Il cottage nei boschi del Quebec.
Zio Benjamin fa la sua comparsa nella mia vita piuttosto improvvisamente, come uno di quei personaggi mitologici, a metà tra l’avventuriero e il reietto, per via della scelta piuttosto incauta – se rapportata alla prudenza e al tradizionalismo di certe famiglie della sua epoca – di lasciare, da giovanissimo, il proprio Paese, l’Italia, per andare a cercare fortuna in Canada.
Beniamino, il fratello estroso della mia nonna materna, dopo il trasferimento all’estero, era diventato per tutti Benjamin e aveva preso dimora in una cittadina del Quebec dal nome impronunciabile che, sin da piccola, ho sempre puntualmente storpiato tanto da decidere di rinunciare, proprio per una forma di estremo ritegno, a citarlo.
Per me zio Benjamin stava in Quebec, Stato/Nazione del Canada. Punto e basta.
Bastava ricevere ogni tanto qualche notizia o sentirlo telefonicamente per stare a posto con la coscienza rispetto alla difficoltà generata dal nome di quel luogo di residenza franco/canadese. Chissà, forse il parentado si illudeva che tale dettaglio disincentivasse in automatico dal considerarlo parte integrante della famiglia.
A me, in fondo, stava simpatico perché era andato controcorrente rispetto ai diktat familiari.
In ogni caso, non si è mai compreso bene se, nella sua vita, fosse stata la fortuna a incontrare lui o lui ad andarle incontro: sta di fatto che, dopo essersi dedicato per una vita all’amatissimo lavoro di imprenditore edile barcamenandosi felicemente tra un sacrificio e uno sfizio, non si era legato dal punto di vista affettivo – anche se la sua fama era quella del seduttore – e, dopo il pensionamento, aveva deciso di trascorrere ogni estate (da giugno a settembre) nel cottage di sua proprietà sempre nel Quebec, in località Mont Tremblant, in riva a un lago.
Lì lo raggiunsi nel settembre di circa ventinove anni fa, in occasione di un viaggio premio, regalatomi dai miei genitori dopo la maturità, con l’obiettivo di vivere un’esperienza elettrizzante e di riposarmi in vista dell’impegno universitario che mi attendeva al rientro.
Mi era capitato altre volte di separarmi dalla famiglia per le vacanze estive:spesso raggiungevo i miei zii in Liguria anche per un mese intero, dopo la scuola, e ci ero arrivata in treno persino da sola, affidata ora a una suora, ora a qualche famigliola che, da Napoli, mia stazione di partenza, era diretta al Nord a trovare i parenti. Roba che, a pensarci col senno di poi, se dovessi far viaggiare i miei figli secondo queste stesse modalità, mi si rizzerebbero i capelli in testa, dato il livello di follia della gente che c’è in giro.
Ma la partenza per il Quebec era una cosa decisamente diversa:il primo viaggio in aereo, la prima tratta così lunga verso un Paese lontano, la prima esperienza di vacanza senza la compagnia di alcun coetaneo. Sinceramente?Avevo una strizza terribile e la cosa che più mi creava ansietà era:
“E se in aeroporto, quando arrivo, mi perdo?E se zio Benjamin tarda?E se vanno smarriti i bagagli? “.
Io, degna nipote di una nonna paterna estremamente ansiosa a cui ero spesso affidata, a bordo di quel velivolo sono riuscita a dare il meglio sul piano delle contorsioni mentali…avrei potuto girare il sequel de: “L’aereo più pazzo del mondo” come protagonista assoluta. Sono convinta che le hostess mi abbiano invocata ripetutamente come la iattura più grande capitata nella loro esperienza di volo, perché le disturbavo continuamente ora con richieste di delucidazioni, ora con la manifestazione di una serie di esigenze illogiche,culminate nella preghiera di aiutarmi a trovare gli occhiali da vista che stavano al loro posto dal momento del decollo, ossia sul mio naso.
