L’arte di navigare con pazienza.

Illustrazione di Anna La Tati Cervetto_E’ vietata la riproduzione senza autorizzazione scritta dell’Autore

di Christian Lezzi_

Il filosofo Immanuel Kant ha definito la pazienza come “la forza dei deboli e la debolezza dei forti” e, seppur volendo in origine significare molto altro, questo concetto si presta alla perfezione, nella sua apparente contraddizione, a rappresentare l’essenza duale di una capacità umana che, come spesso accade, porta con sé punti di forza e di debolezza, pro e contro, lati positivi e negativi, accezioni costruttive e altrettante distruttive.

Perché il buono e il cattivo sono insiti innegabilmente nelle cose umane, siano esse strumenti, oggetti, pensieri o atteggiamenti. Ciò dipende dall’uso che ne facciamo e dall’applicazione che concretizziamo, con loro e per loro (eccezion fatta per le armi da fuoco, nelle quali è impossibile vedere un lato positivo, ma questa è un’altra storia).

La pazienza non è figlia dei tempi che viviamo e, forse, figlia del tempo corrente, non lo è mai stata e, in un mondo che corre all’impazzata, alla costante rincorsa di un futuro come se “non ci fosse un domani”, è forse più orfana di Oliver Twist.

Nelle sue diverse nature, la pazienza può diventare deleteria quando, travisando il significato profondo del termine – a livello concettuale, ancor prima che etimologico – le attribuiamo un potere magico, taumaturgico, incline a quella speranza, di matrice religiosa, di manzoniana memoria. Certo, la speranza è l’ultima a morire, come si suol dire, ma anch’essa muore, se ci affidiamo solo al fato, alla casualità, alla fortuna, senza metterci del nostro, adagiandoci passivamente nell’infruttuosa attesa che tutto vede scorrere e nulla afferra, dilapidando la pazienza (asset di valore della nostra mente) come fosse un vuoto a perdere da conferire nella differenziata.

Ma la pazienza (da cui discende la calma e che, a volte, dalla calma discende) è una capacità appresa che nulla ha a che fare con la passiva attesa, con la vana speranza che qualcosa di buono accada e che lo faccia in autonomia, a prescindere da noi, nonostante noi.

Perché, avere la pazienza di attendere che determinate cose accadano, non ci solleva dall’obbligo di porre le basi, di creare le condizioni a margine, minime e necessarie, perché quelle cose accadano.

E può essere deleteria anche nel suo esacerbato contrario, quando vogliamo tutto e subito, senza apprezzare il tempo necessario, il percorso obbligatorio, quel divenire imprescindibile di ogni cosa che accade o che si crea, bruciando le tappe e, troppo spesso, anche l’esito a fatica perseguito. Perché le scorciatoie, non sempre portano a destinazione. Soprattutto se percorse frettolosamente.

È una capacità appresa e non innata, dicevamo, dovuta al contesto in cui ci formiamo (da cui anche il carattere discende) e alla divenuta capacità di pensar profondo. Ma non solo. Essa è anche correlata alla capacità adattiva, al modellamento del contesto, non solo quello ambientale in cui viviamo, ma anche quello intimo e introspettivo della nostra mente e del nostro pensiero.

Nessuno di noi nasce paziente. Il neonato è un campione d’impazienza quando, ancora incapace di applicare un filtro cognitivo alle sue ataviche pulsioni, piange disperatamente per ottenere subito ciò che vuole. Con il passare del tempo e con la crescita, la pazienza s’impara, connotandola con l’attesa proattiva necessaria a raggiungere un obiettivo. E si allena, mantenendo la mente presente a se stessa e al momento che sta vivendo, al qui e ora funzionale alle priorità e alle necessità.

Diversamente ricadremmo nel paradosso di Netflix (non dello strumento, bensì dell’abuso) che porta i suoi utenti a fagocitare, come oche dai piedi palmati, intere serie tv in pochissimo tempo, incapaci di aspettare l’evoluzione naturale e la sequenza logica degli avvenimenti, nonché l’altrettanto logico tempo di metabolizzazione delle informazioni, se non altro per godersi la suspance. E quello di Netflix è solo un esempio, essendo youtube e tutte le altre piattaforme on-demand non immuni dallo stesso cattivo utilizzo, nella paura di restare soli con se stessi e con i propri pensieri, terrorizzati dal dover pensare, atterriti dalla vuota eco della nostra “testa”, come avrebbe sentenziato Schopenhauer, che avrebbe aggiunto “solo una mente vuota può annoiarsi”.

Ma anche questo abuso è figlio dell’epoca che viviamo, che ruggisce scandendo il tempo trasformato in denaro, mercificando la vita umana, trasformandola in un valore monetario e vivendo un tanto all’ora. Ma questa vita a termine, complici anche gli strumenti digitali e di comunicazione sempre più immediati, induce la frenesia, l’incapacità di attendere il momento e le condizioni giuste, sufficienti, opportune, travolti da ritmi sempre più frenetici e dallo stress negativo (distress) che distrugge la nostra stessa salute. Al punto da ostentare la mancanza di tempo, come il simbolo distintivo di una vita di successo, il nuovo status symbol da esibire orgogliosi, anche sui social, dimenticando che il tempo è una convenzione uguale per tutti e che la sua mancanza è solo una carenza organizzativa che non impressiona chicchessia.

E induce la superficialità, la frenesia indotta dalla carente pazienza, a discapito di un pensiero profondo, ragionato, pensato, che vada oltre l’apparenza, dritto al cuore delle questioni.

A essere pazienti s’impara, strada facendo, nel corso della vita, ma occorre anche ricordare che la pazienza è un concetto soggettivo e adattivo, legato a doppio filo con la nostra intima realtà e con il contesto in cui viviamo e pensiamo. 

La pazienza è resiliente, giusto per usare un termine talmente abusato da essermi diventato indigesto.

L’adattività della pazienza è data dal livello raggiunto, in campo culturale, sociale, professionale ed economico di un soggetto, nonché dal suo equilibrio mentale e dal suo intimo grado di appagamento. Non a caso, la scarsa pazienza è l’ancor più carente calma, sono sintomi evidenti di una cattiva autostima, tipici di soggetti poco equilibrati, scontenti, non appagati, frustrati, che cercano di mascherare queste carenze, (compresa la paura) con una parvenza di iperattività.

E questa connotazione adattiva della pazienza, c’insegna anche a lasciar correre ciò che non possiamo controllare, su cui non possiamo influire, liberandoci dalle zavorre che esulano dal nostro controllo, evitando la frenesia e lo spreco di risorse mentali all’inseguimento di ciò che non ci compete o non ci appartiene, o ancora che accadrà, con noi o senza di noi.

È una questione di consapevolezza di noi stessi, del nostro ruolo e del nostro livello psicologico.

Del resto, solo chi è in posizione dominante con se stesso, come una fiera in cima alla catena alimentare, può muoversi, operare e cacciare, senza frenesia e senza paura.

Lo stesso concetto vale anche per chi è padrone del proprio pensiero, complice una solida cultura e una mente attiva, consapevole del mondo circostante della scala dei valori personali che scandisce l’ordine delle priorità.

In estrema sintesi, la capacità di essere pazienti, mantenendo la calma nelle più disparate situazioni, è un innegabile sintomo di maturità psicologica. Inoltre, esercitare la pazienza, è un valido allenamento per l’autocontrollo, la consapevolezza e l’accettazione di sé, da insegnare ai bambini aiutandoli a crescere.

Occorre attendere, per raccogliere i frutti migliori, tranne che per amare e per amarsi, unico caso in cui attendere è solo una perdita di tempo. 

Ogni cosa ha i suoi legittimi ritmi e accelerare non sempre è utile o possibile, rappresentando, questo aumento di passo e velocità, una corsa verso l’autodistruzione, dovuta alla frenesia del risultato e alla conseguente frustrazione. Una corsa del topo che, nell’illusione di afferrare il domani, lascia sfuggire l’oggi, come l’acqua che scivola tra le dita, impossibile da trattenere. Una frenesia rischiosa, foriera d’insuccesso, problemi di salute e conflitti, con noi stessi e con gli altri, portandoci a saltare alle conclusioni (spesso sbagliate) e a perdere quelle occasioni che, con altrettanta frenesia, inseguiamo e cerchiamo invano di afferrare, invece di concentrarci sui passi da compiere e sul viaggio da percorrere, dal quale imparare, traendo soddisfazione dall’esperienza in sé che, come tale, ha sempre tanto da insegnarci

La fretta e l’ansia, sono schiave dei desideri, mentre la pazienza e la calma, sono la positiva risultante di una sana scala dei valori.

Eppure, concetti così immediati e di semplice fruizione, tendono a non essere applicati, o anche solo presi in considerazione, soprattutto nel mondo del business e del lavoro.

In questo specifico ambito, uno degli insegnamenti più rischiosi e vuoti è, infatti, quello secondo cui un’impresa si inizia immediatamente, quali che siano le condizioni a margine, le competenze e le risorse a disposizione, senza attendere il momento perfetto che, non essendo possibile, mai giungerà.

Per quanto in parte verace, è comunque una verità stiracchiata, strattonata, forzata. Il momento ideale per iniziare una nuova attività non esiste e di certo non è “adesso, a ogni costo”, come spesso ci viene trasmesso in un misto di fretta e apprensione. Non ce lo impone il medico di avviare una start-up oggi e, “a ogni costo”, spesso comporta un prezzo troppo alto da sostenere. Un prezzo che non possiamo permetterci. 

E la fretta, non solo negli affari, è una cattiva consigliera che gioca alla roulette russa con la nostra testa, o alla slot machine con i nostri soldi. Mentre la pazienza analizza e crea le condizioni a margine, la fretta, bruciando i tempi, improvvisa un salto nel buio dall’esito tremendamente incerto.

Il momento adatto sarà sempre e solo quello che, calcoli e verifiche alla mano, presenti le condizioni minime e sufficienti (competenze e risorse) a rendere possibile l’avvio dell’attività, prevedendo e controllando la maggior parte dei rischi possibili e minimizzando le possibilità di naufragio dell’attività.

Minime e sufficienti, come l’acqua in un bacino di carenaggio, necessaria al galleggiamento di un’imbarcazione. Se il bacino è in secca, occorrerà aspettare con pazienza che il livello dell’acqua salga fino a raggiungere quello minimo e sufficiente per la navigazione, evitando di varare una barca in una pozzanghera di fango e sperare poi di farci il giro del mondo. 

Maturare è un’arte e imparare la pazienza, è parte integrante e imprescindibile di quell’arte.

Per tutto il resto c’è la fretta, la deleteria e improduttiva frenesia che ci spinge a correre verso l’obiettivo, verso quel traguardo che della nostra vita si nutre, ingollandola al massimo della velocità!


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.

Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




Shopping compulsivo [ falso mito o vero movente?]

Illustrazioni [spettacolari] di Anna La Tati Cervetto_ “STEAM PUNK ILLUSTRATION” _assolutamente vietata la riproduzione senza l’autorizzazione dell’Autore.

di Christian Lezzi_

Shopping compulsivo: è così che normalmente definiamo l’atto di acquistare qualcosa quando, vittime di uno stato ipnotico o di alterata coscienza, soccombiamo all’impulso potente e profondo che ci porta ad acquisire qualsiasi cosa la “pancia” ci suggerisca, bypassando ogni barlume di ragione, di logica e di senso pratico, pur di soddisfare una irrazionale bramosia di possesso.

Parliamo quindi di acquisti non motivati da un reale bisogno o necessità (quindi non meramente beni di prima necessità), che spesso travalicano i limiti del vero utilizzo, al punto da farci scegliere oggetti e strumenti totalmente inutili o sovradimensionati al nostro concreto utilizzo.

