Preferisco non avere scelta
Ringraziamo Filippo Russo, amico personale, per averci offerto la testimonianza di una “normalità” le cui stesse fondamenta sono messe in discussione dall’ambiente. Dalla famiglia. Dalla sfortuna, forse.
“Usurpatore di un cane che non sei altro! Padre immeritevole di amore che non hai saputo darmi scelta, vorrei che bruciassi all’inferno!”
Questo è quello che Alessio (lo chiamerò così) avrebbe voluto urlare al mondo se solo avesse avuto la possibilità di farlo.
E come lui forse molti altri, ragazzi abituati ad entrare ed uscire dai riformatori di mezza Italia, ragazzi nati già adulti, costretti a darsi da fare da subito, “svantaggiati di senno e di settore” avrebbe detto un famoso cantastorie siciliano di nome Ciccio Busacca.
Ricordo come se fosse ieri il mio primo giorno di lavoro come educatore in una comunità alloggio per minori detenuti.
Arrivai carico e teso come la corda di un violino. Non sapevo cosa aspettarmi né come sarebbe stato l’impegno su cui avevo investito tanto.
“E se non fossi all’altezza?”
Me lo chiedevo continuamente. D’altronde avevo 26 anni e nessuna esperienza sul campo. Solo tanta teoria imparata durante l’anno trascorso in una scuola specializzata. Nulla a che vedere con i colleghi conosciuti in seguito, che erano là da anni, a proprio agio, con lo sguardo sornione e un po’ menefreghista di chi ne ha viste tante e probabilmente ha perso fiducia e speranze.
Feci in fretta ad imparare. Il terzo giorno mi toccò il turno notturno in solitaria. Un collega molto “incoraggiante”, mi aveva raccontato che il ragazzo di cui avevo preso il posto, era andato via perché non aveva resistito alla pressione dell’ambiente. La settimana prima, durante lo stesso turno, in piena notte aveva chiuso gli occhi per un attimo, e si era addormentato.
Così i ragazzi (già organizzati in un’associazione delinquenziale contro la comunità/ sistema che di loro si prendeva cura malamente) avevano dato fuoco al divanetto sul quale riposava e solo un miracolo lo salvò dal morire bruciato vivo a 25 anni.
Siamo onesti: nessuno di noi voleva immolarsi e, perciò, proprio coloro che dovevano rappresentare dei modelli educativi da seguire, si trasformavano spesso da vittime a carnefici. In episodi che, di educativo, avevano ben poco.
Da parte mia, pur senza giudicare l’atteggiamento di alcuni, volevo sperimentare tutta la difficoltà del mio ruolo. Forse solo per imparare che “educare” dei giovani reietti della società a NON emulare padri, madri e fratelli entrando ed uscendo di galera come dal Grand Hotel, è impresa quasi disperata.
Dire che mi sentivo inadeguato è davvero poco. Durante il periodo di formazione ci avevano spiegato come aiutare le persone a reinserirsi nella società. Avevamo appreso le tecniche di persuasione, l’importanza dell’ascolto, tutta la teoria possibile sulle cause sociali del disagio. Frequentammo persino un corso di clowneria…chissà poi perché.
Ma nessuno ci aveva spiegato come reagire all’incendio del divano sul quale ti sei appisolato, magari dopo una serata apparentemente del tutto normale.
Decisi di resistere alla tentazione di darmela a gambe levate. Resistere ancora per un po’, per non darmela vinta e dimostrare a me stesso di essere più coraggioso di quanto non fossi. Perché sì: in realtà me la stavo facendo sotto.
Ma forse è questo il coraggio, no?
Feci la scelta giusta e in qualche modo riuscii ad instaurare un dialogo con quei “diavoli scatenati”, come li chiamava il parroco presidente dell’associazione che gestiva la comunità.
Nel tempo sono riuscito a capire quanta rabbia ci fosse nel cuore di questi ragazzi, quanta dolore si nascondesse dietro ogni terribile azione commessa. La fame di un amore mai corrisposto, la solitudine di un adolescente che sembra non avere una scelta.
Tra una risata compiaciuta e l’altra, Alessio mi raccontava le sue bravate, quanti soldi era riuscito a rubare senza farsi mai scoprire, le armi che nascondeva per conto di un padre contrabbandiere e i motorini che rubava per poi rivenderli in pezzi di ricambio.