Preferisco non dilungarmi sulla composizione del bagaglio:una via di mezzo tra la partenza per “il giro del mondo in 80 giorni” e l’equipaggiamento di Madonna quando si sposta tra i vari continenti, insieme allo staff, in occasione di un nuovo tour. Dico solo che, per poco, un arto di mia madre non era rimasto anch’esso chiuso in valigia assieme ai capi d’abbigliamento, impigliato nelle cerniere a scatto del bagaglio più grande. Le pose plastiche adottate per riuscire a chiudere “a pressione” (sotto il peso del mio corpo, praticamente) quei dannati valigioni ancora le ricordo con un certo imbarazzo.
Ad ogni buon conto, nonostante le previsioni da peggior thriller di Hitchcock, l’arrivo in Canada fu trionfale: allo sbarco, recuperato tutto il mio patrimonio di vestiario e ammennicoli vari, trovai zio Benjamin ad accogliermi con un cartello indicante il mio cognome opportunamente riconvertito da Frascatore in Francescone che subito interpretai come punizione karmica per non essere mai riuscita a pronunciare il nome della sua città e, poco dopo, fui fatta accomodare su una comodissima jeep,guidata da un amico dello zio,a bordo della quale raggiungemmo il cottage.
Dopo i convenevoli iniziali – in un italiano biascicato e stentatissimo da lui e in un inglese maccheronico (il mio) con cui, senza successo, volevo fare la spaccona e dimostrare di conoscere perfettamente la lingua straniera – ci avviammo verso la nostra destinazione che distava circa tre ore dall’aeroporto.
In quel lasso di tempo, con la mia consueta caparbietà, feci innumerevoli tentativi di inserirmi nella conversazione tra zio Benjamin e l’amico Frank inanellando una serie di figuracce di cui credo ancora ridano varie generazioni di frequentatori del lago di Mont Tremblant. Sono arrivata a pensare che le tramandino addirittura,come si fa con le barzellette sui Carabinieri. Il loro era un misto di slang del luogo, americano e francesismi sparsi che mi lasciò annichilita sul sedile posteriore, chiusa in una forma di rassegnata ignoranza da cui mi sarei riscattata solo dieci anni più tardi, durante il viaggio di nozze che segnò la conoscenza con il ramo americano della famiglia di mio marito: in quella occasione scappavano tutti appena mi vedevano,perché li utilizzavo come cavie per allenare il mio inglese…con ritmi di parlantina attestatisi anche sulle quattro ore consecutive.
Inizialmente, comunque, con zio Benjamin vissi la frustrazione di non capire un accidenti della sua lingua e avevo persino difficoltà a esprimermi in italiano perché mi ero resa conto che un linguaggio forbito non sarebbe mai stato da lui compreso appieno:finimmo per adottare un compromesso, un registro tutto nostro fatto di dialetto napoletano, italiese e broccolino che avrebbe fatto storcere il naso ai puristi ma che, a noi, generava un’ilarità senza pari.
Durante il viaggio in auto, non distolsi mai lo sguardo dai panorami che, via via, si alternavano attraverso il finestrino:ero estasiata e con un’espressione carica di meraviglia dipinta in volto che i miei interlocutori trovavano piuttosto comica. Con quella bocca perennemente spalancata – in totale spregio alle raccomandazioni di mamma, all’atto della partenza, circa l’assoluta necessità di contenere il mio stupore…”..altrimenti fai la figura della piccola fiammiferaia che non conosce il mondo..”! – avrei fatto la fortuna di qualsiasi dentista!
Mi colpiva tutto:la vegetazione, a perdita d’occhio e oltremodo lussureggiante, le strade di ampio respiro perfettamente asfaltate, l’ordine e la pulizia, la manutenzione e la cura quasi maniacale dei luoghi che attraversavamo, l’opulenza sfacciata di alcuni scorci urbani, il rispetto di pochi, basilari principi del vivere civile, il crogiolo di razze e culture, la presenza discreta ma costante delle forze dell’ordine nelle vie,l’imponenza dell’edilizia.
Usciti dall’autostrada e lasciata la statale alle nostre spalle, improvvisamente imboccammo un sentiero che degradava verso il lago. Il fondo stradale era disseminato di ciottoli:si preannunciava sconnesso e non proprio agevole da percorrere, nonostante fossimo a bordo di una jeep.