Non che sia sbagliato soddisfare un desiderio, un lusso, un capriccio, acquistando un oggetto che non risponde a bisogni concreti, ma che asseconda un desiderio, un’ambizione intima, una vera e propria frivolezza dell’Ego. Fa parte dell’atavico meccanismo comportamentale dell’auto-appagamento, quel bisogno di compiacimento e soddisfazione, appagato nell’unico modo che (a volte) conosciamo: l’acquisto di nuovi “giocattoli” e status symbol di cui andare fieri, da sbandierare e, grazie ai quali, sentirci più attraenti (per non trascurare nemmeno l’atavica pulsione riproduttiva, potente motivatore di molte nostre scelte).

Per affondare l’analisi, occorre considerare che, ammettere l’origine più emotiva che razionale delle nostre scelte, ci spaventa e ci costringe a razionalizzare ogni cosa, ogni gesto, ogni parola, pur di allontanare il rischio d’incorrere nelle dissonanze post-acquisto, o di fare una brutta figura, anche con noi stessi. 

Ed è proprio questo bisogno di razionalità, a rendere il concetto di shopping compulsivo, più un falso mito che un vero movente.

Naturalmente, com’è ovvio immaginare, il nodo è un altro e risiede nella reale e ben nascosta motivazione d’acquisto. Chiamare in causa una compulsione emotiva, tranne nei casi interessati da una patologia (stimati dai Neuroscienziati tra i 4 e il 7% del campione analizzato), è una visione superficiale della questione, una scelta di comodo che, spesso, diventa una scusante poco credibile ai nostri comportamenti.

Se fosse sufficiente la natura patologica del comportamento, a coprire le casistiche e a spiegare, in ogni sua accezione il fenomeno, questi ragionamenti non avrebbero ragion d’essere. Ma, evidenze alla mano, così non è. Appare lampante la nostra estraneità al mondo dei pesci o degli uccelli e qui non si tratta di frenesia alimentare, come l’avrebbe definita un naturalista. No, la questione è, di fatto, più di natura vanesia e introspettiva, che patologica.

Partiamo da un punto fermo: alla base d’ogni conoscenza, risiede la comunicazione.

Siamo sempre pronti a indagare l’intimo più nascosto e profondo del nostro interlocutore, per scoprirne i tratti cognitivi, nonché le caratteristiche, positive o negative secondo il nostro personale metro di giudizio. Raramente, però, questa comunicazione prende vita con noi stessi e, davvero di rado, ci capita di interrogarci, allo scopo di scoprire il perché di una scelta, cosa si nasconde dietro quella bramosia che porta, come un riflesso automatico, la mano alla carta di credito, pur di riempire un vuoto di cui ignoriamo l’origine.

Insomma, per metterla in termini filosofici, difficilmente diamo vita a quel dialogo interiore necessario a scoprire chi siamo, dove andiamo e cosa vogliamo davvero e, per dirla con Freud, è assai raro che c’interroghiamo per portare a galla la vera origine della sostituzione d’oggetto, atta a colmare quel vuoto interiore o a superare una lacuna d’abbandono.

La nostra coscienza non può essere spenta e, quello della verifica, è un metaprogramma che, supportato dal bias di conferma, gira in perpetuo in background. La capacità di razionalizzare ciò che ci circonda e che ci tocca da vicino, o da lontano, è operativa h24, sempre pronta a mediare gli impulsi, a valutare le nostre scelte istintive, soppesandole nel sostrato della coscienza, trovando per loro una spiegazione logica, una motivazione credibile che le legittimi ai nostri stessi occhi e a quelli del mondo circostante. È assai raro, infatti, acquistare un oggetto costoso solo sulla scia dell’emozione, del momento e di un impulso non ragionato, senza cercarne un contraltare razionale. 

E ci accontentiamo di considerare concreta qualsiasi vaga e vuota motivazione, pur di sentirci giustificati.

Qualsiasi… e tanto basta, per tornare a casa con uno smartphone che per molti vale uno stipendio e che sarà utilizzato, a dir tanto, al 30% delle sue possibilità e funzionalità. Eppure, prima di dar retta alla “pancia”, ci siamo informati, abbiamo confrontato marche e modelli, funzioni e caratteristiche tecniche, (magari senza comprendere appieno quella gergalità tecnica), pur di avere un alibi, una giustificazione razionale che, motivando un acquisto spesso inutile o sovradimensionato, restituisca la dignità dell’arbitrio alle nostre scelte, al punto di immaginare, suggestionandoci, un bisogno che non avevamo.

Ma se non si tratta di compulsione fine a se stessa, come la funzione mediatrice della nostra coscienza sembra suggerire, allora dobbiamo prendere in esame nuovi e diversi punti di vista, affinando la capacità di pensare fuori dagli schemi.

Una domanda, per conoscere ciò che anima davvero le nostre bramosie, tanto semplice quanto ostica, potrebbe essere: per chi acquisto l’oggetto?

Comprare qualcosa, ad esempio un nuovo smartphone, a nostro diretto beneficio, comporta una risposta tanto immediata quanto ingannevole. È infatti un inganno della mente, pensare che lo acquistiamo per noi stessi perché, se l’acquisto non è motivato da una ragione più che concreta, quel particolare oggetto, di fatto, lo compriamo per gli altri, non per noi stessi. 

Attenzione: non nel senso altruistico del termine, ma in quello di ostentazione ed esibizione, per possedere e sbandierare l’oggetto del desiderio, l’ultimo raglio della moda, quel simbolo distintivo (che non distingue!) che ci faccia sentire illusoriamente inseriti, di tendenza (cool direbbero i più aggiornati), dimenticando che essere alla moda, troppo spesso, tradisce omologazione e appartenenza alla massa dominante, all’esatto contrario dell’esibizione della propria inimitabile personalità.

Come i colori di guerra, utili a riconoscere l’appartenenza alla stessa tribù.

Oggi come oggi, possedere l’ultimo modello di “melafonino” è come ricoprirsi di tatuaggi o fumare la cannabis che, nel puerile tentativo di sentirci unici, alternativi, diversi, forse rivoluzionari, addirittura migliori, di fatto ci fagocita e c’ingloba nella massa omologata, nell’amalgama stereotipata, informe e senza volto, che tutto schiaccia e dalla quale nulla più emerge. 

Tutti uguali, clonati, fotocopiati, tutti con la stessa ingannevole velleità di sentirci diversi, imitandoci a vicenda.

È il senso d’appartenenza, il biologico ed evolutivo (seppur poco evoluto) bisogno di essere accettati, a muovere la mano armata (di banconota), ancor prima di una patologia che, nei fatti, è solo una scappatoia alle proprie responsabilità.

Nel film “Un boss in salotto”, il bravissimo attore Rocco Papaleo, incalzato dalla sorella, risponde alla domanda “perché proprio la camorra?” con un amarissimo e introspettivo “perché volevo appartenere a qualcosa”, dando forma, tra le amare risate, al mal cogitato senso d’appartenenza e di accettazione, che tanto plasma e plagia i nostri pensieri.

Perché appartenere alla massa dominante, identificandosi in qualcosa o in qualcuno, rassicura e fa sentire protetti. Al contrario, essere davvero originali, esibire le proprie diverse preferenze, rappresentare ciò che si è (al di là di ciò che si ha), spaventa le menti deboli, quelle meno preparate e più inclini all’idea malsana di un mondo in bianco e nero.

In seconda analisi, a spingerci verso un acquisto non necessario, può anche essere l’aspettativa che leghiamo a quell’acquisto, ovvero legata a ciò che ci aspettiamo dall’oggetto, alla sensazione che immaginiamo e che leghiamo in senso predittivo al suo utilizzo e all’appagamento che ne conseguirà. 

Insomma, ai preconcetti e ai pregiudizi (siano essi positivi o negativi) che leghiamo all’acquisto di quel particolare oggetto.

Ma le aspettative partorite dalla nostra mente, sono una lama a doppio taglio e, spesso, generano una delusione, una dissonanza tra atteso e percepito, al punto da abbandonare l’oggetto acquistato, quando queste collidono con la realtà dei fatti, con ciò che oggettivamente riscontriamo, a differenza di quanto immaginavamo e ci aspettavamo, sulla base di giudizi e pareri (magari non nostri) o di inutili quanto vuote supposizioni. 

Contro il muro granitico della realtà, ogni supposizione s’infrange. E con essa le scusanti auto-assolutorie,  rendendo il concetto di shopping compulsivo sempre meno concreto, relegato alle analisi superficiali e dozzinali, sempre fatti salvi i casi patologici precedentemente accennati.

Certo, un capriccio resta un capriccio, proprio come un lusso resta un lusso, a volte assecondato solo per il nostro intimo piacere, che più spesso veicola ragioni profonde, diverse da quelle che, da soli, ci raccontiamo. Dietro quel capriccio, oltre quel lusso, ci sono delle ragioni che travalicano la ragione psicologica del Disturbo Ossessivo Compulsivo, che in questo contesto sarebbe una forzatura. Ragioni che, a condizione di volerle ascoltare e analizzare, ci direbbero molto su noi stessi, permettendo di conoscerci con oggettività ragionata, valutate le emozioni che ci animano e che muovono le nostre preferenze di prima istanza, lungi da attenuanti insulse, da puerili scusanti e da motivazioni che poi davvero tali non sono.

Definire shopping compulsivo le nostre errate elaborazioni della necessità e del senso della misura, nonché delle priorità e dei valori, pur di celare ciò che, al netto d’ogni inganno, è un bisogno di apparire, di essere accettati e riconosciuti, riconoscendoci una riprova d’esistenza, ci fornisce un’attenuante che deresponsabilizza, una scusa prèt à porter che rende tutto più facile e che fornisce una scorciatoia comoda, atta ad alleggerire le coscienze e a contrastare il senso di colpa.

Al contrario, scavare dentro se stessi è un duro lavoro, spesso lento, costante, impegnativo, per nulla scevro da delusioni anche dolorose e dalla necessità di mettere mano a ciò che, a livello cognitivo, può e deve essere rivisto al miglioramento.

La conoscenza costa fatica. Conoscere noi stessi, costa ancor di più e rappresenta una vera pietra miliare nell’evoluzione umana. Ma, tutto sommato, in un mondo che corre e impone, spingendoci alla mediocrità, vogliamo davvero conoscerci così a fondo?


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.

Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




L’equilibrio dell’amore.

Foto di Mario Barbieri_”Il bacio non dato”_ E’ vietata la riproduzione senza l’autorizzazione scritta dell’autore.

di Valeria Frascatore_

No, stavolta e per una volta, non tirerò in ballo la pandemia parlando di disvalori affettivi.

Sulla linea della temperatura di un immaginario termometro delle emozioni, l’AMORE cammina sempre in bilico, come un giocoliere che oscilla tra il ”Non so se ce la faccio a farcela” e un “Ho capito che oggi non è giornata!”.

E la presa d’atto della definitiva perdita di equilibrio da parte del saltimbanco, viene puntualmente slatentizzata attraverso la consueta elencazione di catastrofi di proporzioni bibliche:la calata delle invasioni barbariche, lo scoppio di epidemie e il trionfo della logica dei piccoli, grandi compromessi di Stato.

L’annuncio parla chiaro: “Venghino signori, venghino…qui giace l’AMORE, precipitato, per cause fortuite e calamità non ben precisate, dalla fune sospesa lassù in alto:anche stavolta ha vinto il DISAMORE, con buona pace degli idealisti dell’ultim’ora!”

