Venerdì 5 gennaio 2023 – La leggenda delle Varvuole, le Streghe del Mare!
La leggenda delle STREGHE VARVUOLE
La leggenda delle Varvuole, le orribili streghe del mare, ha origine secoli fa al tempo delle scorribande dei pirati dalmati: gli Uscocchi.
Erano streghe spaventose, venivano dal mare vestite di stracci e avevano i capelli che sembravano fili di ferro e occhi come tizzoni ardenti. Erano temute da tutti gli abitanti del villaggio perché erano solite urlare spaventosamente e rapire i bambini. Il loro arrivo era annunciato da Zef il banditore che camminando per le vie della città dava l’allarme suonando il tamburo. Le donne correvano a casa, chiudevano le porte, strofinavano le finestre con dell’aglio e versavano l’acqua santa in ogni angolo della casa per proteggere i loro bambini.
La leggenda vuole che ogni anno queste streghe tornino dal mare su barche di vetro per rapire i bambini che sono stati cattivi. Il 5 gennaio, a Grado, si svolge la rievocazione di questa leggenda. Il corteo del banditore, insieme alle donne, parte dalla piazza del Municipio e raggiunge Porto Mandracchio dove si può assistere all’arrivo dal mare di queste streghe urlatrici a bordo delle loro “batele”, le tipiche barche di laguna (da turismo fvg).
E’ già da un po’ che siedo su questo divano:è pacioccosamente morbido e io ci sono affondata, abbandonandomi a una posa rilassante tra enormi cuscini, disposti a corolla intorno a me.
A testa in giù e con le gambe all’aria, giusto per rimodulare il senso delle proporzioni e conferire dignità superiore a tutto quello che, compresi i miei arti, è collocato in una dimensione di piena inferiorità.
Come calice di quella corolla, accolgo pensieri, sensazioni, fardelli che dondolano, cullati dalla lieve brezza che filtra dalla finestra spalancata sul cielo di un anonimo e banale mansardato urbano. Li abbraccio e mi abbraccio, aspettando l’arrivo di un’inattesa impollinazione che faccia sussultare il fiore, chiamandolo a nuova vita.
Un raggio di sole, impavido, battagliando con il plumbeo ardore di un cielo ancora tipicamente invernale, raggiunge la stanza posandomisi sulla caviglia nuda e svela la mia abitudine di gironzolare per lo più scalza, con i pantaloni leggermente scostati dalla parte terminale della gamba. Reagisco così io, opponendo un senso di libertà al rigore della temperatura come alla rigidità in generale, la mia…quella altrui: combatto gli assalti del giudizio e mi lascio fissare da mille occhi incuriositi dalla posa che, in questo momento, ho assunto.
Mi metto a braccia conserte, come sempre quando sto per cominciare a parlare e devo raccogliere le idee: mi rivolgo al mio interlocutore che, avidamente, mi gironzola intorno, nel tentativo di partecipare al banchetto e di assaggiare a morsi le diverse, succulente pietanze disposte tutt’intorno.
Penso improvvisamente alle mie caviglie e all’idea che anche quelle possano essere addentate, nella confusione mangereccia, divoratrice di anime e di identità.
In questa vorace dimensione di appetiti umani, la mia fame di attenzione vaga, confusa, da una parte all’altra della stanza e zampetta tra gli arredi prima di scivolare,crepitando, tra le fiamme della legna che arde nel caminetto.
Sono esattamente al centro di un vortice d’aria in cui si incontrano due mondi: il vento proveniente dall’esterno e il tepore del fuoco acceso. Si congiungono,come amanti resi impazienti da un desiderio ingestibile,e in mezzo ci sono io a fare da conduttore di elettricità, in una atmosfera che si fa sempre più trascinante.
Le mie confessioni ora si fanno più spontanee e serrate, prendono il ritmo della carnalità del congiungersi senza troppi ragionamenti all’uditorio.
Ho gli occhi chiusi e distinguo soltanto profumi: sono invoglianti, ma il pensiero che mi distolgano dal fiume di parole che sto per pronunciare mi sprona a dar loro voce, senza più indugio.
Parole scontate, banali e istintivamente semplici si liberano: mi ascolto nel pronunciarle e mi agito in maniera convulsa per acciuffarle a mani nude e ricacciarle indietro, convinta che siano quelle sbagliate. Figlie di un fraintendimento, mi svolazzano intorno prendendosi gioco di me in un folle e frastornante maramao. Le prendo a cuscinate e la corolla del fiore si spampana.
I petali, sparpagliatisi tra le pieghe del candido divano, disegnano una mappa. Spalanco gli occhi e la osservo, quasi a cercare risposte degne di ascolto e di fiducia. La direzione…cerco solo la direzione…della piena comprensione e ora mi proteggo il viso con le mani.
Se riceverò una carezza o uno schiaffo lo ignoro. Ma temo allo stesso modo ambedue le prospettive. Quegli occhi famelici vogliono che io mi riveli, vogliono sapere di più e frugano alla ricerca di tutto quello che sono convinti gli stia dolosamente negando.
Sulla mappa leggo parole d’afflizione amorosa che vagano tra i petali della corolla ricomponendone il disegno naturale, la finestra si spalanca e la luce si sposta sul mio viso che non è più protetto, esaltandone i lineamenti corrucciati dall’imbarazzo.
Vorrei unirmi al banchetto divoratore di emozioni e prendere a morsi i cibi invoglianti, far rumore, dare fastidio, ronzare all’infinito nelle orecchie degli astanti, come un qualsiasi insetto scocciante.
Punzecchiare qua e là, assaggiare e volar via quasi senza posarmi. Non si può. Non è la cosa giusta per me. Essere parte attiva di questo baccanale è il messaggio veicolato dalla mappa. Non si sono proprio accorti di me, non mi stavano guardando…avrei potuto trascorrere ore qui sdraiata,nella più totale indifferenza.
C’è una solitudine schermata, incompresa che mi fa parlare e mi abilita ai ceffoni. La creo, la costruisco, c’è anche ora…qui…su questo divano,dove la nudità dell’anima,che andrebbe accarezzata,viene umiliata e derisa.
Gli occhi di chi la giudica sono sempre limpidi e spietati, i miei sono imploranti e velati di inquietudine.
Parlaci di te, parlaci di questa personalità tormentata e indegna di carezze. Scrivi dei tuoi cedimenti, delle tue cadute e di quando ti nascondi dietro a una metafora come un animale in fuga si rifugia tra i cespugli del bosco intricato di congetture e arditi costrutti mentali.
Vuoi scappare, vuoi sottrarti anche stavolta?E dove fuggirai senza aver rivelato pressochè nulla di te?
Guardati, affrontala questa realtà, fatti violenza e accettati, con tutti i tuoi limiti e i tuoi disagi. Smetti di osservarla la mappa,perché ti sta depistando:strappala,anzi,e gettala tra le fiamme del camino, in modo che alimenti altro da te.
Mi sono alzata dal divano, con uno scatto felino e furioso, ho afferrato il cappotto e sono scesa in strada. Non sopportavo più la pressione. La avvertivo sulla pelle, incalzante come quelle voci che mi inducevano a strapparmi via la maschera.
Nel percorrere a piedi la rampa di scale pregustavo una breve fuga, un momento di riappacificazione da un tormento interiore fattosi troppo lungo e snervante.
La piazza sotto casa era stranamente affollata: si stava svolgendo uno spettacolo di sbandieratori. L’atmosfera era quella della festa, quella di cui magari,a volte, neppure ci si accorge,quando si è in preda a un incessante rimuginio di pensieri.
Nell’aria si sollevavano, a ritmo del suono dei tamburi, tessuti di ogni foggia e colore:mi sono confusa in quel crogiolo di umanità festante e,mentre ero con il naso all’insù, ho improvvisamente scorto in lontananza un volto amico che stava con il naso all’insù come me.
Un incrocio di sguardi di pochi secondi, a distanza,e senza neppure gesticolare.
Un’intesa intensa, nata da un sorriso schietto e immediato, che è arrivato a illuminarci il volto mentre il cielo si abbandonava, lasciandosi solcare da un tripudio di bandiere svolazzanti, distese, come i lineamenti dei nostri volti, esposti al vento della piazza gremita.
Nel dispiegarci reciprocamente attraverso quei sorrisi, finalmente l’ho sentita scorrermi sul viso, quell’amorevole carezza di una comprensione piena.
E’ arrivata nel frullio della stoffa di una bandiera volata più in alto delle altre, in un punto del cielo in cui il giudizio, l’equivoco e la distorsione non possono arrivare. Dove solo un gesto genuinamente gentile scioglie i volti contratti dall’alterigia e dalla paura di comprendersi.
E’ stato allora che ho capito che davanti a una carezza si resta, non si fugge.
Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.
Una voce affatturante mi ha chiamato e ora permea la mia decisione di far ritorno al faro.
