ma soprattutto perché, ciò dovrebbe essere accettato come postulato di verità.
Con il termine metaprogramma ci si riferisce ad un filtro mentale che determina una risposta ad uno stimolo di tipo automatico e abitudinario. I metaprogrammi sono programmi dei programmi, o come direbbe Bandler sono mappe delle mappe.
Messa in questi termini, la questione sembra complicata, nella sua complessa struttura e nell’analisi di un concetto interrogativo che, proprio come la vita stessa, non è mai del tutto facile. In realtà è più semplice di quanto apparentemente appaia.
Quindi, potere alle parole o alle immagini?
Personalmente ho sempre liquidato la questione con un ragionamento che, seppur tra mille e uno tentativi di contro-argomentazione, resta in linea di massima inattaccabile, almeno a rigor di logica. Penso infatti, da sempre, che siano più importanti le parole, se davvero d’importanza vogliamo parlare, in un’ipotetica gerarchia valoriale che le vede avverse alle immagini. Laddove le parole possono far scaturire, nella nostra fantasia potenzialmente infinita, altrettanto infinite immagini, queste ultime possono, per evidenti motivi, far scaturire, a loro volta, un numero finito di parole. Perché se la fantasia è infinita, il linguaggio è finito, nel senso che ai vocaboli che lo compongono, può essere attribuita una dimensione numerica. Quindi, le parole possono essere contate, le immagini fantastiche no.
Di conseguenza, ciò che può evocare l’infinito ha, indiscutibilmente, più valore e potenza di ciò che evoca qualcosa di numericamente finito e quantificabile.
E’ proprio come quando leggiamo un libro e la scena viene dipinta dalla nostra fantasia, evocata dalla sequenza di parole lette. Al contrario, guardando il film tratto da quella stessa storia, la potenza immaginifica è di molto inferiore, nonostante la musica, le luci e gli effetti speciali. Perché è immagine, fantasia non proprietaria, imposta e non elaborata. Nulla a confronto dell’infinita nostra fantasia, quando a darle vita sono le descrizioni fatte di parole.
Gioco, set, partita!
Ma proviamo a guardare la questione da un’altra angolazione, decisamente più interessante, a rischio di andare fuori tema. Nel novero delle parole – più importanti delle immagini, come appena argomentato e dimostrato – può l’ordine, con le quali sono esse espresse, cambiare il risultato di ciò che comunichiamo?
Secondo la proprietà commutativa (una delle più usate in aritmetica) al mutare dell’ordine dei fattori, nelle addizioni e nelle moltiplicazioni, il risultato resta invariato. Ma accade lo stesso con le parole e con le immagini, che inevitabilmente esse evocano? Davvero mutando l’ordine delle parole e dei concetti espressi, il risultato resta identico?
Giorni fa leggevo un’interessante intervista rilasciata dall’artista Maurizio Cattelan (quello del dito medio in piazza degli affari a Milano) nella quale l’artista rispondeva, alla classica e un po’ banale domanda “come siamo messi a rapporti interpersonali?”, con un altrettanto banale e scontato, quasi abitudinario “pochi ma buoni”. Ed ecco che, la magia delle sfumature tra le parole prende forma, nel momento esatto in cui l’artista rigira all’intervistatore, per pura cortesia (immagino), la stessa domanda, ottenendo in risposta un ben più interessante “buoni ma pochi”.
MAURIZIO CATTELAN_ L.O.V.E._Piazza Affari_Milano_ Immagine presa dal web_tanks to MILANO TODAY
Certo, il concetto, al lettore frettoloso e superficiale appare lo stesso, perfettamente identico, soprattutto se applichiamo la proprietà commutativa, trasferendola dall’aritmetica alle parole, cambiandone quindi l’ordine, ma lasciando invariato il significato.
Ne siamo proprio sicuri? Siamo davvero certi che “pochi ma buoni” sia lo stesso identico concetto espresso dal suo opposto “buoni ma pochi”?
Probabilmente si, o forse no… ogni argomentazione è valida e gode di uguale dignità, se ci fermiamo al mero significato letterale delle parole che delineano in concetto. Ma, andiamo oltre, superiamo la superficie e tagliamo la tela (ricordando Lucio Fontana), superando il limite spaziale del supporto, in una dimensione metafisica alternativa, che conferisca un corpus nuovo al concetto espresso e che, grazie all’ordine delle parole, ne muti il significato trasmesso e percepito.
Lucio Fontana_Concetto spaziale_Attesa_1965
È una questione di assetto mentale, di punto d’osservazione, di prospettiva.
Il risultato, distillato dal concetto espresso, muta la sua sostanza a seconda dell’attenzione, del focus direbbero oltre oceano, che poniamo alla prima o alla seconda parola, se sia il “poco” al centro della nostra attenzione, quindi prioritario espressivamente parlando, o se al centro ci finisca il “buono”, illuminato all’improvviso dalle luci della ribalta. Perché loro, le parole, dipendono dal contesto nel quale sono espresse, da esso attingono forma, sostanza, colore e peso, quel peso che, astratta la parola dal contesto, diventa non quantificabile e, spesso, irrilevante.
Definire i propri rapporti interpersonali “Pochi, ma buoni” conferisce un peso e una sostanza, una tangibilità al concetto di scarsità, relegando a quello di qualità un ruolo secondario d’illusoria consolazione. Una rassegnazione che, in forma lapidaria, chiude la questione, non avendo altro da aggiungere al concetto che, per sua stessa struttura, esclude sviluppi narrativi.
Definirli, per contro “buoni, ma pochi”, pone al contrario l’accento sulla qualità dei rapporti, definendoli buoni prima d’ogni altra accezione. Solo in seconda analisi, a titolo quasi autocritico, in un impeto di desiderio d’allargare questa cerchia relazionale, essi vengono definiti “pochi”, lasciando cadere così ogni rassegnata o consolatoria connotazione d’immobilità, per muovere l’istinto umano di socializzazione.
Perché definirsi “poveri ma felici”, per godere di un altro esempio, è un concetto lontano anni luce dal suo omologo “felici ma poveri”, apparentemente uguali, ma intimamente diversi, opposti, antagonisti.
Pirandello ha scritto: “Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!”.
Spesso attribuiamo troppo peso alle parole, un peso che non è proprio, o specifico, bensì relativo, dedotto dal quel contesto, all’interno del quale, la parola viene espressa, da cui attinge significato, oggettivo o soggettivo ch’esso sia. Un peso che, a livello percettivo (quasi fosse il gusto nell’assaporare quei concetti) varia a seconda dell’ordine con il quale, questi sapori, vengono inseriti nel gusto finale.
Allo stesso modo conferiamo un significato tutto nostro alle immagini, rendendole soggettive, attribuendo loro una volgarità che, senza la corretta analisi del contesto espressivo, è solo nella nostra testa. Come nel caso del dito di Cattelan, appunto. Anche un gigantesco dito medio di marmo, seppur volgare in apparenza, una volta contestualizzato, assume ben altro, alto e nobile significato.
Ci fermiamo alla parola, o alla singola immagine, senza analizzare il quadro d’insieme e la scena nella sua interezza. Ma non degniamo d’importanza le sfumature che mutano lo scenario e donano valenza alla frase, al concetto, al pensiero e alle parole, alla potenza pittorico-espressiva che esse veicolano, tra luci e ombre, tra fantasia e realtà.
E in fatto di sfumature e dettagli, le parole ne sanno una più del diavolo e delle infinite immagini che possono evocare.
Note sull’autore_
Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano. Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.
Il mito della Torre rivisto attraverso le opere di Celestino Russo
Il testo che segue è stato scritto a seguito della visita della galleria d’arte di Lorenzo Vatalaro sita in zona Brera Milano che esponeva delle opere dell’artista Celestino Russo. Le emozioni in noi evocate sono poi passate attraverso al setaccio del metodo che abbiamo sviluppato per ri-analizzare i miti dell’antica Grecia.
Il risultato della nostra riflessione intorno al significato simbolico del mito della torre è riassunto nel seguente scritto.
Introduzione
Il mito che ha a che fare con le torri è un mito antichissimo e a noi, che apparteniamo alla cultura occidentale, richiamano in primis le torri campanarie. Il simbolismo ad esse collegato rimanda al desiderio dell’uomo, o per lo meno di alcuni di essi, a voler ri-collegare il cielo con la terra. Ricordiamo che il sostantivo religione, deriva dal verbo latino religere, dove “re” è un prefisso che significa la ripetizione di un’azione e dal verbo ”lĭgo, lĭgas, ligavi, ligatum, lĭgāre” che vuol dire “legare”, “unire”, “congiungere”, “riunire”. La torre più famosa di tutte è la torre di Babele che però nei secoli è stata associata all’arroganza dell’uomo, il quale, invece di mettersi in contatto con il creatore, cerca di porsi al suo stesso livello. Le opere di Celestino Russo pur rifacendosi a questi concetti, suscitano anche altre immagini interiori. Abbiamo pertanto deciso di osservare queste opere con gli occhi del cuore così come ci invitava a fare il Michelangelo Buonarroti (1475-1564) che nel verso 49 delle Rime:
« Amor, la tuo beltà non è mortale: nessun volto fra noi è che pareggi, l’immagine del cor, che ‘nfiammi e reggi, con altro foco e muovi con altr’ale ».
alludeva ad un particolare tipo di percezione il quale, non arrestandosi all’aspetto esteriore e formale delle cose e delle persone, giunge, tramite il cuore inteso come organo psicologico preposto al riconoscimento delle emozioni, alla cosiddetta φύσις – physys, ovvero alla natura intrinseca, alla qualità innata o all’essenza particolare presente all’interno di ciascuna di esse.