Scuse, un mare di scuse, addotte per non buttarsi nella mischia e sperimentare a carte scoperte le relazioni, lasciandosi travolgere da quel briciolo di turbamento emotivo di cui tanto si avverte la mancanza.

E se,invece, turbati e scossi, in ordine sparso, facessimo la rivoluzione attraverso uno Sturm und Drang del cuore, in grado di lasciarci dentro una traccia profonda di tutto ciò che testiamo nel corso dell’esperienza terrena? Forse riusciremmo sul serio a sperimentare l’eccezionalità di un sentimento…certo…ma dovremmo, al contempo, essere in grado di comprendere la portata dei risvolti mortificanti insiti  in un’accusa di DISAMORE.

Già il suono di questa parola tocca profondamente l’intimo sentire, è una specie di paravento che affligge il relazionarsi dei tempi moderni, un palcoscenico montato ad arte per guadagnare una via di fuga dai propri fantasmi ed inscenare una recita a soggetto perché, diciamocela tutta,  l’atto di far finta di desiderare ciò da cui, in realtà, rifuggiamo quasi con orrore, è seducente come pochi altri. Per noi e per chi ci ascolta, il più delle volte, inebetito dalle delusioni rimediate nella vita e pendente dalle labbra di chi spaccia l’Amore per Disamore, l’Interesse per Disinteresse, l’Empatia per Apatia.

Così, seduti ai margini dello strapiombo da cui contempliamo le nostre vite, con le gambe a penzoloni nel vuoto a rendere delle relazioni interpersonali, tendiamo le mani tremanti verso chiunque ci appaia in grado di sottrarci alle insidie di un abisso, spesso denso di limitatezza sul piano spirituale e morale.

E’ un meccanismo,il nostro, oliato da quella insostenibile leggerezza che regola il desiderio di essere accolti e che trova precisa rispondenza nell’insostenibile, leggera indifferenza, di chi, il più delle volte, è capace soltanto di regalare DISAMORE.

Ma il comune senso del pudore, sempre che esista, alberga proprio in quella manifestazione di sommo ritegno e rispetto per l’altro attraverso la quale si opera nel suo interesse e non contro a prescindere. La vera vittoria resta la precisa scelta di non ritrarre una mano tesa sulla vita di un altro individuo.

Chi ha esperienza diretta con l’insostenibile leggerezza di una forma di DISAMORE subìto, di solito si libera e arriva sempre lì, dove si può osare solo AMORE.

Non si tratta di un luogo fisico:è un anfratto dell’anima in cui le persone si riconoscono nell’alternanza di luci e ombre del proprio Essere.

L’Amore osa ove non sono necessari preamboli, non c’è spazio per il calcolo e nessun preconcetto è ammesso.

Tutto è straordinariamente nitido, i lineamenti si distendono in un sorriso accogliente e cadono le barriere.

L’Amore osa quando l’intuizione istintiva si fa certezza incrollabile e quando una cosa lungamente attesa si realizza,magari contrariamente ad ogni aspettativa.

Ce lo domandiamo spesso se, per raggiungere questa condizione di estatica contemplazione di un’altra esistenza, esistano delle coordinate precise da seguire:una mappa, una scorciatoia, una dritta furba.

E invece no: tocca arrangiarsi. Che poi, in sostanza, significa mantenere una linea di genuinità.

Resta il fatto che l’occasione in cui si riesce a osare amore è un posto bellissimo, la cui particolarità incanta gli occhi e il cuore e invita a trastullarsi per sempre nella deliziosa incapacità di distinguere il sogno dalla realtà.

Ed è proprio con questo spirito intriso di ingenua incredulità, di movenze incerte, di sequenze interrotte da sguardi lucidi come di pianto ma di coscienza estremamente consapevole e padrona di sé che dovremmo osare tutto l’Amore di cui siamo capaci e dargli peso.

E’ l’unica strada che rende sostenibile la leggerezza del DISAMORE ricevuto.


Valeria Frascatore_

Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.




Guerrieri bramosi di vita e luce.

Giulia Gellini_Femminilità incisa_

di Valeria Frascatore_

Come fare a recuperare la dimensione ideale del proprio ESSERE che annulla se stessa e si perde nei lugubri sotterranei della mediocrità?

Avanziamo nelle tenebre, con passo lento ma deciso, perché vogliamo aprirci un varco che ci permetta di conquistare finalmente la LUCE. Non più, dunque, guerrieri erranti sottèrra in lotta con fantasmi di un passato troppo ricurvo su se stesso, ci apprestiamo ad affrontare la madre delle battaglie: il nostro avversario è la morte, la morte dell’anima.

Le sole armi di cui disponiamo sono gli ideali che la massa, impietosa e vigliacca, reputa degni del più profondo aborrimento.

Ci condannano, ci scherniscono perché vagabondiamo alla ricerca di sensazioni forti, di brividi e sussulti: non sanno che , solo appagando il desiderio di sfuggire alle pastoie di un’esistenza scontata, avremo requie.

Siamo un piccolo esercito di uomini e donne nuovi, marciamo alla conquista di un mondo privo di confini visibili, coltiviamo un’idea che è già una realtà, siamo terreno fertile su cui essa attecchisce e si sviluppa.

Ognuno di noi, in potenza, custodisce una tessera del mosaico di quel mondo così tanto agognato ma si ostina,caparbiamente, a volerla cercare nel proprio simile al punto che, quando la scova, si illude di aver trovato l’incastro perfetto.

Ma completarsi è scoprire di possedere in sé per poi stanarlo altrove, quello speciale corredo di principi, valori e verità che vincono il transeunte e ci elevano al grado di persone, strappandoci a quello di ombre di umanità.

Ora che finalmente percorriamo le giuste vie, il SOLE ci inonda del suo calore e scioglie il ghiaccio dei nostri cuori inariditi dal contatto con le gelide profondità della TERRA: è come rinascere, è il segnale che attendevamo per tornare ad attingere alla sacra sorgente della SAPIENZA.

Per raggiungerla, scaleremo rocce acuminate, cadremo ferendoci mille volte e mille volte ci rialzeremo e, alla fine, laceri e sfiniti, potremo dissetarci senza sosta e medicarci le ferite.

Lungo il tragitto avremo modo di rivivere in un solo attimo tutta la nostra esistenza e forse ci sembrerà di non aver vissuto affatto: avremo la sensazione di esserci lasciati vivere.

Se mai questo momento dovesse arrivare, nessuno si farà trovare impreparato e supereremo le asperità mettendo in condivisione le tessere del nostro mosaico di speranze: i dubbi del singolo saranno i dubbi del gruppo, così come le certezze.

Ci hanno insegnato a vivere – o forse a sopravvivere – contando esclusivamente sulle nostre forze e trovando in noi stessi le risposte a tutte le domande: condizione né piacevole né equa.

A volte il sole ci sembra davvero non sorgere mai. Ma quando il senso del viaggio è chiaro, il sentiero da percorrere apparirà sempre battuto.

I guerrieri di questo tempo balordo ottengono dalla vita una sola e inestimabile ricompensa: quella di non ritrovarsi soli sul campo di battaglia e di scoprire che, nei loro sussulti di vita e di luce nuova, si riflettono altre vite, si incrociano altri destini. Ci si dona gli uni agli altri, con spontaneità e gentilezza, senza mai smettere di cercarsi e senza voler ricevere nulla in cambio.

Insieme si cade, insieme ci si rialza. Siamo note di vita, passi di danza sincrona, cenni di consumata teatralità, fascino dell’essere. Siamo una realtà palpitante e viva, non un sogno distopico affidato agli scettici. ANIME scintillanti nel presente che non hanno bisogno di interrogare uno specchio per sapere chi sono, libere dai fantasmi «del tempo che fu» e che combattono con tenacia affinché, su chi è bramoso di vita e di luce,non cali mai il sipario. Non ambiscono a nulla, se non a questo i veri guerrieri.

Loro sono altrove, sono qui e ora. Sono FUORI.


Valeria Frascatore_

Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.




Libera nos a malo. [ Il Bias di colpa e merito!]

foto di Silvia Berton_ MA(D)RE_ Vietata la riproduzione senza autorizzazione scritta dell’autore.

di Christian Lezzi_

Universalmente conosciuti come BIAS, i tratti cognitivi rappresentano vere e proprie scorciatoie di pensiero, deviazioni dal percorso logico originario (quindi basate sul ragionamento) dovute all’esigenza della nostra psiche di operare un efficace risparmio cognitivo, come contrapposizione difensiva alla gran mole di stimoli e alla importante quantità di informazioni, che giungono a noi, ogni giorno e in ogni momento.

Ottimizzazione quindi, tesa a risparmiare tempo, impegno e fatica, nel decidere di conseguenza a quegli stimoli. A volte, queste scorciatoie, ci permettono di prendere decisioni immediate, senza appunto implicare troppe risorse mentali e di tempo ma, altre volte, inducono una errata interpretazione della realtà, ovvia conseguenza alla concatenazione di errori di valutazione e di ragionamento, capace di distorcere e snaturare la realtà stessa. 

Il concetto di base, che agisce per mano di questi meccanismi, è quello secondo cui siamo esseri emotivi con una spiccata tendenza alla razionalizzazione – non esseri razionali tout court – quindi agli esatti antipodi del vetusto Cogito ergo sum, di cui abbiamo abbondantemente parlato in altre sedi e in altri articoli, abilmente destituito di fondamento, dal Prof. Antonio Damasio, nel libro “L’errore di Cartesio”. Una razionalizzazione che tende a creare quelle strategie cognitive preimpostate, quella serie di scelte strategiche pronto uso o pronta cassa, finalizzate al minore dispendio di risorse e all’utilizzo semplice di schemi e strategie comportamentali.

Bias conosciuti e codificati dalle Neuroscienze moderne sono moltissimi, ma altrettanti sono quelli ancora non codificati, al punto che, ipotizzarne un numero definitivo è cosa ardua, forse impossibile. Si suppone comunque, a titolo di esempio, che siano circa duecento quelli più importanti.

Tra questi, giusto per citare le principali macro-categorie, troviamo quelli di giudizio, di memoriaindividualidi gruppo, di decisione, di motivazione, etc., raggruppati a loro volta per sovraccarico (troppi stimoli, tutti insieme), scelta (la cernita di quelle informazioni, per risparmiare la memoria), fretta (per risparmiare od ottimizzare il tempo) e per mancanza (la mente umana unisce i puntini e, in assenza di informazioni complete ed esaustive, le immagina, le deduce dal contesto o, semplicemente, le crea).

E, scendendo nello specifico, non possiamo dimenticare i Bias ritenuti tra i più importanti in assoluto, i “fantastici tre” che, nel bene e nel male, dominano la mente umana di tutti noi, nessuno escluso: il Bias di conferma (la ricerca inconscia delle tesi che danno ragione alle nostre convinzioni e alle nostre credenze, escludendo in automatico tutte le altre), quello di colpa o merito(i risultati positivi sono merito nostro, mentre quelli negativi sono colpa d’altri) e quello di eccessiva fiducia (in noi stessi e nelle nostre capacità, sovrastimandole, salvo poi sottostimare i rischi e i pericoli correlati a ciò che facciamo).

In questa sede ci occuperemo del secondo citato, ossia del Bias di colpa o merito e del suo aspetto più interessante, ovvero il particolare meccanismo di elaborazione, attribuzione e delega delle responsabilità.

Per effetto di questo tratto cognitivo che semplifica, come gli altri, le esperienze umane, sentiremo un automobilista dire “mi sono venuti addosso”, oppure “ho evitato un incidente” qualunque sia stata la dinamica dell’incidente, in funzione della sua attribuzione inconscia di colpa o merito relativa allo sgradevole episodio. Allo stesso modo, uno studente distinguerà la responsabilità di un cattivo voto, dal merito di uno positivo, arrivando a dire, delegando la responsabilità, “il professore mi ha messo 3”, in aperta contrapposizione cognitiva con il più autocelebrativo “ho preso 7”.

