Rigidità cognitiva [riconoscerla per elevarsi!].

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di Christian Lezzi_

Parlando di rigidità cognitiva, ci riferiamo a quella resistenza mentale che, sempre pronti a riscontrare negli altri, spesso non siamo capaci di percepire in noi stessi. Si tratta di una resistenza psicologica che ci esclude dalla visione  altrui e che, da buona parte degli alternativi punti d’osservazione, il nostro sguardo preclude, negandoci panorami inediti e realtà parallele, comprese quelle soluzioni che, per effetto di questa rigida imposizione, stentiamo a trovare o siamo impossibilitati a elaborare.

Sigmund Freud ha definito la rigidità cognitiva come “una miniera da scoprire e un ponte da superare” perché, grazie a questa presa di coscienza, è possibile far emergere molto della psicologia di un soggetto o del paziente.  Secondo il padre della psicoanalisi, la resistenza al cambiamento rappresenta quel punto in cui emergono atteggiamenti e comportamenti che ostacolano la guarigione rappresentando, al tempo stesso, la punta dell’iceberg di un problema soggiacente. 

Al di fuori dell’ambito terapeutico, riconoscere la propria rigidità di pensiero, non può che essere foriera di una personale elevazione.

Occorre proprio entrare nell’ottica di un miglioramento possibile, per comprendere che, gran parte del nostro quotidiano e ordinario “disagio di vivere“, così come buona parte delle nostre inadeguatezze, deriva dalle nostre convinzioni inamovibili, da quell’ecosistema di certezze e credenze che riteniamo verità assoluta e che, divenuto Bias comportamentale, definisce il nostro agito. Una forma mentis che si nutre della cultura e dei valori tipici del nostro ambiente di vita, che c’impregna dei suoi stereotipi, alla quale ricorriamo con slancio e senza esitazione alcuna, per strutturare la nostra stessa vita, recintandola in un perimetro/realtà monotono e monocromo, invariabile, privo di slancio ed entusiasmo per il nuovo, per il cambiamento e per l’opportunità.

Riconosciuto il limite autoimposto, si può scoprire molto su noi stessi e conoscendoci, come auspicava Socrate, iniziare un percorso di miglioramento profondo e personale, appagante e produttivo, che ci migliori, elevandoci dalla miseria di un quotidiano autoimposto.

Gli psicologi statunitensi Gould, Robinson e Strosahl, nel libro “Real Behavior Change in Primary Care” del 2011, ci spiegano che la rigidità cognitiva è definita da tre elementi fondamentali:

  • Mancata connessione con il presente;
  • Incapacità di riconoscere e gestire le priorità;
  • Intolleranza nei confronti dell’incertezza.

Secondo i ricercatori, i soggetti succubi della rigidità cognitiva, spesso vivono in una dimensione mentale esterna al presente nella quale, ogni apertura destabilizzante, è sistematicamente chiusa. Lo scopo è evidentemente quello di evitare paura e incoerenza, facendo muro contro muro ed ergendo vere e proprie barricate verso quelle aperture, foriere di nuovi aneliti d’alternativa interpretazione. Vivendo strettamente concatenati con le cause degli eventi (almeno secondo il loro personale punto di vista), dall’attualità di quegli eventi si scollegano, rinchiudendosi nella lamentela e nel rimpianto dei “bei tempi” andati. “Si stava meglio quando si stava peggio” è l’esempio lampante, ignorando che, già all’epoca le lamentele fossero le stesse di oggi e che, per effetto della resistenza al cambiamento e dell’essersi resi alieni ai propri tempi, la nostra mente chiusa sovrascrive un ricordo, rendendolo reale, al di là delle oggettive smentite. Basterebbe leggere un qualunque quotidiano degli anni ’70 dello scorso secolo, per renderci conto di come i problemi e le relative lamentele, siano ciclici e sempre fedeli a se stessi. Basterebbe ascoltare la canzone Svalutation di Adriano Celentano che, seppur pubblicata nel 1976, sembra un testo dei giorni nostri, per rendercene conto. Passa il tempo, cambiano le mode ma le parole di chi rigidamente rifugge le novità, restando arroccato nel proprio piccolo mondo antico (citando a sproposito Antonio Fogazzaro), piangendosi addosso invece di far qualcosa per togliere le castagne dal fuoco, sono sempre le stesse.

Il secondo elemento preso in esame nel libro, ci porta alla valutazione del corretto ordine delle priorità, che rende chiaro ogni processo, ogni tabella di marcia, ogni sequenza procedurale, scadenze comprese. Conoscere se stessi, conoscendo e abbattendo i propri limiti, tra cui la rigidità cognitiva, aiutano ad aprirsi al nuovo, al cambiamento, alle diverse prospettive, senza la paura dello sconosciuto o dell’errore, per cogliere finalmente le opportunità a esse correlate. Al contrario, una persona soggetta alla rigidità cognitiva, riconoscerà come valide solo le sue stesse regole, procedure e modi di operare, chiudendosi al confronto e alla stessa crescita e arroccandosi nello sterile “si è sempre fatto così“. Non solo. Un soggetto cognitivamente rigido, tenderà inevitabilmente a essere intollerante nei confronti delle idee diverse dalle sue e, addirittura, nei confronti di coloro che reputa diversi da se stesso, per una serie di motivi quali le convinzioni personali, l’idea politica o religiosa, fino ad assurgere all’esasperazione xenofoba: il colore della pelle dei migranti, percepiti come pericolosi invasori, divoratori della nostra cultura e demolitori dei nostri profondi valori. Ma sono davvero così profondi, quei valori, se basta qualche migliaio di disgraziati in fuga dall’inferno, per metterli in crisi?

In ultima analisi, la rigidità cognitiva porta a non tollerare l’incertezza, le variabili, l’inaspettato che, per la natura stessa dell’umana esistenza, sono in continuo agguato. Sempre secondo Freud, è invece l’adattività della mente, una delle più grandi risorse dell’essere umano, permettendogli di pensare e agire fuori dagli schemi, con originalità, flessibilità e creatività. Diversamente, in presenza di questa chiusura, la risposta all’inaspettato sarà spesso quella più radicale e meno adatta ad affrontarlo, al punto da negare i punti di vista alternativi, le strategie nuove o fuori dagli schemi, fino a deridere le innovazioni e negando addirittura il diritto d’espressione altrui.

Eppure, fatti salvi i casi di chiusura mentale patologica, dovuti alla demenza, all’autismo e al disturbo ossessivo compulsivo (o ad altre patologie, per le quali si consiglia il supporto di uno psicoterapeuta) basterebbe aprirci al mondo leggendo, viaggiando, accettando il dialogo e il confronto, imparando sempre cose nuove e cambiando spesso il punto di osservazione sul mondo, guardando quel mondo, ogni giorno, con occhi nuovi, per allenare la nostra mente all’elasticità, alla tolleranza, al rispetto e al dialogo, a quel confronto che tutto permette e ogni cosa rafforza, anche i nostri pensieri, le nostre azioni e la vita stessa di ognuno di noi.


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.

Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.

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