Sarebbero le forme esteriori che scatenano associazioni libere di idee le quali a loro volta, rimandano ad altre immagini per analogia o per sympatheia συμπάθεια (da “σύν” – assieme, con e da πάθος – “sofferenza”, “patimento”, “passione” ma soprattutto “esperienza”, “emozione”, “ciò che si prova”) suscitando altre sensazioni.
alludeva ad un particolare tipo di percezione il quale, non arrestandosi all’aspetto esteriore e formale delle cose e delle persone, giunge, tramite il cuore inteso come organo psicologico preposto al riconoscimento delle emozioni, alla cosiddetta φύσις – physys, ovvero alla natura intrinseca, alla qualità innata o all’essenza particolare presente all’interno di ciascuna di esse.
Sarebbero le forme esteriori che scatenano associazioni libere di idee le quali a loro volta, rimandano ad altre immagini per analogia o per sympatheia συμπάθεια (da “σύν” – assieme, con e da πάθος – “sofferenza”, “patimento”, “passione” ma soprattutto “esperienza”, “emozione”, “ciò che si prova”) suscitando altre sensazioni.
Premessa all’analisi
Prima di analizzare le opere di Celestino Russo sentiamo il bisogno di soffermarci sul significato della torre in sé. Che cosa è la torre? Quali immagini suscita ? A cosa rimanda per similitudine e corrispondenza ? Come abbiamo accennato nell’introduzione, la torre è qualcosa che avvicina, è una sorta di ponte verticale che ha l’ambizione di collegare non tanto terre o nazioni diverse ma mondi o dimensioni diverse.
Ma quali mondi in particolare ? Per scoprire ciò, anche in questo caso, abbiamo deciso di applicare lo stesso metodo di indagine che adoperiamo per la pubblicazione degli articoli che hanno per protagonisti i miti dell’antica Grecia nei quali, invece di soffermarci sulle vicende che afferivano ad una religione politeista ormai estinta, in accordo con il modello della psicologia archetipica di James Hillman vi troviamo la metafora del mondo della psyche, delle emozioni e dei sentimenti rappresentati per mezzo di storie che ricordano più i sogni notturni che descrizioni di eventi dotati di senso compiuto. Per comprendere gli archetipi incarnati dalla torre siamo partiti con la ricerca etimologica del sostantivo come veniva pronunciato in greco antico per vedere successivamente se esso fosse in grado di evocare da un punto di vista immaginale negli antichi e a noi ai giorni nostri, a livello inconscio, particolari significati.
Etimologia del sostantivo torre La parola «torre» in greco antico si scriveva πύργος – pyrgos che derivava dal verbo πυργόω – pyrgoo che significa “munire di torri”, “fortificare”, ma anche “ingrandire”, “esagerare” ed addirittura “magnificare” ed “esaltare”, ma anche “essere altero”. Da questi primi indizi è più facile comprendere perché alla torre venga associata l’arroganza di chi cerca di elevarsi, esaltarsi, di chi esagera. Ma tra i significati che rinveniamo nei vocabolari consultati, abbiamo trovato anche “andare a testa alta”, “alzarsi in piedi” e “raddrizzarsi”.
Questi ultimi due in particolare, non suggeriscono a nostro avviso tanto la sfacciataggine di un superbo, quanto piuttosto sembrano riferirsi a colui che conscio di sé, dei propri pregi e difetti, affronta la vita “a testa alta“. Interessante anche il fatto che la preposizione περί – peri, significa “rotatoria”, “rotondo” e “tondeggiante” e “smussato” che rimandano proprio alla forma delle torri del Russo.
fotografie scattate dall’autore con il permesso della galleria
Non siamo in grado di affermarlo con certezza, ma è possibile che l’artista scolpendo e dando forma alle sue creazioni possa essersi lasciato inconsciamente guidare dal significato intrinseco del termine, dall’essenza che sta dietro alla torre in sé. In altre parole avrebbe praticato quella che per gli antichi greci era la τέχνη – tekné, ovvero l’arte, l’abilità di rappresentare sia l’oggetto che la sostanza andando al di là di ciò che è visibile agli occhi.
Originalità delle rappresentazioni di Celestino Russo
Che cosa ha attratto in particolare la nostra curiosità ? Il fatto che oltre ad esservi delle torri che puntano verso l’alto, ve ne sono alcune che sembrano spingersi verso il basso. Il che ci ha portati ad immaginare un cammino in discesa, verso le profondità dell’anima, dove è possibile fare conoscenza profonda di noi stessi. Inoltre i pezzi forgiati dall’interno ci fanno pensare al cammino sempre lento e tortuoso che il ricercatore di sé deve compiere quando va alla ricerca del proprio contenuto rimosso, senza sapere cosa troverà e quanto in fondo si spingerà nella sua ricerca.
Così come alcune sculture che appaiono incomplete, che ci ricordano chi inizia il proprio cammino, in questo caso in salita, e poi, per tutta una serie di motivi, lo interrompe.
A questo punto mossi dallo spirito che aleggia in uno dei motti dello scrittore Saint-Exupéry ossia, « l’essenziale è invisibile agli occhi », ci siamo domandati, non tanto se questo fosse l’intendimento dell’artista, quanto invece, in base ai nostri studi riguardo ai μῦθοι – mithoi rivisti in chiave psicoanalitica, quale altro significato si celasse dietro alle due categorie di torri. In altre parole, quali sarebbero i significati psicologici che questi simboli incarnerebbero al di là delle più facili e scontate attribuzioni ?
In base agli studi compiuti, derivati dall’analisi di alcune opere artistiche rinascimentali che si erano ispirate alla teologia orfica, che ricordiamo era una forma di religiosità monoteista andata perduta e che circolava tra filosofi e ceti abbienti dell’antica Grecia, nonché dalla rilettura che abbiamo condotto a riguardo del mito di Orfeo ed Euridice, siamo giunti alle seguenti associazioni.
Le torri che salgono
Le torri che sembrano elevarsi incarnerebbero l’archetipo di quel ponte tra mondi, quello che Marsilio Ficino definì l’Anima Mundi.
«L’Anima [mundi] – ψυχή, si può chiamare il centro della Natura, l’intermediaria di tutte le cose, la catena del mondo, il volto del tutto, il nodo e la “copula mundi». Tratto da: «Theologia platonica», III, 2, traduzione di Nicola Abbagnano di Marsilio Ficino (1433-1499)
È grazie al Rinascimento che l’Anima cessa di possedere unicamente un significato spirituale e diventa il sinonimo di quella che oggi chiamiamo psyche, termine coniato dal teologo ed umanista Philipp Melanchton che fu amico e consigliere personale di Martin Lutero, ovvero quelle facoltà della mente che riguardano il mondo delle emozioni dei sentimenti.
È tipico di questo periodo, la ri-traduzione dei testi dell’antica Grecia, dove la ricerca dei significati dei lemmi all’interno dei vocabolari non avviene più pensando di avere a che fare con storie mitologiche che riguardavano protagonisti leggendari appartenenti ad una religione politeista, bensì con racconti metaforici il cui scopo era di rivolgersi al cuore di ciascuno di noi, ovvero al nostro lato emozionale. Ma anche la scoperta di nuovi testi antichi che si credevano perduti, portati con sé da intellettuali e uomini
appartenenti alla chiesa ortodossa che parteciparono al concilio di Ferrara Firenze del 1438 1449, il quale riuscì a ricucire temporaneamente lo scisma avvenuto tra la Chiesa occidentale e la Chiesa ortodossa avvenuta nel 1054.
Fatte queste premesse, l’Anima Mundi, secondo il modello dei filosofi neoplatonici che partecipavano alle sessioni di studio che si tenevano presso l’Accademia Neoplatonica di Careggi (FI), andrebbe immaginata come una sorta di contenitore di quegli archetipi che per Platone ed il suo erede Plotino sarebbero a fondamento della creazione sensibile, dove ci sono i prototipi di tutte le anime particolari o individuali e con le quali essa rimane in costante collegamento.
Ma anche gli archetipi di quelle immagini che popolano il mondo interiore dell’uomo e che sarebbero la causa di emozioni e sentimenti primitivi, intensi e profondi, impersonati, all’interno del pantheon degli dei, dalle figure dei Titani.
Ecco che secondo questa chiave di lettura, l’uomo che è proteso verso l’alto non è più l’uomo che con arroganza vuole porsi a livello del creatore (secondo la teogonia orfica infatti l’Uno creatore è ineffabile ed inconoscibile, pertanto il peccato di hybris in questo contesto non è contemplato), bensì è colui che vuole comprendere, per dirla similmente al filosofo neoplatonico Damascio (450 – 532), i principi primi, quelli che gli permettono di comprendere il Tutto, di distinguere la singolarità nella pluralità, di comprendere le leggi che regolano l’animo umano e che quindi influenzano anche la propria.