Probabilmente derivante dal colpa e merito, di estrema importanza e interesse è la variante della responsabilità esterna, ovvero la convinzione di non essere responsabili (di non aver colpe) delle proprie azioni e del risultato conseguente dipendendo, quest’ultimo, esclusivamente da fatti e forze al di fuori del nostro controllo (almeno secondo il tratto cognitivo in questione). Si tratta di una scorciatoia che ci porta a cercare le responsabilità al di fuori della nostra sfera d’influenza, fino a credere ai complotti, alle macchinazioni, ai poteri superiori e occulti sempre pronti a tramare contro di noi e a remare contro il nostro destino. 

Questa convinzione ci libera dell’ansia della decisione, proteggendoci dall’insoddisfazione e dalle delusioni provocate dai nostri errori, portando il pensiero a ruotare ossessivamente intorno a questo concetto e rendendolo incapace di reagire e di uscire dal pantano dell’auto-inganno.

Questo tratto cognitivo – e il conseguente assetto mentale – porta a sentirsi protetti e tutelati, perché andrà tutto bene (ti ricorda qualcosa?), che tanto, presto o tardi, qualcuno se ne occuperà e, con un po’ di fortuna, ci toglierà le castagne dal fuoco. Un modo come un altro per rifiutarsi di crescere, di assumersi le proprie esclusive responsabilità, facendo leva inconscia sul ricordo di un’infanzia perduta, di quando erano i nostri genitori a decidere per noi, sollevandoci dall’incomodo onere, nel bene o nel male.

È più facile dare la colpa delle nostre umane miserie a chiunque, o a qualunque cosa, al di fuori di noi, pur di non guardarci allo specchio, per non dover puntare quell’indice indagatore contro noi stessi e contro le nostre scelte. Anche contro le mancate scelte (perché anche non scegliere, è una scelta) foriere di conseguenze immediate o future. E pur di trovare un’attenuante o una giustificazione ai risultati che la nostra vita, per nostra mano ottiene, siamo pronti a darne la colpa alla divinità (scegli tu quale, a tuo piacere), al destino, all’oroscopo, ai concorrenti, al mercato, alla crisi, alla pandemia, ai russi, agli americani e, perché no? ai cinesi e ai talebani. 

Insomma, a qualunque cosa (o persona, o evento, o forza sovrannaturale) che abbia a che fare con quelle nostre scelte e con le nostre azioni, anche quando siamo gli unici fautori di esse, quindi gli unici artefici di quel destino che, nella nostra idea, ci rema contro.

Mai inganno fu più distruttivo dell’esito e lesivo della dignità di pensiero.

La libertà consapevole di scegliere e di agire spaventa, genera stati d’ansia e d’angoscia, derivati dalla paura di fare i conti anche con se stessi, riconoscendo con serenità i propri errori e sfruttandoli come insegnamento, punti fermi dai quali ricominciare, senza che la nostra autostima e la nostra autovalutazione ne escano sconfitte.

Il lato più deleterio di questo Bias (come di quasi tutti i Bias, del resto) è la velocità con la quale agisce, il senso d’urgenza motivato solo dal risparmio di energie e mai da necessità reali (fatto salvo il Bias di autoconservazione). Occorre invece prendere le distanze da questa fretta, dal pensiero precipitoso e affannato, soprattutto quando siamo alle prese con decisioni di grande importanza. Un passo indietro, in questi casi, è ciò che può far la differenza, tra successo e fallimento o, melodrammaticamente parlando, tra la vita e la morte, razionalizzando le emozioni e la “pancia”, facendo sì che ci indichino un percorso da prendere, ma solo dopo averci ragionato, supportandole razionalmente. 

Valutati i pro e i contro, insomma, con lucidità e oggettività.

Facile? Proprio per niente. Anzi, è addirittura difficile riconoscere questo meccanismo cognitivo nei nostri stessi processi logici e nel nostro vissuto quotidiano. Per contro, possiamo facilmente riscontrare il meccanismo di responsabilità esterna nella vita quotidiana al di fuori di noi, o negli altri, ad esempio quando i leader politici di riferimento che si propongono come unici risolutori di un problema che dipende e deriva sempre da altri, o è stato ereditato dai predecessori, che quindi esula dalle proprie responsabilità, proponendosi come difesa dalla minaccia (crea un nemico comune e avrai un elettorato) in favore del singolo e della collettività, finora trascurata e indifesa.

A condizione che tutti, singolo e collettività, abdichino al controllo e alla verifica del reale rischio, del vero problema e delle corrette soluzioni adottate.

Il tratto cognitivo della responsabilità esterna, se da una parte ci protegge dall’incertezza presunta e ci rassicura da un pericolo che, spesso non è così reale come veniamo suggestionati a credere, per contro, pretende in pegno i nostri beni più preziosi: la libertà, l’autonomia, il senso di responsabilità e la capacità di operare una scelta consapevole. 

Una condizione a dir poco vessatoria e per nulla equa, a ben vedere, cui opporre necessariamente un ragionamento attivo, che non sia estraneo alle scorciatoie, ma che, a condizione di conoscere noi stessi e le nostre emozioni, conservi integra la capacità di valutare e di sfruttare a nostro beneficio queste ultime, lasciando spazio all’istinto, cum grano salis!


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.

Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




Leadership ed emozioni.

Pompei_Alexander Mosaic_Battaglia di Isso_333 BC_ Particolare

di Massimo Biecher

Che nesso c’è tra le emozioni e la leadership efficace? 

E’ possibile guidare se stessi e gli altri, pensando di ignorare le dinamiche interne dell’anima ?

In questo articolo parleremo di come le emozioni siano una componente basilare dell’individuo e di come essa svolga un ruolo importante nella relazione in genere e nello specifico tra leader e follower.

“La maggior parte della pubblicità non fa tanto appello alla ragione quanto all’emozione.” 

Erich Fromm (psicoanalista e sociologo)

1 – Leadership: comunicare bene, è sufficiente?

La prima cosa che ci viene in mente parlando della leadership, è la capacità di guidare se stessi ed i nostri collaboratori dopo aver stilato una scala di priorità, grazie alle quali scaturiranno le linee guida che permetteranno di raggiungere gli obiettivi prefissati, rispettando nel contempo il budget economico messo a disposizione.

Negli ultimi anni, inoltre, ha preso piede la consapevolezza che per raggiungere obiettivi sempre più stringenti è necessario che l’ambiente lavorativo sia pervaso da entusiasmo e per fare ciò è necessario fornire al proprio team delle motivazioni.

Ma al centro di questa visione, aggiungiamo noi, ci sono persone che si relazionano gli uni con gli altri comunicando.

Concretamente, come avviene questo scambio di contenuti ? 

Il primo mezzo che ci viene in mente é la parola. 

La parola é un “ponte”, un tramite, che permette il passaggio di informazioni da una persona all’altra,

Etimologicamente, comunicare deriva dal latino “commūnĭcāre”, che a sua volta deriva da “cŭm” insieme a, con, contemporaneamente a, e da “mœnīre” che tra i vari significati include anche, rendere accessibile ed  aprire. 

Pertanto comunicare in senso più ampio, significa ad aprire il proprio mondo agli altri, a condividere le idee, scambiare pareri e nel nostro caso, coinvolgere i collaboratori sia nella fase che precede le scelte che poi nel debriefing, quando arriva il momento di tirare le somme e valutare i risultati raggiunti.

Ma per comunicare, non basta, né tantomeno è sufficiente, conoscere bene una lingua e l’arte del saper parlare in pubblico e scopo di questo articolo è andare in cerca di quei presupposti a priori, che rendano la comunicazione verbale veramente chiara ed efficace od in altre parole, essere ragionevolmente sicuri si il che il messaggio sia stato realmente compreso dal nostro interlocutore.

“Il problema principale della comunicazione é dare per scontato che essa sia realmente avvenuta”.
George Bernard Shaw 

Come l’esperienza ci insegna, seppur siamo in possesso di una buona cultura ed abbiamo frequentato dei corsi di formazione, la conversazione basata sul linguaggio continua ad essere caratterizzata da incomprensioni, equivoci e fraintendimenti di vario tipo.

Pensiamo per esempio quanta letteratura fonda la sua esistenza sul cosiddetto “qui pro quo” e di come la trama della storia verta intorno alla risoluzione dei malintesi e quindi al chiarimento finale tra i protagonisti.

Il motivo di ciò risiede nel fatto che l’approccio che si focalizza prevalentemente sul contenuto e sulla modalità delle informazioni da scambiare, parte dal presupposto che essa è una questione che coinvolge aspetti semantici, sintattici o grammaticali.

Ma il dialogo tra le persone avviene anche su un livello differente, che come vedremo, ha un’importanza tutt’altro che trascurabile.

E’ quella che si rivolge non tanto all’aspetto logico/razionale della mente, ma a quella parte del mondo interiore dell’individuo, fatto di emozioni e sentimenti.

2 – La comunicazione non verbale

Questo aspetto merita a nostro avviso di essere preso in maggior considerazione.

Sul posto di lavoro, almeno ufficialmente, non c’è spazio per le emozioni, mentre nello sport, questa presa di coscienza ha fatto capolino già da tempo, perché qui più che in altri ambienti, é risultato evidente che solo dall’emozione può scaturire quel qualcosa in più che renda possibile una prestazione eccezionale, oppure, quella resistenza senza la quale, non si potrebbero superare allenamenti durissimi.

Siccome il timore è che le emozioni possano intaccare la prestazione lavorativa del singolo o che, turbando la sensibilità altrui, finiscano per influenzare il rendimento dei colleghi, esse di norma, vengono ignorate o tutt’al più, ritenute lecite solo all’interno di ambiti ben delineati, come le ricorrenze, il raggiungimento di obiettivi particolarmente ambiziosi o al contrario, quando la situazione congiunturale è complicata e bisogna richiamare il gruppo a fare dei sacrifici.

Ma che ne siamo consapevoli o meno, esse sono un ingrediente fondamentale della nostra esperienza e che fanno capolino in ogni circostanza della nostra vita.

Anche quella lavorativa.

Pensare di ignorarle con l’intento di renderle inoffensive é inutile, anzi quando ciò accade, esse operano dentro di noi come la lava incandescente che scava le gallerie nelle profondità della terra e si trasformano in quelle che secondo alcuni studiosi, sarebbero le cause delle malattie psicosomatiche. 

Ma prima o poi esse manifestano la loro azione e più tardi questo accade, più lo faranno in maniera eclatante e talvolta esplosiva. 

Pensiamo per esempio ad un attacco di rabbia o più semplicemente ad una crisi di pianto causata da un sentimento di dolore troppo a lungo represso.

Sono perennemente presenti e benché agli occhi di molti non appaiano visibili, per coloro che invece hanno occhi per vedere, orecchie per sentire ed un cuore per comprendere, la loro manifestazione appare evidente. 

Anzi, per certi versi, lo fanno in maniera “assordante”.

“Noi  gridiamo quello che siamo.”

Uno degli assunti fondamentali della psicologia junghiana.

Da queste premesse comprendiamo il motivo perché in alcune circostanze ed in particolare sul luogo di lavoro, vengano viste con un certo sospetto, in quanto rivelerebbero il nostro stato interiore più autentico che, grazie alla timidezza, al rispetto delle convenzioni dettate dall’educazione oppure dalla convenienza, resta celato.