L’ho evocata e, dunque, la seguo lungo un sentiero di acciottolato stabile che rende saldo il pensiero come il passo e che, ben presto, mi conduce a una gittata di cemento ingannevole, come quella voce, che, da suadente che era, d’improvviso si fa tenebrosamente perniciosa. L’ultimo tratto è sterrato, sa di dissuasione o comunque di messa alla prova. Non so se il senso sia rotolare a precipizio o muoversi con saggia circospezione, ma l’andatura si fa lenta e pesante,mentre la voce si ode sempre più flebilmente,come un eco disperso dal vento.
Il promontorio è desolatamente vuoto, sferzato dalle procelle della vita, la vegetazione è brulla, arsa dalle mareggiate invernali. Sale che cicatrizza le fenditure della roccia come si fa con le ferite.
E’ quasi l’ora del tramonto: tutto è fermo, come in un ineluttabile frame scorporato.
Mi guardo intorno, alzo gli occhi e la vedo:lassù, eterea e inibente,occupa la sommità del faro.
Era sua la voce quella che mi ha condotto qui.
Gli sguardi si incrociano, sfidanti e selvatici, implacabili scuotono l’inconsistente struttura metallica che vibra maledettamente ad ogni occhiata.
Il faro è dismesso:noi no. Il duello è infuriante e sprigiona elettricità che sembra turbinare in spire nella mia direzione, attraverso i pioli delle scale di accesso alla luce rotante.
Non c’è dialogo, né comunicazione verbale alcuna ma la gestualità è incontrovertibilmente tesa al confronto.
Il Sole rende incandescente il cielo e il suo bagliore, proiettato sulle vetrate del faro, quasi mi acceca. Sospendo i pensieri ma non mi muovo, socchiudo le palpebre, sperando di ritrovarla nella sua posizione originaria, una volta riaperti gli occhi.
Mi guardo intorno e non c’è, non la vedo più, il tramonto incombe e la terra sussulta sotto i miei piedi. Nel silenzio persistente, il mio grido furibondo si libera e mi solleva vorticosamente nell’aria, proiettandomi in cima al faro.
La prospettiva di un gemellaggio celeste esorcizza la condanna alla fosca irrequietudine di una schermaglia terrena che chiede con prepotenza di essere composta.
Ora sono io che invoco il suo nome e, d’un tratto, la ritrovo seduta accanto a me:distoglie lo sguardo…ha l’aria di una viaggiatrice sconnessa ma conserva un tratto flessuosamente regale.
Le nostre menti sono altrove, ma comunicano persino nella solitudine della lanterna spenta di un faro inattivo.
Legami alienanti trovano conforto nell’instabilità di un luogo alienato e infondono reciproca remissività ai nostri sguardi, non più torvi: interrogativi, forse, curiosi ma sereni.
Le tendo la mano ma avverto tensione:ci temiamo e non abbassiamo le difese. Ha il viso stravolto, lo sguardo metallico e gli occhi gonfi di pianto…lo percepisco ma non riesco a sostenerne la vista. Sono visibilmente scossa anch’io.
Quando la scia del Sole tramontato in mare raggiunge lo specchio d’acqua sotto i nostri piedi, con un filo di voce le dico:”Sono venuta a prenderti. Vieni via con me!”.
La osservo con minuziosa attenzione stavolta, si alza in piedi e, quasi fluttuando verso il precipizio sottostante, si volta furtivamente nella mia direzione per poi lasciarsi cadere nel vuoto. La sua corporeità si sparpaglia come polvere dorata ricadendo delicatamente a pelo d’acqua e confondendosi con la scia del tramonto.
Due delfini, assecondando la corrente, la guidano verso un punto di consunzione, impossibile da determinare a vista.
Sul mio viso solcato da lacrime cocenti più del Sole è rimasto impresso il ricordo di quello spazio vuoto, compagno di brevi scambi sulla sommità del faro.
Chi era, Lei?
La vera e sola me o un’altra me?L’abbaglio di un Sole ingannatore o il sogno furtivo di una alleanza nata da una guerra?
Non lo so, ma da quel giorno ho preso il suo posto al faro e attendo, con cieca ostinazione, di poterne udire ancora una volta la voce, di ricongiungermi a lei e di proseguire un dialogo scandito dall’intermittenza della luce rotante attraverso la quale sarebbe bello entrare e uscire dalle vite altrui senza far rumore.
Intermittenti ma presenti, proprio come i fari. In fondo siamo fatti di luce e di ombre. Tutto quello che il futuro riserva, solo il faro può saperlo:resta annoverato tra i suoi più insondabili segreti.
Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.
Passo da un battito di ciglia ad un eterno mugolio che si estingue sulla punta della lingua di amanti di passaggio su queste strade spianate.
Ho visto macchine con il motore in panne tagliarmi come schegge, uomini d’onore scappare come criminali senza scrupoli, donne d’amore aspettare in silenzio che fosse quello il loro tempo.
Il tempo di tre giorni. Tre per sapere che mi stavi ingannando e tre per rinnamorarmi di te.
Serena amò Marco sempre e solo per tre giorni. Tre giorni per capire che Marco non l’amava ma l’avrebbe forse fatto ad Hayeres, sulla costa francese.
Una giulietta rossa, una targa provvisoria, affittata per un breve periodo, le dita doppie di Marco sul cambio e l’altra mano in mezzo alle gambe di Serena che sorridendo guardava fuori dal finestrino.
Serena aveva affidato, tanti anni prima, la sua vita al caso.
Cosa le fosse stato destinato non le era ancora chiaro ma aveva la presunzione di essere speciale.
Indossava un pantalone di jeans chiaro, un paio di zoccoli marroni con delle piccole borchie e una maglietta all’uncinetto, tinta corda.
Non indossava il reggiseno, ne la cintura.
I pantaloni restavano sempre scostati dalla vita di uno spazio equivalente ad una mano.
Quella che avrebbe lasciato passare Marco tra il jeans e la sua pelle abbronzata.
Ludovica D’Alessandronasce a Napoli nel 1984. All’età di 12 inizia a soffrire di disturbi del comportamento alimentare. Nonostante il peso della malattia si trasferisce a Londra e successivamente a Milano dove vive e lavora attualmente. Il suo genere di scrittura è crudo e graffiante come un pugno nello stomaco. Fa della ricerca della bellezza dell’essere umano una missione ma senza spaventarsi di scavare nei meandri dell’animo.
Zio Benjamin fa la sua comparsa nella mia vita piuttosto improvvisamente, come uno di quei personaggi mitologici, a metà tra l’avventuriero e il reietto, per via della scelta piuttosto incauta – se rapportata alla prudenza e al tradizionalismo di certe famiglie della sua epoca – di lasciare, da giovanissimo, il proprio Paese, l’Italia, per andare a cercare fortuna in Canada.
Beniamino, il fratello estroso della mia nonna materna, dopo il trasferimento all’estero, era diventato per tutti Benjamin e aveva preso dimora in una cittadina del Quebec dal nome impronunciabile che, sin da piccola, ho sempre puntualmente storpiato tanto da decidere di rinunciare, proprio per una forma di estremo ritegno, a citarlo.
Per me zio Benjamin stava in Quebec, Stato/Nazione del Canada. Punto e basta.
Bastava ricevere ogni tanto qualche notizia o sentirlo telefonicamente per stare a posto con la coscienza rispetto alla difficoltà generata dal nome di quel luogo di residenza franco/canadese. Chissà, forse il parentado si illudeva che tale dettaglio disincentivasse in automatico dal considerarlo parte integrante della famiglia.
A me, in fondo, stava simpatico perché era andato controcorrente rispetto ai diktat familiari.
In ogni caso, non si è mai compreso bene se, nella sua vita, fosse stata la fortuna a incontrare lui o lui ad andarle incontro: sta di fatto che, dopo essersi dedicato per una vita all’amatissimo lavoro di imprenditore edile barcamenandosi felicemente tra un sacrificio e uno sfizio, non si era legato dal punto di vista affettivo – anche se la sua fama era quella del seduttore – e, dopo il pensionamento, aveva deciso di trascorrere ogni estate (da giugno a settembre) nel cottage di sua proprietà sempre nel Quebec, in località Mont Tremblant, in riva a un lago.
Lì lo raggiunsi nel settembre di circa ventinove anni fa, in occasione di un viaggio premio, regalatomi dai miei genitori dopo la maturità, con l’obiettivo di vivere un’esperienza elettrizzante e di riposarmi in vista dell’impegno universitario che mi attendeva al rientro.
Mi era capitato altre volte di separarmi dalla famiglia per le vacanze estive:spesso raggiungevo i miei zii in Liguria anche per un mese intero, dopo la scuola, e ci ero arrivata in treno persino da sola, affidata ora a una suora, ora a qualche famigliola che, da Napoli, mia stazione di partenza, era diretta al Nord a trovare i parenti. Roba che, a pensarci col senno di poi, se dovessi far viaggiare i miei figli secondo queste stesse modalità, mi si rizzerebbero i capelli in testa, dato il livello di follia della gente che c’è in giro.
