Sogno di un’ ombra, l’uomo.
un racconto di Cristiana Caserta_
“Avevo sempre pensato” – dico al mio amico Vittorio davanti ad un Drambuie – “che a quest’età sarei stata una persona tranquilla, saggia, pacata…”
“Invece?”
“Mi entusiasmo, mi incazzo, sbaglio, mi deprimo come quando…….”
Penso a una me stessa più giovane – a venti, a trenta, a quaranta – e finisco sempre col trovare una persona con la testa sulle spalle. Responsabile, alla fine dei conti. Quindi ‘sta cosa dell’entusiasmarsi, incazzarsi, sbagliare è recente…
È perplesso, lo vedo. Guarda dritto davanti a sé, oltre la ringhiera che separa il nostro tavolino dal mare della spiaggia di Mondello, dove, anche se è sera e se l’estate sta finendo, alcuni ragazzi fanno il bagno ridendo e rincorrendosi.
“Che sbagli avrai mai fatto?”
Mi chiede sorridendo, curioso. Glieli racconto.
“Ego te absolvo…”
Mi dice, facendo una faccia seria e contrita, da vecchio confessore. Rido.
“A te? che ti affligge?”
“Non sono certo di volere insegnare, di essere adatto…”
“Sei più che adatto!”
Sono certa di questo. Siamo stati colleghi per alcuni anni: i ragazzi lo adorano; adorano la sua emotività, il fatto che si commuova declamando certi versi, la sua severità, la sua capacità di leggere dentro di loro, capirne i turbamenti.
“Ma…tutta la vita? Senza avere mai fatto altro?”
Pare sgomento. Una fila interminabile di anni sempre uguali gli passa davanti agli occhi e gli annebbia lo sguardo. Conosco l’ansia di sentirsi intrappolati, anzitempo. Il desiderio senza oggetto.
Non dico niente. I pensieri notturni sono così: devono ingigantirsi, allargarsi e gonfiarsi come le nuvole di pioggia nera, diventare tragici fino a consolidarsi in qualche irrevocabile decisione di cambiamento; per poi dissolversi, di mattina, davanti al caffè, quando la realtà consueta appare così compatta e solida che sembra impossibile anche cambiarne anche solo un dettaglio.
“Che vorresti fare?”
“Non lo so…” – sospira – “Vorrei passare un periodo di studio da qualche parte. In Francia o in Grecia”.
Si scola il suo cocktail e fa cenno alla cameriera di portarne un altro, per entrambi.
“Se vai in Grecia, prendi una casa con un letto per me, ti vengo a trovare. C’è la Scuola Archeologica Italiana, ad Atene.”
“Atene…”
Guardo i nostri cocktail. Le nostre uscite sono quasi sempre così: bere qualcosa e parlare.
“Ma poi dobbiamo trovare un bar, una taverna…”
“Potremmo studiare di mattina, vagare per l’acropoli di pomeriggio, ubriacarci di Retsina di sera…”
L’idea mi piace. Troppo. Il mio sguardo si perde sull’orizzonte, appena rischiarato dalla luna, sulla linea del mare nero, oltre i merli e i fregi liberty del Charleston, che pare senza peso, poggiato sull’acqua a pochi metri da noi.
“E sarebbe facile se vogliamo, prendere un traghetto dal Pireo e passare qualche giorno sulle isole.”
“A declamare versi…”
“Con i piedi nudi nell’acqua…”
“Possiamo farlo anche qui, volendo…”
Dopo cinque minuti, abbiamo i piedi nell’acqua tiepida. Il nostro mare non deve essere troppo diverso dal mar Egeo.
Un lampo lontanissimo illumina l’orizzonte. Parliamo un altro po’ – di amori, di libri, di progetti, del deludere sé stessi – passeggiando sul bagnasciuga e guardando la tempesta avvicinarsi.
“Prof!”
All’improvviso, uno dei ragazzi che fanno il bagno si stacca dagli altri, gocciolante, e ci viene incontro ridendo. È Fulvio, un nostro comune alunno di qualche anno fa. Gli facciamo festa: ci baciamo e ci abbracciamo. Cerca di spiegare ai suoi amici, abbastanza increduli, che noi – con lo sguardo trasognato e i piedi nudi – siamo stati suoi prof… prof veri! di quelli che interrogano e spiegano! Severi! Si ricorda di alcune lezioni. Le enumera:
” Machiavelli, che la sera si cambiava vestito per leggere i classici; Petrarca, che cercava la scorciatoia per salire sul monte Ventoso; poi mi ricordo di Tasso … che voleva seguire le regole, ma non ci riusciva, voleva e non voleva… e finì in manicomio!”
Ridiamo della sua foga. Penso a quante cose ha un professore con cui affascinare i suoi alunni. Parliamo dell’estate, di viaggi, di progetti per l’autunno. Gli chiediamo che cosa fa, in che facoltà si è iscritto. Ingegneria gestionale, ci risponde. Gli piace? vogliamo sapere. Sì, gli piace, ma non ne è certo.
“Prof, si ricorda della lezione sul tetrafarmaco di Epicuro? Quella sulla felicità? O dell’arte di amare di Ovidio?” – si ferma a riflettere, il suo viso si incupisce per la concentrazione. Cerca le parole, ma non le trova – “se tutti i prof fossero stati come voi…”
Ci salutiamo, con altri baci, abbracci e raccomandazioni. Fra poco piove, meglio asciugarsi e rimettersi le scarpe.
Il mio amico Vittorio è rimasto silenzioso. Capisco il suo dilemma. Mi pento del cinismo con cui ho declassato a ‘notturni’ i suoi pensieri. Mi ricordo che fu del tutto ‘diurna’ la mia decisione di lasciare l’insegnamento. Non ho consigli da dargli, purtroppo.
Ma, se c’è un senso dell’insegnare, – penso – forse è in incontri come questo, nel ricordarsi di quell’ora di lezione, nel sapere che ci sono – oltre alle cose utili, che servono – anche quelle meravigliosamente ‘inutili’, come i versi di Ovidio, o di Saffo. Mi ricordo di una cosa: “Qual è il verso che ti sei tatuato sul braccio?”
“Skias onar, sogno di un’ ombra”.
“mi ricordavo che c’era anche anthropos, uomo…”
“nel verso di Pindaro, sì, sul mio braccio no”.
Skias onar anthropos, “sogno di un’ombra, l’uomo”
scrivo, studio, insegno materie con le tecnologie, sono pratica di formazione, giornalista free lance, multipotenziale.