Pensiamo per esempio al caso in cui esse lasciassero trapelare il disappunto per le scelte fatte dal capo, o più semplicemente, quando sono spie rivelatrici di emozioni distruttive latenti come l’aggressività e quindi, potrebbero mettere a rischio l’integrità del gruppo. 

Secondo alcuni, le emozioni in fabbrica od in ufficio, sarebbero apportatrici di confusione che generano inefficienze, ostacoli alla comprensione reciproca ed allo svolgimento ordinato dei compiti da eseguire, mentre come vedremo più avanti, andrebbero interpretate come la spia di un malessere, di un problema o di un conflitto, sia personale che di gruppo e noi, similmente a quando sul cruscotto della nostra automobile si accendesse una spia di allarme, invece di prenderle in seria considerazione, decidessimo di ignorarla. 

A complicare il quadro, interviene, la concezione dicotomica che caratterizza tutt’ora il pensiero occidentale, il quale divide in maniera spesso tranchant i fenomeni in “bene o male”, “buoni o cattivi”, “favorevoli od ostili”, che ha fatto si che si creasse nei tempi passati tra i filosofi, una netta distinzione tra l’attività meccanica del corpo e l’attività intellettuale del pensiero, ignorando o trascurando invece, il cosiddetto “convitato di pietra”, cioè l’universo delle emozioni, riservandole non solo un ruolo secondario ma ritenendole in alcuni casi, il vero nemico del pensiero logico/razionale.

Per molti secoli, infatti, la sfera delle emozioni è stata confinata al mondo spensierato dei bambini od al più tollerato con benevola indulgenza quando riguardavano il genere femminile.

Per il resto veniva relegato alla ristretta cerchia di poeti ed artisti.

Questa dialettica filosofica era più che comprensibile in passato, in quanto nasceva dalla necessità di placare le ansie del vivere quotidiano accentuate dall’arretratezza del sapere scientifico e dove, le malattie e le guerre, contribuivano a rendere la vita ancora più insicura ed incerta.

3 – La palestra delle emozioni

Ora, quand’è che le emozioni cominciano a manifestarsi e a svilupparsi dentro di noi ?

Tutto ha inizio quando tra la madre ed il figlio appena nato, si instaura un’intesa basata non sul linguaggio verbale ma sullo scambio di sorrisi, occhiate e mugolii di vario tipo, che a loro volta, non sono altro che il mezzo con il quale le emozioni vengono manifestate all’esterno.

Esse sono di vario tipo e vanno per esempio, dalla manifestazione del piacere di rivedersi, il desiderio di ricercare un contatto visivo, il bisogno di mangiare, il compiacimento quando questo piacere viene soddisfatto, e così via.

E’ questa la prima forma di comunicazione tra individui ed é a tal punto universale che, quando un piccolo, nato e cresciuto per un certo periodo di tempo in un paese se, prima dell’instaurarsi della relazione verbale, viene adottato in un’altra nazione, tra la nuova madre ed il bambino si crea egualmente un affiatamento.

Cogliamo l’occasione per far notare che un modo diverso per veicolare sentimenti ed emozioni é la musica, la quale, facendo appello proprio al linguaggio primordiale di cui stiamo parlando, viene compresa in qualunque parte del mondo, anche ed indipendentemente dall’epoca in cui é stata composta o dal paese di provenienza dell’autore.

Amore, odio, attrazione, repulsione, piacere, disgusto, compiacimento, disprezzo, ammirazione, fastidio, stupore, terrore, serenità, rabbia, delirio di onnipotenza, senso di frustrante solitudine, pace, serenità, compassione, calma, nervosismo, comprensione, giudizio, attrazione, repulsione, desiderio di unione, vengono vissute da ciascuno di noi come vibrazioni che si propagano all’interno e tramite le espressioni del viso ed il linguaggio del corpo, vengono trasmesse e captate da chi ci sta di fronte, innanzitutto a livello inconscio.

Emozioni che possono essere comprese solo da chi é capace di empatia, ovvero, da chi é in grado di sintonizzarsi con il  mondo interiore altrui. 

Dovremmo soffermarci un po’ su questa dote assai importante.

4 – L’empatia: alleata delle relazioni efficaci

L’empatia consiste nel saper cogliere, afferrare il mondo emozionale dell’altro, di percepirne i moti interiori ed i sentimenti. 

Tutto ciò che insomma, ha ben poco a che vedere con il mondo della logica e della razionalità.

Iniziamo con l’osservare che la capacità di sintonizzarsi sulle emozioni altrui é sviluppata più nelle donne che negli uomini perché, come abbiamo visto, é compito della madre prendersi cura del neonato in quanto, coglierne il linguaggio non verbale, è una questione di vitale importanza.

Ma anche gli uomini, non tutti in egual maniera, sono dotati di questa medesima capacità che é fondamentale a prescindere per instaurare relazioni sociali soddisfacenti.

Perché, se da un lato é vero che affinché lo scambio di idee sia produttivo é indispensabile possedere l’abilità di parlare e di saper esporre con chiarezza le proprie idee in pubblico, ma affinché essa sia anche persuasiva e convincente é imprescindibile entrare in sintonia con l’universo dell’anima del nostro interlocutore.

Ogni emozione è un messaggio, il nostro compito è ascoltare…
Gary Zukav (divulgatore scientifico e coach)

A nostro avviso per convincere un collaboratore, non é sufficiente studiare od elaborare tecniche di comunicazione verbali e “body languages” appropriati ad ogni situazione, ma é anche necessario prendere coscienza di quanto le dinamiche del profondo degli esseri umani influiscano, sia sulla qualità della trasmissione, che sulla comprensione dell’argomento.

Perché esiste sempre un significato sottinteso che va “al di là” di quello che volevamo esprimere verbalmente e che viene percepito da ognuno dei nostri interlocutori in maniera completamente diversa.

Infatti se é ormai acquisito che durante una conversazione possano avvenire sia equivoci causati da errori di pronuncia, che quando sono inconsapevoli sono detti lapsus freudiani, sia da interferenze esterne come il rumore, ben sintetizzato dal modo di dire “capire fischi per fiaschi..”, meno scontata invece, é l’influenza che le emozioni hanno quando si tratta di attribuire ad un’espressione verbale un ben determinato significato.

Il detto “mai parlare di corda in casa dell’impiccato” descrive bene questo concetto.

Un termine che per qualcuno rappresenta uno strumento di lavoro e per un’altra persona evoca emozioni legate a spensierati giochi infantili, purtroppo a certuni, potrebbero evocare fatti tragici legati alla propria vita familiare, facendo rivivere le stesse sensazioni di tristezza, di dolore e lutto che aveva provato a suo tempo.

Perché ad ogni parola noi associamo un’emozione e ciascuno di noi lo fa in maniera unica, in un modo che dipende dal proprio vissuto esperenziale.

E’ grazie all’empatia se riusciamo a metterci in sintonia con il mondo interiore del nostro collaboratore e a far si che la l’interlocuzione sia più efficace e meno condizionata da sentimenti che evocano stati d’animo che possono “inquinare” il reale contenuto del messaggio. 

Quando é il momento che le decisioni e le azioni prendano forma, i sentimenti contano almeno quanto il pensiero razionale e spesso anche di più.

Daniel Goleman (psicologo e scrittore)

5 – Leadership ed indulgenza: chi l’avrebbe mai detto ? 

Ma esiste un aspetto dell’empatia che è importante nella stessa misura, che consiste nell’attitudine di saper ascoltare i sentimenti dentro di noi, per capire chi siamo veramente e che, quando questo ascolto é onesto e sincero, ci insegna ad essere più indulgenti sia nei confronti di noi stessi che degli altri.

L’indulgenza di cui stiamo parlando, non ha nulla a che vedere con il perdono.

L’indulgenza, che deriverebbe secondo un’interpretazione simbolica, dal latino “indulgentĭa” a sua volta composto da in”, cioè verso e dal verbo“dulcāre” che significa addolcire, sarebbe quell’arte che consiste nel saper vedere negli altri, come in se stessi, sempre il lato più dolce, ovvero quello migliore.

Un primo effetto é che col tempo grazie ad essa, impariamo ad astenerci dal giudizio, ovvero a comprendere che i nostri pensieri e le nostre azioni, come quelli di chi lavora a nostro fianco, si fondano sempre su dei buoni motivi, che dipendono, ovviamente, dal vissuto di ciascuno e da come gli obiettivi lavorativi impattano sulla propria autostima.

Questo tipo di consapevolezza, che si acquisisce solo col tempo, ci mette in condizione di collaborare alla creazione di un ambiente di lavoro, che sia produttivo ma allo stesso tempo sereno.

A chi piacerebbe lavorare in un ambiente eccessivamente competitivo e perennemente sottoposto a stress di ogni genere?

Costruire e mantenere un clima emozionale positivo dovrebbe essere la prima preoccupazione di chiunque gestisca un team, sportivo od aziendale che sia.

Paolo Trabucchi (psicologo e sportivo, fondatore della teoria della resilienza nello sport) 

Ma cosa significa in concreto?

6 – La relazione leader e follower consapevole del potere delle emozioni

Significa innanzitutto accettare chi ci sta di fronte per quello che é, e nel contempo, tenere conto di un’altro assunto della psicologia junghiana, che a prima vista potrebbe apparire contraddittorio o bizzarro ovvero, che quando troviamo qualcosa di detestabile in qualcuno, in realtà la critica è rivolta, senza esserne consapevoli, anche e soprattutto a quegli aspetti del suo carattere che sono simili ai nostri ma con i quali, o non abbiamo ancora fatto pace, o semplicemente, non sono ancora emersi dal magma caotico ed indifferenziato del nostro inconscio.

Per lungo tempo, si é creduto che bastasse acquisire una buona cultura generale per essere tolleranti, per accettare chi  da un punto di vista caratteriale é diverso da noi.

In realtà dietro al rifiuto di accettare una persona o al pregiudizio nei suoi confronti, non c’è soltanto un condizionamento culturale, ma anche e soprattutto un influenza esercitata dal mondo interiore che è rappresentato dalle emozioni.

Tutto ciò che degli altri ci irrita può portarci alla comprensione di noi stessi.

C.G. Jung (psicoanalista)

Anche se questo ragionamento può sembrare assurdo, come é possibile infatti, “che dentro di me ci sia un aspetto che io detesto ? “, esso ci appare più comprensibile se pensiamo che, così come un diapason in quiete può risuonare anche quando gliene viene posto accanto uno che si trova già in stato di vibrazione, parimenti, quando qualcosa di indefinito dell’altro ci dà particolarmente fastidio, è il segnale che ci dovrebbe suggerire che dentro di noi, convive un aspetto molto simile.

E per capire in che modo le emozioni ci condizionino e di come a causa loro, ci relazioniamo con gli altri, per esempio i nostri collaboratori, é importante dare inizio ad una riflessione riguardo il proprio mondo interiore.

Anche quelli più oscuri intendiamoci, di quei lati che la psicoanalisi junghiana definisce la nostra “ombra” e che consiste sia in tutto ciò che ancora non è emerso nella parte conscia, sia da quello che nella letteratura é descritta molto bene dalla figura del personaggio del romanzo “Lo strano caso del dr.Jekyll and mr. Hyde , dove Hide in inglese, significa appunto, “nascosto”, ovvero, il lato nascosto di chi di giorno curava i malati e salvava le vite, mentre di notte si trasformava in un personaggio sadico e malvagio.

L’uomo sano non tortura gli altri, in genere è chi è stato torturato che diventa torturatore.

C.G. Jung (psicoanalista)

Perché conoscere se stessi è un buon modo per iniziare a comprendere anche gli altri e che ci permette di acquisire col tempo un’altra qualità, talvolta sottovalutata, ma da noi ritenuta altrettanto cruciale in ambito lavorativo.