Marsilio Ficino (1433-1499) ritratto in un affresco del Ghirlandaio che si trova all’interno della chiesa di Santa Maria Novella immagine tratta da: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Marsilio_Ficino_-_Angel_Appearing_to_Zacharias_(detail).jpg
Le torri che scendono verso il basso
Le torri che scendono invece, richiamano in noi il racconto del mito di Orfeo ed Euridice, quando il figlio di Eagro e Calliope si reca nell’Ade alla ricerca della propria amata, morta appena dopo il matrimonio. Notoriamente l’Ade, similmente al Tartaro, viene liquidato, a nostro avviso in maniera semplicistica, come il regno delle tenebre e della morte.
Come, perché e quando entrambi i termini abbiano smarrito il loro significato originario, non è dato sapere, ma se vogliamo interpretare i racconti mitologici in chiave psicologica, dobbiamo andare prima di tutto in cerca del significato che presumibilmente essi evocavano tra gli antichi.
Usiamo anche in questo caso il verbo evocare perché, i sostantivi, gli aggettivi ed i verbi del greco antico, non erano solamente dei segni, e quindi non seguivano le rigide regole della semiotica moderna, bensì impersonando dei simboli, erano metafore che rimandavano ad altri significati, soprattutto all’ambito dell’anima/psyche. Pertanto, secondo il vocabolario Liddel-Scott-Jones, Ἀίδης – aides/Ade, è composto dalla particella α – alfa privativa, un elemento che indica la negazione di quanto espresso dal sostantivo successivo, e dal verbo ἰδεῖν.
ἰδεῖν – ideìn a sua volta, è l’infinito del verbo εἶδον – eidon, che significa “vedere”, “scorgere”, “guardare”, “osservare”, “considerare”, ma anche, “percepire”, “provare”, “sentire (emozioni)”, “guardare in direzione di ..” e “vedere mentalmente”. Pertanto a livello di immagine mentale, l’Ade veniva percepito dagli antichi come uno spazio dove «non-si-vede», dove vi è l’«impossibilità a guardare», in quanto non vi è ancora non è arrivata la Luce, in altre parole, dove secondo la psicoanalisi moderna alberga il materiale inconscio e rimosso. È da qui che nascono quelle sensazioni fastidiose ed inspiegabili, quel brusio di sottofondo interiore, quelle sensazione di disagio inspiegabili che fintantoché restano sottotraccia ci condizionano, ci inducono in comportamenti solo apparentemente irrazionali ma che in realtà hanno una loro logica ed assumono un loro senso compiuto solo se contestualizzati all’interno delle leggi che guidano la psyché. Stiamo parlando di un luogo destinato a restare oscuro fino a quando non saremo in grado di rendere conscio il materiale psichico inconscio. La torre che scende pertanto, incarnerebbe il lavoro di conoscenza di sé, quello che viene fatto quando riflettiamo perché determinate esperienze evocano in noi certi stati d’animo piuttosto che altri oppure, quando ci rivolgiamo ad un esperto per affrontare un percorso personale di tipo psicoanalitico.
Conclusione
Non siamo in grado di immaginare se questi fossero per davvero gli intenti dell’autore, magari solamente in forma inconscia appunto, oppure di colui che le ha commissionate, ma quella che qui abbiamo esposto è la nostra personale sensazione, la trasposizione di quello che queste opere hanno saputo far risuonare dentro di noi.
Riteniamo inoltre che dal punto di osservazione da cui abbiamo effettuato questa indagine, che queste sculture possano altresì definirsi neo-rinascimentali nel senso che ciascuna di esse non è soltanto la concretizzazione di immagini che appartengono al mondo interiore dell’artista, ma che contengono anche riferimenti al mondo della psiche.
Esattamente com’era intesa l’arte del periodo che va all’incirca dal 1450 fino a tutto il 1500. Perché quando un’opera artistica, rimanda a significati che fanno riferimento al mondo psiche, al mondo delle emozioni e dei sentimenti, essa ci indica la strada verso quella conoscenza che gli antichi chiamavano la γνῶθι σαυτόν – gnōthi saytón, in altre parole, la conoscenza di sé.
Bibliografia
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https://www.academia.edu/53096079/La_paura_nella_mitologia_greca_il_Minotauro_ed_il_Drago Massimo Biecher: La chimera ed Ipponoo: https://www.karmanews.it/35918/la-chimera-e-lo-scontro-con-ipponoo/ Mircea Eliade – Trattato di storia delle religioni [1976] Editore Boringhieri, Torino. Nicolò Cusano – Dialogus de deo abscondito il dialogo del di Nascosto tratto da https://docplayer.it/34540019-Nicola- cusano-il-dio-nascosto-dialogus-de-deo-abscondito.htmlJ.R. HALE Nicomachus of Gerasa Introduction to Arithmetic , Book 1 tratto da https://archive.org/details/nicomachus-arithmetic- balboa Pitagora : Le opere e le testimonianze – Oscar Mondadori 2000 op. in due volumi Platone Filebo – tratto da Platone Tutti gli scritti. A cura di Giovanni Reale. – Bompiani 2001 Plotino – Enneadi – Arnoldo Mondadori editore 2012 Proclo: commento al Timeo – scaricabile in pdf da http://chi-lyra.com/commentoaltimeo.php Proclo: Teologia platonica. Nuova edizione riveduta ed ampliata .Testo greco a fronte. A cura di Michele Abbate. Prefazione di Werner Beierwaltes Psicologia Archetipica di James Hillman (scritto da J. Hillman): http://www.treccani.it/enciclopedia/psicologia- archetipica_%28Enciclopedia-del-Novecento%29/ Raffaele Pecoraro – Confronto tra temperamenti equabili: uno studio Riccardo Martinelli – I filosofi e la musica Robert Graves – I miti greci Longanesi 1963 Romagnoli Ettore, traduzione di – Gli Uccelli di Aristofane Stefano Isola – Appunti su scienza antica e moderna Stefano Isola – Il temperamento matematico: aritmetica e scale musicali Thomas Taylor – The Mystical Hymns of Orpheus. Bertram Dobell and Reeves and Turner editori 1896 Thorwald Dethlefsen e Rüdiger Dahlke – Malattia e destino Edizioni mediterranee 1986 Tonino Griffero Prendere – il mito “alla lettera” Schelling filosofo della mitologia – tratto da Miti antichi e moderni UniversItalia – Roma 2013 Tortorelli Ghidini Marisa – L’armonia orfica: tra etimologia e teogonia – Atti Accademia Pontaniana, Napoli – Supplemento N.S., Vol. LIX (2010), pp. 27-34 Tullio Gregory – L’anima del mondo e l’anima individuale . Tratto da “Anima mundi. La filosofia di Guglielmo di Conches e la Scuola di Chartres”, Firenze, Sansoni, 1955
Vignera Giuseppe LA CONCEZIONE PLATONICA DELL’ANIMA UMANA E DEL SUO DESTINO per Ieronimo e Ellanico
Vocabolari ed enciclopedie
Chantraine-Dictionnaire Etymologique Grecque Histoire des Mots.pdf Pais Editions Klincksieck 1968 – Vocabolario on Line DIZIONARIO GRECO ANTICO OLIVETTI e MITOLOGIA GRECA a cura di E. Olivetti (II edizione 2015)
Vocabolario della Lingua Greca di Franco Montanari – Loescher editore, II edizione 2004 Liddell, Scott, Jones’ – A Greek–English-German-French Lexicon – https://lsj.gr/wiki/Main_Page Dizionario Olivetti Latino italiano on line https://www.dizionario-latino.com Francesco Michelazzo Nuovi itinerari alla scoperta del greco antico: Le strutture fondamentali della lingua greca: fonetica, morfologia, sintassi, semantica, pragmatica – Firenze University Press 2019 Francesco Perri – Dizionario di mitologia Classica Garzanti 1970 Dizionario di mitologia classica – Garzanti Francesco Perri 1970 Enciclopedia Garzanti della filosofia e logica, linguistica, epistemologia, pedagogia , psicologia , psicoanalisi, sociologia, antropologia culturale, religioni, teologia, 1998. a cura di Giovanni Vattimo Enciclopedia Treccani on line http://www.miti3000.it/mito/index.htm Mitologia e d’intorni https://books.openedition.org OpenEdition è una piattaforma online di libri per le scienze umane e sociali. Più della metà sono ad accesso libero. https://www.gutenberg.org/ebooks/ https://www.hellenicgods.org/
Appassionato fin da ragazzo di fisica nucleare, elettronica e computer, entrato nel mondo del lavoro scopre che la sfera emozionale è importante tanto quanto quella razionale.
Ricoprendo all’interno delle aziende ruoli di sempre maggior responsabilità, osserva che per avere successo, oltre ad investire in ricerca e sviluppo ed in strumenti di marketing innovativi, le organizzazioni non possono prescindere dal fatto che le emozioni giochino un ruolo determinante tra i fattori critici di successo.
Grazie ai libri del Prof. Giampiero Quaglino, viene a conoscenza delle più moderne teorie sulla leadership ed in particolare quelle del docente dell’Insead, Manfred Kets de Vries, con cui condivide la visione secondo la quale non esistono modelli di leadership vincenti, ma solo relazioni efficaci tra gli individui.
Nel 2014 la rivista “Nuova Atletica”, organo ufficiale della Federazione Italiana Di Atletica Leggera, gli commissiona una serie di contributi sulla leadership per allenatori professionisti, coerente con le teorie che quotidianamente cerca di mettere in pratica sul lavoro.
