Nomadland e l’emozione di tornare al cinema
Dal 26 aprile in tutta Italia – o, meglio, in tutta l’Italia “gialla” – i cinema hanno finalmente riaperto.
Questa ripartenza, che comunque soffre del coprifuoco, dovendo così rinunciare al secondo spettacolo serale, della capienza ridotta e della voglia di sedersi al tavolino di un bar per l’aperitivo, a differenza della riapertura di giugno 2020, arriva all’indomani della notte degli Oscar© e gode di un’offerta culturale davvero ricca.
La prima settimana di programmazione si apre dunque con un campione che nell’ultimo anno ha fatto incetta di premi: Nomadland di Chloè Zhao, Leone d’Oro a Venezia, due Golden Globes e tre Oscar©, fra cui Miglior Film, Miglior Regia e Migliore Attrice Protagonista all’immensa Frances McDormand, che fra l’altro questo film lo ha anche prodotto.
Il pedigree di Nomadland è presto detto: Chloè Zhao trionfa con il suo film ovunque abbia avuto, in questo anno a luci spente, uno schermo per presentarlo. Passa alla storia come la prima regista asiatica premiata agli Oscar e la seconda vincitrice per la miglior regia in tutta la storia del cinema. E questo già ci dice molto del nostro tempo. Sceglie come interprete principale una donna over 60 e, insieme, calcano il red carpet più famoso del mondo praticamente make up free. Che strano definirla una scelta coraggiosa, ma di fatto sono due antidive che si presentano alla prima occasione sociale dopo la pandemia e, in mezzo a una parata di star, chiedono al loro contenuto di parlare per loro.
Empire, Nebraska, 2011. In seguito alla chiusura della fabbrica cittadina per la crisi economica, la città industriale di Empire viene completamente cancellata dalle cartine americane. Una dei suoi abitanti, Fern, già vedova da qualche anno e inoccupata dopo vari tentativi occupazionali senza successo, carica il suo furgone e parte alla ricerca di incarichi stagionali e di una nuova vita alternativa al “sistema” che per lei non ha funzionato. Tappa dopo tappa, Fern si ritrova parte di una comunità di nomadi, orfani di quel sogno americano che con la crisi del 2006 si è portato via tutto, soldi, sogni e salute, randagi in costante movimento in cerca di una via diversa dal mero materialismo: c’è un reduce del Vietnam che soffre di sindrome da stress post traumatico e ha trovato nella sua solitudine una soluzione pacifica per allontanarsi dai centri urbani e dal rumore della società organizzata, ci sono persone che attraverso il loro “viaggio terapeutico” stanno faticosamente cercando di affrontare un grave lutto, c’è chi non ha più niente, e con niente ha scelto di continuare a vivere. C’è una donna che racconta la storia di un collega e amico che, dopo aver passato un’intera vita dietro alla scrivania, arrivato a un passo dalla sognata pensione, si è ammalato e se n’è andato, sprecando in ufficio i suoi anni migliori, senza avere il tempo e l’occasione di “incassare” la sua libertà, mai arrivato premio per aver servito il sistema una vita intera.
Queste e altre storie Fern incontra sulla strada, la storia di un’altra America, invisibile, drammatica, ma affrontata da Nomadland con una incorruttibile dignità.
Il minimalismo degli oggetti ridotti all’essenziale, fra utensili e ricordi, che i nomadi portano con sé si accompagna al senso di immensità reso dalle inquadrature spaziose di paesaggi sconfinati: come dire, legarsi a niente per avere tutto. Una fotografia poetica insieme al gioco di opposizione tra primi piani e campi lunghissimi, sono il regalo di Chloè Zhao allo spettatore della sala cinematografica, che mette in relazione queste contraddizioni di contenuto e di forma per inondarci di bellezza.
Questa è la scelta stilistica della regista che decide di non soffermarsi, al contrario del libro di Jessica Bruder da cui è tratto il film e di come forse avrebbe fatto Ken Loach al suo posto, sulla scomoda inchiesta del fallimento del sistema capitalistico americano, del precariato e della povertà assoluta in cui versano milioni di “invisibili”. Questo manca un po’ in Nomadland, un approfondimento sulle cause del fallimento, sull’assenza dello Stato nella difesa ai più deboli, sulla tutela dei diritti dei lavoratori schiacciati dal profitto delle “big corporations”.
Eppure Nomadland è nutrimento per la vista e per l’udito, con la colonna sonora firmata da Ludovico Einaudi, di certo un buon inizio per ri-abituarci a spegnere la tv, abbandonare il divano di casa e condividere una visione pubblica su grande schermo.
Nomadland è anche in streaming su Disney+, ma credo faccia bene a tutti tornare al cinema.
A proposito, la Cineteca di Bologna festeggia la riapertura delle sale con un abbraccio particolare a tutto il suo pubblico, usando lo stesso font di Woody Allen.