Stiamo parlando dell’astensione dal giudizio.

L’astensione dal giudizio non è solamente un concetto astratto, ma qualcosa che influisce in maniera determinante e positiva sulla motivazione e quindi sulla prestazione del collaboratore, perché anch’egli e talvolta più di noi, é dotato di empatia e pertanto in grado di “percepire” se abbiamo fiducia di lui o se siamo prevenuti nei suoi confronti. 

Ed è importante che questo spirito sia sincero e non costruito, perché nel secondo caso l’incongruenza tra ciò che diciamo e come lo diciamo, verrebbe svelata ed interpretata come un tentativo di manipolazione.

Purtroppo, non é sufficiente frequentare un corso che ci insegna ad entrare in sintonia con l’altro, per esempio mediante tecniche di ricalco posturale, perché, se non siamo eccellenti attori, veniamo subito smascherati dall’inconscio altrui e tutto quello che diciamo, da un certo momento in poi finisce di perdere ogni credibilità.

Anzi, cogliamo l’occasione per riflettere sul fatto che, quand’anche fossimo dei professionisti della recitazione, dobbiamo ammettere per forza di cose che i nostri rapporti con gli altri non sarebbero basati sulla sincerità, ma sull’ipocrisia. 

E quindi, estendendo il ragionamento, dovremmo affermare che “in primis” non saremmo onesti con noi stessi e si verrebbe a creare uno scollamento sostanziale tra quello che diamo a vedere e quello che siamo veramente.

Quante volte ci è capitato dire di una persona, all’apparenza simpatica e gentile, dire che “.. però ha un qualcosa che non mi convince”, oppure che ci appare “viscida”, “costruita”, “non genuina” od  “inafferrabile” ?

Ci farebbe piacere che pensassero le stesse cose anche di noi ?

Perché il linguaggio delle emozioni, che si manifesta tramite il linguaggio del corpo, ci tradisce sempre. 

Dischiudere a noi stessi il nostro mondo interiore, quello inconscio, ci aiuta a capire chi siamo veramente e quindi a scoprire che, sebbene ogni individuo sia una creatura unica e speciale, siamo tutti “guidati” dalle medesime leggi universali.

Ecco che iniziando a prestare ascolto alle nostre emozioni e a darle sempre più spazio, si fa strada un nuova sensibilità e di conseguenza, comprendiamo quanto esse orientino il modo in cui affrontiamo la vita e fino a che punto esse sono in grado di condizionare le nostre scelte e decisioni.

Anche quelle lavorative.

Esse sono onnipresenti, scelgono per noi durante i nostri acquisti, ma ci guidano senza che ce ne accorgiamo anche nella scelta dei nostri partner, dei nostri collaboratori, dei nostri studi, degli obiettivi che ci poniamo e dei rischi che siamo in grado di assumerci sulla vita o sul lavoro.

Spetta a noi mediante un indulgente lavoro di introspezione renderci consci della loro influenza.

Io non voglio essere alla mercé delle mie emozioni. Io le voglio usare, divertirmi con loro e dominarle.

Oscar Wilde – Il ritratto di Dorian Gray

7 – Il segreto per integrare le emozioni a lavoro ? Umiltà, umanità ed umorismo.

Abbiamo qui appena iniziato a scoprire che le emozioni sono un universo complesso ed articolato.

Non basta un breve testo come questo per spalancarne le porte e per intraprendere un cammino verso la scoperta di quanto sia ricco ed articolato il mondo che si cela dentro ciascuno di noi.

Fare questa ricerca é sicuramente impegnativo, ma il risultato sarà certamente appagante.

È vero che scendere negli abissi della nostra anima può darci all’inizio una sensazione di smarrimento.

E’ comprensibile infatti, di aver paura di scoprire che da qualche parte internamente, si annidi magari un signor Hyde, tenuto a bada solo dall’educazione e dall’autocontrollo. 

Ma forse, é probabile che il nostro lato scuro non sia poi così sinistro e pericoloso.

Oppure di temere che esista un aspetto del nostro carattere che possa risultare sgradevole alla vista degli altri.

Che poi ci domandiamo se in realtà, sia veramente così..

Pensiamo per esempio a tutte quelle volte che ci siamo stupiti di quando qualcuno si è rivolto a noi dicendo ci che eravamo interessanti proprio grazie a quegli aspetti della nostra personalità che invece ci parevano di poco conto, se non addirittura imbarazzanti.

Ma al ritorno da questa ricerca, saremo totalmente rinnovati e rinforzati nella consapevolezza di quello che siamo e valiamo.

Vi invitiamo ad osservare e riflettere infine, che abbiamo evitato consapevolmente di usare il termine “cambiati”.

“Γνῶθι σεαυτόν” – Conosci te stesso 

Iscrizione ritrovata presso il tempio di Apollo a Delfi

C’è chi chiama questo percorso, un cammino in discesa, che però non va inteso come un sentiero facile, ma nel senso che esso é più simile all’esplorazione di uno speleologo all’interno della terra ed il cui premio finale sarà il dono dell’umiltà.

Soffermiamoci per un momento su di essa che essendo considerata una virtù, viene assimilata alle cose eteree, celesti ed irraggiungibili, ma che invece, se intesa nel suo significato allegorico, dovrebbe entrare a far parte della cassetta degli attrezzi del leader efficace.

Fatta la premessa che, in questo contesto stiamo privilegiando l’interpretazione figurata rispetto a quella letterale, umiltà deriva etimologicamente dal latino “humilis” cioè basso, vicino al suolo e dal sostantivo “humus” che sta’ per suolo o terra.

Ma questi sono gli stessi vocaboli che fornirebbero la radice al temine umorismo che quindi, metaforicamente parlando, indicherebbe la capacità di vedere con distacco ciò che sta in basso, ciò che c’è sotto o ciò che si nasconde in profondità.

Ecco allora che per umiltà, non si intende quell’attitudine autolesionista che farebbe di noi una persona che ha poca stima di se’, non conscia del proprio valore e dei propri meriti, bensì la consapevolezza che sviluppa colui che, avendo compiuto un viaggio verso il centro della terra interiore, acquisisce una nuova facoltà: l’umanità.

Perché, come dice Manfred Kets De Vries, professore presso l’Harvard  Business School, docente presso l’INSEAD, e l’Università di Amsterdam:

Umiltà, Umanità ed Umorismo, sono le vere doti di un leader.”


Massimo Biecher

Appassionato fin da ragazzo di fisica nucleare, elettronica e computer, entrato nel mondo del lavoro scopre che la sfera emozionale sia importante tanto quanto quella razionale.

Ricoprendo all’interno delle aziende ruoli di sempre maggior responsabilità, osserva che per avere successo, oltre ad investire in ricerca e sviluppo ed in strumenti di marketing innovativi, le organizzazioni non possono prescindere dal fatto che le emozioni giochino un ruolo determinante tra i fattori critici di successo.

Grazie ai libri del Prof. Giampiero Quaglino, viene a conoscenza delle più moderne teorie sulla leadership ed in particolare quelle del docente dell’Insead, Manfred Kets de Vries, con cui condivide la visione secondo la quale non esistono modelli di leadership vincenti, ma solo relazioni efficaci tra gli individui.

Nel 2014 la rivista “Nuova Atletica”, organo ufficiale della Federazione Italiana Di Atletica Leggera, gli commissiona una serie di contributi sulla leadership per allenatori professionisti, coerente con le teorie che quotidianamente cerca di mettere in pratica sul lavoro.

Appassionato anche di filosofia, va alla ricerca instancabile di un modello che metta al centro l’individuo e ne rispetti l’unicità ma che al contempo, sia riconducibile a dei principi da cui cui tutto “principia”, convinto che la cultura e la superspecializzazione della scienza e della tecnologia moderna, conduca ad un inevitabile frammentazione dell’Io.

Ritiene di aver trovato ciò che cercava, riscoprendo la filosofia platonica e di Plotino e nella rilettura dei miti greci attraverso le lenti della psicologia archetipica introdotta dallo psicoanalista junghiano James Hillmann assieme ad i contributi dei filosofi E. Casey, L. Corman e dell’antropologo J.P. Vernant.

Pubblica con cadenza mensile sul magazine “karmanews.it” articoli che reinterpretano i miti dell’antica Grecia in chiave psicoanalitica, ritenendoli una metafora dei travagli dell’anima che, mediante l’uso di immagini e di racconti fantastici, si rivolgono direttamente al cuore e quindi all’inconscio.




La seconda vita.

Giulia Gellini_”Rilettura”_tecnica mista.

un racconto di Cristiana Caserta_

Ho sempre cominciato a leggere l’odissea dal quinto libro. Quando Odisseo, che è stato per molti anni fermo sull’isola di Ogigia, al centro dell’oceano, infelice sposo della dea Calipso, può finalmente prendere il largo per tornarsene a casa sua. 

Odisseo è già stato per mare, ovviamente. Ha vagato per anni, di isola in isola, ma stavolta è tutto diverso. 

È la volta ‘buona’. 

Lo capiamo subito. 

È la sua seconda volta. Seconda vita. Seconda opportunità. 

La seconda vita è quando stacchiamo alcuni fatti dal continuum del passato e li cominciamo a vedere come una partita che si è svolta. L’abbiamo persa. Era un gioco di cui non conoscevamo le regole, neanche sapevamo di giocare una partita! 

Incontriamo una persona, rispondiamo a un messaggio, accettiamo un invito… siamo come gli ubriachi: non possiamo sapere che sviluppo avranno quei semplici gesti. Così Odisseo, ogni volta sbarca su un’isola – che può fare? Ha sete e fame – gli viene incontro qualcuno: è un cannibale? Una maga? Lo catturerà? Lo avvelenerà? Lo accoglierà con delicatezza?

Non può saperlo. Non possiamo. Procediamo a tentoni. Facciamo amicizia, cambiamo lavoro, lèggiamo un libro; ma non distinguiamo un giorno dal precedente, non sappiamo che cosa stiamo iniziando: abbiamo appena conosciuto il nostro migliore amico o la persona che ci distruggerà, il lavoro della vita o l’esperienza più atroce che mai consoceremo?

La prima vita è quella dell’esposizione, della nudità, del fallimento in agguato…

Ma impercettibilmente impariamo, giorno dopo giorno, isola dopo isola, e quando abbiamo un po’ di tempo cominciamo a vedere i fili invisibili che legano le cose fatte, i dettagli che ci sfuggivano, il disegno si svela e … ha senso! 

A quel punto vorremmo rigiocare la partita! Stavolta sceglieremmo con cura il campo, anticiperemmo le mosse dell’avversario, risparmieremmo le forze per quegli ultimi minuti concitati, entreremmo sulle gambe dell’attaccante che segnerà a porta vuota (meglio un rosso che un goal allo scadere) 

E però non è possibile. 

Quante vite abbiamo? 

Tante.

Quella fatta di ciò che ci è capitato, e quella che abbiamo plasmato secondo un’idea che ci siamo inventati di ciò che siamo, che vogliamo. La seconda vita inizia quando scegliamo, quando distinguiamo nel flusso degli accadimenti uni spazio per la scelta. 

La decima isola per Odisseo è quella giusta, perché non ha più niente: non navi, non compagni, nemmeno vestiti. Ha solo le sue capacità: la sua intelligenza e la sua parola fluente.

Quando Odisseo parlava, ci dice Omero, tutti stavano in silenzio, meravigliati, e le sue parole erano come fiocchi di neve che scendono dal cielo e ricoprono ogni cosa. 

Immagine straordinaria! E che dobbiamo rivivere con lo sguardo mediterraneo e la pelle temprata dal sole e dal sale di chi vive in mare. 

