Le casette del signor Rossi
Bisogna ammetterlo: ad un certo punto abbiamo pensato di ritrovarci lillipuziani dentro un plastico di Lego o PlayMobil sul quale avevano riversato anche alberghi e case del Monopoli. E invece stavamo percorrendo le sale di un allestimento davvero magistrale, quello dedicato ad Aldo Rossi: l’Architetto e le città, inaugurato il 10 marzo scorso al Museo Maxxi di Roma.
il successo planetario di Aldo Rossi – architetto, designer, scrittore, pittore, docente – a 25 anni dalla sua scomparsa rimane per molti un insondabile mistero. Non per noi, eh. Nell’ultimo quarto del secolo scorso ha firmato di tutto: dal cucchiaino Alessi ad intere parti di Berlino. Tra gli addetti ai lavori, è tuttora amato od odiato, senza riserve. L’aggettivo “Rossiano” era considerato nobilitante o infamante a seconda delle contrade culturali che lo utilizzavano, anche all’interno dello stesso Istituto Universitario di Architettura a Venezia dove insegnava.
Odiato o amato; ma poco capito anche perché poco spiegato: del resto lui stesso alimentava, con la sua prosa oracolare, l’aura mitologica di un Maestro che tra i colleghi riconosceva solo Palladio, Adolf Loos e Mies van der Rohe al livello della sua olimpica altezza. Perché lui, anzi Egli, discendeva direttamente da Pitagora, Euclide, Ictino e Callicrate, “senza passare dal via!” (per rimanere in tema Monopoli). Un via! costituito, in questo caso, da venticinque secoli di Storia dell’Architettura. Semplici composizioni, solidi elementari, uno schizzo e … “Ipse pinxit”! Bastava, o meglio doveva bastare a seguaci, ammiratori e alla nutrita schiera di collaboratori adoranti destinati a tirar su milioni di metri cubi di ferro e cemento, o anche solo una caffettiera, a partire da uno schizzetto a china.
C’è una foto, firmata e datata “Atene 1971”, che lui, anzi “Egli stesso”, scelse per aprire un volumetto di Zanichelli dedicatogli quando era già famoso e che spiega tutto: colonna tra le colonne, mito nel mito, jeans e sguardo/sigaretta alla Clint Eastwood nella Trilogia del Dollaro. Ci siamo capiti.
Ciò premesso, il maggior merito di questa splendida e davvero imperdibile retrospettiva è proprio quello di aiutarci a rintracciare, grazie all’abbondanza del materiale in mostra, qualche elemento del patrimonio genetico rossiano che giocoforza deve emergere qua e là dal mucchio…intendiamoci: emerge, a patto di avere l’occhio per scorgerlo. E a noi del FUORI l’occhio non manca di certo; di queste impronte cromosomiche però qui ne elenchiamo solo quattro, lasciando a voi il piacere di scoprirne altre direttamente al Maxxi:
- Mario Sironi – Discendenza diretta, palmare e, diremmo ora di “look and feel”, nelle periferiche atmosfere milanesi trasferite tout court dai quadri di Mario a quelli di Aldo (che sembrano quelli di Mario, copiati male);
- Heinrich Tessenow (1876 – 1950) depredato dall’iconico triangolo/frontone con buchetto su pilastri lisci ed allungati, come quelli della Festspielhaus Hellerau di Dresda, che dopo i restauri, sembra una “Rossi DOC”, e pure delle migliori annate. Il povero Tessenow certo non immaginava che le sue illustrazioni minimal del manualetto “Osservazioni Elementari del Costruire”, destinate agli anonimi capimastri teutonici per diffondere buone ed umili pratiche edilizie, sarebbero poi diventate, a spietati colpi di CTRL+C/ CTRL + V, dei progetti osannati e patinati da esporre nei bookshop fighetti dei musei di tutto il mondo.
Diez Brandi (1901 – 1985) – vi bastano le foto della Auferstehungskirche di Bad Oeynhausen in Germania (1953-56)? Non crediamo di dover aggiungere altro… 😉
- Insula Romana: “Ecco l’Idea!” (riferendosi alla patata lessa) recitava una “rèclame” televisiva di qualche tempo fa. Ebbene, tutto il saggio “L’Architettura della Città” del 1966, quello che lo ha lanciato nel firmamento delle future archistar, si sintetizza in questi tre punti focali concatenati: a) le strade sono quei posti dove le cose accadono e la gente gira; b) bisogna allineare i corpi edilizi alle strade dove la gente gira e le cose accadono; c) bisogna mettere botteghe e negozi nei corpi edilizi allineati lungo le strade dove le cose accadono e la gente gira, altrimenti nei negozi non entra nessuno. Ecco L’idea. Che Genio…
Appare chiaro a questo punto che lo strepitoso successo del sig. Rossi, (Gr. Parac. Efferat. Copion. e Gran Maestro di Ovvietà, semicit.) si debba ad una catena di circostanze (fortunate per lui, jellate per l’Architettura) che lo hanno fatto riconoscere come un profeta grazie ad un solo merito: uno solo, ma fondamentale: quello di aver capito e denunciato per primo che a cavallo dei ’70 l’Architettura Moderna, dopo gli anni d’oro ’20 e ’30 e a causa del furore ideologico postbellico, pur di cancellare qualunque cosa che ricordasse gli stili dei regimi, aveva preso una pessima ed orribile piega. Le Corbusier e i suoi epigoni, pur partendo da nobili premesse, hanno fatto danni, danni veri, disseminando per il mondo osceni cassoni di béton brut soggetti a precoce deterioramento. Interi villaggi sperimentali come le Siedlung Halen di Berna che si facevano studiare in maniera “matta e disperatissima” nelle facoltà di architettura anni ’70 come i massimi modelli da seguire, sono ridotti ad un ammasso di rovine cementizie divorate dalla giungla (..svizzera, si si, svizzera!), neanche fossero cavalcavia del terzo mondo in sabbiacemento crollati e abbandonati dopo un terremoto scala 2 scarso. Tanto per chiarire: le Siedlung Halen erano parecchio bruttine anche da nuove, intendiamoci. E comunque non funzionavano, non potevano funzionare, perché senza attività urbane vitali qualsiasi insediamento-dormitorio è destinato inevitabilmente al degrado.
Il Signor Rossi lo ha capito per tempo e così ha potuto recuperare e rilanciare la tradizione della città; ha disegnato le case a forma di casa e i palazzi a forma di palazzo, disponendo il tutto in maniera ordinata e pulita ai bordi delle strade… né piu, né meno, come si dispongono gli alberghi rossi e le casette verdi sugli spazi colorati delle caselle di Parco della Vittoria e Viale dei Giardini.
Si si, proprio quelle del Monopoli.
(cliccare sulle immagini per vederle per intero ed ingrandite)
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Modello del Teatro del Mondo -
Poltrone, senza sofà -
Venezia. Teatro del Mondo, Redentore e Punta della Dogana. -
Il Teatro del Mondo in mezzo al mar -
“Un’altra Estate, 1979” -
Cabine di ascendenza rossiana a Paestum (non in mostra…non sono sue…forse.) -
Modello ligneo del Duomo di Milano (Non è un progetto dell’Aldo, eh)