Appassionato anche di filosofia, va alla ricerca instancabile di un modello che metta al centro l’individuo e ne rispetti l’unicità ma che al contempo, sia riconducibile a dei principi da cui cui tutto “principia”, convinto che la cultura e la superspecializzazione della scienza e della tecnologia moderna, conduca ad un inevitabile frammentazione dell’Io.
Ritiene di aver trovato ciò che cercava, riscoprendo la filosofia platonica e di Plotino e nella rilettura dei miti greci attraverso le lenti della psicologia archetipica introdotta dallo psicoanalista junghiano James Hillmann assieme ad i contributi dei filosofi E. Casey, L. Corman e dell’antropologo J.P. Vernant.
Pubblica con cadenza mensile sul magazine “karmanews.it” articoli che reinterpretano i miti dell’antica Grecia in chiave psicoanalitica, ritenendoli una metafora dei travagli dell’anima che, mediante l’uso di immagini e di racconti fantastici, si rivolgono direttamente al cuore e quindi all’inconscio.
Winckelmann aveva ragione…(e Charbonneux con lui ;-))
Non sopporto le icone russe l’arte finto pop la transavanguardia italiana i graffiti punk inglesi …neanche l’etnica africana. (semicit. da Franco Battiato, 1982)
Prima premessa: Jean Charbonneux (1895-1969), il più famoso archeologo classico francese – che amava considerarsi “un ateniese che il fato aveva voluto far nascere in Francia affinché potesse dirigere da grande un dipartimento del Louvre” – scriveva così nel 1969:
“Se oggi è difficile, forse per la prossima generazione sarà impossibile comprendere e soprattutto sentire profondamente ciò che ha significato nell’Antichità classica, e anche per qualche grande scultore recentemente scomparso, il tipo statuario dell’uomo nudo in piedi.
Niente è stato più esaltante per un disegnatore, per un pittore, e soprattutto per uno scultore, della creazione sempre rinnovata di questo essere che guarda al mondo dalla sua statura e sfida il cielo”
Charbonneux è morto nel 1969, tre anni prima del ritrovamento dei Bronzi nel mare, al largo di Riace. Ma le sue profetiche parole riescono a descrivere – come nessun altro in seguito – lo spirito classico, umanistico e intrinsicamente greco dei due capolavori.
Seconda premessa: Johann Joachim Winckelmann (1717- 1768), archeologico e storico dell’arte tedesco, considerato (a ragione) il padre nobile del neoclassicismo, teorizzava il bello ideale attraverso la “nobilesemplicità” e la “quietagrandezza” delle sculture greche. E, si pensi, il suo giudizio si basava solo sulle copie in marmo di età romana…chissà come avrebbe commentato la scoperta dei due originali bronzei, avvenuta quasi due secoli dopo la pubblicazione del suoi saggio “Gedanken über die Nachahmung der griechischen Werke in der Malerei und Bildhauerkunst” [Pensieri sull’imitazione delle opere greche in pittura e scultura] , dal quale riportiamo questo passo:
«La generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell’espressione. Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata.»
Ebbene, Il bronzo “B” (“il vecchio”), dalla postura nobilmente rilassata e lo sguardo non focalizzato, concretizza esemplarmente il suo pensiero, molto più del bronzo “A” (“il giovane”) che, al confronto, appare più teso e pronto all’azione, con il capo ruotato, l’espressione ostile del volto e la evidente contrazione dei muscoli delle spalle e del collo.
Non a caso la datazione del “Bronzo B”, per alcuni studiosi, viene collocata intorno al 430 a.C., coincidente quindi con il termine della “Età di Pericle”, il periodo di massimo splendore di Atene, l’apogeo del mondo classico; mentre la realizzazione del “Bronzo A” per la maggior parte degli esperti, dovrebbe essere più antica di una trentina d’anni, quindi nel periodo finale del cosiddetto “stile severo” (460 a.C.).
Lo stle severo fu artisticamente dominato da Mirone di Elèutere, l’autore del Discobolo, (originale in bronzo perduto, ca. 480 a.C., qui illustrato attraverso una copia in marmo di età romana – detta “Discobolo Lancellotti”, conservata a Palazzo Massimo a Roma)
Non sono mancate, inevitabilmente, delle attribuzioni del Riace A a Mirone, ma questa tesi ci appare oggi piuttosto debole per una serie di considerazioni:
il Discobolo rimane lontano dall’equilibrio pacato, perfetto, “classico”,del Riace “B”, ma non ha neanche raggiunto la naturalezza attiva del Bronzo “A”, nei confronti del quale appare in posa mimica, enfatizzata. Il Discobolo evoca teatralmente l’idea di movimento, ma ancora non lo rappresenta dinamicamente. La persistenza del preclassicismo si rivela dalla costruzione della figura, ancora più vicina al rilievo che alla statuaria a tutto tondo, e all’immobilità calligrafica della muscolatura della parte frontale del torso (quella posteriore non è altrettanto definita).
Questa sua ricerca mirata dell’atteggiamento “istantaneo” riscontrabile chiaramente anche nel suo gruppo di Atena e Marsia, si ricollega agli analoghi tentativi fatti in questo senso fin dall’estremo arcaismo, (si vedano i frontoni di Egina) per fissare la vita nell’opera d’arte, cogliendola, ma anche arrestandola, nel momento topico del movimento.
I Bronzi di Riace, al pari del Doriforo di Policleto, presentano già la soluzione formale più strettamente “classica” utilizzata per vitalizzare le statue, che resterà valida per tutta l’antichità, verrà ripresa nel Rinascimento ad opera di Donatello (David, 1430; Michelangelo, (David, 1501-4) Cellini (Perseo, 1546) e che consiste nel rappresentare la possibilità di movimento anziché il movimento stesso, attraverso una figura ferma ma non rigida, grazie a ritmi rigorosi e al bilanciamento ponderato delle parti del corpo. La possibilità di movimento infonde davvero un soffio vitale alla statua, mentre rappresentare in una azione accentuata ne pone in evidenza la effettiva ed artificiosa staticità.
Se ci fidiamo del giudizio estetico di Cicerone (…vogliamo fidarci…), che ricorda Mirone come capace di eseguire opere “non ancora vicinissime alla verità; nondimeno non si esiterà a dichiararle belle; quelle di Policleto sono ancora più belle e già veramente perfette, secondo la mia opinione” , considerando le stupende fattezze anatomiche del “giovane” Bronzo “A”, l’attribuzione a Mirone dovrebbe essere esclusa a priori.
Plinio e Pausania ricordano Mirone per le statue degli atleti vittoriosi ai giochi olimpici e altre rappresentazioni (“Atene e Marsia”, “la Vacca”) ma non lo menzionano mai per uno o più guerrieri, e Riace A guerriero lo è, senza alcun dubbio.
Oltre a Mirone, sono state avanzate numerose altre ipotesi (alcune diremmo fantasiose e di fatto smentite da accertamenti scientifici successivi) relative agli autori, ai personaggi rappresentati e alla collocazione dei Bronyi di Riace; le riassumiamo di seguito in forme tabellari, dividendole in due gruppi, quelle antecedenti al restauro del 1995 e quelle successive.
Un docente di Scienze Motorie specializzato in Anatomia, il prof. Riccardo Partinico, ha recentemente elencato tredici motivi che smonterebbero tutte le ipotesi sopra elencate. Li riportiamo qui punto per punto, senza commenti:
“Le due statue sono state realizzate a metà del V sec. a.C., lo stile artistico le colloca a distanza di trent’anni l’una dall’altra, la statua A nel 460 a.C. e la statua B nel 430 a.C.. Gli esami con il C14 sono stati svolti dal CEDAD di Unisalento diretto dal prof. Calcagnile.
l’argilla estratta dall’interno delle due statue non proviene solo da Argo, ma da due ambienti diversi situati in un vasto bacino idrogeologico compreso tra Atene, Corinto ed Argo. Anche l’argilla contenuta nel braccio destro della “Statua B”, riparato nei secoli successivi al V sec. a.C. proviene dalla Grecia e non da Roma come ha riferito, erroneamente, il giornalista Paolo Di Giannantonio a Radio Vaticana lo scorso 12 aprile (2024, ndr). Il prof. Ludovico Rebaudo durante la Conferenza internazionale svoltasi a Reggio Calabria nel 2022 ha spiegato a tutti i presenti, compreso l’attuale direttore e lo studioso interessato, che le terre estratte dalle due statue non sono identiche e provengono da due luoghi completamente diversi, quella della “Statua A” è ricca di inclusi e quella della “Statua B” è composta di una matrice argillosa fine e con pochi quarzi.
L’Istituto Centrale per il Restauro ha accertato che la percentuale dei metalli utilizzati per comporre il bronzo e lo spessore medio della lamina delle due statue sono diversi, 8,5 mm nella “Statua A” e 7,5 mm nella “Statua B”.
La tecnica manuale per assemblare la parte interna con le lamelle di argilla, i peli di animali, i bastoncini in legno, i chiodi a testa quadrata e le strutture di ferro di forma quadrata è stata materialmente svolta da artisti diversi che hanno anche lasciato le impronte digitali impresse nell’argilla.
Il noto restauratore dei Bronzi di Riace, Nuccio Schepis, assieme alla collega Paola Donati, ha accertato che gli occhi in calcite sono stati incastonati in maniera differente, nella “Statua A” sono stati bloccati con alcune graffette, nella “Statua B”, l’unico occhio risulta essere stato bloccato con un incastro piramidale.