Ma la partenza per il Quebec era una cosa decisamente diversa:il primo viaggio in aereo, la prima tratta così lunga verso un Paese lontano, la prima esperienza di vacanza senza la compagnia di alcun coetaneo. Sinceramente?Avevo una strizza terribile e la cosa che più mi creava ansietà era:
“E se in aeroporto, quando arrivo, mi perdo?E se zio Benjamin tarda?E se vanno smarriti i bagagli? “.
Io, degna nipote di una nonna paterna estremamente ansiosa a cui ero spesso affidata, a bordo di quel velivolo sono riuscita a dare il meglio sul piano delle contorsioni mentali…avrei potuto girare il sequel de: “L’aereo più pazzo del mondo” come protagonista assoluta. Sono convinta che le hostess mi abbiano invocata ripetutamente come la iattura più grande capitata nella loro esperienza di volo, perché le disturbavo continuamente ora con richieste di delucidazioni, ora con la manifestazione di una serie di esigenze illogiche,culminate nella preghiera di aiutarmi a trovare gli occhiali da vista che stavano al loro posto dal momento del decollo, ossia sul mio naso.
Preferisco non dilungarmi sulla composizione del bagaglio:una via di mezzo tra la partenza per “il giro del mondo in 80 giorni” e l’equipaggiamento di Madonna quando si sposta tra i vari continenti, insieme allo staff, in occasione di un nuovo tour. Dico solo che, per poco, un arto di mia madre non era rimasto anch’esso chiuso in valigia assieme ai capi d’abbigliamento, impigliato nelle cerniere a scatto del bagaglio più grande. Le pose plastiche adottate per riuscire a chiudere “a pressione” (sotto il peso del mio corpo, praticamente) quei dannati valigioni ancora le ricordo con un certo imbarazzo.
Ad ogni buon conto, nonostante le previsioni da peggior thriller di Hitchcock, l’arrivo in Canada fu trionfale: allo sbarco, recuperato tutto il mio patrimonio di vestiario e ammennicoli vari, trovai zio Benjamin ad accogliermi con un cartello indicante il mio cognome opportunamente riconvertito da Frascatore in Francescone che subito interpretai come punizione karmica per non essere mai riuscita a pronunciare il nome della sua città e, poco dopo, fui fatta accomodare su una comodissima jeep,guidata da un amico dello zio,a bordo della quale raggiungemmo il cottage.
Dopo i convenevoli iniziali – in un italiano biascicato e stentatissimo da lui e in un inglese maccheronico (il mio) con cui, senza successo, volevo fare la spaccona e dimostrare di conoscere perfettamente la lingua straniera – ci avviammo verso la nostra destinazione che distava circa tre ore dall’aeroporto.
In quel lasso di tempo, con la mia consueta caparbietà, feci innumerevoli tentativi di inserirmi nella conversazione tra zio Benjamin e l’amico Frank inanellando una serie di figuracce di cui credo ancora ridano varie generazioni di frequentatori del lago di Mont Tremblant. Sono arrivata a pensare che le tramandino addirittura,come si fa con le barzellette sui Carabinieri. Il loro era un misto di slang del luogo, americano e francesismi sparsi che mi lasciò annichilita sul sedile posteriore, chiusa in una forma di rassegnata ignoranza da cui mi sarei riscattata solo dieci anni più tardi, durante il viaggio di nozze che segnò la conoscenza con il ramo americano della famiglia di mio marito: in quella occasione scappavano tutti appena mi vedevano,perché li utilizzavo come cavie per allenare il mio inglese…con ritmi di parlantina attestatisi anche sulle quattro ore consecutive.
Inizialmente, comunque, con zio Benjamin vissi la frustrazione di non capire un accidenti della sua lingua e avevo persino difficoltà a esprimermi in italiano perché mi ero resa conto che un linguaggio forbito non sarebbe mai stato da lui compreso appieno:finimmo per adottare un compromesso, un registro tutto nostro fatto di dialetto napoletano, italiese e broccolino che avrebbe fatto storcere il naso ai puristi ma che, a noi, generava un’ilarità senza pari.
Durante il viaggio in auto, non distolsi mai lo sguardo dai panorami che, via via, si alternavano attraverso il finestrino:ero estasiata e con un’espressione carica di meraviglia dipinta in volto che i miei interlocutori trovavano piuttosto comica. Con quella bocca perennemente spalancata – in totale spregio alle raccomandazioni di mamma, all’atto della partenza, circa l’assoluta necessità di contenere il mio stupore…”..altrimenti fai la figura della piccola fiammiferaia che non conosce il mondo..”! – avrei fatto la fortuna di qualsiasi dentista!
Mi colpiva tutto:la vegetazione, a perdita d’occhio e oltremodo lussureggiante, le strade di ampio respiro perfettamente asfaltate, l’ordine e la pulizia, la manutenzione e la cura quasi maniacale dei luoghi che attraversavamo, l’opulenza sfacciata di alcuni scorci urbani, il rispetto di pochi, basilari principi del vivere civile, il crogiolo di razze e culture, la presenza discreta ma costante delle forze dell’ordine nelle vie,l’imponenza dell’edilizia.
Usciti dall’autostrada e lasciata la statale alle nostre spalle, improvvisamente imboccammo un sentiero che degradava verso il lago. Il fondo stradale era disseminato di ciottoli:si preannunciava sconnesso e non proprio agevole da percorrere, nonostante fossimo a bordo di una jeep.
Lo chalet era ancora lontano ma il panorama di cui si poteva godere cambiò di nuovo e io ebbi un tuffo al cuore perché mi parve di essere stata catapultata in uno scenario da favola.
In lontananza, si potevano distinguere nell’aria i giochi di fumo proveniente dai camini degli sparuti nuclei di case abitate della zona:sembravano residui dei fuochi d’artificio con cui si celebrano le ricorrenze speciali, tanto che immaginai una specie di comitato d’accoglienza in cielo, riservato espressamente a me. Gli alberi del bosco erano perfetti nelle loro forme e nella composizione che faceva da contorno al tragitto:uguali a quelli delle costruzioniLego o a quelli realizzati dai maestri di arte presepiale campana che adornano i presepi natalizi.
Il fitto del bosco era tinto di marrone, giallo e arancione, come coperto da una coltre di polverina rugginosa per via dell’autunno incombente e lungo il sentiero, al passaggio della jeep su grossi cumuli di foglie secche, si udiva uno scrocchiare cadenzato che ben si accompagnava all’andatura dondolante del veicolo. Mi sembrò di veder sgattaiolare qualche scoiattolo, probabilmente infastidito dai rumori molesti del SUV, e poi intravidi un’alce, volpi, alcune marmotte.
Abbassando il finestrino mi arrivò in pieno viso, forte come una sberla, una sferzata di aria inebriante che mi stordì i sensi:zio Benjamin indicò numerosi alberi di pino bianco e pino rosso, nonché le betulle gialle e fu allora che compresi il motivo della persistenza di quei profumi boschivi che, per due settimane, avrebbero dolcemente cullato i miei risvegli.
Quando arrivammo al cottage il sole stava tramontando e, scendendo dall’auto mentre ci accingevamo a raggiungere l’interno della piccola abitazione di legno, mi voltai a guardare i colori del cielo e del bosco che si proiettavano sulla superficie del lago: c’era una commistione di sfumature tutte perfettamente in armonia tra loro, come si fosse trattato di un disegno superiore, divino. Mi ritrovai, quasi commossa, a pensare allo spettacolo di grandiosità a cui i miei genitori, consentendomi di far visita allo zio, mi avevano permesso di assistere e all’entusiasmo con cui avrebbero condiviso le mie emozioni al rientro a casa.
Fino a quel momento determinate immagini mi sembravano appartenere solo alle riviste e ai documentari:era piuttosto singolare la circostanza di considerarsi parte integrante di uno scenario naturale di una bellezza tanto disarmante.
Il cottage era una specie di palafitta sospesa sul lago:c’era un piccolo molo a cui era attraccata la barchetta che lo zio usava per andare a pescare o semplicemente per spostarsi da una riva all’altra, una piccola zona relax fornita di comodissime poltrone – quelle che fanno dimenticare i problemi di schiena e di postura scorretta – e di un alloggiamento per godere di un piccolo fuoco esterno, c’era l’immancabile zona barbecue e anche l’amaca, tesa tra due pilastri del patio della casa che confinavano con il bosco.
Presto imparai a capire le abitudini di quella dimora: il bollitore, per esempio, grande e grigio, era sempre in funzione…per il caffè, per il tè, per la tisana e anche per le numerose camomille che bevevo io quando non riuscivo a dormire a causa del jet lag. Bisognava sempre chiudere le porte di accesso al cottage anche a seguito di brevi spostamenti all’esterno, onde evitare sgraditi incontri con animali più o meno feroci, tipo gli orsi. Quando ci si allontanava da casa era d’obbligo portare con sé un k-wayper proteggersi dai repentini mutamenti di temperatura o di meteo che in quei luoghi si registravano, essendo imminente l’arrivo dell’autunno.
