Mullah Neda Mohammad Nadeem, ex governatore e comandante militare, nonché esponente della linea dura religiosa, è stato nominato responsabile dell’Università lo scorso ottobre e sin da subito aveva espresso la sua ferma opposizione all’istruzione femminile, definendola non islamica e contraria ai valori afghani.
Sin dal loro arrivo al potere, i talebani, dopo aver di fatto impedito alle donne di lavorare e aver imposto il velo integrale che deve lasciare scoperti solo gli occhi (ma con il burqa vanno nascosti anche quelli), nel marzo scorso avevano disposto la chiusura delle scuole femminili, in attesa di nuove direttive in accordo con la legge islamica.
Direttive mai emesse, senza contare che senza aver frequentato le scuole superiori è di fatto impossibile accedere all’università.
In questo contesto, tre mesi fa migliaia di ragazze e donne avevano potuto sostenere gli esami di ammissione all’università in tutto il paese, anche se nell’ambito di radicali restrizioni sulla scelta dei corsi di studio, con veterinaria, ingegneria, economia e agricoltura vietate, e giornalismo severamente limitato.
fonte : www.ansa.it
La democrazia è necessaria per la pace e per minare le forze del terrorismo.
di Redazione FuoriMag_adl
Il ritorno precipitoso dei Talebani al potere ha costretto i Paesi presenti da vent’ anni sul territorio afghano a dare la massima priorità all’espatrio dei cittadini americani, europei e locali che avevano collaborato o che cercavano anche solamente di salvarsi e di avere una prospettiva di vita futura.
Come in tutte le emergenze, la prima cosa da fare è stata gestire le criticità immediate, e dunque riteniamo giusto aver operato così, ma occorre allo stesso tempo fare una attenta riflessione per capire come mai le forze presenti sul territorio, che hanno gestito un ventennio di amministrazione e potere, si siano ritrovate a dare un ordine di ritiro dall’Afghanistan così improvviso e soprattutto non organizzato, quasi senza preavviso.
Il conto presentato da questi venti anni di guerra è salatissimo: 2.461 militari e civili uccisi e oltre 20 mila feriti.
Questi numeri sono compatibili con la versione presentata la scorsa settimana dal Presidente Biden di una mera operazione di antiterrorismo e non come invece un tentativo fallito di “Nation Building”?
Quando l’America (e questo vale per ogni democrazia che ritiene essere tale) mette in pericolo la vita dei suoi militari, e dunque di fatto mette in gioco il prestigio di chi governa , deve farlo sulla base di un ragionamento più complesso, e motivarlo con una combinazione di obiettivi strategici che possano chiarire all’opinione interna e a quella mondiale quali sono state le circostanze che hanno motivato un intervento militare, [ dunque politico], che sia in grado di supportare i risultati raggiunti (o non raggiunti).
Gli obiettivi militari in Afghanistan, sono stati alla fine di fatto non raggiunti, e quelli politici troppo generici. Quando i due obiettivi non sono saldamente collegati tra loro, l’opinione pubblica fatica a comprenderne i confini e perde di vista una finalità condivisa ed accettata, dividendosi in mille rivoli che diventano diatribe manipolabili per altri scopi.
L’11 settembre 2001 ha creato le condizioni di una invasione ad un Paese straniero che era stato indicato come base dei terroristi che l’avevano organizzato. L’ampio sostegno popolare in risposta a quell’attentato ha permesso facilmente di supportare una campagna militare che sembrava aver raggiunto il suo scopo in tempi brevi. I talebani sono stati confinati in Pakistan e da li hanno continuato a combattere una guerriglia disordinata ma alla fine molto efficace.
Come era stato annunciato dai talebani stessi, le forze di coalizione, anzi parliamo degli Stati Uniti in particolare, si sono rivelati inadeguati alle azioni di contrasto ai loro combattenti, e questo perché in fondo, al di là delle tattiche di guerriglia adottate dai talebani, non si è mai avuta una strategia chiara e lineare che ha permesso di capire esattamente quale fosse il piano finale a lungo termine.
Nel momento in cui i talebani erano confinati ed in difficoltà, le forze alleate hanno perso di vista il principale obiettivo strategico e hanno creduto che l’unico modo per impedire ai terroristi di riorganizzarsi fosse quello di trasformare l’Afghanistan in uno stato moderno e democratico sulla base di quelli occidentale. Una vera e propria forma di esportazione della democrazia ibrida che non teneva conto in maniera significativa delle complesse realtà locali.
Una impresa di tali dimensioni, ammesso che fosse realmente possibile farla, richiedeva una “road map” precisa e condivisa con tutte le forze in campo e soprattutto andava supportata saldamente a livello politico.