Lo stile artistico delle due statue è diverso, la “Statua A” in stile “Severo” caratteristico del periodo 480/450 a.C., la “Statua B” in stile “Classico”, successivo all’anno 450 a.C..
Nel periodo di realizzazione delle due statue, precisamente nell’Età di Pericle 460/429 a.C., né Tebe, né Argo, avevano soldi da spendere per realizzare costosissime statue in bronzo, in particolare quelle di due personaggi mitologici fratricidi di cui uno era il traditore di Tebe al quale, nel racconto mitologico, veniva anche negata la sepoltura da parte dello zio Creonte, Re di Tebe.
A metà del V sec. a.C. Atene custodiva i contributi versati dalle città componenti la Lega di Delo (478 a.C. / 404 a.C.), e poteva investire nella ristrutturazione del territorio devastato dai persiani durante le guerre svolte dal 490 al 480 a.C. e nella realizzazione del patrimonio artistico e storico, infatti, Pericle in quel periodo fece realizzare da Fidia numerose statue per onorare dei ed eroi delle guerre vinte contro i persiani. Intorno al 460 a.C. Fidia realizzò la statua di Atena Pròmachos (“che combatte in prima linea”), nel 450 a.C. la statua di Apollo Parnòpios (“sterminatore di cavallette”), nel 448 a.C. la statua di Atena Lémnia (detta “La Bella”, per l’isola di Lemno), nel 438 a.C. la statua crisoelefantina di Athena Parthénos (“la vergine”, alta circa 12 metri), nel 432 a.C. la statua di Zeus Olimpio (anche questa alta circa 12 metri). Altre statue in bronzo di statisti e di militari che avevano combattuto per difendere Atene -mi riferisco a Santippo, Milziade, Temistocle, Cilone, Pericle ed altri eroi- furono descritte da Pausania, Tucidide, Plutarco e da altri A8 antichi.
I tenoni di cui erano fornite le due statue, quattro tenoni la “Statua B” ed un tenone la “Statua A” provengono dalle miniere di Laurion, vicinissime ad Atene e distanti circa 200 km da Argo, città dove si vuole ad ogni costo collocare le due statue.
I due Reperti 12801 e 12802 sono stati denominati sin dal 1981 dagli Archeologi che li hanno analizzati il “Giovane” ed il “Vecchio” perché risulta palese la differenza d’età.
Lo studio anatomico effettuato sulle due statue mette in evidenza numerose alterazioni scheletriche, la perfetta somatometria dei muscoli ed il corretto posizionamento delle vene delle mani e dei piedi che esprimono “vitalità”. Nella “Statua A” è presente il progenismo mandibolare ed l’iperlordosi lombare; nella “Statua B” si nota il cranio dolicocefalo, la rettilineizzazione delle vertebre cervicali, la scoliosi dorso-lombare, il varismo del quinto dito dei piedi e l’appiattimento ed allargamento della volta plantare. Tali dismorfismi e particolari anatomici confermano che le due statue rappresentano soggetti realmente vissuti e non personaggi mitologici che sarebbero, invece, stati rappresentati senza alterazioni scheletriche.
Eteocle e Polinice erano fratelli gemelli, ecco perchè era nata la disputa su chi doveva comandare Tebe. Infatti, nel racconto mitologico di Eschilo, Creonte assunse il comando di Tebe fino a quando Eteocle e Polinice non avrebbero raggiunto la maggiore età. Maggiore età che fu raggiunta contemporaneamente dai due fratelli, al punto che si dovette sorteggiare il primo dei fratelli che avrebbe assunto il comando di Tebe.
Le due statue non presentano alcuna somiglianza, né fisica, né fisionomica, sono due soggetti completamente diversi, non esprimono alcuna comunicazione corporea, sono corpi scollegati dal punto di vista posturale, mimico e gestuale. La postura e la gestualità delle due statue sono identiche, sono quelle di un militare in posizione di riposo, dotato di armi dell’epoca, che non esprime alcuna azione, né di attacco, né di difesa. Sui vasi della stessa epoca, vedi per esempio il combattimento mitologico tra Ettore ed Achille o quello tra Achille e Pentesilea, è espressa la dinamicità dell’azione aggressiva, nei racconti di Omero nell’Iliade, libro XXIII riguardo i lottatori, è espressa dinamicità: “Nel mezzo della lizza entrambi accinti presentarsi, e stringendosi a vicenda colle man forti s’afferrar, siccome due travi, che valente architettore congegna insieme a sostenere d’eccelso edificio il colmigno, agli urti invitto degli aquiloni. Allo stirar de’ validi polsi intrecciati scricchiolar si sentono le spalle, il sudor gronda, e spessi appaiono pe’ larghi dossi e per le coste i lividi rosseggianti di sangue”. Nei Bronzi di Riace, che dovevano rappresentare due fratelli fratricidi in uno scontro all’ultimo sangue, il nulla, statici nella stessa postura. Uno con la smorfia e l’altro impassibile guarda, imperturbabile, avanti verso il basso”.
Lo stesso Partinico, pur non essendo un Archeologo né uno Storico dell’Arte, si è sbilanciato con due ipotesi di individuazione dei personaggi rappresentati, realmente vissuti: Pericle e Temistocle.
L’ipotesi dettagliata del prof. Partinico
“I Bronzi di Riace, custoditi presso il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, potrebbero rappresentare gli Ateniesi Temistocle e Pericle, politici di spicco e militari famosi per aver guidato gli eserciti alla vittoria nelle più importanti guerre nel V secolo a. C.. L’ipotesi è fondata sulla comparazione dei risultati delle analisi effettuate dal ministero per i Beni Culturali con gli studi anatomici, le deduzioni e le ricerche storiche che ho svolto sin dall’anno 2005, quando presso la Biblioteca di Reggio Calabria ho presentato le mie prime intuizioni” (cit.)
Luogo e data di realizzazione
L’Istituto Centrale per il Restauro ha effettuato analisi chimiche, tecniche ed archeologiche, rilevando dati incontrovertibili. L’argilla che componeva le strutture interne delle due statue proveniva da microambienti differenti situati in un unico bacino geologico in territorio greco, tra Atene, Corinto ed Argo. Non è possibile individuare la località esatta perché l’argilla greca è molto simile per composizione di minerali. La “Statua A” è stata realizzata nel 460 a.C. e la “Statua B” nel 430 a.C., periodo storico coincidente con l’ “Età di Pericle”.
Autori
L’accertata diversità del periodo di realizzazione, delle tecniche e dei materiali adoperati per strutturare la parte interna, della composizione dei metalli, degli stili artistici e della provenienza dell’argilla, consentono di dedurre che le due statue sono state realizzate da Autori differenti e non possono far parte della stessa scena artistica.
Deduzioni
Le perfette proporzioni dei muscoli scheletrici, le tipicità dei crani, e, soprattutto, le alterazioni scheletriche che si osservano nei corpi delle due statue e che all’epoca erano sconosciute, permettono di dedurre che esse rappresentano due persone realmente vissute di cui si è voluta raffigurare la fisionomia. Quindi, i Bronzi di Riace non possono rappresentare i personaggi mitologici -Etéocle e Polinìce, Anfiarào e Tidéo, Càstore e Pollùce, Erettéo ed Eumòlpo- individuati da altri studiosi.
Studio anatomico della Statua A
Il cranio della “Statua A” è di tipo mesocefalo. Nel sistema scheletrico, normolineo, sono evidenti due dismorfismi: il progenismo mandibolare e l’iperlordosi lombare. Il primo dismorfismo, caratterizzato dall’avanzamento della mandibola, mette in risalto i denti dell’arcata superiore. Il secondo dismorfismo, determinato dalla compensazione del progenismo mandibolare, si manifesta con la riduzione della curvatura delle vertebre lombari, il bacino arretrato, i glutei sollevati e gli addominali avanzati. Il cranio dell’uomo rappresentato è ruotato a destra di circa 40 gradi e, considerato che gli arti superiori esprimono i gesti inconfondibili di chi sostiene con l’avambraccio sinistro uno scudo e con la mano destra una lancia, per deduzione, quel capo dovrebbe accogliere un elmo a completamento della classica dotazione di armi utilizzate dai militari.
Studio anatomico della Statua B
Il cranio della “Statua B” è di tipo dolicocefalo. Nel sistema scheletrico sono evidenti tre dismorfismi: la rettilineizzazione delle vertebre cervicali, la scoliosi dorso/lombare ed il varismo del 5° dito dei piedi. Il primo dismorfismo è stato causato, probabilmente, dalla forma del cranio, allungata esageratamente in senso antero/posteriore, che ha indotto le vertebre cervicali a perdere la normale curva di lordosi, ad allinearsi lungo l’asse longitudinale per far ritrovare al cranio una posizione baricentrica e compensare lo squilibrio. La scoliosi dorso/lombare, prodotta dalla rotazione di alcune vertebre attorno al proprio asse, è stata causata, probabilmente, da posture asimmetriche mantenute costantemente dal personaggio rappresentato ed, anche, per la compensazione dovuta agli altri dimorfismi evidenti in quello scheletro. Il terzo dismorfismo, il varismo del 5° dito dei piedi, dovrebbe essere di natura ereditaria, così come la struttura scheletrica del 2° dito che risulta appena più lungo dell’alluce ed è tipico del cosiddetto “piede greco”. Il capo è leggermente flesso, la postura è militare e le armi in dotazione, sono le stesse di quelle descritte per la “Statua A”.