“Ma sei un genio, cazzo!”
Ricordo che, una volta, rapito da un turbinio di emozioni contrastanti, esclamai così. Di puro istinto. I suoi occhi si spalancarono, ed io capii che, in quel momento, non si sentiva più giudicato. Per questo si raccontò a ruota libera per tutta la sera, tra una sigaretta e l’altra.
Ma sapevo che quel momento di complicità era destinato a finire.
Alessio, allora, aveva solo 14 anni. E già una lunga storia alle spalle.
Era stato arrestato in flagranza di reato con il suo complice, un ragazzo più grande di lui, mentre effettuavano una rapina in un supermercato.
Dopo vari interrogatori e dopo che il giudice ebbe sentito il parere positivo del collegio degli educatori (capitanati da un’improbabile psicologa alle prime armi) e dell’assistente sociale, venne deciso che poteva scontare la sua pena presso la comunità con “messa alla prova”.
Una sentenza dal significato pesante.
I ragazzi che vengono mandati in comunità, vivono una sorta di carcere surrogato in cui hanno, sì, la playstation e un calcetto balilla per ammazzare le giornate, ma non possono fare praticamente nient’altro che non gli venga preventivamente consentito.
Come in un carcere minorile qualunque, ma con “la libertà” di scappare in ogni momento, perché la porta è sempre aperta.
Nessuno degli educatori ha il potere o il dovere di trattenerli con la forza.
Sono liberi di uscire, ma consapevoli che, dopo la segnalazione della comunità alle forze dell’ordine, verranno arrestati e costretti a finire la loro pena in carcere.
Verrebbe naturale pensare “meglio la comunità che il carcere”, ma ho scoperto che, in realtà, non è così.
Ne erano scappati tanti, apparentemente senza motivo. Passavo il tempo a domandarmi perché lo facessero.
Mentre lavoravo, Alessio scappò 2 volte. La prima volta il giudice lo perdonò e venne riaccompagnato in comunità. La seconda venne richiuso in carcere minorile.
Durante le nostre chiacchierate, una sera mi confessò: “sai perché preferisco stare in carcere?”
“ No, perché?” Gli risposi stupito.
“Perché sapere che dietro quella porta c’è la libertà… e la porta è lì, aperta, ma io non posso varcarla, mi pare la storia della mia vita. Fa troppo male e non riesco ad accettarlo.
Preferisco non avere scelta”.
Dunque era questa la spiegazione che cercavo. Avere una scelta, è impensabile per chi è nato, vissuto e cresciuto credendo di non averne alcuna.
È megliovivere sottochiave; è più “comodo”. Così, almeno per una volta, non sarai tu a doverti prendere cura di te stesso: saranno altri. Non importa chi.
Non ho mai saputo che fine abbia fatto quel ragazzino che adesso sarà un uomo; ma mi piace pensare che abbia trovato il coraggio di aprire la porta verso la libertà e verso una vita migliore, che si sia preso quello che gli spetta di diritto e gli è stato negato in gioventù. Spero che la vita, se la stia mangiando a morsi.
Per quanto mi riguarda ho lasciato la comunità dopo 4 mesi. Il coinvolgimento emotivo era troppo grande e questo non è un lavoro nel quale ti puoi permettere di cedere alle emozioni.
Anche adesso non riesco a vomitare su questo foglio altre storie di vita negata.
Da quest’esperienza ho avuto molto più di quel che mi sarei aspettato. Soprattutto ho imparato che non esiste libertà che non debba essere conquistata. E che chiunque, anche l’uomo più ricco e amato della terra, deve lottare per averla.
Lottare per pensare, agire ed essere.
Mentre scrivo passa un bluse nostalgico di Gary B. B. Coleman alla radio e il mio volto non è più così asciutto, prendo consapevolezza, un senso di serenità mi assale dentro.
Adesso ho capito perché “visto da vicino nessuno è normale”.
Filippo Russo.
Filippo Russo è un Content Creator esperto in strategia di Business Online.
Attivo nel Sociale ha collaborato con Istituzioni Locali , progettando e sviluppando diversi eventi socio-culturali.