Dormivo nel soppalco, io. La mia stanza era illuminata da un finestrone di forma rotonda che affacciava su una zona del lago un po’ appartata e scarsamente battuta dalle correnti tant’è vero che, a differenza dello zio che sapeva determinare il meteo da semplici movimenti di brezza sull’acqua, io mi svegliavo e vedevo tutto sempre abbastanza uguale. Anche se poi la verità era che, sul piano emotivo, ogni nuovo giorno era foriero di una specifica fonte di trepidazione, piacevole e inconsueta.
Trascorrevamo le giornate andando a pesca – peccato che io costringessi puntualmente zio Benjamin a ricollocare nel lago tutto il pescato perché non avevo il coraggio di mangiarlo – oppure visitando qualche località della zona; talvolta lo aiutavo nel disbrigo di piccole faccende domestiche e a fare ordine nel suo caotico magazzino pieno di oggetti stravaganti e sostanzialmente inutili all’umanità. Il cottage era sempre pieno di amici e di gente allegra, serena, festante:ci si divertiva con poco, non era decisamente un posto adatto alle persone scontrose e musone.
La sera, quando tutti rincasavano e in casa tornava a risuonare il silenzio, ci intrattenevamo accanto al fuoco a leggere o semplicemente a conversare, a raccontarci aneddoti di famiglia, a rivelarci piccoli segreti o a fare del sano gossip su qualche parente un po’ antipatico. Con lo zio si poteva parlare di tutto:durante quei giorni di vacanza ebbi modo di scoprire una persona spiritosa, a suo modo colta, curiosa e rassicurante,mai giudicante. Con lui non si correva il pericolo di essere fraintesi e non esisteva la preoccupazione di dover per forza intavolare conversazioni intellettivamente stimolanti. Se, per caso, coglieva un qualsiasi mio disagio nel fargli una confidenza, mi guardava con un sorrisetto malizioso e mi diceva: “Tutto qui????E io… che chissà cosa mi aspettavo di sentire…!Non ti preoccupare…i tuoi segreti sono al sicuro…al massimo posso andarli a raccontare a un castoro!” Poi rideva di gusto, sorseggiava la sua birra e guardava il cielo quasi a suggellare quel breve momento di condivisione e di serenità.
Chissà se, nella vita, gli era mancato un affetto stabile…chissà come sarebbe andata se avesse avuto dei figli:ci pensavo spesso quando lo osservavo muoversi nella sua tana e lo ascoltavo parlare di sé nel tentativo di percepirne gli umori, le idee, i principi. Di tutte queste cose parlava molto poco, faceva fatica, al punto che ho finito col dedurre che qualche delusione amorosa particolarmente cocente ne avesse condizionato la vita affettiva.
Ho sempre pensato, per la dedizione e la generosità con cui, durante la mia permanenza, si prendeva cura di me e delle mie esigenze, che sarebbe potuto essere un ottimo padre. Mi definisco una persona di poche pretese, abituata tanto alle comodità quanto all’essenzialità (avendo,peraltro, un breve passato da camperista) ma devo ammettere che lo zio fece di tutto, in occasione di quella vacanza, per farmi rientrare a casa più che appagata nei miei desideri e anche nell’assecondamento di qualche piccola follia.
Un giorno, mentre passeggiavamo nel bosco, gli chiesi: “Zio, pensi mai di mollare tutto e di tornare in Italia avvicinandoti a quel che resta della famiglia?…In fondo qui sei da solo e non credo che, data la distanza, il futuro ci offra moltissime altre occasioni per stare insieme”.
Lui mi guardò col solito sorriso, un po’ guascone, un po’ malinconico, e mi disse: ” Non è un discorso molto allegro ma sappi che ho già scelto il mio luogo di sepoltura su un poggetto del cimitero locale. Se rientro in Italia, devo litigare anche solo per trovare posto nella cappella di famiglia “.
Mi resi conto di aver fatto una delle mie solite gaffe e mi scusai, ma lui mi rifilò un pizzicotto affettuoso sulla guancia e mi spiegò che oramai considerava il Canada come suo paese d’origine:era andato via molto presto da casa e non aveva conservato legami di alcun genere né coltivava particolari interessi che potessero legarlo al nostro Paese.
Notai che si rabbuiava sempre quando gli si parlava del suo passato in Italia:anche in questo caso la mia convinzione era che ci fosse qualche episodio, a me oscuro, che lo avesse indotto a decidere di cambiare radicalmente vita. Essendo una persona piuttosto discreta, non ho mai affrontato l’argomento, in quei giorni.
Durante le due settimane trascorse a Mont Tremblant decisi di procurarmi dei ferri per lavorare a maglia e, con della lana procurata da una vicina di casa dello zio, gli confezionai di nascosto un paio di guanti. Ero fresca di apprendistato con mia nonna, sua sorella, ma sapevo solo lavorare il dritto, il rovescio e il rasato:realizzai dei guanti molto originali – per non dire orripilanti – che a me facevano tanto ridere perché erano la fotografia esatta della mia imbranataggine nel lavorare a maglia. Però, siccome erano fatti col cuore, sortirono un effetto insperato.
Quando glieli donai, il giorno prima del mio rientro in Italia, cominciò, con l’entusiasmo di un bambino e gli occhi semi lucidi, a girarseli tra le mani come se gli avessero affidato in custodia delle pepite d’oro. Li indossò definendoli bellissimi e mi abbracciò promettendomi che li avrebbe portati sempre con sé.
Tutto si poteva dire di zio Benjamin, fuorchè che non fosse un uomo di parola. E lo è stato, fino alla fine.
Poco dopo la sua dipartita, ho ricevuto una lettera di Frank, il suo amico più caro…quello che lo aveva accompagnato a prelevarmi in aeroporto.
In merito alle sue ultime volontà, mi ha raccontato che zio Benjamin aveva chiesto espressamente che i guanti che avevo confezionato lo seguissero nel suo ultimo viaggio insieme a un altro paio di oggetti a cui era particolarmente legato. Frank aveva personalmente provveduto in questo senso.
Ho appreso – e ciò mi conforta – che lo zio si è allontanato serenamente e senza sofferenze…nella discrezione, così come aveva sempre vissuto.
Non so se riuscirò mai a far ritorno a Mont Tremblant:di certo tante cose saranno cambiate da quel mio fatidico viaggio, ma sono sicura che il suo spirito aleggia sulle acque del lago e il caratteristico fruscio dei suoi passi – che avrei saputo riconoscere anche a occhi chiusi per tutte le volte che, precedendolo durante le escursioni nella vegetazione canadese, lo ascoltavo raggiungermi – risuona ancora tra gli alberi del bosco.
Di quella vacanza tanto spensierata e avventurosa ricordo ogni dettaglio. Colori, sapori, profumi che associo a precise sensazioni tattili e a lunghi sospiri, soprattutto quando rivivo dentro di me le emozioni di allora.
In un particolare momento della nostra tipica giornata canadese, nell’ora del crepuscolo, lo zio era solito invitarmi a raggiungerlo sul pontile perché, per effetto di una serie di magici fenomeni di dislivello termico, dalla superficie del lago si sollevavano nuvole di vapore talmente fitte da investirci completamente, condizionandoci la visuale.
Poi, improvvisamente, questa coltre impenetrabile di nebbia si dileguava e, sul lago, tutto tornava terso e limpido. Una sensazione di pace profonda precedeva di poco il calar della notte e noi,allora, accendevamo il fuoco nell’apposito alloggiamento e ci preparavamo alle nostre chiacchierate.
“Fai in modo che questo meccanismo di alleggerimento accompagni sempre i tuoi pensieri “ – mi disse una volta.
“L’annebbiamento dura poco:la nitidezza vince sempre. E il fuoco è un segnale preciso di risveglio. Questi luoghi me lo dimostrano ogni giorno!”
Era come dedicarsi a un rituale. Era il “nostro” rituale. E io no, non l’ho dimenticato.
La nitidezza dei pensieri…caro zio…quanto avevi ragione!
Quando penso all’autenticità di questa tua analogia, mi ci rispecchio pienamente, ti penso e sorrido con una smorfia un po’ guascona, un po’ malinconica:la tua.
Quella che mi salva sempre un attimo prima di fare una fesseria…però questo al castoro,ti prego, non glielo raccontare!
Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.
Molto tempo fa, alla vigilia di Natale, un vescovo di una cattedrale di una importante città era fermo a contemplare la maestosità della sua chiesa. E mentre lasciava che i suoi occhi vagassero deliziati sulle tre navate scolpite, il grande rosone centrale, e la galleria che si apriva sotto il campanile che si ergeva in una massiccia torre, si sentiva il cuore gonfio di orgoglio e ammirazione per quello che stava ammirando.
