armatevi solo di carta, penna… e delle quattro operazioni elementari per calcolare in che data cadrà – o è caduta – la Pasqua di ogni anno!
La S. Pasqua si celebra “la domenica successiva al primo plenilunio dopo l’Equinozio di primavera”. Essendo legata al ciclo della LUNA, la Pasqua è dunque una festività ‘MOBILE’, ovvero la sua data varia di anno in anno. Come si fa a trovare la data della PASQUA ?
Un metodo per trovare la data della Pasqua di un qualsiasi anno senza consultare internet o un calendario, è quello di svolgere delle semplici operazioni aritmetiche: addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni con il metodo “manuale” imparato a scuola (senza calcolatrice!) con il quale si ricavava anche il valore del “resto” della divisione.
Seguendo il procedimento, otterremo alla fine p+1 (il giorno) ed n (il mese, 3 = marzo, 4 = aprile) della S. Pasqua.
Pronti con carta e penna? Ecco lo SCHEMA DI CALCOLO ! ✍️
Anno : 19 = ..-.. con resto a Anno : 100 = b con resto c b : 4 = d con resto e (b + 8) : 25 = f (b – f +1) : 3 = g (19 × a + b – d – g + 15) : 30 = ..-.. con resto h c : 4 = i con resto k [32+(2×e)+(2×i)-h-k] : 7=..-.. con resto L [a+(11×h)+(22×L)] : 451= m [h+L-(7×m)+114]:31= n con resto p
ESEMPIO DI CALCOLO per trovare la data della PASQUA del 2023 :
2023 : 19 = 106 con resto 9 2023 : 100 = 20 con resto 23 20 : 4 = 5 con resto 0 (20 + 8) : 25 = 1 con resto 3 (20 – 1 +1) : 3 = 6 con resto 2 (19 × 9 + 20 – 5 – 6 + 15) : 30 = 6 con resto 15 23 : 4 = 5 con resto 3 [32+0+10-15-3] : 7= 3 con resto 3 [9+(11×15)+(22×3)] : 451= 0 con resto 240 [15 + 3 – 0 + 114]:31= 4 con resto 8
n = 4 : il mese di aprile. p = 8 -> p+1 = 9 : il giorno 9
Dunque la Pasqua di quest’anno cadrà il 9 aprile!
DOMANDA Quale fu il giorno di Pasqua nell’anno della tua nascita?
Cieli sereni 🌿🕊️ PG
Oggi 7 Gennaio – Natale Ortodosso
Oggi, 7 gennaio, è il giorno di Natale per le Chiese orientali cattoliche e le Chiese ortodosse.
Dietro a questa difformità nella data del Natale non ci sono affatto ragioni scismatiche ma si tratta, semplicemente, dell’uso di un diverso calendario.
PERCHÉ IL 7 GENNAIO? Nel 1582 papa Gregorio XIII fece modificare il vecchio calendario introdotto da Giulio Cesare, chiamato in suo onore giuliano. I giorni tra il 5 ed il 14 ottobre 1582 furono cancellati. Per quella decisione, adesso, il 7 gennaio corrisponde al 25 dicembre per cui l’Epifania corrisponde alla Vigilia del Natale che cade in ritardo di 13 giorni.
Il Natale oggi si festeggia in Medioriente e anche (per la Chiesa cattolica greco-ucraina e per i cristiani ortodossi che ci vivono) in Russia, Bielorussia, Serbia, Croazia, Macedonia e altri Paesi. In Grecia, ad esempio, il Natale coincide con quello cattolico anche se la maggior parte delle chiese ortodosse utilizzano ancora il calendario giuliano. In Egitto, poi, vi è una situazione particolare: i cattolici del Cairo e di Alessandria, con le rispettive province, hanno già celebrato la nascita di Gesù il 25 dicembre, mentre quelli che vivono nell’Alto Egitto festeggiano oggi 7 gennaio, insieme agli ortodossi.
CURIOSITÀ A differenza dalla Chiesa cattolica, nei paesi ortodossi non esiste il presepe come rappresentazione della nascita di Cristo. Addobbare l’albero di Natale è invece una tradizione comune. Le usanze variano, comunque, da Paese a Paese:
🇬🇷 In Grecia, invece di Babbo Natale, i bambini ricevono i regali da San Basilio il 1° di gennaio.
🇧🇬 In Bulgaria viene bruciato un tronco di legno per tutta la notte della vigilia, e le scintille simboleggiano la prosperità dell’anno nuovo e alla fine del pranzo non sparecchiano il tavolo, per lasciare gli avanzi per i cari defunti.
🇷🇺 In Russia, durante la cena della vigilia, si consumano il miele e l’aglio, che simboleggiano la dolcezza e l’amarezza della vita.
UNA DOMANDA ! Il comandante Bitta si è posto questa domanda: perchè tra i due Natali c’è uno scarto di 13 giorni mentre quelli “saltati” nel 1582 furono 10? 🤔
La risposta sta nel fatto che in questi ultimi 400 anni circa (dal 1582 ad oggi), il divario tra i due calendari è ulteriormente aumentato proprio per il difetto del precedente per il quale, pur prevedendo il mese bisestile, la durata dell’anno era calcolata in 365 giorni e 6 ore (365,25), e non con il più preciso valore di 365,2425 dell’anno ‘gregoriano’, più corto di circa 10 minuti (circa 0,0075 giorni).
Questo ‘aggiustamento’ avviene omettendo i bisestili ogni 400 anni (cosa che non prevedeva il c. giuliano). Il calendario gregoriano guadagna quindi un giorno rispetto a quello giuliano ogni volta che si “omette” l’anno bisestile: così la differenza, che era di 10 giorni nel 1582, è diventata di 11 nel 1800, di 12 nel 1900; di 13 nel 2000 e 2100 e sarà di 14 giorni nel 2200 e così via…
Ecco la sequenza delle differenze: 10 gg nel 1600 (4×400) 10 gg nel 1700 11 gg nel 1800 12 gg nel 1900 13 gg nel 2000 (5×400) 13 gg nel 2100 14 gg nel 2200 15 gg nel 2300 e così via…
Cieli sereni PG
FU DAVVERO UNA STELLA COMETA A GUIDARE I RE MAGI?
In questi giorni, nubi permettendo, osservando il cielo notturno verso Sud, é facile riconoscere la costellazione di ORIONE (o del CACCIATORE) la cui forma ricorda quella di una clessidra ⏳. Al centro sono visibili, ben allineate, tre stelle di uguale luminosità: è la cosiddetta CINTURA DI ORIONE.