I muscoli
I muscoli scheletrici dei due personaggi rappresentati dalle statue presentano differenze ipertrofiche e somatometriche che caratterizzano l’età biologica dei due soggetti. Il personaggio rappresentato dalla “Statua A” risulta essere più giovane e vigoroso di quello rappresentato dalla “Statua B”.
Il tipo di ipertrofia muscolare visibile in entrambe le statue è caratteristico della capacità condizionale denominata in fisiologia forza/resistente che si sviluppa praticando discipline di combattimento, quali la Lotta, il Pugilato ed il Pancrazio, tipiche dell’addestramento base di tutti i Guerrieri Greci. Alcuni segni caratteristici della Lotta si notano nel personaggio rappresentato dalla “Statua B”. Le orecchie sono asimmetriche. Nella cartilagine dell’orecchio destro il Trago e la parte anteriore della Fossa Scafoide risultano consumati. Nell’orecchio sinistro il Trago risulta consumato e nel Lobo, nell’Anti-Trago, nell’Anti-Elice, nell’Elice e nella Fossa Scafoide sono presenti otoematomi. La fisionomia degli arti inferiori della “Statua B”, per l’evidente ipertrofia muscolare dei glutei, degli adduttori e dei tricipiti della sura, è compatibile con chi va a cavallo.
Pericle
La “Statua B” dei Bronzi di Riace rappresenta un guerriero greco con un particolare anatomico che caratterizza la sua testa, allungata esageratamente in senso antero/posteriore. Per cinquant’anni si è creduto erroneamente che quella parte allungata a dismisura fosse una porzione creata volutamente dall’Artista per far calzare l’elmo. Lo studio anatomico ha invece rilevato che quello è un vero e proprio cranio, di tipo dolicocefalo e che l’alterazione inizia con l’appiattimento dell’osso frontale a partire dal primo terzo, sopra le orbite, e si congiunge alle due ossa parietali, anch’esse appiattite ed allungate in senso antero/posteriore. Se, come avevano creduto gli studiosi la forma allungata della testa fosse stata una porzione aggiuntiva, l’osso frontale avrebbe avuto una forma regolare, così come quello della “Statua A”.
Dal punto di vista statuario, allungare una testa per far calzare un elmo è irragionevole considerato che la parte che sostiene e mantiene incastrato un elmo è il bordo che poggia sopra l’osso frontale, ai lati sopra le orecchie ed alla base dell’osso occipitale, Inoltre, sarebbe l’unico caso nella storia dell’Arte e dell’Archeologia. Dopo tali considerazioni si può affermare in termini scientifici che il personaggio rappresentato dalla “Statua B” presenta un cranio di tipo dolicocefalo, esageratamente allungato in senso antero/posteriore. Nelle fonti letterarie del V secolo a.C., l’unico personaggio di cui si fa riferimento per avere una forma particolare della testa, èPericle. Plutarco, nella sua opera “Vite Parallele”, riporta gli scritti di Erodoto e del Commediografo Cratìno che soprannominavano Pericle “Schinocefalo” per avere la testa allungata indietro come una cipolla marina. Èupoli scrive che nella testa di Pericle entravano 11 letti. Partendo da questa particolare ed unica forma del cranio rappresentata dalla “Statua B” e confrontandola con i dati chimici e scientifici rilevati con il “carbonio 14” e con i dati geografici e storici l’ipotesi prodotta dal Prof. Partinico assume molta consistenza per un insieme di indizi precisi e concordanti.
Pericle ha governato Atene dal 460 al 429 a.C. proprio nel periodo e nel territorio di realizzazione della statua; lo scultore Fidia, amico personale di Pericle,fu incaricato in quello stesso periodo, di coordinare la ristrutturazione del Partenone e degli edifici distrutti durante le guerre persiane e di realizzare statue in bronzo di divinità ed eroi ateniesi che avevano difeso ed onorato la città. Pericle fu rappresentato da Fidia mentre combatteva contro un’Amazzone, armato di scudo, lancia ed elmo, sullo scudo della statua di Athena Parthenos. Pausania, nella sua opera “Descrizione della Grecia”, elenca tra le statue viste nell’Acropoli di Atene una statua di Pericle esposta di fronte a quella di Santippo. Plutarco, nelle “Vite parallele”, scrive dell’esistenza di statue di Pericle che dovevano essere realizzate con l’elmo sul capo per nascondere la deformità della testa e di Tucidide, che, interpellato da Archidamo II, Re di Sparta, su chi fosse più bravo nella Lotta tra lui e Pericle, rispose: “Vinco io, ma Pericle, che non accetta mai di perdere, fa credere il contrario anche a quelli che hanno visto”.
Temistocle
La “Statua A” dei Bronzi di Riace è stata realizzata trent’anni anni prima della “Statua B”, nella stessa area geografica e rappresenta anch’essa un guerriero greco. Atene fu governata in successione da Temistocle, Cimone e Pericle. Temistocle, promotore del potenziamento militare navale di Atene fin dal 493 a.C., è stato l’eroe delle battaglie di Maratona, Capo Artemisio e Salamina, il condottiero che più di tutti ha contribuito alla vittoria della Grecia contro la Persia del Re Serse. Temistocle morì in esilio nel 459 a.C. e Pericle riabilitò la sua memoria, riconoscendolo come un eroe della causa ateniese. Le copie romane di originali del V secolo a.C. che rappresentano i volti di Pericle e Temistocle, custodite presso i Musei Vaticani, sono molto simili per fisionomia ai Bronzi di Riace”.
Azzardiamo le nostre conclusioni…
Le nostre umilissime considerazioni, partendo dalle fonti storiche:
inoltre, riferendosi all’arte di Mirone e di Pitagora, Plinio afferma a proposito della statua del Pancratiaste di quest’ultimo :
«lo superò Pitagora di Reggio in Italia col Pancratiaste dedicato a Delfi […]. Fece anche Astilo che si vede a Olimpia […]; a Siracusa fece poi uno Zoppo[1] tale che anche a chi lo guarda sembra di sentire il dolore della sua piaga […]; Pitagora fu il primo a riprodurre i tendini e le vene e il primo a trattare i capelli con maggiore diligenza degli altri, suddividendoli con precisione.»
(Plinio il Vecchio XXXIV 59)
Insomma, tra Mirone e Pitagora il livello doveva essere paragonabile se non equivalente, e il terzo posto di Mirone è probabilmente stato assegnato di misura. Vero è che Pitagora viene indicato come il primo scultore ad avere una cura minuziosa di particolari come capelli, tendini e vene; un’attenzione che è tipica dello stile severo e che non riguarda il minuto particolare fine a se stesso, ma la struttura dell’anatomia umana indagata come un tutto organico. Vero anche che i due Riace abbondano in questi particolari anatomici, ma essere il primo cronologicamente non significa essere l’unico, anzi…Inoltre, tornando a Pitagora, le caratteristiche del suo lavoro hanno permesso di attribuirgli dubitativamente moltissime opere e diversi capolavori dell’arte scultorea di passaggio tra lo stile severo e quello protoclassico. Come accaduto per Mirone, le numerose opere attribuite a Pitagora dagli antichi (Plinio e Pausania) sono soprattutto statue di atleti vincitori a Olimpia e a Delfi; ma anche eroi mitologici e effigi divine, tutte perdute e nessuna copia dei suoi lavori è stata identificata con certezza. Alcune citate dalle fonti sono in parte riconoscibili in bronzetti, altre in riproduzioni fatte su gemme, cammei, o sulle monete siciliane e italiote.
Ma le recenti tesi secondo le quali potrebbe essere l’autore di una o addirittura due Riace secondo noi non sono minimamente sostenibili (i riccioli freack del Bronzo A hanno probabilmente fuorviato i seriosi accademici); se il livello di Mirone è quello del Discobolo, e se Pitagora è gli pari o addirittura leggermente inferiore, siamo ben lontani dagli inarrivabili Riace A e B. Rimarrebbero in lizza, a questo punto, solo Fidia (per il “giovane” e Policleto (per il “vecchio”). Guarda caso, la postura di quest’ultimo è esattamente quella canonica del Doriforo.
L’Antico e i competitor moderni
Solamente Michelangelo con il suo David si avvicina all’ideale greco, ma per ragioni prospettiche “inciampa”, alterando le proporzioni perfette dei bronzi classici. Da lontano, il David è un vero “capoccione”.
Neanche Bernini, molti secoli dopo con il suo dinamico David, riesce ad arrivare al livello supremo dei due guerrieri. Fissa mirabilmente un momento, un’espressione (la sua, ahi ahi…) e una situazione: rimane troppo reale, senza raggiungere l’ideale.
In tempi più recenti, anche Rodin ci ha provato, troppo pathos, nulla da fare, il Monte Olimpo rimane troppo alto da scalare.
E allora? Winckelmann aveva ragione, da vendere, pur senza aver potuto godere dell’immenso privilegio, a noi concesso dalla Storia, di ammirare i Bronzi di Riace. E non aveva visto neanche il Pugile delle Terme, scoperto oltre un secolo dopo la sua morte, nel marzo del 1885 su un versante del Quirinale. Con il Pugile che si aggiunge ai due guerrieri, si completa il podio delle tre statue più belle di tutti i tempi e di tutti i luoghi, “by far”.