“Di certo in tutto il mondo Dio non ha una casa più bella di questa che ho costruito con così lungo lavoro e con una spesa così importante “.
E così il Vescovo cadde nel peccato di vanagloria, e, sebbene pensasse di essere, e magari lo era pure, un santo uomo, non si accorse di essere caduto in questo peccato veniale, tanto era contento alla vista dell’opera che aveva di fronte.
Nella penombra delle navate laterali, c’erano molte grandi statue con corone, scettri, e preziosi affreschi, ma una nicchia sopra il portale centrale era vuota ed era proprio quella che il Vescovo intendeva riempire con una statua che lo avrebbe raffigurato in posa marziale e autorevole.
Sarebbe dovuta essere una statua molto piccola e semplice, in verità, come si addiceva a chi apprezzava l’umiltà di cuore, ma mentre alzava lo sguardo verso quello spazio , gli faceva piacere pensare che centinaia di anni dopo la sua morte la gente si sarebbe fermata davanti alla sua effigie e avrebbe lodato e venerato lui e il suo lavoro.
E anche questa, di nuovo, era vanagloria.
Quella notte, mentre il vescovo dormiva, un grande angelo con le ali spiegate, gli apparve accanto e gli ordinò di alzarsi.
“Vieni“- disse- “e ti mostrerò alcuni di coloro che hanno lavorato con te nell’edificazione della grande chiesa e il cui servizio agli occhi di Dio è stato più degno del tuo“.
E così l’Angelo lo condusse oltre la Cattedrale e giù per la ripida strada della città antica, e sebbene fosse già mattino, la gente che andava e veniva non sembrava vederli.
Superato il cancello della cattedrale, si incamminarono lungo la strada che conduceva fino a dei verdi campi pianeggianti e lì, in mezzo alla strada, tra sponde erbose coperte di bianco di fiori di ciliegio, due grandi buoi bianchi, aggiogati a un enorme blocco di pietra, stavano riposando, prima di riprendere la faticosa salita verso il paese.
“Aspetta!” disse l’angelo; e il vescovo vide tre uccellini dalle ali azzurre che si appollaiarono sulla robusta trave del giogo fissata alle corna dei buoi e cinguettarono una melodia così celestiale che le grandi creature irsute cessarono di soffiare attraverso le loro narici, e cominciarono ad emettere invece lunghi respiri tranquilli.
“Continua a guardare” continuo l’angelo.
E da una modesta e semplice casa uscì una donna con un fascio di fieno in braccio, e diede prima a uno dei buoi e poi all’altro un po’ di ciuffi di quel fieno e dell’acqua. Poi accarezzò i loro musi neri e appoggiò il suo viso sulle loro guance bianche. Quindi il vescovo vide un uomo alzarsi dal suo riposo sulla riva del torrente che scorreva li a fianco e, lanciato un comando ai due buoi, questi spinsero contro la trave, le grosse funi si tesero, e l’enorme blocco di pietra che stavano trasportando fu di nuovo messo in moto.
Quando il vescovo capì che erano questi uomini e queste donne , lavoratori umili, il cui servizio era agli occhi di Dio più degno del suo, fu confuso e addolorato per il peccato in cui era caduto e le lacrime del suo stesso pianto lo svegliarono dal suo sonno.
Allora si alzò dal letto e mandò a chiamare il maestro degli scultori e gli ordinò di riempire la piccola nicchia sopra il portale di mezzo, non con la propria effigie, ma con un’immagine della contadina e dell’operaio; e gli ordinò di fare poi due figure colossali di buoi bianchi.
Con grande meraviglia dei fedeli questi furono eretti in alto nella torre in modo che gli uomini potessero vederli contro il cielo azzurro.
“E quanto a me“, continuò il Vescovo, “lascia che quando morirò il mio corpo sia sepolto, con la faccia in giù, fuori della grande chiesa, di fronte all’ingresso centrale, affinché i fedeli possano calpestare la mia vanagloria e che io possa servire loro come passaggio verso la casa di Dio”.
Fu così dunque che la fanciulla e l’uomo furono scolpiti, in modo tale da guardare una verso est, con il suo sguardo rivolto al primo bagliore dorato dell’aurora del mattino, mentre l’altro con lo sguardo verso ovest, attraverso il vasto paese che si allargava intorno alla città vecchia, in modo tale che potesse scorgere il primo rossore del tramonto.
Gli uomini stanchi e le donne logore dal lavoro quotidiano, ora potevano osservare le due sculture e provare una sensazione di gioia, una gloria e una pace profonda che ristorava in parte la loro vita di fatica con questo simbolico ma concreto riconoscimento.
E poi – si dicevano tra loro – che era bene che questi operai, gente che lavorava con fatica e sudore, e che avevano aiutato a costruire la Casa del Signore , trovassero nella chiesa un posto dove poter essere ricordati con onore.
E poi, al pensiero di ciò, gli uomini divennero anche più pietosi del loro bestiame, e delle bestie in servitù, e di tutti gli animali che soffrono in silenzio.
E anche quello fu un buon frutto che scaturì dal pentimento del Vescovo.
La vigilia di Natale i suonatori, secondo l’antica usanza, salivano sul campanile per annunciare la nascita del Bambino Divino. Al momento della mezzanotte il maestro suonatore diede il via, e le grandi campane cominciavano a suonare in gioiosa sequenza.
Alla fine della sua vita terrena, il Vescovo fu sepolto come aveva richiesto, col volto umilmente rivolto verso terra e la lastra sopra la sua tomba funge ancora oggi da passaggio per coloro i quali si avviano all’interno della Cattedrale.
E Le statue della fanciulla e dell’operaio, e dei buoi, consumati dal tempo lo osservano ancora oggi dall’alto della nicchia , sulla facciata della Chiesa.
Questo racconto di Natale è dedicato a Marco Pozzetti, Roberto Peretto e Filippo Falotico, i tre operai morti a Torino nel crollo della gru sulla quale stavano lavorando.
E a tutti gli uomini e le donne, che sono decedute mentre svolgevano il loro lavoro.
Madame Sullivan: “Alla bambina di Bridget sono spuntati i primi denti da latte. “
Madame Brown: “Oh ! Oh! Madame Sullivan inizia a perdere colpi. Oggi la notizia del giorno è…Attenzione! Attenzione! La bambina di Bridget piange la morte di Mr Money Money e nessuno fa caso al paio di denti nuovi in bocca alla bimba.”
Ogni giorno Madame Sullivan e la sua fedele femme de chambre Madame Brown, si recano al parco davanti casa per spendere al meglio quel che resta delle ultime ore del tardo pomeriggio. Il più delle volte finiscono per parlare di Bridget e di sua figlia. Tutte le signore del quartiere si prendono una sedia per posizionarsi davanti all’uscio di casa per chiacchierare di Bridget e di altri argomenti in primo piano nel paese.
Bridget-scandalo, Bridget partorisce in un taxi, Bridget che sfama la bimba offrendo le sue avvenenti rotondità. Mr Money-Money le regala sempre la carta per la toilette e le saponette tailandesi. Gli altri, quasi sempre, le danno del denaro. Bridget vuole bene a Mr Money Money, come si vuol bene ad un cugino particolarmente attraente, mentre lui la vede come è davvero, una prostituta con una figlia a carico.
Mr Money Money è morto e Bridget continua a fare la prostituta. La figlia di Bridget, per la prima volta, ha pianto per il dolore e non perché affamata o perché stremata da quella stanchezza tipica nei bimbi sottopeso. Mr Money-Money per il quartiere, Martin Maverik per l’anagrafe.
Sulla lapide però hanno scritto:” Riposa in pace Mr Money-Money.“.
Mr Money-Money era sempre alla ricerca di facili illusioni, la famiglia, gli amici più cari, la signora Sullivan e la timorosa ma agguerrita Madame Brown, avevano preso a chiamarlo Mr MoneyMoney perché per lui i soldi valevano più della libertà per un carcerato.
Martin gridava con la sigaretta accesa in bocca come un ossesso:” Money “, “ Money “.I bambini gli facevano il verso “Money “, “ Money “ .Si portava sempre dietro una voluminosa cassa stereo collegata al suo telefono per fare ascoltare a tutti le sue canzoni preferite. Recitava a memoria passi di quei film che lui definiva importanti a quei bambini che non avevano neanche la tv. Questi ricambiavano con un sorriso scomposto che lo galvanizza ancor di più. Aveva concluso un affare di dimensioni spropositate vendendo un immobile scadente ad un giapponese affascinato dal suo inusuale modo di fare. Con il ricavato della vendita, pacca dopo pacca proprio sulle spalle forti del giapponese, si era comprato l’auto dei suoi sogni. Salito a bordo della tanto desiderate Mercedes 2000, aveva strillato al mondo con rabbia felice: “Money “, “Money “.L’urlo di battaglia infastidì due poliziotti invidiosi dell’autovettura che lo denunziarono per disturbo alla quiete pubblica. “Money ! “, “Money “.