Le tre stelle allineate sono MINTAKA, ALNILAM e ALNITAK (le ultime due grandi 30 volte il Sole) e, prolungando verso il basso il loro allineamento, si trova la brillante stella SIRIO. Nella credenza popolare, queste tre stelle vengono anche chiamate i TRE RE MAGI per il seguente motivo. Nel giorni prossimi al Natale, infatti, le tre stelle oltre ad indicare Sirio, si allineano, verso Est, sul punto dell’orizzonte dove sorge il Sole.
Probabilmente a quei tempi i Re Magi tennero a riferimento la LEVATA ELIACA di Sirio. Di cosa si trattò? Fu la prima apparizione di Sirio subito prima del sorgere del Sole, dopo un periodo di tempo durante il quale la stella non era stata visibile in quanto sopra l’orizzonte soltanto nelle ore diurne.
Fu dunque una cometa o Sirio la ”stella maestra” che guidò i tre Re Magi verso Cristo, verso la luce, verso la divinità? Qualunque sia stata, la levata eliaca della stella segnò l’inizio di una nuova era, quella dei Pesci, ed il segno ( logos ) dei Pesci fu proprio quello di Gesù.
Cieli sereni PG
Altre letture 👇 http://www.ocean4future.org/savetheocean/archives/38375
Di fatto, è solo un braccio robotico, programmato per cercare di contenere il fluido idraulico – di colore rosso sangue che, volutamente, fuoriesce costantemente in quantità limitata – e che è necessario per far continuare a funzionare il braccio stesso.
Se fuoriesce troppo liquido, superiore alla quantità necessaria al funzionamento meccanico, il braccio “morirà”, e quindi il suo movimento, disperato, è funzionale al recupero del liquido per garantire la sopravvivenza per un altro giorno.
Quando il progetto è stato lanciato per la prima volta, il braccio non era programmato per recuperare il suo fluido vitale, ma si è limitato ad interagire con i visitatori, in quanto la quantità di liquido all’interno del sistema era sufficiente e non richiedeva ancora questa attività, vitale, di recupero.
L’opera, visitabile dal 2016 non è stata mai modificata e il braccio robotico ha intrapreso il suo ingrato compito appena uscito dalla fabbrica, al punto che dopo 5 anni lavorava a fatica e in una stanza sporca senza potersi sottrarre alla sua natura.
Programmato per vivere questo destino, non importa cosa abbia fatto o quanto sia stato difficile, ci ha provato, e non c’era modo di sfuggirgli.
Gli spettatori hanno guardato mentre sanguinava lentamente fino al giorno in cui ha smesso di muoversi per sempre.
Vivere i suoi ultimi giorni in un ciclo senza fine tra sostenere la vita e contemporaneamente sanguinare.
Lasciamo ai lettori le interpretazioni filosofiche e morali di questa opera.
Qui sotto alcune fonti verificate , tra le molte che si trovano in Rete.
L’acqua come strumento di consapevolezza. La consapevolezza come via maestra per apprendere il Nuoto.
(versione integrale ed arricchita di nuovi contenuti multimediali di un articolo già pubblicato su www.ocean4future.org in due parti nel marzo 2022)
Le prime percezioni del nostro esistere avvengono ad occhi chiusi, immersi nel liquido amniotico. La materia fluida ci fornisce la prima interfaccia con il mondo, il primo contatto con la dimensione del sensibile, la prima esperienza del limite, attraverso cui si sviluppa l’embrione della nostra futura identità. In essa cominciamo a disegnare i nostri confini con l’esterno e insieme a percepire dall’interno la nostra corporeità. E ritrovare la traccia di quelle primordiali esperienze significa ritrovare il proprio primo orizzonte di esseri viventi, la nostra prima e vera madre lingua. Significa ritrovare il nostro corpo alle prese con sensazioni nuove ed insieme antiche, con libertà di movimento strane e al tempo stesso familiari, stranamente familiari e tuttavia dimenticate.
Nella mitologia indiana, Nārāyaṇa è la divinità che meglio di tutte rappresenta, a livello cosmico, il passaggio cruciale dalla potenzialità della quiete indifferenziata prenatale alla prima scintilla di coscienza individuale.
“Nella notte cosmica, Nārāyaṇa dormiva in beata spensieratezza, galleggiando sulle acque primordiali. E mentre dormiva dal suo ombelico spuntò un loto, la prima forma di vita e prima scintilla di consapevolezza, staccatasi dalla matrice universale” (Mircea Eliade, Trattato di Storia delle Religioni, Bollati Boringhieri, ed. 2008)
Nārāyaṇa è, per gli induisti, una delle molteplici manifestazioni di Visnu: colui che presiede la notte cosmica così come Shiva è il signore dell’universo manifesto. Simboleggia lo stato di latenza che precede l’inizio di ogni era, e che inevitabilmente ne seguirà la fine.
“A casa nell’acqua”. Interessante notare come, per la tradizione Indiana, l’acqua venga considerata l’elemento primigenio, il substrato originario: l’energia potenziale ancora inespressa, dal quale proviene ogni forma, e che precede qualsiasi evento percepibile; mentre nella Cina taoista, più o meno nello stesso periodo o poco dopo, l’acqua è percepita come modello di comportamento perfetto e sublime espressione di un mondo già fenomenico.
“Non vi è al mondo nulla di più debole e cedevole dell’acqua, ma nello stesso tempo non vi è nulla che la superi nel vincere il forte e il rigido. Essa è indomabile perché a tutto adattantesi” (Tao Te King, secondo libro, par. LXXVIII. A cura di Julius Evola, 1922)
Ritrovarsi nel Nārāyana dal quale si è avuto origine è, da millenni, il compito delle innumerevoli tecniche psico-fisico-meditative messe a punto, specie in oriente, per poter riconoscere e percepire come propria “dimora”, oltre il limite del nostro corpo, anche tutto ciò che ci circonda.
Lo Yoga indiano e il Tai-chi cinese sono probabilmente le vie più praticate e conosciute per “tornare a casa” ma ne esistono innumerevoli altre, sperimentate o sperimentali; sorte dal nulla o lentamente adattate alle circostanze di tempo, cultura e luogo; In oriente così come in occidente però, l’immensa letteratura fiorita sull’argomento, sorprendentemente, non fa quasi mai riferimento a quella che dovrebbe essere considerata la via maestra, quella suggerita dall’origine e dal nome stesso di Nārāyaṇa, “colui che è a casa nell’acqua”: il nuoto. Anzi, il Nuoto, con la N maiuscola. Quello che pratica l’uomo virtuoso, inteso nel senso definito dal Tao te King: colui che comprende e si adatta al modello di comportamento supremo, quello dell’acqua.
