Di pietra e metallo.

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Le colline del Montefeltro

(di Marina Ruberto)

Il Montefeltro è un fazzoletto d’Italia diviso tra Marche, Emilia Romagna e Toscana.  Con quella piccola perla di Urbino per capitale, è costituito in tutto da circa un migliaio di chilometri quadrati di borghi, borghetti, colline di velluto, rocche Malatestiane e Montefeltrine (che continuano a guardarsi in cagnesco), vallate e boschi, boschi, boschi. In una macchia di colori che, vista dall’alto, sembra una tavolozza da cui Piero della Francesca ha rubato a mani basse.

Perché in una terra così poco estesa si siano succeduti tanti visionari, sognatori, letterati e artisti, non è dato sapere. È uno di quei misteri italiani che il mondo ci invidia e che è stupendo visitare in tutte le stagioni. Per esempio nell’estate del 2020.

Senza andare troppo lontano (nel Rinascimento vinceremmo facile solo citando la corte urbinate di Federico da Montefeltro e del colto fratello Ottaviano), si può scoprire che del Montefeltro si sono innamorati un sacco di artisti, letterati e sognatori nostri contemporanei.

Cominciando da Tonino Guerra, poeta, scrittore, pittore e straordinario sceneggiatore romagnolo che, negli ultimi 25 anni della sua vita, si rifugiò in quel di Pennabilli.  Famose sono le sue installazioni e mostre permanenti, che prendono il nome de I Luoghi dell’anima. Con il mio compagno visitiamo, invece, il Parco dei Luoghi minimi, sul Monte Aquilone; dove animali fantastici si mimetizzano nella vegetazione del bosco, tanto grandi quanto aerei. Rinoceronte, tartaruga, elefante e giraffa (a grandezza naturale) sono stati realizzati intrecciando fil di ferro dal ‘Gruppo del Ferro’ di Pennabilli.

Anche il piemontese Umberto Eco, nel 1978, prese casa in Montefeltro, a Monte Cerignone. Una casa abbandonata da trent’anni che, per qualche motivo, lo rapì. Quando la moglie gli chiese perché voleva proprio quella e proprio lì, le rispose: “Voglio nelle notti di tempesta percorrere questi corridoi oscuri con una torcia in mano, sentendo nel cuore uno sterminato sentimento di potenza”. Magia, poesia. Eco cercò anche un fantasma (“perché una casa così senza fantasma non ha senso”). Chissà se lo trovò.

Persino il Dalai Lama, in persona e in ispirito, si dev’essere preso una cotta per questi luoghi perché, dopo aver visitato Pennabilli nel 1994, ci tornò nel 2005 per inaugurare una campana tibetana (la campana di Lhasa) sul colle che domina la splendida vallata sottostante.

La campana di Lhasa

Ma la storia di passioni intrecciate che mi interessa raccontare un po’ più per esteso, è quella del borgo storico del castello di Pietrarubbia (Petra Rubra) a cui si accede dal paese e di cui è la parte più antica. Arroccato su uno sperone di pietra alle pendici meridionali del Monte Carpegna, il borgo risale forse all’anno 1000. Numerose fonti citano un documento, datato 962 d.C., con il quale l’Imperatore Ottone avrebbe concesso in feudo a Ulderico di Carpegna il borgo; ma la tradizione popolare ne anticipa le origini addirittura al V° secolo d.C.

Ci arriviamo non senza sbagliare strada. E ci troviamo di fronte a un piccolo gioiello (la cui torre diroccata è semi-nascosta dalla vegetazione) e al suo alacre nume tutelare: il signor Anacleto Gambarara; dal 2017 unico residente del posto, frequentato dai turisti solo nella bella stagione. 

Torre diroccata

Visionario, musicista e sognatore, Anacleto è un convinto assertore del ritorno del Montefeltro al suo passato di grandezza culturale, naturalistica, gastronomica e architettonica. Per questo, muovendo mari, monti e volontà, quest’anno è riuscito a organizzare il primo Festival del Montefeltro a Pietrarubbia. Musica, Teatro, eventi e performance hanno animato il minuscolo paese in luglio e agosto.