Bridget trovava la Mercedes 2000 un tantino pericolosa ma a Mr Money Money non lo diceva mai per paura d’esser troppo invadente. Il fato ha voluto che Mr Money Money c’è morto in quella macchina e Bridget ora si pente di non aver saputo osare scavalcare i suoi gentili tentennamenti.
Prima di morire Mr Money Money ne aveva combinate a bizzeffe. La signora Sullivan e la sua confidente-amica-perpetua Madame Brown si erano sempre illuse di saper tutto degli affari sporchi di Mr Money Money.
Quante curve a gomito prima di quell’ultima inesorabile. Accelerava e frenava come uno di quei piloti d’altri tempi tutto coraggio e sfrontatezza. Quelli che l’hanno soccorso per molto tempo hanno avuto l’immagine d’un corpo straziato davanti ai loro occhi, oppure hanno visto riflesso in qualche specchio della loro casa elegante un avanzo di uomo insanguinato senza scatola cranica. Qualcuno racconta l’accaduto e sente d’esser poeta: “Quella è stata per lui l’ultima curva. L’ultima volta che ha sentito d’esser vivo “. I mattoni che hanno contribuito alla costruzione del mito Mr Money Money hanno contato sull’importanza delle emozioni. Il modus vivendi di Mr Money Money rappresentava l’eccezione di quel mondo fatto di uomini che tentennano, di uomini perennemente afflitti da leggere depressioni, un sovrappopolato nucleo umano incurabile. Mr Money Money disprezzava chi si sentiva sotto assedio per uno stato d’animo, per un malumore, per uno di quei momenti di impotenza.
Secondo la sua modestissima opinione era un perder tempo, e il tempo è importante, soprattutto se ogni dì ,si corre dietro al denaro. Nei Pub, per sdrammatizzare la morte di Mr Money Money, la gente usa le parole della signora Sullivan che meglio di chiunque altro conosce vizi e virtù di tutti quelli che non escono mai dal quartiere.
“Mr Money Money era un bravo ragazzo. Forse un esaltato? Chi fra di noi non è ossessionato da qualcosa o da qualcuno. Che questo qualcosa sia fatto di materia o di spirito non ha importanza. Il denaro? Meglio dipendere dal denaro che dai sonniferi. Nel benessere economico Mr Money-Money aveva trovato le distrazioni per vivere, distrazioni a noi tutti molto care”.
La Signora Sullivan gustò con una lentezza premeditata le deliziose frittate della Signora Brown. Aveva trovato come distrarsi dai cattivi pensieri. La signora Brown, la domestica, cercò la chiave di lettura nell’amore che provava per la sua assistita, amore fino ad allora nascosto con grande successo.
Bridget raggiunse quell’invidiabile serenità soltanto molti anni più tardi quando sua figlia la strinse a sé come nessuno aveva fatto mai.
Ho avuto la fortuna di viaggiare con mia madre hostess per non stupirmi ogni volta di come siamo tutti cittadini di un mondo diverso,disunito,ma con i stessi connotati. Conoscere lingue diverse e poter scegliere di studiare il cinema e le arti senza seguire un percorso di studi tradizionale (forse piu’utile ai fini pratici) mi ha portato verso la scrittura con naturalezza e coscienza.Vincere premi letterari non mi ha legittimato a scrivere ma mi ha fatto capire che non solo il solo a sognare.Ho collaborato con diverse riviste letterarie e di cinema per dire in piccolissima parte la mia. Ho lavorato nel hotel management e vissuto a New York per respirare un aria internazionale ma amo al contempo anche le dimensioni locali ridotte dei paesini italiani.
Il teatro piccolo piccolo di una cittadina di provincia del sud Italia, in una sera d’inverno, apparentemente uguale a tante altre.
Il freddo, quello sì, è insolitamente pungente e accompagna la processione di spettatori che,a piedi, percorrono il tragitto verso il Comunale, infagottati nei loro paltò: le sferzate di vento gelido sembrano attenuate solo dal desiderio di prender posto, quanto prima, su quell’avviluppante poltroncina di velluto rosso da cui si potrà godere la piece prevista, per l’occasione, in cartellone: “A piedi nudi nel parco”, di Neil Simon.
Tra la folla di quella sera una bambina percorre, insieme alla mamma e al babbo, il cammino che la separa dalla visione del primo spettacolo teatrale della sua vita.
Lei e le sue gotine rosse rosse, un po’ per il freddo e un po’ per l’emozione.
Ha più o meno dieci anni e sta impettita nel cappottino delle grandi occasioni e nel berrettino di lana,di cui va proprio fiera:quello lavorato a maglia dall’amorevole nonna.
Per lei tutto è così inconsueto, magico e degno della massima attenzione. Appare, a tratti, quasi frastornata e non sa bene cosa la aspetta, ma i suoi passi sono scanditi da una raffica di domande, con le quali assilla i poveri genitori durante il percorso verso il teatro.
Inizia lo spettacolo e, anche se i ricordi, ogni tanto, si appannano, in lei è viva la sensazione di religioso silenzio che abbraccia il proscenio, quasi fondendosi con esso.
Quanto rispetto può esserci in un silenzio del genere, insperato rifugio da un mondo di inutile strepitio e gridolini isterici!
Pochi riflettori animano lo scambio di battute tra gli attori ma c’è una presenza che si muove con passi vibranti, quasi a imprimere impercettibili scricchiolii alle assi del palcoscenico. E’ una danza, dai cambi di passo inaspettati, concentrati nell’attimo che precede il sollevarsi in volo di un gabbiano dalla originaria posizione di quiete, a fior d’onda.
L’attrice si sposta con leggiadria riempiendo il palco e l’aria la segue, obbediente: in platea, ad ogni movimento da lei compiuto, si diffondono folate di profumo inebriante che viaggia al suono della sua voce, particolarmente suadente e familiare.
Non è un profumo qualsiasi: è qualcosa che sale dalle narici, pervade la persona mescolandosi all’odore del velluto delle poltrone e a quello, consumato dall’uso, di pochi, elementari arredi teatrali, passati di mano in mano.
Talvolta la bambina si guarda intorno e le sembra che quella donna non sia più sul palco:potrebbe sbucare da un angolo qualsiasi del teatro e, non per questo, cessare di calamitare l’attenzione del pubblico che la segue, nella sua affascinante performance, senza mai distogliere lo sguardo da ciò che avviene in scena.
E più lo spettacolo prosegue, più tutto, nella mente della piccola spettatrice, col naso perennemente in aria, sembra acquistare un senso nella meraviglia, nel candore e nel rosso vivo della poltrona su cui siede:il suo posto privilegiato in prima fila, spalancato su un mondo che sembrava tanto distante e che, magicamente, quella sera le si avvicina, chiamandola per nome.
Il palco buio esprime perfettamente il senso dell’attesa e i riflettori aiutano a schiarire la mente rendendola feconda alla curiosità, stimolando l’intuizione e la capacità di cogliere anche i più insignificanti dettagli della rappresentazione, attraverso il rapido susseguirsi delle scene.
Ci penso spesso a quella sera e, soprattutto quando scrivo, mi capita di rivivere le emozioni di quella bambina sbigottita ma matura e riflessiva:talvolta provo tenerezza, altre volte un senso di inarrivabilità, come di qualcosa che non si riesce ad acciuffare del tutto.
No, non c’entra lo sbiadirsi dei ricordi d’infanzia e la mia non è una sensazione frustrante: è, piuttosto, una presa di coscienza nei confronti di qualcosa che, molto probabilmente, resta un punto d’arrivo e di svolta.
In fondo, penso che debba essere questa la modalità attraverso cui ci si misura con il significato della parola SEDUZIONE.
Resta un’aspirazione ed è, forse, normale che nessuno si consideri edotto e del tutto arrivato, rispetto a questo tema.
Io, dal canto mio, continuerò a stare col naso all’insù, nell’attesa di riuscire a riconoscere, nel teatro della vita, quel particolare spostamento d’aria,regolato da movenze precise e puntuali, denso di profumi e di aspettative elettrizzanti che danzano al ritmo di una voce amica.
Sono certa che non sarà difficile ritrovarlo e, quando succederà, solo allora, mi alzerò in piedi e gli dedicherò l’applauso più fragoroso e riconoscente di cui sia mai stata capace.
Nel frattempo, vivo appieno la mia vita e inganno il tempo scrivendo di emozioni propedeutiche a «quel che sarà».
Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.
Ho sempre cominciato a leggere l’odissea dal quinto libro. Quando Odisseo, che è stato per molti anni fermo sull’isola di Ogigia, al centro dell’oceano, infelice sposo della dea Calipso, può finalmente prendere il largo per tornarsene a casa sua.
Odisseo è già stato per mare, ovviamente. Ha vagato per anni, di isola in isola, ma stavolta è tutto diverso.