La mancanza di accenni al Nuoto come “via dell’acqua” nella storia della letteratura specializzata è difficilmente comprensibile. Si pensi, ad esempio, ai cultori del Tai-chi che immaginano di effettuare in acqua i propri movimenti per cercare di renderli più fluidi: non sarebbe molto più semplice ed efficace, allora, “saltare un passaggio” – e immergersi realmente? Vero è che esistono già da tempo anche le versioni “bagnate” dello Yoga (Woga/Water Yoga) e del Tai chi (Ai chi/ Aquatic Tai Chi): ma anche queste discipline, pur essendo valide sotto taluni aspetti, rimangono viziate da un presupposto iniziale molto restrittivo non sono “acquatiche native”, ma adattamenti – più o meno felici – all’ambiente liquido di ordinarie e consuete pratiche terrestri. In quanto tali, le posizioni di equilibrio vengono impostate dal praticante con un approccio fisico e mentale ancora tipicamente terrestre: ricerca di appigli od appoggi rigidi e limitati, utilizzo di strumenti didattici artificiali, sostegno di altre persone per “superare” il problema della cedevolezza dell’acqua (invece, proprio questa caratteristica costituisce l’occasione d’oro da cogliere e sfruttare appieno per “cambiare dimensione”). Il tutto, vissuto ancora sotto l’incombente condizionamento psicofisico della verticale gravitazionale: una vera e propria spada di Damocle, alla quale, in condizioni ordinarie, è impossibile sottrarsi.
Manca ancora, a coloro che in acqua si comportano da terrestri, l’abbandono completo, la fiducia in Archimede e nella sua legge idrostatica. Manca evidentemente la fiducia nell’acqua. O meglio… nelle capacità di relazione tra il proprio corpo e l’ambiente circostante.
È un tipo di fiducia che si raggiunge esclusivamente dopo una profonda completa conoscenza, diretta e strettamente personale, del proprio intorno.
Come scrive il Maestro Zen Daishin Besio:
“Il nuotatore e il non-nuotatore sono divisi solo da una dimensione esperienziale. Il primo è partito, necessariamente, dai presupposti del secondo. Il quale, a sua volta, dispone di tutte le potenzialità per trasformarsi nel primo”
Dimensione esperienziale. Non (solamente) intellettuale, quindi. E assolutamente diretta, non delegabile: se l’acqua è uguale per tutti, ogni essere umano è un unicum. Ha una sua forma propria ed è il risultato di una storia a sé. Conseguentemente lo è anche il suo rapporto con l’elemento liquido. Intimo, insostituibile e indicibile.
Per dirla con un altro Maestro (di Nuoto, stavolta), Domenico Maiello, l’acquaticità consiste nell’ “educare all’acqua e con l’acqua”. “All’acqua“, per conoscerla. “Con l’acqua“, per conoscersi. Una definizione, questa, folgorante ed epigrafica; per arrivare a fidarsi ciecamente dell’acqua non esistono scorciatoie: bisogna (ri)conoscerla, bagnarsi, immergersi. E galleggiare, affondare, riemergere, scivolare, ruotare, tuffarsi, fare delle capriole, adagiarsi sul fondo: insomma bisogna ritornare a giocare felicemente nell’acqua e con l’acqua, cercando di carpirne, a poco a poco, i (trasparenti) segreti.
Dimenticando e destrutturando, stavolta, le abilità motorie complesse spesso a torto considerate acquisite come le tecniche di nuotata (apprese talvolta troppo velocemente o solo meccanicamente, senza concedersi il tempo di percepire né l’acqua né il corpo); tralasciando le tabelle di allenamento, le calorie da bruciare, il numero delle vasche da percorrere; mettendo via, almeno per un po’, tutti quegli inutili orpelli che inquinano e disturbano il rapporto esclusivo tra noi e il fluido (divenuti oramai innumerevoli: dalle pinne ai galleggianti, alle custodie impermeabili degli smartphone, passando per le radiocuffie, gli smartwatch e le varie applicazioni fitness. Se possibile, lasciando anche gli occhialini e le cuffie sul bordo vasca). Spogliandoci di tutti gli accessori, ma rimanendo ben vigili, attivando al meglio la nostra consapevolezza. Eccola, la parola chiave è tornata: consapevolezza. Duplice: in acqua, e dell’acqua. Conoscenza dell’acqua attraverso il proprio corpo – e conoscenza del proprio corpo attraverso l’acqua. Ecco definite le due materie fondamentali della nostra scuola nuoto ideale. Due processi cognitivi tra loro interconnessi al punto tale da sintetizzarsi in uno solo, di tipo relazionale. Il proprio, intimo, insostituibile, indicibile rapporto con l’acqua.
Dopo esserci finalmente liberati di ogni accessorio o programma, entrando in acqua proviamo innanzitutto a…non fare nulla! Cerchiamo innanzi tutto di rimanere fisicamente passivi mentre il fluido agisce sul nostro corpo. La passività costituisce il primo e più importante passo nel processo di conoscenza dell’acqua. Equivale all’ascolto dell’altro nei rapporti umani.
Negli esercizi presentati è la spinta idrostatica che agisce “come Archimede comanda”, per riportare a galla le nuotatrici che sono state filmate. Quasi certamente, tutti coloro che hanno una certa dimestichezza con le attività natatorie, avranno vissuto le stesse esperienze soprattutto in età infantile; ma è estremamente probabile che, presi dalla foga del gioco o da un obiettivo agonistico più seducente, ne abbiano dimenticato i preziosi insegnamenti. Almeno a livello cosciente: lo dimostrano, ad esempio, gli innumerevoli bagnanti-ancora-terrestri che si producono in azioni propulsive goffe e assolutamente superflue, sia con le gambe sia con le braccia, per cercare di “rimanere fermi sul posto” in acqua alta…
…laddove basterebbe galleggiare staticamente, senza agitarsi:
le posizioni sono potenzialmente infinite; e molte di queste sono anche estremamente confortevoli….
Ai bagnanti-ancora-terrestri a è mancato, nei momenti cruciali dell’apprendimento nel corso delle loro prime esperienze acquatiche, il giusto atteggiamento mentale.
O meglio… la giusta presenza mentale. Potremmo definire questo termine-chiave come un vero e proprio comune denominatore tra il Nuoto e la meditazione. Applicando una corretta presenza mentale, ogni ingresso in acqua può trasformarsi in una validissima occasione per aumentare il proprio grado di consapevolezza, trasformando il bagno in una vera e propria forma di meditazione galleggiante. Una consapevolezza a doppia valenza: in acqua e dell’acqua. l'”Aquawareness“.