Lo chalet era ancora lontano ma il panorama di cui si poteva godere cambiò di nuovo e io ebbi un tuffo al cuore perché mi parve di essere stata catapultata in uno scenario da favola.
In lontananza, si potevano distinguere nell’aria i giochi di fumo proveniente dai camini degli sparuti nuclei di case abitate della zona:sembravano residui dei fuochi d’artificio con cui si celebrano le ricorrenze speciali, tanto che immaginai una specie di comitato d’accoglienza in cielo, riservato espressamente a me. Gli alberi del bosco erano perfetti nelle loro forme e nella composizione che faceva da contorno al tragitto:uguali a quelli delle costruzioni Lego o a quelli realizzati dai maestri di arte presepiale campana che adornano i presepi natalizi.
Il fitto del bosco era tinto di marrone, giallo e arancione, come coperto da una coltre di polverina rugginosa per via dell’autunno incombente e lungo il sentiero, al passaggio della jeep su grossi cumuli di foglie secche, si udiva uno scrocchiare cadenzato che ben si accompagnava all’andatura dondolante del veicolo. Mi sembrò di veder sgattaiolare qualche scoiattolo, probabilmente infastidito dai rumori molesti del SUV, e poi intravidi un’alce, volpi, alcune marmotte.
Abbassando il finestrino mi arrivò in pieno viso, forte come una sberla, una sferzata di aria inebriante che mi stordì i sensi:zio Benjamin indicò numerosi alberi di pino bianco e pino rosso, nonché le betulle gialle e fu allora che compresi il motivo della persistenza di quei profumi boschivi che, per due settimane, avrebbero dolcemente cullato i miei risvegli.
Quando arrivammo al cottage il sole stava tramontando e, scendendo dall’auto mentre ci accingevamo a raggiungere l’interno della piccola abitazione di legno, mi voltai a guardare i colori del cielo e del bosco che si proiettavano sulla superficie del lago: c’era una commistione di sfumature tutte perfettamente in armonia tra loro, come si fosse trattato di un disegno superiore, divino. Mi ritrovai, quasi commossa, a pensare allo spettacolo di grandiosità a cui i miei genitori, consentendomi di far visita allo zio, mi avevano permesso di assistere e all’entusiasmo con cui avrebbero condiviso le mie emozioni al rientro a casa.
Fino a quel momento determinate immagini mi sembravano appartenere solo alle riviste e ai documentari:era piuttosto singolare la circostanza di considerarsi parte integrante di uno scenario naturale di una bellezza tanto disarmante.
Il cottage era una specie di palafitta sospesa sul lago:c’era un piccolo molo a cui era attraccata la barchetta che lo zio usava per andare a pescare o semplicemente per spostarsi da una riva all’altra, una piccola zona relax fornita di comodissime poltrone – quelle che fanno dimenticare i problemi di schiena e di postura scorretta – e di un alloggiamento per godere di un piccolo fuoco esterno, c’era l’immancabile zona barbecue e anche l’amaca, tesa tra due pilastri del patio della casa che confinavano con il bosco.
Presto imparai a capire le abitudini di quella dimora: il bollitore, per esempio, grande e grigio, era sempre in funzione…per il caffè, per il tè, per la tisana e anche per le numerose camomille che bevevo io quando non riuscivo a dormire a causa del jet lag. Bisognava sempre chiudere le porte di accesso al cottage anche a seguito di brevi spostamenti all’esterno, onde evitare sgraditi incontri con animali più o meno feroci, tipo gli orsi. Quando ci si allontanava da casa era d’obbligo portare con sé un k-way per proteggersi dai repentini mutamenti di temperatura o di meteo che in quei luoghi si registravano, essendo imminente l’arrivo dell’autunno.