Ma anche senza quelle straordinarie capacità, quando una vita si presenta come storia e distinguiamo un tema, un inizio, uno sviluppo di fatti, un senso… questa è già la seconda vita, in cui la prima appare ormai come ritaglio, la sua casualità riscattata, il suo tempo riguadagnato, la sua oscurità chiarificata. 

Possiamo ormai, come Odisseo alla corte dei Feaci, dire chi siamo. Qual è la nostra casa. La nostra anima gemella. Non quelle che la sorte o il caso ci hanno assegnato, ma quelle scelte, strappate alle contingenze, desiderate con ardore in tutti i porti e in tutti i mari solcati, nell’ora “che – dice Dante – volge al disìo ai navicanti ‘ntenerisce il core”.


Cristiana Caserta_

LinkedIn Top Voice 2020; 

Scrivo, studio, insegno materie con le tecnologie, sono pratica di formazione, giornalista free lance, multipotenziale.




Accettazione e rassegnazione [due gemelle separate alla nascita].

illustrazione di Anna La Tati Cervetto_”Amiche”_pennarello su carta_dicembre2020

di Christian Lezzi_

Capita più o meno in tutte le lingue, dall’italiano all’inglese, dal russo al francese, che parole molto simili rappresentino, in realtà, concetti diversi, se non proprio diametralmente opposti, per lo meno molto distanti tra di loro. E da qui nasce l’inganno, la confusione, dovuto all’uso improprio delle parole, rese intercambiabili dalla superficialità, ma sostanzialmente diverse nel significato più vero e profondo.

Soprattutto in italiano, lingua particolarmente ricca di sfumature, declinazioni e ambiguità (linguistiche). Un po’ come i false friends della lingua inglese, parole che sembrano significare qualcosa, ma solo perché somigliano ad altri vocaboli.

È il caso, giusto per portare un esempio, del termine “Sympathy”, reso particolarmente familiare dai Rolling Stone e dalla loro canzone Sympathy for the Devil. Ma, attenzione, Sympathy, non significa affatto simpatia – eccolo il falso amico che c’inganna con una subdola somiglianza – significa compassione. E tutto il senso del testo, chiarito il significato corretto della singola parola, muta contesto e sostanza.

Potremmo citarne a tonnellate, di esempi in merito, di parole che sembrano qualcos’altro, di termini che somigliano ad altri, che quindi spesso confondiamo e intercambiamo, fino a usarli a sproposito. Perché nell’apparentemente sottile differenza tra due parole simili, può esserci un abisso di sostanziale diversità del significato. O, per lo meno, nella loro applicazione, può comportare meccanismi psicologici e comportamentali del tutto diversi.

Prendiamo in esame, ad esempio, le parole “accettazione” e “rassegnazione”.

Apparentemente (ma solo al primo lontano e frettoloso sguardo) esse sembrano talmente simili da rappresentare il medesimo significato, talmente uguali da ricordare due gemelli omozigoti separati alla nascita.

Ma nella linguistica, l’inganno è sempre in agguato, pronto a indurci in errore, a tentarci con parole dal suono simile, ma dal significato diverso che, se usate alla leggera e senza cognizione di causa, alterano il senso del discorso e del nostro vivere quotidiano. 

Proprio come nell’esempio della canzone.

Accettare e rassegnarsi, possono anche sembrare parenti strette, ma convogliano implicazioni psicologiche che impediscono loro di essere intercambiabili. Seppur entrambe implichino l’atto di far propria una nuova e diversa prospettiva, una presa d’atto in merito a ciò che ci accade intorno, implicano schemi mentali e aspettative che, tradotti in atti concreti, mutano di molto il nostro agito.

L’errato uso di uno o dell’altro termine, implica un’alterazione delle nostre percezioni, di come vediamo e percepiamo, distinguendoli, ciò che possiamo ancora controllare e ciò che non possiamo controllare più. Capire la differenza che intercorre tra le due parole (dal punto di vista psicologico, non solo da quello semantico) rende possibile, a noi stessi, il controllo sul nostro atteggiamento, dal quale deriva il comportamento nei confronti degli input che ci arrivano dal mondo circostante, permettendoci di mutare l’elaborazione degli stessi e delle aspettative che nutriamo nei loro confronti.

In altre parole, accettare un evento, implica una risposta cognitiva ed emotiva ben diversa da quando, a quell’evento, ci rassegniamo passivamente e senza volontà alcuna. Un bivio che divide due mete drammaticamente diverse e opposte: controllare attivamente gli eventi o subirli passivamente, lasciandoci magari travolgere da essi, incapaci di reagire al momento, allo stimolo agli accadimenti che ci coinvolgono e, in questo caso, ci travolgono.

Che si scelga la prima o la seconda strada, a cambiare è l’atteggiamento, il modo di porsi nei confronti delle circostanze, laddove il primo caso comporta un ruolo attivo e voluto, mentre il secondo, per ovvio contrasto, un ruolo del tutto passivo e involontario. E quella scelta si riflette sul nostro stato emotivo che, a sua volta, determina un agìto di riflesso, che spesso, nel caso della rassegnazione, porta al piagnisteo, alla lamentela e alla fuga dalla realtà e dalle responsabilità.

E anche queste, le responsabilità, distinguono il percorso. Nel caso dell’accettazione, non solo prendiamo atto dell’accaduto, ma ce ne assumiamo le responsabilità, ovviamente se queste sono riconducibili a noi, almeno in minima parte. Nel caso della rassegnazione, le responsabilità non sono mai nostre ma sempre di soggetti terzi e di eventi al di fuori della nostra sfera d’influenza. 

Anche quando, di fatto, di responsabilità oggettive non s’ha traccia. 

Ciò accade perché la rassegnazione, a differenza della sua apparente gemella, comporta il giudizio, l’assunzione del ruolo di vittima delle circostanze. Mentre l’accettazione quel giudizio lo sospende, accettando la realtà e vivendola con piglio attivo, per cambiarla e ricondurla al suo proprio beneficio, oppure accettarla (appunto) vivendola con serenità, la rassegnazione diventa il nostro stesso inquisitore, il giudice inflessibile che decide (dal suo esclusivo punto d’osservazione) ciò che è giusto e ciò che non lo è.

Salvo poi omettere che si tratti di deduzioni del tutto soggettive dovute ai capricci di un tiranno.

Operare un distinguo ragionato, tra i due concetti, è una questione di volontà, essendo l’accettazione un processo (per buona sua parte) voluto e consapevole. Si decide di accettare qualcosa, in maniera volontaria e cosciente. Al contrario, la rassegnazione ai fatti della vita, comporta una cessazione di quella volontà, una dismissione della coscienza, a favore di un’inconsapevolezza che ci arreca distonia, malessere e disagio interiore. E che, per effetto di quel malessere, c’impone la resa incondizionata e la delega delle cosiddette colpe.

È un po’ come dire: “voglio cambiare le cose”, oppure “lascio che le cose mi cambino”. Sembrano concetti uguali, ma non è aritmetica. Cambiare l’ordine dei fattori (delle parole, in questo caso) il risultato lo cambia eccome. Così come il variato ordine cambia le nostre percezioni, la risposta a quegli stimoli, lo stato d’animo, le nostre azioni e il risultato che ne consegue.

Mentre l’accettazione impara a perdere con stile, la rassegnazione, come spesso osserviamo nel mondo dello sport (soprattutto del calcio) scarica le proprie responsabilità sull’arbitro, sull’allenatore, sul presidente e sui tifosi tutti.

No, comprendere e fare nostra la differenza tra accettazione e rassegnazione, tra attività e passività del ruolo assunto, non è solo una questione di semantica, ma di acquisita capacità e volontà d’essere felici e di saper stare al mondo.

Occorre coraggio, per accettare qualcosa (un lutto, una malattia, un fallimento). Tanto coraggio e altrettanta forza.

Al contrario, per la rassegnazione, basta la viltà, condita dalla stucchevole capacità di fuggire dalle proprie responsabilità e di piangersi addosso, magari bagnando la spalla di qualcun altro.


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.

Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




QUANDO IL FAKE SIAMO NOI.

Giulia Gellini_Respiro libero_70 x 100_tecnica mista_2019

di Valeria Frascatore_

Viviamo una fase storica piuttosto delicata, carente a vari livelli sul piano formativo.

Il grado di istruzione non rappresenta più un discrimen sociale e sembra quasi che la linea di demarcazione tra addottrinamento obbligatorio e non obbligatorio sia tracciata dai social che, indubbiamente ,non garantiscono alcuna forma di controllo sul livello di recepimento dello sciame di informazioni quotidianamente veicolate.

Si percepisce la mancanza di idonei strumenti attraverso cui educare le coscienze all’autonomia in tema di libera formazione di pensiero e di giudizio, laddove per giudizio non si intende la capricciosità di una teoria volubile ma un vero e proprio costrutto strutturato, ancor meglio se supportato sul piano argomentativo. Oggigiorno praticamente un’utopia!

Esistono,infatti, troppe forme di dipendenza e di condizionamento da opinionismo nozionistico, talmente radicate da rappresentare, a volte, una specie di anticamera dello shit-storming, nel senso che lo alimentano attraverso l’immissione e la condivisione in rete di  affermazioni categoriche e perentorie, pronunciate con eccessiva – o  a volte senza alcuna – partecipazione emotiva e che finiscono con l’affiancare i casi di vere e proprie offese gratuite disseminate, qua e là, dagli haters a colpi di post e di commenti sui social.

Ferma restando la netta condanna nei confronti di tutto ciò che nel web lede l’altrui immagine e reputazione, ciò che, in alcuni casi, risulta fuori controllo è la tendenza, soprattutto nel mondo dei social, a giocare allo sceriffo a oltranza, nel tentativo di smascherare qualsiasi profilo/persona poco rispondente ai canoni dell’autenticità e della trasparenza.

E’ avvilente constatare che si è persa l’abitudine a distinguere uno schiaffo da una carezza e che, tutti presi dalla caccia alle streghe in rete, come nella vita, non riusciamo a concederci cedimenti emotivi, viviamo nel terrore di essere circondati da approfittatori di professione o,peggio ancora, da esperti di modi affettati e di strategico perbenismo.

Si finisce col tacciare una persona gentile e ben educata di buonismo con la medesima facilità con cui una persona insolente viene accusata di maleducazione e rozzezza! E questo, oltre che paradossale è anche pericoloso, perché provoca nelle persone corrette la sensazione di sentirsi sbagliate e fuori posto.

Inevitabilmente,infatti, l’individuo costruisce il proprio “IO” rapportandosi con l’immagine di sé che riceve come output dal suo approccio con altri individui, anche attraverso occasioni di confronto offerte dalla  comunicazione virtuale.

E’ importante essere capiti, anche nel web: è molto facile, invece, essere fraintesi e finire nel calderone degli haters o dei polemici di professione.

Non si può pensare di liquidare con un click,mediante un freddo automatismo, un soggetto pensante e vivo sul piano emozionale per la smania di voler frugare trovando il marcio che lo renda più facilmente attaccabile.

Che triste eredità ci ha lasciato l’esperienza pandemica!

La tendenza a guardare in cagnesco l’altro come se lasciassimo scandire il nostro tempo da un count down in grado di allertarci sulla fregatura che, da un momento all’altro,potremmo rimediare da terzi. Siamo sempre più prevenuti e calcolatori:non ci lasciamo andare…questa è la verità.

L’alternativa non è più scegliere tra una persona che ci piace e una che non ci piace – il che sarebbe sacrosanto e legittimo perché nella vita non si può piacere a tutti – ma tra chi,rimanendo se stesso fino alla fine, ai nostri occhi giustizialisti a oltranza cade per primo in fallo e chi, invece, magari si vende meglio e quindi non commette errori.