È bene chiarire immediatamente che la presenza mentale, come forma di meditazione, NON ha assolutamente nulla a che fare con gli stati di assorbimento, estatici o mistici, al di là dell’ordinario e del vissuto quotidiano. Anzi. Tutto il contrario, la pratica richiede come requisito di base la massima lucidità sensopercettiva. Nulla di trascendente, quindi, e nulla che non sia del tutto trasparente.
Semplificando, la presenza mentale può essere bipartita nelle due fasi ricettiva (chiamata fase della pura attenzione) ed attiva (denominata fase della chiara visione)
Nella fase ricettiva si tratta “semplicemente” di rimanere estremamente attenti e concentrati durante le esperienze vissute e osservate al fine di acquisire la chiara e sicura consapevolezza di ciò che realmente avviene fuori di noi e in noi quando c’è interazione tra noi e il nostro intorno.
Per facilitare la pura attenzione, al principiante si raccomanda sempre di ridurre l’esperienza al livello più elementare ed essenziale possibile. Riprendiamo, in proposito, l’esempio descritto nei video dei “rimbalzi”:
Per bambini e adolescenti (e qualche adulto) sarebbe più che naturale trasformare l’esperienza in un gioco “a chi ne fa di più” con tanto di squadre, classifiche, e sfottò; possiamo facilmente immaginare i partecipanti impegnati creativamente per trovare strategie, regole, trucchi e sotterfugi idonei per vincere le sfide, con i compagni, gli avversari… e soprattutto, con loro stessi.
Certamente, in situazioni ludico-competitive, si guadagnerebbe molto in termini di puro divertimento… però quasi sicuramente, a causa della focalizzazione dell’interesse dei partecipanti verso l’obiettivo della “vittoria” e dello spostamento delle loro risorse di pensiero verso l’area dell’ingegno organizzativo si perderebbero di vista almeno tre/quattro elementi di osservazione, o di pura attenzione:
La posizione raccolta “a uovo”, con le gambe abbracciate, assicura l’impossibilità di compiere dei gesti propulsivi di qualsiasi genere; conseguentemente:
La risalita è determinata solo dalla spinta dell’acqua:
Il corpo tende sempre a ruotare per mantenere la parte più leggera (i polmoni) verso l’alto. Non si riaffiora naturalmente con i piedi, ma con la schiena e la testa.
Soprattutto:
Con i polmoni pieni d’aria, a parità di forma (ma non di volume…) l’acqua riporta velocemente i corpi a galla, con i polmoni svuotati molto meno, quando non li lascia direttamente sul fondo.
Queste registrazioni obiettive, proprio come in ogni esperimento scientifico che si rispetti, non dovrebbero mai essere alterate da valutazioni qualitative o dai pregiudizi emotivi ed intellettuali, o dalle aspettative prestazionali, che spesso (e più o meno consapevolmente) ci portiamo dietro e che distolgono l’attenzione dai fatti in sé che dovremmo considerare “nudi e crudi”.
Quando parliamo di “meditazione basata sulla presenza mentale”, non intendiamo allora nulla di difficile né di misterioso. Parliamo invece di un livello di consapevolezza raggiungibile, in acqua, anche dai bambini in età scolare. Anche i piccoli allievi, se ben guidati da un bravo istruttore che, avendo cura di mantenere sempre attiva la loro presenza mentale, trasformi ogni loro esperienza acquatica nella forma di un gioco divertente, potranno essere in grado di passare tranquillamente senza difficoltà da un’attenzione vaga iniziale (“guarda, Jacopo e Matteo stanno giocano a “palla che rimbalza!”), a quella più dettagliata (“ma non si muovono per nulla, eppure tornano sempre su”) e poi, richiamando le situazioni analoghe, si confronteranno con il proprio vissuto (“ci ho provato anche io, funziona”), generando dapprima il pensiero associativo (“se trattengo il respiro torno su più velocemente”) e infine, sfruttando opportunamente le dinamiche di gruppo, anche quello astratto: vale a dire la generalizzazione dell’esperienza. (“se si trattiene il respiro si galleggia molto meglio, vale per tutti”)
Questa forma di educazione acquatica, basata sulle risposte dell’individuo alle situazioni-stimolo ambientali, è tra l’altro perfettamente aderente alle teorie di Jean Piaget (1896-1980), un vero pioniere della psicologia dell’età evolutiva: Per Piaget, losviluppo cognitivo del bambinoderiva principalmente dall’interazione con la realtà circostante, grazie alla quale si verifica una trasformazione in termini di acquisizione di informazioni utili alla conoscenza pratica. E in acqua, la necessità di interagire continuamente con l’ambiente circostante diventa necessariamente “il” presupposto, una scelta obbligata. Sotto questo aspetto, un approccio consapevole nei confronti dell’ambiente acquatico può favorire sensibilmente, anche a livello più generale, l’educazione e l’affinamento della persona in crescita.
Nelle clip precedenti, abbiamo osservato l’azione dell’acqua sul corpo umano quando quest’ultimo nel corso delle varie esperienze cerca, nei limiti del possibile, di mantenere la stessa forma sotto l’azione dell’acqua, a prescindere dalla forma deliberatamente scelta come quella di partenza. Rimanendo il più possibile “inerti” a guisa di oggetti – più o meno galleggianti – è molto più semplice osservare, per poi riuscire a distinguere e separare, gli effetti delle azioni dell’acqua da quelle delle nostre attività, siano esse determinate e consapevoli, automatizzate oppure del tutto inavvertite.
Lo stesso livello di pura attenzione che riserviamo alle osservazioni relative ai comportamenti del nostro corpo come risposta alle azioni dell’acqua, andrebbe riservato anche allo studio dei comportamenti del fluido come risposta alle nostre azioni volontarie e mirate. Anche in questi casi, la facilità di ricavare informazioni corrette ed obiettive è direttamente proporzionale alla semplicità delle attività motorie “di stimolo”
Si pensi alle esperienze sulle “frenate” durante gli scivolamenti:
In questo caso l’obiettivo della nuotatrice era quello di valutare l’efficacia della frenata durante lo scivolamento (lo “stop” andava ottenuto modificando improvvisamente e liberamente la propria forma corporea) e non certo quello di andare il più lontano possibile dal bordo vasca (che spesso rimane, purtroppo, l’unico esercizio richiesto nelle versioni prona e supina dalla stragrande maggioranza degli istruttori di nuoto tradizionali, durante le cosiddette fasi di ambientamento).