Dormivo nel soppalco, io. La mia stanza era illuminata da un finestrone di forma rotonda che affacciava su una zona del lago un po’ appartata e scarsamente battuta dalle correnti tant’è vero che, a differenza dello zio che sapeva determinare il meteo da semplici movimenti di brezza sull’acqua, io mi svegliavo e vedevo tutto sempre abbastanza uguale. Anche se poi la verità era che, sul piano emotivo, ogni nuovo giorno era foriero di una specifica fonte di trepidazione, piacevole e inconsueta.
Trascorrevamo le giornate andando a pesca – peccato che io costringessi puntualmente zio Benjamin a ricollocare nel lago tutto il pescato perché non avevo il coraggio di mangiarlo – oppure visitando qualche località della zona; talvolta lo aiutavo nel disbrigo di piccole faccende domestiche e a fare ordine nel suo caotico magazzino pieno di oggetti stravaganti e sostanzialmente inutili all’umanità. Il cottage era sempre pieno di amici e di gente allegra, serena, festante:ci si divertiva con poco, non era decisamente un posto adatto alle persone scontrose e musone.
La sera, quando tutti rincasavano e in casa tornava a risuonare il silenzio, ci intrattenevamo accanto al fuoco a leggere o semplicemente a conversare, a raccontarci aneddoti di famiglia, a rivelarci piccoli segreti o a fare del sano gossip su qualche parente un po’ antipatico. Con lo zio si poteva parlare di tutto:durante quei giorni di vacanza ebbi modo di scoprire una persona spiritosa, a suo modo colta, curiosa e rassicurante,mai giudicante. Con lui non si correva il pericolo di essere fraintesi e non esisteva la preoccupazione di dover per forza intavolare conversazioni intellettivamente stimolanti. Se, per caso, coglieva un qualsiasi mio disagio nel fargli una confidenza, mi guardava con un sorrisetto malizioso e mi diceva: “Tutto qui????E io… che chissà cosa mi aspettavo di sentire…!Non ti preoccupare…i tuoi segreti sono al sicuro…al massimo posso andarli a raccontare a un castoro!” Poi rideva di gusto, sorseggiava la sua birra e guardava il cielo quasi a suggellare quel breve momento di condivisione e di serenità.
Chissà se, nella vita, gli era mancato un affetto stabile…chissà come sarebbe andata se avesse avuto dei figli:ci pensavo spesso quando lo osservavo muoversi nella sua tana e lo ascoltavo parlare di sé nel tentativo di percepirne gli umori, le idee, i principi. Di tutte queste cose parlava molto poco, faceva fatica, al punto che ho finito col dedurre che qualche delusione amorosa particolarmente cocente ne avesse condizionato la vita affettiva.
Ho sempre pensato, per la dedizione e la generosità con cui, durante la mia permanenza, si prendeva cura di me e delle mie esigenze, che sarebbe potuto essere un ottimo padre. Mi definisco una persona di poche pretese, abituata tanto alle comodità quanto all’essenzialità (avendo,peraltro, un breve passato da camperista) ma devo ammettere che lo zio fece di tutto, in occasione di quella vacanza, per farmi rientrare a casa più che appagata nei miei desideri e anche nell’assecondamento di qualche piccola follia.
Un giorno, mentre passeggiavamo nel bosco, gli chiesi: “Zio, pensi mai di mollare tutto e di tornare in Italia avvicinandoti a quel che resta della famiglia?…In fondo qui sei da solo e non credo che, data la distanza, il futuro ci offra moltissime altre occasioni per stare insieme”.
Lui mi guardò col solito sorriso, un po’ guascone, un po’ malinconico, e mi disse: ” Non è un discorso molto allegro ma sappi che ho già scelto il mio luogo di sepoltura su un poggetto del cimitero locale. Se rientro in Italia, devo litigare anche solo per trovare posto nella cappella di famiglia “.
Mi resi conto di aver fatto una delle mie solite gaffe e mi scusai, ma lui mi rifilò un pizzicotto affettuoso sulla guancia e mi spiegò che oramai considerava il Canada come suo paese d’origine:era andato via molto presto da casa e non aveva conservato legami di alcun genere né coltivava particolari interessi che potessero legarlo al nostro Paese.