(Su questo postulato non si ammettono discussioni ;-))
La statua è stata ritrovata tra il secondo e il terzo muro di fondazione di un edificio antico, alla profondità di 6 metri sotto il livello della piattaforma. L’archeologo Rodolfo Lanciani, all’epoca segretario della Commissione Archeologica Comunale, ha lasciato una descrizione tanto vivida quanto precisa delle circostanze del ritrovamento: «Il più importante dato raccolto, mentre ero presente e seguivo la rimozione della terra nella quale il capolavoro giaceva seppellito, è che la statua non era stata gettata là, o seppellita in fretta, ma era stata nascosta e trattata con la massima cura. La figura, trovandosi in posizione seduta, era stata posta su un capitello di pietra dell’ordine dorico, come sopra uno sgabello e il fosso che era stato aperto tra le fondamenta più basse del tempio del Sole, per nascondere la statua era stato riempito con terra setacciata per salvare la superficie del bronzo da ogni possibile offesa. Sono stato presente, nella mia lunga carriera nell’attivo campo dell’archeologia, a molte scoperte; ho sperimentato una sorpresa dopo l’altra; ho talvolta e per lo più inaspettatamente, incontrato reali capolavori ma non ho mai provato un’impressione straordinaria simile a quella creata dalla vista di questo magnifico esemplare di un atleta semi-barbaro, uscente lentamente dal terreno come se si svegliasse da un lungo sonno dopo i suoi valorosi combattimenti»[3] (da Wikipedia)
Il restauro condotto tra il 1984 e il 1987 ha permesso di riconoscere nell’opera aspetti tecnici riconducibili ad ambito classico. L’opera fu realizzata con la tecnica della fusione a cera persa e con il metodo indiretto. La scultura è un insieme di otto segmenti. Le labbra, le ferite e le cicatrici del volto erano fuse separatamente in una lega più scura o in rame massiccio. Separatamente erano fuse anche le dita centrali dei piedi (un aspetto tecnico già riscontrato nei Bronzi di Riace) per permettere una più accurata modellazione degli spazi interdigitali. Lo stesso si dica per la calotta cranica che doveva permettere l’inserimento degli occhi policromi dall’interno. (da Wikipedia)
Dopo due anni di eventi ibridi a causa della pandemia, si è chiusa in questi giorni all’Atelier Richelieu di Parigi la decima edizione dell’Outsider Art Fair.
Per questo suo decimo anniversario, la Fiera – nata a New York nel 1993 ed arrivata in Francia nel 2012 grazie ad Andrew Edlin (imprenditore e gallerista ben noto nel panorama newyorkese, la cui moglie, Valérie Rousseau, è curatrice dell’American Folk Museum).sposta le sue date a settembre, dal 15 al 18, così da acquisire la piena autonomia dalla FIAC (Fiera Internazionale di Arte Contemporanea fondata a Parigi nel 1974) e catturare l’attenzione degli amanti dell’arte in Francia, Europa e oltre, come tiene a precisare il suo fondatore.
L’Arte irregolare o Raw Art si sta facendo sempre più apprezzare e conoscere, tanto che i confini fra Insider e Outsider si fanno sempre più labili, anche grazie alla 55 Biennale Arte 2013 curata da Massimiliano Gioni.
La nuova direttrice dell’OAF di Parigi, Sofia Lanusse, che succede a Nikki Iacovella, dice che “l’Outsider Art non è mai stata celebrata come lo è oggi. Come società” continua Lanusse, ” stiamo infatti cambiando paradigmi e prospettive, affermando il nostro impegno per una revisione più inclusiva della storia dell’arte, che prevede la presenza degli Outsider, e dell’Art Brut in istituzioni contemporanee come il Centre Pompidou di Parigi, LaM nella città di Lille, il Museo di Arte Moderna e il Metropolitan Museum di New York.”
All’evento erano presenti 38 gallerie (3 delle quali solo nell’online viewing room) provenienti da 29 città rappresentanti 13 Paesi.
La Fiera ha dato anche il benvenuto per la prima volta alla Rodovid Gallery di Kiev che presenta i lavori di artisti folk ucraini, compresa la leggendaria Maria Prymachenko (1909-1997), i cui lavori sono stati aggiunti alla Biennale di Venezia di quest’anno.
L’OAF si concentra in modo particolare sugli artisti autodidatti e ha mostrato i lavori di maestri noti quali Henri Darger, Martin Ramirez, Bill Traylor e AloÏse Corbaz, così come artisti viventi come Domenico Zindato, Davide Cicolani, George Widener, Susan Te Kahurangi King, Dan Miller, Shinichi Savana e Luboš Plny.
Domenico Zindato (b. 1966), Riding the Immanent, 2022 – Courtesy of Andrew Edlin Gallery
Subito riconosciuta per il suo spirito anticonformista, l’Outsider Art Fair sta giocando un ruolo fondamentale e vitale nel nutrire una comunità di appassionati collezionisti e incoraggiando un sempre più ampio riconoscimento della Fiera nell’arena dell’arte contemporanea.
L’edizione 2022 dell’OAF di Parigi presenta anche due programmi collaterali: The Underground is Always Outside curato da Aline Kominsky-Crumb and Dan Nadel sui fumetti underground che rimangono una delle forme d’arte più fraintese. Nati dall’impulso liberatorio della controcultura americana degli anni ’60 e affinati negli anni ’70 e ’80, i comics hanno offerto a innumerevoli artisti uno sbocco per commenti culturali taglienti, umorismo assurdo, fioriture psichedeliche, autobiografia confessionale e fantasia a tutto campo.
Robert Williams, Peripheral Bogies (1975)
E I Wish I Could Speak in Technicolor curato da Maurizio Cattelan e Marta Papini, basato intorno alla vita e al lavoro di Eugene Von Bruenchenhein (1910-1983) conosciuto per i suoi dipinti astratti caleidoscopici degli anni Cinquanta, creati usando le dita, i bastoncini, i pettini, le foglie e altri utensili improvvisati per pigiare i colori ad olio intorno alle superfici di tavole di masonite o pezzi di cartone prelevati dagli scatoloni del panificio dove lavorava.
Eugene Von Bruenchenhein (1910 – 1983) No. 818, July 3, 1959, 1959 Oil on masonite 24 x 24 inches
“l’arte più innovativa del Novecento è stata prodotta da quelli che la gente chiamava pazzi, froci, ebrei, ubriaconi, drogati, depressi, contestatori e puttane.
Artisti originali, puri, unici, ‘diversi’, che non troviamo nei manuali di storia dell’arte. Outsiders perché hanno dovuto condividere l’arte con la malattia. Del corpo o dell’anima. O di tutti e due, a volte.
Andrew Lamar Hopkins, Creole Praline Seller (2022) – Courtesy of Gryder Gallery, New Orleans
Perché gli Outsiders sono straordinari perdenti, li riconosci sempre. Non scelgono mai i luoghi e le date giuste per nascere, creare, amare, morire. Vivono in mondi paralleli. E hanno sempre l’indirizzo sbagliato”.
Se il mondo è cambiato, bisogna cambiare il modo di guardare il mondo: Outsider Art Fair ci aiuta a farlo.
Ha una laurea magistrale in Scienze della Comunicazione conseguita presso l’Università degli Studi di Torino ed esperienze prima come Content Manager e poi come giornalista freelance maturate sia in Italia sia all’estero. Ha vissuto e lavorato in Medio Oriente, Nord Europa e Stati Uniti. Lead Generation Specialist all’Istituto Piepoli, si occupa anche di comunicazione sul web e segue lo sviluppo del nuovo business, con uno sguardo all’internazionale. Offre supporto logistico, documentale e organizzativo al team di ricerca. Svolge inoltre attività di recruitment su target di opinion leader e stakeholder.
Di fatto, è solo un braccio robotico, programmato per cercare di contenere il fluido idraulico – di colore rosso sangue che, volutamente, fuoriesce costantemente in quantità limitata – e che è necessario per far continuare a funzionare il braccio stesso.
Se fuoriesce troppo liquido, superiore alla quantità necessaria al funzionamento meccanico, il braccio “morirà”, e quindi il suo movimento, disperato, è funzionale al recupero del liquido per garantire la sopravvivenza per un altro giorno.
Quando il progetto è stato lanciato per la prima volta, il braccio non era programmato per recuperare il suo fluido vitale, ma si è limitato ad interagire con i visitatori, in quanto la quantità di liquido all’interno del sistema era sufficiente e non richiedeva ancora questa attività, vitale, di recupero.
L’opera, visitabile dal 2016 non è stata mai modificata e il braccio robotico ha intrapreso il suo ingrato compito appena uscito dalla fabbrica, al punto che dopo 5 anni lavorava a fatica e in una stanza sporca senza potersi sottrarre alla sua natura.
Programmato per vivere questo destino, non importa cosa abbia fatto o quanto sia stato difficile, ci ha provato, e non c’era modo di sfuggirgli.
Gli spettatori hanno guardato mentre sanguinava lentamente fino al giorno in cui ha smesso di muoversi per sempre.
Vivere i suoi ultimi giorni in un ciclo senza fine tra sostenere la vita e contemporaneamente sanguinare.
Lasciamo ai lettori le interpretazioni filosofiche e morali di questa opera.
Qui sotto alcune fonti verificate , tra le molte che si trovano in Rete.