La nostra nuotatrice è giunta a quella efficace soluzione frenante dopo aver sperimentato moltissime altre possibilità alternative: ad esempio, allargando solo una gamba, o anche semplicemente piegandola; oppure allontanando le braccia distese o piegate dal tronco; testando infinite altre soluzioni simmetriche o asimmetriche, sempre prendendo scrupolosa nota delle risposte dell’ambiente fluido. Ad esempio, avrà scoperto che se durante lo scivolamento veloce allontana solamente un braccio dal tronco, oltre al rallentamento ottiene anche un cambio di direzione; ma avrà anche capito anche che quest’ultimo effetto si può essere facilmente attenuare o del tutto annullare non solo con il gesto simmetrico dell’altro braccio, ma anche da altre opportune azioni antagoniste quali, ad esempio, un piegamento del capo.
La pura attenzione, quindi, comprende il campo di osservazione analitica ed obiettiva dei comportamenti che si instaurano nella relazione di base tra l’acqua e il corpo umano, prendendo atto dell’interscambiabilità dei ruoli attivi e passivi che si assumono a seconda delle circostanze.
Però – non ci stancheremo mai di ripeterlo – questo termine rimane valido ed appropriato solamente se lo spirito, e l’atteggiamento mentale, con il quale si affronta ogni esperienza rimane quello tipico di un laboratorio scientifico, dove l’esperienza viene studiata solo per quella che è, senza interferenze di ricordi passati o di progetti di costruzione futuri. E neanche senza subire l’influsso di precedenti condizionamenti, pregiudizi o aspettative; con la massima apertura mentale, avendo cura di non precludersi nessuna esperienza (a priori) e non scartando alcun risultato (a posteriori); e soprattutto senza mai farsi vincere dalla tentazione di attribuire valutazioni qualitative ai risultati, del tipo: “questa è la soluzione MIGLIORE”. (…migliore per quale scopo, poi…?)
Nelle scuole nuoto “tradizionali”, quelle che hanno per obiettivo costruzione di un performer ad ogni passaggio didattico si tende ad insegnare agli allievi subito e solamente la soluzione “giusta” nell’ottica della sola prospettiva agonistica, per ottenere il massimo rendimento dell’atleta nel più breve tempo possibile… facendogli perdere però per strada, anzi per le corsie, infinite occasioni di approfondimento della propria cultura dell’acqua. Trasformando così il corso di nuoto in un addestramento formale (dove si propongono sostanzialmente dei modelli pronti da copiare) in luogo di una vera occasione di educazione acquatica (dove ogni momento di passività, pausa o attività, ad esempio una semplice bracciata, o un mezzo avvitamento, è il risultato di scelte precise ed autonome del praticante, ripescate consapevolmente dalla propria riserva di esperienze.
Scelte, è finalmente giunto il momento di definire il termine, che dovrebbero essere determinate esclusivamente dalla Chiara Visione del nuotatore.
La Chiara Visione è l’aspetto proattivo della Presenza Mentale, che segue necessariamente quello della pura attenzione e si manifesta nel nuotatore “meditante” solo in presenza della volontà lucida e consapevole di intraprendere l’azione più appropriata per raggiungere un preciso e determinato scopo, qualsiasi esso sia.
Come, ad esempio, quella di immergersi fondo mediante la sola espirazione senza aiutarsi con gesti propulsivi:
Oppure, a partire da uno stato di galleggiamento statico verticale, alterare il proprio equilibrio provocando dei basculaggi volontari con il solo movimento del capo:
Rispetto alle analoghe esperienze vissute “in regime” di pura attenzione, all’occhio poco allenato di un osservatore esterno potrebbero non rivelarsi grosse differenze formali: si galleggia o si affonda fisicamente , ed apparentemente, nello stesso modo; la differenza risiede, infatti, tutta nell’atteggiamento mentale del nuotatore che durante la fase della pura attenzione sta ancora cercando di capire cosa accade a sé e al suo intorno in determinate condizioni; nell’altra adotta deliberatamente il comportamento più idoneo alle circostanze scegliendolo lucidamente all’interno del patrimonio di esperienze già vissute.
Nelle clip seguenti, le nuotatrici in galleggiamento cercano di indurre rotazioni e basculaggi del proprio corpo con i movimenti del capo. C’è chi si trova ancora nella fase pura attenzione e chi, invece, esercita la propria chiara visione…sapreste riconoscerle?
La ricerca della consapevolezza, basata sulle fasi della “pura attenzione” (osservazione oggettiva dei fenomeni senza interferenze) e della “chiara visione” (azione intrapresa lucidamente sulla base del proprio patrimonio di osservazioni), da attuarsi in ogni gesto quotidiano, è alla base della Meditazione Buddhista Vipaśyanā. E’, questo, un termine sanscrito che sostanzialmente è traducibile con: “vedere le cose come realmente sono”, oppure “meditazione di visione profonda”. Il termine inglese più comunemente usato per tradurre Vipaśyanā è “insight meditation”, termine non troppo centrato e comunque un po’ fuorviante per noi occidentali un po’ scettici, cresciuti con Archimede, Galileo e Newton. Non ci dovrebbe servire l’intuizione (traduzione diffusa di insight, “visione dentro”) per osservare, e registrare senza pregiudizi o aspettative, ciò che si manifesta in maniera palese. I cinque sensi sono ampiamente sufficienti: basta focalizzare l’attenzione sull’esperienza, rimanere obiettivi, prendere nota, e ricordarsela per le occasioni future.
Al di là del termine, la Vipaśyanā viene considerata il “cuore della meditazione buddhista” e nelle scritture canoniche di quella tradizione, il “discorso sui fondamenti della Presenza mentale” (Satipaṭṭhāna Sutta) del Buddha viene riportato per ben due volte, a dimostrazione dell’importanza fondamentale che gli è stata attribuita. Thích Nhất Hạnh ([ tʰik ɲɜt hɐʲŋ ]), (1926-22) il celebre monaco, poeta e scrittore vietnamita scomparso recentemente, basava il suo insegnamento sulla pratica della consapevolezza applicata in ogni momento o attività della giornata, al fine di far riconoscere ogni istante della propria esistenza come un vero e proprio “miracolo ordinario e quotidiano” e non l’ennesimo opaco elemento di una grigia sequela di occasioni e di tempo sprecato:
“La mattina quando vi alzate, fate un sorriso al vostro cuore, al vostro stomaco, ai vostri polmoni, al vostro fegato. (“La mattina quando vi alzate, fate un sorriso al vostro …”) Dopo tutto, molto dipende da loro.” (Thích Nhất Hạnh, “Corpo Umano”)
“Come possiamo godere dei nostri passi se la nostra attenzione è rivolta a tutto quel chiacchiericcio mentale? È importantediventare consapevoli di cosa sentiamo, non solo di cosa pensiamo. Quando tocchiamo il terreno con il piede dovremmo riuscire a sentire il piede che entra in contatto con esso. Quando lo facciamo possiamo provare un’enorme gioia nel semplice fatto di poter camminare.” (Thích Nhất Hạnh, “Il Dono del Silenzio”)
Assolutamente vero. La presenza mentale è applicabile in ogni situazione quotidiana senza limitazioni di sorta, in ogni condizione di luogo, tempo o spazio. Finché c’è vita, può esserci consapevolezza.