Attraverso l’uso del “bannaggio“, della restrizione e del blocco sui social si spazza via tutto ciò che suona anche solo come posticcio e poco convincente: non c’è necessità di arrivare all’offesa…ormai si bollano le persone per molto meno.

E’ un fenomeno, quello della corsa a smascherare il “fake” che è fuori di noi, che spesso tradisce la necessità di disconoscere i nostri stessi limiti, soprattutto l’incapacità di distinguere un essere umano moralmente integro da uno che non lo è. Il sentore, purtroppo, è che al senso di umanità abbiano rinunciato a credere un po’ tutti.

E’ indubbio, però, il giudizio da presunto impostore affibbiato ad altri ci costringe, prima o poi, a fare i conti con noi stessi e con i nostri lati oscuri ma soprattutto con l’esigenza di dover bandire qualcosa o qualcuno che ci ha toccato  – sebbene attraverso una forma di relazione virtuale – e che è riuscito a smuovere in noi delle sensazioni scomode.   

Scovare ed isolare la falsità,talvolta, è come ottenere una ricompensa e consolarsi per non aver saputo gestire un’ingerenza nella propria vita. E anche una riflessione o un pensiero personale, formulato sotto forma di post o di commento, può essere vissuto come un’entrata a gamba tesa nella vita altrui.

In sintesi, se chi legge determinate parole frutto di scambi su un social conserva dentro di sé degli aspetti irrisolti, questi lo rendono estremamente vulnerabile ad interpretazioni poco felici nel tratteggiare la personalità di chi, dall’altra parte di uno schermo, quelle parole le ha scritte.

Si instaura una sorta di pregiudizio per cui sia gli haters che i personaggi considerati poco “LEGGIBILI” vengono considerati sullo stesso piano.

Il senso della crociata contro il fake nel web è tutto qui: nella paura di dover barattare parti di noi accondiscendendo al riconoscimento dell’altrui autenticità e consentendosi degli scivoloni che, inconsciamente, forse riteniamo di non poterci permettere.

Nel mondo virtuale queste sensazioni risultano addirittura amplificate e spesso dissuadono dallo sperimentare una qualsivoglia forma di comunicazione, anche embrionale, probabilmente perchè il concetto stesso di virtualità continua a rappresentare un mondo a parte rispetto alla tangibilità epidermica tipica delle relazioni interpersonali de visu.

Concedere ad un altro la possibilità di esprimersi in modo spontaneo e reale fa forse paura perché ci porta a pensare che, prima o poi, potrebbe toccare a noi doverci mettere a nudo? Probabile.

Ma fin quando si vivrà di paure e di conflitti irrisolti, reale e virtuale continueranno a muoversi su binari eternamente paralleli.

Vincere l’incomunicabilità in ogni sua forma: vale la pena provarci per dare un senso alla vita, per vivere da persone libere e dimenticare i tristi strascichi anti-sociali lasciati dietro di noi dalla pandemia.

L’autenticità deve poter essere liberata, non perseguita!


Valeria Frascatore_

Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.




La funzione costruttiva dell’ironia.

Anna La Tati Cervetto_”Specchio non riflesso”_Illustrazione digitale realizzata con “Procreate”_dim.100×70

di Christian Lezzi_

Definito da Sigmund Freud come “la più alta manifestazione dei meccanismi di adattamento dell’individuo”, l’umorismo ha una connotazione liberatoria in senso positivo, essendo un sintomo indiscutibile d’arguta intelligenza, di prontezza mentale, di elasticità e di apertura, atto a indagare e a decodificare, fuori dagli schemi, il mondo intorno a noi. 

Proprio per questa sua capacità di andare oltre gli standard che delimitano uno scambio comunicativo interpersonale, l’umorismo consente, con naturalezza e leggerezza (che non è da confondere con la futilità o con l’inopportuna leggerezza) di scoprire molto degli altri e di noi stessi, arrivando ad apprendere dettagli che, analizzati con rigore logico e con altrettanto eccessiva serietà, difficilmente scopriremmo.

Ciò accade perché, l’umorismo, supera le difese, gli scudi, le maschere che ognuno di noi, volente o nolente, applica, erge e indossa, per allontanare le paure, i rischi, ciò che non ci fa sentire a nostro agio, che ci espone alla minaccia, tranquillizzandoci e predisponendoci al confronto produttivo e rilassato con l’interlocutore.

E quando una trattativa volta a negoziare, o a mediare (di qualunque natura essa sia) si svolge in piena rilassatezza, grazie anche al piacevole senso dell’umorismo e all’ironia più rispettosa, può accadere ogni magia!

L’umorismo però (o ironia, che dir si voglia) non va confuso con il sarcasmo. 

Immaginando le due facce di un’ipotetica medaglia, una faccia (l’ironia) brilla nel sole, mentre la seconda (il sarcasmo) poggia direttamente sul nudo fango. Se il primo è costruttivo, distensivo, arguto e piacevole, se riesce a tradure, in una battuta ilare e in uno scambio ridanciano, l’essenza intelligente di chi la propone, il suo alter ego è cattivo, narcisista, irrispettoso delle altrui sensibilità, pronto a schiacciare e calpestare, distruggere e demolire, pur di primeggiare sull’interlocutore, vivendolo come un nemico da abbattere, prima che diventi offensivo e contundente, in ogni accezione possibile.

In altre parole ed esagerando volutamente i termini, potremmo ben definire il sarcasmo, come un disturbo sociopatico e antisociale del comportamento umano.

Al di là delle battute, è lecito pensare che, se l’umorismo è una forma d’intelligenza (adattiva per Freud, come abbiamo già visto), il suo Mr. Hyde è una materializzazione delle paure più profonde, quelle che condizionano il comportamento e distruggono le relazioni. Il sarcastico umilia offendendo, allo stesso modo dell’arrogante che soverchia urlando. 

In entrambi i casi, è la paura a farla da padrona, rubando la scena alla già scarsa autostima del soggetto in questione.

L’umorismo ride con te. Il sarcasmo ride di te. La sottile differenza è tutta qui. Sottile appunto, come una lama tagliente che di buone intenzioni proprio non ne ha.

L’aspetto costruttivo dell’umorismo si concretizza quindi nella sua capacità di mostrarci una diversa prospettiva, un differente punto d’osservazione, una nuova forma mentis nell’affrontare un determinato carico emotivo, spesso inaspettato. La battuta piacevole rompe ciò che potremmo definire iper-focus, ovvero quella concentrazione esagerata sul problema, a discapito della soluzione che perciò diventa invisibile, in cui il primo ruba la scena al secondo, rendendoci incapaci di essere produttivi e risolutivi.

Non a caso, lo psicologo americano Richard Bandler ha scritto “Se siete seri, siete bloccati. L’umorismo è la via più rapida per invertire questo processo. Se potete ridere di una cosa, potete anche cambiarla”.

E ciò ci porta a dissacrare (deo gratias) lo status quo, il “si è sempre fatto così”, l’assurdo “squadra che vince non si cambia”“finché la barca va…”, per affrontare le situazioni con un pensiero diverso, alternativo, leggero nella sua profondità, mirato a costruire una soluzione con il sorriso sulle labbra e con il giusto atteggiamento.

Un pensiero “laterale” che punta a fiaccare le resistenze, attaccandole laddove non se lo aspettano, proprio come nella strategia militare, come avrebbe detto l’indimenticato professore maltese Edward De Bono, famoso per i suoi sei cappelli per pensare, per il suo fine umorismo e l’altrettanto affilata intelligenza.

Quando parliamo di umorismo, quindi, definiamo un’alternativa positiva, proattiva, aperta al mondo intero che ne evidenzia gli aspetti ridicoli, così come mette in ridicolo la seriosità stessa, nostra e di molte persone, dall’apparenza rigida, con quel fare inflessibile, perché sorridere si può, anche nelle questioni più importanti, esattamente come una battuta ce la si può e ce la si deve concedere, per sopravvivere alla seriosità senza freno e senza prospettiva. Soprattutto senza soluzione. L’ironia alleggerisce le atmosfere più plumbee, assorbe gli urti, rende più confortevole un percorso che, diversamente, sarebbe scomodo o impervio, quasi impossibile da praticare.

E ponendosi come alleviatore, positivo e proattivo, alleggerisce i conflitti, distendendo gli animi, ponendoli in condizione di collaborare, limando alla base quelle asperità che inaspriscono gli scambi e rendono poco propizie le circostanze, accorciando le distanze che sporcano il momento d’ansia, paura e incertezza.

Un momento d’attrito concreto e potente, dovuto alla differenza tra stato desiderato e stato reale, ovvero una distonia relativa alla realtà che stiamo vivendo, evidentemente diversa da ciò che ci aspettavamo, che genera disagio. E quel disagio, prima che diventi stato ansiogeno, non può che essere risolto dall’adattività (altrimenti definita come l’arte di stare al mondo) di cui sa essere capace solo una mente pronta, sveglia e intelligente. Una mente che, spesso, si concretizza in un’uscita con stile, atta a rompere schemi e tensione e che, strappando un sorriso agli astanti e a noi stessi, cambia il modo di vedere le cose in tutti i presenti.

Una caratteristica umana, quindi, molto affine al più blasonato e abusato concetto di resilienza, che può essere allenata, rafforzata, affinata, tanto dalla nostra cultura, quanto dalla nostra curiosità e dall’ambiente circostante. Ma, soprattutto, una battuta d’arguto spirito, non trova spazio in assenza di ascolto attivo e costruttivo, nonché rispettoso dell’altro nel senso più vero.

Agli esatti antipodi del sarcasmo, che l’altro nemmeno lo ascolta, tutto teso e concentrato a scovare l’altrui tallone d’Achille, quel punto debole verso il quale vibrare il mortale colpo, nell’illusione d’apparire brillante.

Ed è la stessa storia a ricordarci come, anche nelle crisi più nere, quelle che hanno segnato il nostro passato, influenzando il nostro futuro, una battuta arguta ha sempre avuto spazio e, a volte, alleggerendo gli animi, ha contribuito a risolvere la querelle

Perché serio, non vuol necessariamente dire serioso.

Immaginare cambia il presente e prepara il futuro, mentre ci aiuta a sopportare un passato spesso ingombrante. Ci consola per ciò che non sappiamo o non possiamo essere e ci conforta, grazie a una risata, per ciò che davvero siamo, staccandoci da una routine pesante o da un momento che, in fatto di pesantezza, rischia di diventare un macigno e aiutandoci a sopportare ciò che di noi poco ci piace, ridendoci sopra, proprio grazie all’ironia che, soprattutto quando rivolta verso noi stessi, rappresenta l’apice nobile dell’arguzia umana.

E ristabilisce il giusto rapporto tra reale e percepito, perduta o sovrascritta dall’ipertrofia dell’ego, di norma talmente piccolo da ingannarsi, fino a sentirsi un gigante, in preda al delirio egocentrico, riconquistando il corretto equilibrio tra le parti e prendendo le distanze da noi stessi e dalla nostra (spesso) ingombrante personalità.

È una questione di stile, di buonsenso e di misura, l’ironia che accomuna.

L’umorismo scioglie i conflitti e alimenta il confronto (già questo concetto sarebbe sufficiente per renderlo di studio obbligatorio a scuola!) perché solo chi ride con gli altri, anche di se stesso, può essere definito brillante. Chi ride degli altri, dei loro sentimenti e delle loro debolezze, puntando a umiliare l’altrui debolezza, è solo un disgraziato meritevole di poco ironica pietà.


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.

Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.