Nel quarto superiore del simbolo della Marina Militare compare il Leone di San Marco, secolare simbolo della città di Venezia e della sua antica Repubblica. Detto anche “Leone Marciano” o “Leone Alato”, è la rappresentazione simbolica dell’evangelista san Marco, raffigurato in forma di leone alato. Altri elementi osservabili sono l’aureola, il libro e una spada tra le zampe in varie combinazioni
La simbologia del Leone di San Marco deriva dalla leggenda secondo la quale un angelo sotto forma di leone alato si presentò al Santo, naufragato in laguna, proferendo le parole: «Pax tibi Marce, evangelista meus. Hic requiescet corpus tuum» (Pace a te, Marco, mio evangelista. Qui riposerà il tuo corpo) preannunciandogli che in quel luogo, un giorno, il suo corpo avrebbe trovato riposo e venerazione. Il libro, associato al Vangelo, ripropone spesso le parole del leone: «PAX TIBI MARCE EVANGELISTA MEVS».
Numerose le interpretazioni simboliche riguardo alla combinazione tra spada e libro:
il solo libro aperto è ritenuto simbolo della sovranità dello Stato;
il solo libro chiuso è invece ritenuto simbolo della sovranità delegata alle pubbliche magistrature;
il libro aperto e la spada non visibile a terra è ritenuto simbolo della condizione di pace;
il libro aperto con la spada impugnata sarebbe invece simbolo della pubblica giustizia.
il libro chiuso con spada impugnata, è infine ritenuto simbolo di stato di guerra;
Altri elementi significativi, infine, il leone poggia le zampe anteriori sulla terra e quelle posteriori sull’acqua: particolare riferimento al saldo potere di Venezia sulla terra e sul mare.
Cieli sereni 🇮🇹 PG
Greco e Latino, in Architettura. Episodio I – Gli ordini classici. Abecedario.
(Interno interattivo a 360 gradi del Pantheon a Roma. Cliccando sul quadratino si ottiene lo schermo intero; trascinado il cursore del mouse ci si muove in ogni direzione )
Quadro assiomatico: l’Architettura è un linguaggio.
Postulato: L’Architettura Classica, l’arte del costruire che nel campo linguistico corrisponde all’antico Greco e al Latino, è esclusivamente quella che utilizza gli ordini architettonici Tuscanico, Dorico, Ionico, Corinzio e Composito.
Definizione: un ordine architettonico è costituito da un insieme di sostegni e sovrastrutture, tra loro correlati, distinto da proporzioni, profili e dettagli caratteristici che lo rendono facilmente riconoscibile. I Cinque Ordini costituiscono l’equivalente delle cinque declinazioni della lingua latina e rappresentano le vere e proprie “uniformi” degli edifici classici.
In questa splendida incisione su rame di Claude Perrault (1613-1688, autore della “colonnade”, come viene chiamata la facciata est del Louvre) sono illustrati quelli che, all’epoca, venivano considerati indiscutibilmente gli ordini classici dell’Architettura: da sinistra Tuscanico, Dorico, Ionico, Corinzio, Composito.
L’utilizzo concreto di questa gamma lo ritroviamo, peraltro, nel corso di millenni della Storia dell’Architettura e senza limitazioni geografiche di sorta: partendo in Grecia dal VI secolo a.C., proseguendo per l’intera estensione dell’Impero Romano, nelle Americhe e financo in Australia, Africa ed Asia, nell’architettura coloniale del XX secolo.
Nelle illustrazioni che seguono, abbiamo volutamente messo a confronto tre diversi esempi dell’ordine “dorico greco/arcaico” ( tutti realizzati in Italia)
Le prime due immagini a sinistra raffigurano il Tempio di Era II (o di Poseidone) a Paestum (V sec. a.C.) mentre le altre due risalgono all’inzio del XIX secolo e sono opere romane di Giuseppe Valadier: rispettivamente Villa Torlonia e la Casina del Pincio, che appunto prende il suo nome. Colonne e capitelli del Tempio sono separati da quelli delle altre costruzioni da oltre 2300 anni….epperò lo stile rimane molto simile, oltre che assolutamente riconoscibile.
Ma perché gli ordini sono proprio (e solo) cinque? All’età di Augusto, per Vitruvio (che conosceremo meglio tra qualche riga) erano limitati a tre: Dorico, Ionico e Corinzio. La gamma ampliata è stata di fatto “certificata” solo quindici secoli dopo, nel Rinascimento, da un architetto bolognese, Sebastiano Serlio (1475-1554), collaboratore di Baldassarre Peruzzi (1481-1536), che a sua volta lo era di Raffaello Sanzio (1483-1520). Raffaello, ricordiamo, oltre che “divin pittore” era stato nominato dal papa Leone X “praefectus marmorum et lapidum omnium“, diventando, di fatto, il primo soprintendente archeologico e ai monumenti della storia.
In questa veste, probabilmente anche seguendo i consigli del concittadino Donato Bramante (1444-1514), il primo progettista della “nuova” Basilica di San Pietro, voluta da Giulio II e fondata nel 1506, Raffaello era stato incaricato di catalogare e ridisegnare le più importanti rovine romane al fine di ricavarne quelle “regole universali” che avevano generato “l’unica buona e vera Architettura, quella degli antichi”, che lo stesso Pontefice voleva riportare in vita per celebrare la rinascita dei fasti dell’Impero Romano, stavolta sotto la guida della Chiesa.
Oltre ai Maestri citati, ricordiamo che intorno al 1500 a Roma si trovavano anche Leonardo da Vinci e Giuliano da Sangallo; poco prima c’erano stati anche Pinturicchio e i decoratori quattrocenteschi della Cappella Sistina: Perugino, Botticelli, Cosimo Rosselli, Ghirlandaio e Signorelli: tutti i grandi artisti umbri e toscani che, a loro volta, nel campo dell’Architettura avevano come punti di riferimento Filippo Brunelleschi e Leon Battista Alberti, le vere stelle polari dell’Umanesimo fiorentino e primi, veri promotori della riscoperta del classicismo nelle arti e nell’architettura dopo il Medioevo.
Cosa ha fatto il buon Serlio allora? Come Architetto, non era dotato di particolare talento; ma potendo disporre degli studi dei contemporanei o di chi lo aveva di poco preceduto, ha avuto l’enorme merito di collezionare, riordinare, sistemare e pubblicare un insieme di conoscenze preziose, frutto delle ricerche appassionate, ma dispersive, di un irripetibile gruppo di geni assoluti. Il risultato dei suoi sforzi è l’opera “I sette libri dell’Architettura”, pubblicati a partire dal 1537 in ordine irregolare ed in tempi e luoghi diversi. Improntato più ad uno spirito pratico che teorico, il suo trattato è in assoluto il primo a codificare in dettaglio i “cinque ordini”, attribuendo grande importanza alle immagini, e costituisce una pietra miliare non solo nella storia della trattatistica di architettura, ma anche nella storia della stampa.
Il frontespizio del Libro IV (il primo ad essere pubblicato nel 1537) ci dice tutto sulle convinzioni dell’autore: le regole sono “generali” e le “maniere” cinque: appunto Toscano, Dorico, Ionico, Corinzio e Composito; cita gli esempi dell’Antichità “che per la maggior parte concordano con la dottrina di Vitruvio”.
Serlio, per qualificare la sua opera, non solo si richiama alle nobili vestigia romane, ma si appella anche all’autorità dottrinale di Vitruvio… e allora, chi era costui, e in cosa consisteva la sua dottrina?
La risposta è semplice: Vitruvio (in latino: Marcus Vitruvius Pollio) era “il Serlio” dell’età di Augusto. Architetto, ma soprattutto trattatista, viene tuttora considerato il più famoso teorico dell’architettura di tutti i tempi.
Attivo nella seconda metà del I secolo a.C. è autore della Basilica di Fano e soprattutto del trattato De architectura (Sull’architettura), in 10 libri, dedicato ad Augusto che gli aveva concesso una pensione.
Scritto probabilmente tra il 29 e il 23 a.C. (periodo nel quale Augusto aveva in mente un rinnovamento generale dell’edilizia pubblica) mirava certamente a ingraziarsi l’imperatore; a cui, non a caso, Vitruvio si rivolge direttamente in ciascuna delle introduzioni preposte ad ogni libro.
Il De architectura è l’unico integro testo latino di architettura giunto fino a noi e per questo il più importante,
Testimonia gli usi e costumi dell’epoca ed è stato studiato da ogni architetto dopo la riscoperta del manoscritto, avvenuta nel XV secolo.
«Tutte queste costruzioni devono avere requisiti di solidità, utilità e bellezza. Avranno solidità quando le fondamenta, costruite con materiali scelti con cura e senza avarizia, poggeranno profondamente e saldamente sul terreno sottostante; utilità, quando la distribuzione dello spazio interno di ciascun edificio di qualsiasi genere sarà corretta e pratica all’uso; bellezza, infine quando l’aspetto dell’opera sarà piacevole per l’armoniosa proporzione delle parti che si ottiene con l’avveduto calcolo delle simmetrie.»
Claude Perrault, “distillò” da questo passo del trattato la leggendaria formula della triade vitruviana, secondo la quale cui ogni buona architettura deve soddisfare tre requisiti:
firmitas (solidità);
utilitas (funzione, destinazione d’uso);
venustas (bellezza).
Che onestamente rimangono difficilmente contestabili, anche dopo duemila anni.
(Fine episodio I. Continua…prossimo episodio: l’ordine tuscanico.)