Notai che si rabbuiava sempre quando gli si parlava del suo passato in Italia:anche in questo caso la mia convinzione era che ci fosse qualche episodio, a me oscuro, che lo avesse indotto a decidere di cambiare radicalmente vita. Essendo una persona piuttosto discreta, non ho mai affrontato l’argomento, in quei giorni.
Durante le due settimane trascorse a Mont Tremblant decisi di procurarmi dei ferri per lavorare a maglia e, con della lana procurata da una vicina di casa dello zio, gli confezionai di nascosto un paio di guanti. Ero fresca di apprendistato con mia nonna, sua sorella, ma sapevo solo lavorare il dritto, il rovescio e il rasato:realizzai dei guanti molto originali – per non dire orripilanti – che a me facevano tanto ridere perché erano la fotografia esatta della mia imbranataggine nel lavorare a maglia. Però, siccome erano fatti col cuore, sortirono un effetto insperato.
Quando glieli donai, il giorno prima del mio rientro in Italia, cominciò, con l’entusiasmo di un bambino e gli occhi semi lucidi, a girarseli tra le mani come se gli avessero affidato in custodia delle pepite d’oro. Li indossò definendoli bellissimi e mi abbracciò promettendomi che li avrebbe portati sempre con sé.
Tutto si poteva dire di zio Benjamin, fuorchè che non fosse un uomo di parola. E lo è stato, fino alla fine.
Poco dopo la sua dipartita, ho ricevuto una lettera di Frank, il suo amico più caro…quello che lo aveva accompagnato a prelevarmi in aeroporto.
In merito alle sue ultime volontà, mi ha raccontato che zio Benjamin aveva chiesto espressamente che i guanti che avevo confezionato lo seguissero nel suo ultimo viaggio insieme a un altro paio di oggetti a cui era particolarmente legato. Frank aveva personalmente provveduto in questo senso.
Ho appreso – e ciò mi conforta – che lo zio si è allontanato serenamente e senza sofferenze…nella discrezione, così come aveva sempre vissuto.
Non so se riuscirò mai a far ritorno a Mont Tremblant:di certo tante cose saranno cambiate da quel mio fatidico viaggio, ma sono sicura che il suo spirito aleggia sulle acque del lago e il caratteristico fruscio dei suoi passi – che avrei saputo riconoscere anche a occhi chiusi per tutte le volte che, precedendolo durante le escursioni nella vegetazione canadese, lo ascoltavo raggiungermi – risuona ancora tra gli alberi del bosco.
Di quella vacanza tanto spensierata e avventurosa ricordo ogni dettaglio. Colori, sapori, profumi che associo a precise sensazioni tattili e a lunghi sospiri, soprattutto quando rivivo dentro di me le emozioni di allora.
In un particolare momento della nostra tipica giornata canadese, nell’ora del crepuscolo, lo zio era solito invitarmi a raggiungerlo sul pontile perché, per effetto di una serie di magici fenomeni di dislivello termico, dalla superficie del lago si sollevavano nuvole di vapore talmente fitte da investirci completamente, condizionandoci la visuale.
Poi, improvvisamente, questa coltre impenetrabile di nebbia si dileguava e, sul lago, tutto tornava terso e limpido. Una sensazione di pace profonda precedeva di poco il calar della notte e noi,allora, accendevamo il fuoco nell’apposito alloggiamento e ci preparavamo alle nostre chiacchierate.
“Fai in modo che questo meccanismo di alleggerimento accompagni sempre i tuoi pensieri “ – mi disse una volta.
“L’annebbiamento dura poco:la nitidezza vince sempre. E il fuoco è un segnale preciso di risveglio. Questi luoghi me lo dimostrano ogni giorno!”
Era come dedicarsi a un rituale. Era il “nostro” rituale. E io no, non l’ho dimenticato.
La nitidezza dei pensieri…caro zio…quanto avevi ragione!
Quando penso all’autenticità di questa tua analogia, mi ci rispecchio pienamente, ti penso e sorrido con una smorfia un po’ guascona, un po’ malinconica:la tua.
Quella che mi salva sempre un attimo prima di fare una fesseria…però questo al castoro,ti prego, non glielo raccontare!
Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.