Ma il suo precursore più illustre si palesò nel 1976, quando la passata grande storia di Petra Rubra sembrava destinata all’oblio e le sue pietre rosse di metalli, ad essere divorate dalla natura vorace del posto.

Tutto questo se Arnaldo Pomodoro (proveniente da Morciano di Romagna) non se ne fosse innamorato e non avesse deciso di comprare e ristrutturare una casa. Spendendo successivamente il suo nome per sensibilizzare il Comune e le autorità, ed avviare un’opera più generale di recupero dell’antica località.

Nella chiesa di San Silvestro, oggi recuperata grazie a lui, ci sono l’altare marmoreo e il grande sole bronzeo (con al centro una croce) realizzati dall’artista. Sarà il contesto, il silenzio, le mura romaniche della chiesetta, ma è una vista mozzafiato.

n Silvestro

Tuttavia, l’idea davvero esplosiva (che voleva riallacciarsi all’antichissima tradizione siderurgica e metallurgica del paese) fu quella dell’estate 1990, quando Pomodoro, con la collaborazione della Regione Marche e il Fondo Sociale Europeo, aprì il Centro di Trattamento Artistico dei Metalli: il T.A.M. Non è una delle attività più note dell’artista. E, francamente, me ne domando il motivo.

L’obiettivo primario del Centro era quello di fornire un’approfondita formazione e specializzazione tecnica e culturale a giovani operatori delle arti dei metalli (oro, piombo, stagno, acciaio, ferro, ottone, rame, bronzo…), unendo due ambiti che, di solito, restano distinti: quello tecnico-artistico e quello storico-teorico.
Nel 2007, il Centro è stato dichiarato Polo formativo Regionale di Eccellenza delle Marche.

Dal T.A.M, di fatto una scuola, sono usciti orafi, decoratori, progettisti, stilisti dello spettacolo e molti scultori.

Per anni la direzione artistica del Centro è stata curata personalmente dallo stesso Pomodoro (che l’ha presieduto fino alla chiusura) e dall’equipe del suo studio milanese. Successivamente dagli scultori Eliseo Mattiacci e Nunzio Di Stefano. Le lezioni sono sempre state tenute da specialisti qualificati e artisti di caratura internazionale.

Il T.A.M è stata purtroppo chiuso nel 2019, ma il signor Anacleto ci comunica che le opere dei migliori allievi si possono visitare in una mostra permanente.  Saputo ciò, attendiamo l’arrivo di suo figlio: detentore delle chiavi del Palazzo gentilizio in cui sono raccolte. 

Quando il ragazzo spunta da chissà dove, veniamo affidati alle sue cure e al suo sapere (buona parte di quello che scrivo, lo scopriamo da lui).  Ed ecco che ci si apre un altro mondo di sorprendente bellezza che il giovane ingegnere prestato all’arte, ci spalanca con una sorta di carbonaro entusiasmo. Quasi stupito che qualcuno condivida le sue passioni.

Rimaniamo di stucco. Oltre ad alcuni pezzi del Maestro Pomodoro, ci troviamo di fronte a sculture, gioielli, lavori di design che non sembrano certo opere di studenti, ma di Artisti fatti e finiti.

Il giovane ci racconta anche qualcosa degli autori. Alcuni dei quali hanno acquisito una certa notorietà. Ma purtroppo non ne tratteniamo i nomi, e più tardi, non troviamo nulla nemmeno in rete.

Quando usciamo dal Palazzo, un po’ rimbambiti sia dalla sovrabbondanza d’informazioni che dalla bellezza inattesa delle opere, torniamo sotto la benevola ala del signor Anacleto.

Quella sera c’è musica a Petra Rubra. “Un gruppo brasiliano da paura” ci avverte un simpatico elettricista dello staff già al lavoro.

C’è La locanda delle storie in cui poter mangiare (e addirittura dormire) e poi lo spettacolo. Ma abbiamo ancora metalli preziosi negli occhi. Pietra rossa e panorami/tavolozza.

Qualsiasi altra cosa, oltre al silenzio, oggi sarebbe troppo.   

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