Ma In acqua, la consapevolezza è maggiormente a portata di mano, anzi… di ogni parte del corpo.
Perché? Perché l’insieme uomo-acqua, anche sotto questo punto di vista, costituisce il sistema ideale per raggiungerla. Proprio come quando, in un momento imprecisabile della nostra esistenza, nel liquido amniotico scoccò la prima scintilla di coscienza e di differenziazione tra noi e il mondo, ancora oggi l’acqua, con le sue interazioni avvolgenti, immediate, inevitabili e puntuali ci costringe alla continua percezione di un “esterno” a noi perfettamente complementare.
Lao-Tsu aveva ragione: L’acqua, oltre ad essere stato il primo, è davvero il nostro “intorno” ideale; ci sostiene morbidamente adattandosi perfettamente a qualsiasi nostra forma, senza perdere mai il contatto con ogni centimetro della nostra epidermide.
La sensazione tattile del piede che si appoggia sul terreno descritta da Thích Nhất Hạnh, in acqua è estendibile, nello stesso istante, a qualsiasi parte del corpo; e a differenza di quanto succede nella dimensione terrestre dove le reazioni ambientali – per nostra disattenzione o distrazione – possono talvolta apparire schermate fino a sfumare del tutto, in acqua l’ “intorno” non ci dà mai tregua: risponde puntualmente a tutte le nostre minime sollecitazioni con effetti macroscopici, siano esse volontarie sia involontarie.
Riguardo queste ultime, la reazione/segnalazione immediata ed evidente del sistema sia negli stati di equilibrio statico sia nelle situazioni dinamiche è ancora più importante, perché ci costringe a prendere coscienza di ogni minima alterazione della forma e/o del volume del nostro corpo.
Nella vita quotidiana quando si rimane in piedi, oppure seduti o sdraiati; e anche camminando o correndo spesso si mantengono posture o atteggiamenti sbilanciati o semplicemente asimmetrici, anche per periodi di tempo abbastanza lunghi. Quasi sempre manca la consapevolezza di tutto ciò, almeno fino a quando lo stesso corpo decide di segnalarci la situazione facendo insorgere fastidi o dolori muscolari qui e là. Ma il terreno, l’asfalto, il pavimento, la sedia o il letto in tali casi sembrano rimanere imperturbabili rispetto alle nostre azioni; non ci comunicano direttamente nulla in proposito.
In acqua è diverso: trasparente in tutti i sensi, il fluido non ci nasconde nulla e allo stesso tempo non ci permette di barare, anzi: amplifica e rende evidenti gli effetti di ogni nostra azione, anche la più leggera… ad ogni variazione, anche impercettibile, del respiro corrisponde infatti un diverso assetto di galleggiamento e un diverso equilibrio. Osserviamo come il semplice ritmo inspirazione/espirazione provochi un evidente “effetto culla” con le ginocchia della nuotatrice che emergono e si immergono ritmicamente.
Così, ad ogni alterazione, anche minima, della forma corporea corrisponde sempre una diversa idrostatica o idrodinamica. La reazione dell’acqua è sempre inevitabile ed inesorabile, impossibile distrarsi o allontanarsi troppo col pensiero. In acqua bisogna continuamente fare i conti, istante dopo istante, con il presente. In immersione, Il “Qui e Ora” dello Zen diventa naturalmente “la condizione di laboratorio”.
Non è il caso di elencare qui tutti i nobilissimi scopi finali della meditazione nelle millenarie tradizioni religiose, spirituali o psicologiche, soprattutto orientali.
Ma ci permettiamo di accennare ai benefici della meditazione quotidiana che sono oramai accertati, ed accettati come validi anche in occidente: riduzione delle emozioni negative, incremento di quelle positive come la compassione e l’autocontrollo, incremento della capacità di raggiungere gli obiettivi. Riduzione dello stress, dell’ansia, dell’insonnia, della solitudine e degli stati depressivi.
Tra questi, vogliamo sottolineare ancora quello appena citato: la riconduzione gentile della coscienza al momento-presente. Per chi è abituato ad ingolfarsi di ricordi del passato o di progetti futuri elaborati mentre il presente gli scorre davanti, è un vero toccasana purificatore. Trascorrere la maggior parte del tempo “nella propria testa” porta ad elaborare una eccessiva quantità di pensieri che appannano la percezione diretta immediata della realtà esterna.
Eckart Tolle, autore del best-seller “Now! Il potere del presente” sostiene che “Pensare è compulsivo. Non ci si può fermare, o così sembra. Crea anche dipendenza. Non ci si ferma fino a che la sofferenza generata dal continuo rumore mentale non diventa insopportabile”
La citazione è volutamente provocatoria. Non si mette certo in dubbio la necessità di pensare: è un bisogno assoluto, come respirare, bere o nutrirsi. Ma è sempre meglio evitare le indigestioni…in questo senso, la presenza mentale acquatica aiuta non poco a disintossicarsi.
E poi…e poi c’è un effetto corollario, tutt’altro che trascurabile.
Con la presenza mentale applicata alle esperienze in acqua, si impara a nuotare “davvero”. Solo con questo approccio si raggiunge il livello del Nuoto (sì, quello con N maiuscola), quello proprio dei nuotatori. Ma chi è il “nuotatore”? Non è (solo) il bagnante estivo; non è neanche (solamente) il regolare frequentatore delle piscine, uno di quelli che svolgono diligentemente il programma di allenamento redatto dall’allenatore o dal personal trainer; potrebbe non esserlo nemmeno un atleta di livello olimpico, se quest’ultimo si comporta (esclusivamente) come una macchina ideata per scopi agonistici. L’autentico nuotatore non si misura necessariamente né con il tempo trascorso né con lo spazio percorso in acqua. Non ama servirsi di “aiuti” come pinne, guanti, galleggianti, tavolette, tubi perché non sopporta fastidiose mediazioni con l’ambiente e preferisce di gran lunga impiegare, in maniera sempre più sensibile, parti del proprio corpo per ottenere gli stessi effetti; non è un esecutore di gesti prestabiliti da altri e di norma non segue alcuna scheda o tabella. Non “rappresenta” le tecniche di nuotata ma le reinventa e le adatta ad ogni bracciata secondo le proprie esigenze, circostanze o condizioni. In azione, lo si trova sempre più impegnato ad affinare il proprio livello di acquaticità, che interessato ad aumentare le prestazioni. Cerca sempre la via del minimo sforzo, senza far rumore mentre nuota. Risponde alle situazioni critiche sempre nella maniera più adeguata, esercitando tutte le libertà di movimento del corpo, per garantire in ogni condizione il più alto grado di sicurezza non solo a sé, ma anche ai suoi eventuali compagni d’acqua meno progrediti.