È la volta ‘buona’.
Lo capiamo subito.
È la sua seconda volta. Seconda vita. Seconda opportunità.
La seconda vita è quando stacchiamo alcuni fatti dal continuum del passato e li cominciamo a vedere come una partita che si è svolta. L’abbiamo persa. Era un gioco di cui non conoscevamo le regole, neanche sapevamo di giocare una partita!
Incontriamo una persona, rispondiamo a un messaggio, accettiamo un invito… siamo come gli ubriachi: non possiamo sapere che sviluppo avranno quei semplici gesti. Così Odisseo, ogni volta sbarca su un’isola – che può fare? Ha sete e fame – gli viene incontro qualcuno: è un cannibale? Una maga? Lo catturerà? Lo avvelenerà? Lo accoglierà con delicatezza?
Non può saperlo. Non possiamo. Procediamo a tentoni. Facciamo amicizia, cambiamo lavoro, lèggiamo un libro; ma non distinguiamo un giorno dal precedente, non sappiamo che cosa stiamo iniziando: abbiamo appena conosciuto il nostro migliore amico o la persona che ci distruggerà, il lavoro della vita o l’esperienza più atroce che mai consoceremo?
La prima vita è quella dell’esposizione, della nudità, del fallimento in agguato…
Ma impercettibilmente impariamo, giorno dopo giorno, isola dopo isola, e quando abbiamo un po’ di tempo cominciamo a vedere i fili invisibili che legano le cose fatte, i dettagli che ci sfuggivano, il disegno si svela e … ha senso!
A quel punto vorremmo rigiocare la partita! Stavolta sceglieremmo con cura il campo, anticiperemmo le mosse dell’avversario, risparmieremmo le forze per quegli ultimi minuti concitati, entreremmo sulle gambe dell’attaccante che segnerà a porta vuota (meglio un rosso che un goal allo scadere)
E però non è possibile.
Quante vite abbiamo?
Tante.
Quella fatta di ciò che ci è capitato, e quella che abbiamo plasmato secondo un’idea che ci siamo inventati di ciò che siamo, che vogliamo. La seconda vita inizia quando scegliamo, quando distinguiamo nel flusso degli accadimenti uni spazio per la scelta.
La decima isola per Odisseo è quella giusta, perché non ha più niente: non navi, non compagni, nemmeno vestiti. Ha solo le sue capacità: la sua intelligenza e la sua parola fluente.
Quando Odisseo parlava, ci dice Omero, tutti stavano in silenzio, meravigliati, e le sue parole erano come fiocchi di neve che scendono dal cielo e ricoprono ogni cosa.
Immagine straordinaria! E che dobbiamo rivivere con lo sguardo mediterraneo e la pelle temprata dal sole e dal sale di chi vive in mare.
Ma anche senza quelle straordinarie capacità, quando una vita si presenta come storia e distinguiamo un tema, un inizio, uno sviluppo di fatti, un senso… questa è già la seconda vita, in cui la prima appare ormai come ritaglio, la sua casualità riscattata, il suo tempo riguadagnato, la sua oscurità chiarificata.
Possiamo ormai, come Odisseo alla corte dei Feaci, dire chi siamo. Qual è la nostra casa. La nostra anima gemella. Non quelle che la sorte o il caso ci hanno assegnato, ma quelle scelte, strappate alle contingenze, desiderate con ardore in tutti i porti e in tutti i mari solcati, nell’ora “che – dice Dante – volge al disìo ai navicanti ‘ntenerisce il core”.
Il nome di questo paese è regale, antico, elegante, confonde ed apre ad un mondo immaginario quasi perfetto. Pontinia che guarda le sue coste lungo la strada di cui vale la pena parlare. La strada si chiama Pontina, ed il paese che si affaccia su questo ammasso multiforme di asfalto arroventato si chiama Pontinia.
Per via di una sua fallimentare propensione alla soddisfazione delle proprie curiose fissazioni e per stilare una tabella di marcia ai fini statistici, un’enorme ingegnere indiano sikh, per via di un destino maldestro piegato malamente su di una spalla troppo fedele al servizio del lavoro di raccolta nei campi, ha misurato la temperatura dell’asfalto anche nella stagione invernale. Bestie di ogni tipo spingono forte l’acceleratore sulla Pontina in barba a quegli spot televisivi così ben confezionati da ragazzi così moderni ed al contempo così simili ai vecchi pubblicitari prima maniera.
E quali sono le variabili, i risultati dell’ingombrante studio di settore dell’indiano? Il sikh ha rilevato temperature abnormi e bollenti anche con la pioggia battente. L’asfalto subisce gli stessi effetti di un uomo che si rovina la vita con un’ustione. Non ci si libera di un’ustione con qualche scarica di pioggia. La pelle se ne va via a strati,una via crucis lenta e dolorosa, poi ricresce con un ritmo ancor più blando.
Il nome del paese potrebbe evocare la presenza di una regina della Roma antica, così da dare al racconto un’aurea magica. Questa pratica del cambio del nome con la sola aggiunta di una vocale è pura mistificazione del reale, una operazione simpatia. Se c’è magia in questa strada è magia nera, voodoo. Questa porzione di purgatorio ha un balcone che affaccia sul mare un attimo prima del paradiso. La terra che prima era palude ha recitato il ruolo sia di territorio di fuga che di terra ospitante. La Pontina è una lingua di fuoco che sputa fuori disperati ingabbiati in dei rottami colorati alla ricerca di un angolo di estasi infestato dalla frescura di un miscuglio di brezze marine inquinate. Sul vetro degli abitacoli con la prua rivolta a sud, campeggiano impronte dal sapore preistorico, creature nel mezzo di una loro evoluzione comportamentale. Gabbiani sempre più spaventosi che non hanno più paura. Sul tetto delle autovetture immatricolate nell’altro secolo,rari catorci di lamiere infuocate, sorgono composizioni casuali, una sorta di giochi a raccolta puntini e schizzi dai mille significati senza significato. Non è arte povera o contemporanea, non è Pollock, quel disegno è solo un composit con una quantità ragionevole di merda di piccione di ritorno da mete tropicali.
Un soggetto del genere umano dal nome comune sta usando in modo agile e disinvolto la sua callosa mano destra per trastullare il suo piccolo membro rattrappito e sudato. Ha il muso rivolto verso la sagoma di un’altra autovettura di piccolo taglio con all’interno una creatura femminile rustica, libera, e con delle misure abbondanti. Ne ammira le estremità del corpo, si mangia i suoi piedi con gli occhi. L’eccitazione si fa corposa, il sangue affluisce anche sull’altro braccio che rigido e disattento sorregge il volante. Al braccio spuntano anche una bocca ed un naso. La strada è pericolosa e la testa del membro si trova nell’altro abitacolo. C’è una famiglia unita di carattere patriarcale tra il membro e la creatura del desiderio. Tutto ciò causa frustrazione che sommata al caldo da ordini sconnessi alla coppia frizione/acceleratore. Sono gli stati d’animo del membro e l’eccitazione confluita nel braccio destro a guidare l‘umore dell’autovettura. Si sollevano in cielo al chilometro 4 gli effetti pratici, le conseguenze degli stratagemmi di gruppo dei giovani abitanti del campo rom sotto al cartello pubblicitario che strizza l’occhio ai cellulari di nuova generazione. Sono allenati ed allineati in modo sofisticato per la sopravvivenza. L’odore del fumo prodotto da questi piccoli incendi di carattere doloso non inebria l’aria di un sapore d’estate. Trattasi piuttosto di un odore acre e malsano che ti entra in gola e ti fa imprecare e maledire qualcosa o qualcuno. Quando sei confinato in un campo Rom te ne freghi delle conseguenze delle azioni così come della memoria. Vivi nel presente e per il tuo stringato tornaconto. La somma delle tue esigenze primarie quotidiane da confinato non contempla la serenità di chi percorre la Pontina.
I senzatetto che non hanno nemmeno un campo rom dove defecare, più sporchi e più incazzati dei guerrieri di Sparta, sono saliti sul cavalcavia ed a caso hanno buttato giù verso di noi qualche pietra leggera. Quando vedi il parabrezza che si incrina e trema per l’impatto con un oggetto sconosciuto che viene dal cielo si presuppone che ci sarà qualcuno nel tuo abitacolo che se la farà nelle mutande.