Ma un procedimento del genere, che richiede tempi lunghissimi, va strutturato in modo tale da essere accettato anche e soprattutto dalla realtà locale, anche a quella parte che si era comunque opposta ai talebani.
Entrare in un Paese senza tenere conto della storia e delle tradizioni dello stesso, e cercare di importare un modello totalmente alieno alla realtà locale, è destinato a fallire inevitabilmente.
L’Afghanistan non è mai stato un paese moderno. Cercare di strutturare uno stato democratico moderno in un Paese dove i decreti che partono da un governo centralizzato, richiede anni, decenni, e forse non bastano nemmeno. Le componenti geografiche, etniche, religiose del territorio sono elementi determinanti, anzi decisivi, per la riuscita di una operazione del genere. La lontananza geografica di alcune città e villaggi da Kabul, ha fatto si che questo tipo di operazione nemmeno sia stata avvertita, tanto è vero che molte aree rurali sono rimaste sempre sotto il controllo talebano.
Nonostante si possa collocare la presenza di una società Afghana sin dal 1700, di fatto le sue popolazioni si sono sempre opposte ad una forma di unità nazionale. In una struttura essenzialmente feudale, le linee delle etnie e dei clan sono sempre stati i riferimenti per la vita sociale della popolazione. Militarmente, impegnati in conflitti interni tra di loro, i “Signori della guerra” si sono comunque sempre associati in coalizioni di larghe intese ogni qualvolta una potenza esterna è intervenuta per imporre centralizzazione dei poteri [vedi l’invasione da parte dell’esercito britannico nel 1839 e delle forze armate sovietiche che occuparono l’Afghanistan nel 1979].
L’ipotesi che in questi giorni abbiamo ascoltato e che parla di una popolazione afghana non disposta a combattere per il proprio paese è smentita dunque dalla storia.
Con il passare del tempo, le guerre in questa parte del mondo hanno assunto connotati di contrasto alla guerriglia, che a lungo termine non solo ha provocato un numero di morti significativa tra i soldati della coalizione, ma ha anche logorato l’opinione pubblica mondiale che ha perso le certezze e le convinzioni del dopo 11 settembre.
Ma il supporto alla costruzione di una nazione, nonostante lo stesso presidente americano abbia negato fosse nei programmi, ha richiesto un enorme spiegamento di mezzi e militari.
Il duplice scopo di tenere sotto controllo eventuali rigurgiti dei talebani e il necessario apporto delle forze armate con funzioni di addestramento dell’esercito locale e di controllo del territorio durante la ricostruzione, ha permesso che si creassero le condizioni per l’introduzione di forme di governo non legittimate dal popolo e molto spesso colluse con i poteri locali.
Coloro i quali sostenevano questo tipo di governo, additandolo come un primo passo verso una forma di democrazia, venivano contestati da coloro i quali erano contrari e facevano opposizione. La paralisi che si è creata ha impedito una naturale evoluzione verso un dibattito politico e dunque una presa di coscienza critica che facilitasse la costruzione di una forte identità di una “governance” locale che, forse, avrebbe potuto opporsi ad un ritorno talebano.
I paesi confinanti, ad esempio, anche se non sempre amici degli stati uniti e dei loro alleati, potevano sentirsi minacciati dal potenziale terroristico afghano?
Sarebbe stato possibile coordinare sforzi comuni di lotta ai ribelli? Certamente India, Cina, Russia e Pakistan spesso manifestano interessi contrastanti. Ma una diplomazia creativa avrebbe potuto distillare misure condivise per debellare il terrorismo in Afghanistan
Se invece di concentrarsi su una modalità di guerra piuttosto che di contenimento dei talebani, avessero lavorato di più dal punto di vista diplomatico e creato una condizione migliore per una leadership locale più solida e strutturata?
Questa alternativa non è mai stata esplorata in maniera convincente. Dichiaratisi apertamente contrari alla guerra, i presidenti Donald Trump prima e Joe Biden oggi, hanno avviato trattative di pace con i talebani, che avevamo giurato di eliminare una ventina d’anni prima.
I negoziati si sono concretizzati in un rapidissimo ritiro incondizionato degli americani e di tutte le altre forze presenti. Solo oggi, dopo il ritiro di tutte le forze straniere, si comincia a pensare di coinvolgere i Paesi interessati per diverse ragioni ad una normalizzazione dell’area.Troppi gli interessi in gioco a livello mondiale per lasciare quella Regione in mano a fondamentalisti con i quali sembra difficile potersi relazionare.
L’America a nostro parere non può sottrarsi oggi al suo ruolo di attore chiave nell’ordinamento internazionale, sia per le sue capacità che per i suoi valori storici. Non ha il diritto di rinnegarli e di rinnegare sè stessa ritirandosi come sta facendo oggi senza un piano diplomatico a lungo termine.
Gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno il dovere di sviluppare e sostenere una strategia comprensiva, compatibile con le esigenze interne ed internazionali.
Lo devono per i loro giovani soldati caduti in una terra lontana, per le donne e gli uomini Afghani che oggi stanno precipitando in un medio evo buio e drammatico, e che non vedono alcun futuro davanti a loro.
Le democrazie solide e credibili, quelle a cui noi tutti guardiamo con fiducia e speranza, si evolvono nel confronto, e siglano il loro successo con una riconciliazione e presa in carico di precise responsabilità.
Ciò che sta accadendo in Afghanistan è terrificante, ma non si può imporre la democrazia e il rispetto dei diritti umani con la forza. È una contraddizione in termini.
In questi giorni siamo diventati tutti esperti di geopolitica e siamo pronti ad urlare il nostro sdegno per il fallimento dell’Occidente. Ma cosa sappiamo realmente dell’Afghanistan, del suo popolo, della sua cultura e della sua storia millenaria di invasioni e dominazioni? E soprattutto… pensiamo veramente di conoscere le reali motivazioni che hanno spinto le potenze straniere, come gli Stati Uniti e prima di loro l’Unione Sovietica, ad invadere questo paese?
Siamo onesti e ammettiamo la nostra ignoranza e impreparazione.
Su una cosa però abbiamo il dovere morale di agire.
Difendere i diritti delle donne afghane.
Come? È questa la vera domanda.
Come possiamo aiutare queste donne perché possano esercitare i loro diritti fondamentali e non sottostare alle restrizioni imposte dalla sharia, o meglio alla sua interpretazione fortemente limitante della libertà e dignità femminile?
Possiamo esprimere la nostra rabbia e preoccupazione, firmare petizioni, perfino manifestare. Ma basterà per cambiare le cose?
L’Afghanistan è un crocevia strategico dell’Asia centrale e gli interessi economici sono fortissimi. Chi si siederà al tavolo con i talebani – la Cina, la Russia ma anche gli USA e l’Europa – sarà più interessato a portare a casa accordi commerciali che garanzie per il rispetto dei diritti umani.
La nostra debolezza sta nel nostro stesso stile di vita, nel nostro modello di sviluppo ancora basato sulle fonti energetiche non rinnovabili e sulle materie prime preziose, quanto rare, diventate indispensabili per garantire quella prosperità alla quale non siamo disposti in alcun modo a rinunciare.
Il prezzo della nostra agiatezza saranno altri a pagarlo.
A quel tavolo saranno soprattutto uomini. Uomini che governano, uomini che comandano, uomini che detengono il potere politico ed economico.
Ma tutti questi uomini hanno una cosa in comune. Hanno una madre che ha donato loro la vita e li ha cresciuti. Hanno una moglie o una compagna al loro fianco. Hanno figlie che possono studiare, lavorare e realizzarsi pienamente perché libere di cercare il loro posto nel mondo.
E se tutte queste donne facessero sentire la loro voce?
Se la loro voce si unisse a quella di tutte le altre donne per dire basta alle discriminazioni, alle violenze, alle sopraffazioni, alle violazioni dei diritti? E lo facessero con una tale forza e convinzione da non poter essere ignorate da quegli uomini che stanno per sedersi e decidere le sorti del nostro mondo?
Mai come ora, le donne sono chiamate a dimostrare di essere unite, risolute e determinate per garantire il diritto delle afghane e di ogni donna a vivere liberamente.
Madri, mogli, compagne, figlie, sorelle. Facciamo sentire la nostra voce nelle nostre case, nelle nostre famiglie, prima ancora che nelle piazze fisiche e virtuali.
Nota della Redazione: l’articolo scritto da Giuliana Caroli è presente anche sul suo profilo Linkedin, e invitiamo a visitare e commentare questo ed altri argomenti che Giuliana condivide quotidianamente.
Naturalmente abbiamo avuto la sua disponibilità a pubblicarlo, ed inserirlo nell’ambito di una rubrica che porta avanti i diritti delle donne, avviata la scorsa settimana con “Niente da celebrare” e che intendiamo portare avanti con continuità , determinazione e forza.
Desideriamo ringraziare anche Anna La Tati Cervetto che ci dà sempre disponibilità delle sue illustrazioni e che, come sempre ma in questo caso ancora di più, si è dimostrata pronta e disponibile a supportare questa “missione”.
Giuliana Caroli, classe 1965, lavoro in una grande cooperativa di servizi come Responsabile Comunicazione, ma mi porto come bagaglio una lunga esperienza in ambito consulenziale e formativo.
Scrivo di ciò che conosco e di ciò che mi appassiona. Coltivo la curiosità e alimento le relazioni positive. Detesto l’indifferenza e l’irresponsabilità.
A cosa aspiro? A fare la differenza: per qualcuno, per il pianeta.