Incontriamo spesso in piscina tanti magnifici atleti, ma imbattersi in un nuotatore “vero” non è così frequente.
Chuang-Tsu in un suo celebre racconto, ne ha magistralmente descritto uno, di età avanzata: un vecchio che alle domande di Confucio, sorpreso dalle sue abilità natatorie rispose così: “So come calarmi in un vortice discendente e come uscirne da uno ascendente. Seguo la via dell’acqua e non faccio nulla per oppormi ad essa. La sua natura è la mia natura”
Senza dubbio dovevano essere Nuotatori “veri” anche quelli citati da Virgilio nell’Eneide: “Rari Nantes in Gurgite Vasto”, i sopravvissuti al naufragio della flotta di Enea. E allora, non ci resta che tornare presto a nuotare, stavolta consapevolmente. Perché, in tanti e troppi casi la distanza che separa il Nuotatore dal terrestre, purtroppo combacia perfettamente con quella che separa la vita e la morte… e perché la sopravvivenza in acqua, al di là di ogni sofisma, è lo scopo ultimo e l’essenza stessa del Nuoto.
“Primum vivere, deinde philosophari”, dicevano gli antichi romani.
Un pesce andò da un pesce-regina e gli domandò: “Sento sempre parlare del mare, ma cos’è questo mare? Dov’è?”E il pesce-regina rispose: “Tu vivi, ti sposti e trascorri la tua esistenza nel mare. Il mare è dentro di te e fuori di te.Tu vieni dal mare, sei fatto di mare e finirai nel mare. Il mare ti circonda come il tuo proprio essere”.(antica storia Indù)
Nelle vicinanze della città di Santa Cruz, in BRASILE, nello Stato del Rio Grande do Norte, si trova una colossale statua di Santa Rita da Cascia. È la statua religiosa cattolica più grande al mondo! Si noti, nella figura, il confronto con altre due famosissime statue: il Cristo Redentore del Corcovado a Rio e la Statua della Libertà a New York.
La città di Santa Cruz organizza ogni 22 maggio, una grande festa dedicata alla Santa e alla quale, mediamente, partecipano non meno di 60.000 persone provenienti da ogni angolo del Brasile.
Viene ricordato che il fondatore della città di Santa Cruz sarebbe stato un oriundo italiano devotissimo a Santa Rita da Cascia approdato in questo territorio nel 1825.
Santa Rita è la Patrona di CASCIA e co-patrona di NAPOLI, della famiglia, delle donne sposate infelicemente e dei casi disperati e apparentemente impossibili.
In ITALIA Santa Rita è festeggiata in diverse località: in Calabria a ROMBIOLO (VV), in Campania ad AVELLINO, in Lombardia a CONSIGLIO DI RUMO (CO), in Piemonte a TORINO, in Puglia a CONVERSANO (BA), in Sardegna a PATTADA (SS), in Sicilia a CASTELVETRANO (TP) e in Toscana a SESTO FIORENTINO (FI).
CURIOSITÀ Santa Rita da Cascia risulta la Santa più invocata sui social network per ottenere una guarigione miracolosa dal Covid-19.
Nessuno muore.
“All’improvviso, mi parve di destarmi, e mi trovai come fluttuante all’altezza del soffitto. Mi sentivo benissimo, anche se un po’ eccitata al pensiero di poter osservare ciò che i chirurghi si apprestavano a fare. La camera era dipinta di verde. Una cosa mi meravigliò subito: il tavolo operatorio non si trovava parallelo a tutte le strumentazioni, bensì era relegato in un angolo. A un certo momento mi domandai come mai non soffrissi o non provassi alcuna pena osservando l’intervento sul mio corpo. I chirurghi erano due. Mi feci più vicino per osservare meglio. Grande fu il mio stupore nel vedere fino a quale livello di profondità avevano inciso la mia schiena, e quante attrezzature, pinze e divaricatori contornavano la ferita. Vidi raggiungere la colonna vertebrale con i loro attrezzi chirurgici, ed estrarre lentamente il disco con lunghe pinzette curvate all’estremità. A un certo momento qualcuno si lasciò scappare un’esclamazione di stupore. Tutti si voltarono. Chi aveva parlato, ricorrendo a termini tecnici che non ricordo, gridò che stava succedendo qualcosa e che la mia respirazione si era paurosamente rallentata. Pronunciò parole come “arresto” o “blocco”. Poi quasi urlò: – Chiudere! – A quella specie di ordine tutti affrettarono le operazioni, tolsero pinze e divaricatori e presero a cucire in fretta l’incisione. Notai che incominciarono a suturare partendo dal fondo. Eseguirono la cucitura in modo così rapido da lasciarmi ancora una parte di ferita leggermente aperta sulla schiena. A quel punto, improvvisamente , mi trovai nella hall dell’ospedale . Ero come se fossi a ridosso del soffitto, perché distinguevo con chiarezza le lampade fluorescenti. Da questo momento in poi non ricordo nient’altro, salvo il fatto di essermi finalmente destata in un’altra stanza. Accanto a me scorsi uno dei due medici che mi avevano operata; non l’avevo mai veduto prima, ma lo riconobbi subito“.
Quando agli inizi degli anni 70 del secolo scorso venne coniato l’acronimo NDE (near death experiences ) l’intento era quello di racchiudere in una definizione più o meno esauriente, una categoria di fenomeni non ancora compresi dalla scienza medica.
Oggi a quasi cinquant’anni di distanza, ben lungi da poter definire le NDE come esperienze valide da un punto di vista meramente scientifico, possiamo però dire che alcune prove raccolte oggettivamente coincidono e dunque rientrano in una casistica numerica che permette loro di meritare maggior attenzione e meno scetticismo.
Le NDE sono esperienze , certamente soggettive, ma spesso con elementi oggettivi particolari, che si ripetono a prescindere dal soggetto che le prova, sia esso un adulto piuttosto che un bambino.
Tra i primi sintomi che precedono queste esperienze (mancanza di reattività, arresto cardio respiratorio) e il successivo decadimento e morte delle cellule dell’organismo umano trascorre un certo tempo, e quello che noi definiamo “morte del soggetto” non è altro che una convenzione basata su alcuni parametri.