La speranza di lasciarsi alle spalle un anno di declinazioni di latino alla lavagna spinge forte sulla schiena della Pontina la macchina di tre ragazze innocentemente ignare dell’imminente guasto meccanico del loro mezzo. La musica alta le fa sudare ed i loro dimenarsi che va a tempo sembra catturare l’attenzione di tutta la fila verso sud. Sono giovani ed a loro modo belle e chi le ferma? Il guasto meccanico arriverà all’altezza della ridente cittadina di Pomezia. I meccanici di Pomezia la domenica non lavorano in officina. Sono anche loro sulla Pontina con il naso che cerca e non trova l’odore del mare. I meccanici fuori servizio, davanti al triste spettacolo di un numero imprecisato di autovetture in panne, si fanno abbondanti risate denigratorie. Le ragazze, partite a razzo dalle pendici della bocca del quartiere Eur, con rossetto viola targato Roma, sulle ali dell’entusiasmo dello sfanculamento post sfiancamento della scuola, dopo ore con la perpendicolare del sole che picchia forte proprio sulla loro testolina ad aspettare il soccorso stradale, saranno più guardinghe verso la vita in generale.
Dopo un primo imbarazzo per lo scombussolamento facciale post coito notturno, un camionista sifilitico con una palla di grasso sottocutanea probabilmente di origine tumorale benigna perfettamente incastrata dietro la giugulare, si fa largo tra la gente per il suo caffè gratuito. Questo premio ristretto in un cubo di caffè è il frutto di una misera campagna di informazione e sensibilizzazione statale che nelle intenzioni iniziali aveva a cuore la sicurezza dei nostri viaggi. Questo dominatore attivo di dinosauri stradali con rimorchio ha bisogno di una doccia. Doveva tornare in famiglia ieri ma la sua prostituta preferita gli ha fottuto il cervello oltre che tutto il resto dei piani per la vita. I camion con rimorchio non devono essere in circolazione durante il fine settimana. Un modesto autotrasportatore del nuovo secolo pippa cocaina e beve caffè per star sveglio, solo così può sostenere le spese della famiglia e delle prostitute. La doccia nelle stazioni di servizio un disgraziato da settanta ore di lavoro settimanali se la fa con l’acqua del lavandino. Con un piede ferma la porta dell’entrata così la gente non può entrare, nel frattempo si tira giù le mutande e si innaffia culo ed uccello per poi terminare ai piani superiori con una spruzzata di sapone di bassa qualità sotto le ascelle. Le mutande una moglie quando torna a casa le guarda. I segni del sapone liquido hanno un peso specifico diverso dal liquido seminale.
La polizia alla vista di queste ragazze che bruciano le loro giornate sotto il sole 16 ore al giorno o fa finta di non vedere o vede ed ingoia con un po’ di dispiacere. Ingoiano pillole amare i padri di famiglia che sono ancora sensibili alla responsabilità genitoriale ed ai sintomi ed agli effetti della crudeltà della vita. Ragazze nude alla merce di sguardi compassionevoli e tristi di ragazze della loro stessa età, pezzi di carne di bambine cresciute e finite male che avevano una madre che le teneva in braccio con tenerezza per anni. Schiave a cielo aperto che vivono con l’unica funzione di esistere come approdo finale per le frustrazioni disumane di alcuni bipedi libidinosi ed incontrollabili.
I bambini attraversano questa landa affollata di speranza senza dubitare mai della bontà di quello che scorgono dal finestrino. Per loro quei signori a cui fanno ciao ciao con la manina sono delle simpatiche comparse nel loro universo senza colpe e colpevoli. Più avanti nell’esistenza gli sguardi si faranno sempre più attenti e scettici. A volte, proprio per via di quella magia nera che vive sulle coste della Pontina, i compagni di carreggiata si trasformano in delinquenti a bordo dei loro potenti e disgraziati veicoli. Questi avanzi di galera che vivono di espedienti sono sempre i primi a lanciarsi con prepotenza oltre i limiti della velocità consentita. Hanno fretta di dimostrare al mondo la loro imperizia alla guida, hanno un desiderio inconscio di correre verso la morte.In questa folle corsa si trascinano dietro le vite di innocenti ragazzi da poco maggiorenni. La vita davanti non è per tutti, ma per i molti che non incontrano sulla loro strada questi cannibali.
Il traffico è rumoroso e stordisce i pensieri già confusi di un gruppo di anziani stretti nell’abitacolo come un cartoccio di pesce fritto. Il mare è a pochi chilometri ma la viabilità è quella di Pechino nei giorni più caotici. Il fumo dato dall’asfalto fuso che evapora compromette la visibilità anche degli autisti più scrupolosi. Le autovetture costose sprofondano in enormi crateri. Borbottano ma proseguono perché estremamente fedeli ai lori padroni danarosi. Quando il buio stende la sua coperta sulla Pontina aumentano i rischi per i braccianti di colore in nero. Nessun autista si è mai fermato a prestare soccorso quando un uomo vestito di pelle nera gridava aiuto. Ogni conducente di un veicolo a quattro ruote ha un suo personale credo stradale ed un suo immaginifico dispensario di leggi per lui vigenti. Per il ferimento e l’investimento di un bracciante indiano sikh per i meno colti ed umani non ci sarà motivo di preoccuparsi perché per loro il reato di omicidio stradale o di omissione di soccorso non è applicabile a coloro che per via del colore della loro pelle si possono non vedere. Soccorrerli non è necessario perché di sicuro qualche loro amico di pari casta li trasporterà sulla canna della sua bici dalle ruote sgonfie verso la casa di qualche santone guaritore. Questi con la sola imposizione delle mani ed attraverso la somministrazione di qualche strano intruglio guarirà le gambe maciullate di quell’uomo.
Casali abbandonati e rifiuti organici di ogni genere fanno da panorama lungo il percorso. Se avvicini l’orecchio ed origli nell’abitacolo di qualche ricco intellettuale con villa sul mare, sentirai l’ipocrisia urlare forte. La politica di Ponzio Pilato unita ad un sorriso sarcastico è la farina che impasta il loro prodotto di falsità finale. Cognomi altisonanti li fanno sentire comodi nei loro abitacoli di lusso dai comandi automatici. Pensano solo a tapparsi il naso ed a pronunciare a beneficio degli amici retoriche frasi di circostanza ad effetto. In gran segreto pensano che loro voleranno sempre alti sopra il degrado di ogni tipo e maniera e che accanto a quel ricettacolo di malessere non ci vivranno mai. Quando la carreggiata si restringe si assiste ad un proliferare di spaventosi incidenti stradali. La Pontina buca alcune piccole città della provincia laziale lasciandogli ferite ovunque. I segnali stradali presenti appartengono al dopo guerra e tanta trascuratezza non solo confonde ma deprime nonostante la potenziale bellezza dei luoghi. Dal passato della zona vengano storie importanti, degne di essere ricordate in maniera diversa. Gli esercizi commerciali a conduzione famigliare, con tanto di nonna sulla sedia della cassa con cagnolino malato in braccio, si arrabattano ancora con la vendita di prodotti locali genuini e di frutti della terra mentre accanto a loro crescono dei mostri di cemento che presto inghiottiranno tutto, compreso la nonna.
A giudicare dalla disposizione geografica delle prostitute, in prossimità dei paesi più piccoli, gli sfruttatori applicano criteri meno severi di sfruttamento. Le schiave sono sedute all’ombra su di una specie di sgabello dai colori sgargianti. Le stazioni di servizio sono solite ospitare per qualche minuto ogni giorno semplici disgrazie famigliari. Non è raro vedere delle donne che apostrofano i propri figli con un linguaggio scurrile e violento solo perché hanno commesso qualche sciocchezza. Alcune ragazze tatuate e dal muso indurito dalla vita, hanno lo sguardo basso di chi ha preso di recente dei cazzotti in faccia. Non se le sono meritati in alcun modo. L’unica colpa è stata la scelta originale del proprio compagno di vita. I banchisti del caffè della stazione di servizio più gettonata della zona, hanno appena subito un ricatto dal proprietario dell’esercizio commerciale. Se non ci fossero le telecamere sputerebbero sopra ogni singolo alimento in esposizione ed in vendita. Lo stipendio serve per arrivare più in là nella vita ed a pagare qualcosa per i figli. Dove andranno se si ergeranno ad eroi sindacalisti? Non ci sarà nessun eroe in quel bar della stazione di servizio. Tutta l’umanità sulla pontina sembra cercare questa uscita di sicurezza verso il mare e verso la vita.
Alcuni la imboccano con leggerezza, altri perseverano al volante in uno stato di assuefazione del male a cavallo di questa lunga lingua di fuoco d’asfalto.
Ho avuto la fortuna di viaggiare con mia madre hostess per non stupirmi ogni volta di come siamo tutti cittadini di un mondo diverso,disunito,ma con i stessi connotati. Conoscere lingue diverse e poter scegliere di studiare il cinema e le arti senza seguire un percorso di studi tradizionale (forse piu’utile ai fini pratici) mi ha portato verso la scrittura con naturalezza e coscienza.Vincere premi letterari non mi ha legittimato a scrivere ma mi ha fatto capire che non solo il solo a sognare.Ho collaborato con diverse riviste letterarie e di cinema per dire in piccolissima parte la mia. Ho lavorato nel hotel management e vissuto a New York per respirare un aria internazionale ma amo al contempo anche le dimensioni locali ridotte dei paesini italiani.