Intendiamo dire che non esiste un momento preciso del trapasso, in senso assoluto.
Cosa accade nella fase intermedia?
L’obiezione che questo tipo di esperienze non riguardano persone che hanno smesso di vivere, bensì che siano in uno stato di morte apparente, non è del tutto soddisfacente perché sposta i termini della questione, ma senza affrontarla.
Da un punto di vista semantico, usare la parole “morte” potrebbe essere ingannevole mentre è più opportuno invece, da un punto di vista medico, considerare queste persone come “rianimate alla vita”, e dunque si presume che la loro attività biologica fosse tale da impedire l’irreversibilità del loro status.
E’ pur vero che il concetto di “morte” per l’essere umano rientra più nella filosofia che non nella medicina. Definire esattamente il momento in cui cessa il collegamento delle funzioni vitali e la coscienza di “Se”, paradossalmente potrebbe non impedire la reversibilità dell’evento.
Il corpo fisico, nella sua globalità, muore lentamente, organo dopo organo, cellula dopo cellula e potrebbe apparire imprudente accomunare la fenomenologia di cui parliamo con il concetto ancora non troppo precisato di decesso.
Convenzionalmente per “esperienza di premorte” si intende l’esperienza di una persona che, per episodi traumatici, tossici o patologici, abbia vissuto un arresto cardiaco temporaneo, respiratorio, dei riflessi e dunque della coscienza.
Analoghe esperienze vissute durante lo stato di coma, ad esempio, anche se particolarmente grave e irreversibile, non dovrebbero venire classificate nei fenomeni NDE, rientrando nella cosiddetta OBE (out of body experience). Si tratta di una casistica abbastanza simile, ma riguardante sia persone sane, sia soggetti clinicamente gravi, ma senza sintomi di decesso.
Possiamo considerare una terza tipologia, cioè quella di coloro i quali sono in punto di morte ma rimangono in uno stato mentale di lucidità.
In effetti, delle tre, la nostra analisi riguarda specificatamente la prima, anche se la fenomenologia non è classificabile in precisi schemi ben definiti.
Ma di quali fenomeni stiamo parlando?
Possiamo provare ad elencare alcune sintomatologie che possono ricondurre le esperienze all’interno delle NDE
Consapevolezza della morte del corpo e sensazione di esistere esternamente al corpo stesso;
Una chiara visualizzazione, precisa e consapevole, del corpo e dell’ambiente circostante, da una prospettiva quasi sempre sopraelevata e dunque una sensazione di allontanamento dal corpo fisico.
La percezione di discorsi di parenti, medici, infermieri.
“Distorsione temporale” e/o “atemporalità”.
Aumento delle facoltà percettive e intellettive.
Visione di un “Tunnel di luce”, con associata la visione delle esperienze del proprio vissuto significativo, ed incontro con persone, decedute in vita, in un’altra dimensione di esistenza.
Totale assenza di dolore fisico e un senso di grande serenità e di generale benessere, associato a contenuti con forte carica emotiva.
Eppure, non sempre le percezioni NDE sono esperienze di gioia e di serenità. In alcuni casi sono state raccolte esperienze terrificanti, paragonate a immagini infernali. Malgrado ciò queste non sembrano essere molto ricorrenti.
La coerenza delle esperienze raccontate, a prescindere dai luoghi e dalle culture diverse, ci invita a riflettere che tale esperienza riguardano più la reattività del nostro organismo in decadimento biologico piuttosto che alla cultura e credenze alle quali facciamo riferimento.
“Effetto tunnel”, sensazione di generale benessere, percezione di una grande luce, visione panoramica del proprio vissuto, e così via, sono aspetti che sembra rafforzino l’idea che la NDE sia qualcosa elaborato dal cervello. Tali rappresentazioni potrebbero costituire il frutto di esperienze collettive, come negli archetipi Junghiani.
La cosiddetta visione panoramica retrospettiva degli avvenimenti della propria vita (sequenza vissuta frequentemente nel corso di una NDE) secondo alcuni studiosi potrebbe essere originata sempre dal cervello, il quale, comportandosi come un computer, “salva il file, come se duplicasse la propria memoria”.
L’ipotesi che le visioni sopra descritte siano la conseguenza allucinatoria della produzione, nell’organismo umano, di particolari sostanze, è una spiegazione razionale e sicuramente condivisibile. Alcuni ipotizzano inoltre che le esperienze siano conseguenza di una sorta di sconvolgimento psicofisico che si attiva durante la rianimazione, e dunque non della condizione di apparente decesso, ma successivamente a questa condizione.
In generale, si ritiene che le percezioni dell’individuo, clinicamente in condizioni di morte (apparente?), siano elaborate dal cervello in modo da creare delle immagini artificiali, che possano anche riprodurre fedelmente l’ambiente , tuttavia questa opzione ci sembra un po’ forzata. Inoltre, essendo forse l’udito l’ultima forma di percezione durante un processo degenerativo, si ipotizza che le descrizioni di esperienze di premorte siano semplicemente il frutto di associazioni ed elaborazioni di sensazioni uditive derivanti dagli effetti dell’aumento dell’anidride carbonica nel sangue, molto simili alle allucinazioni originate da morfina e droghe varie e dall’ipotesi degli spasmi dei lobi cerebrali, fino alla produzione di ormoni endogeni.
Eppure, ci sono casi in cui persone non dotate della vista, hanno saputo descrivere luoghi e ambienti che non avrebbero mai potuto vedere. In tali casi, nessuna teoria si rivela esauriente nello spiegare come una persona possa “vedere” senza l’ausilio dei propri sensi, e addirittura da prospettive assolutamente non coincidenti con quella osservabile dalla posizione del proprio corpo.
Ogni tentativo di ricondurre il tutto ad una sorta di spiegazione razionale, sembra essere rimesso in discussione dalle esperienze di NDE raccontate dai bambini i quali , pur essendo privi delle costruzioni mentali degli adulti e non avendo quindi ben chiari i concetti di vita, morte e aldilà, stranamente riferiscono esperienze simili e analoghe a quelle degli adulti, e questo sin dalla più tenera età. Considerando che la percezione della morte nei bambini dovrebbe essere diversa, tutto ciò risulta molto strano.
Ecco allora che le varie teorie appaiono tutte come supposizioni assolutamente insufficienti, perché è altamente improbabile che “riproduzioni virtuali” possano essere dei meccanismi di difesa e delle proiezioni di fantasie che un cervello adulto metterebbe in atto per preservare la propria incolumità.
In qualsiasi caso, il quadro generale è comunque molto complesso e ancora lontano dall’essere spiegato in modo esaustivo.