Fai pace con la tua storia.

di Mario Barbieri

C’è una serie, abbastanza recente e ancora disponibile su Netflix, che pur nel suo “fantascientifico” o supposto tale soggetto, propone degli spunti di riflessione tutt’altro che banali.

La prima suggestione, la prima domanda che potrebbe salire alla mente, durante o alla fine della visone di questa 1a stagione – io non so se ne vorrei una 2a tanto la 1a potrebbe considerarsi “finita”, anche se con scenari completamente aperti – è quella che scaturisce di fronte al ritorno di persone scomparse: un dono dal Cielo o un evento potenzialmente capace di distruggere la nostra vita e il nostro “equilibrio”?

Non si tratta di uno scenario da “Il ritorno dei morti viventi” o da “L’invasione degli ultra-corpi” (film cult del 1956), anche se alcuni elementi potrebbero dirsi comuni, ma del veder prendere o ri-prendere vita, persone, individui, esseri, in tutto e per tutto umani, con i loro pensieri, emozioni e apparentemente motivazioni.
Non necessariamente dei morti resuscitati, ma anche “cloni” coesistenti con i loro “originali” – talvolta persino la “versione migliore” del proprio originale – che prendono a convivere nella stessa piccola comunità, costretta a vivere in un disabitato paesino finlandese, bloccato dall’eruzione di un enorme vulcano, le cui ceneri rendono grigio il vivere dalla terra al cielo.

È interessante scoprire la reale profonda motivazione che giustifica, muove, queste genesi: conflitti, sentimenti, paure, speranze, rimpianti, angosce, segreti, amori infranti o sospesi, sono questi in realtà il seme piantato in una fantascientifica – verosimilmente aliena – roccia vulcanica, dalle cui profondità come da un utero, queste figure emergono e iniziano a vivere e convivere con il mondo esterno.
Immaginiamo, i nostri sogni o anche i nostri incubi, quando, credo non di rado, rincontriamo persone non necessariamente decedute, ma perse nella storia e nel tempo, a noi legate per un qualsivoglia motivo e trasferiamo questi sogni, queste persone, nella concreta realtà del giorno dopo, al nostro risveglio.
Scenari e situazioni, consolatorie a volte, di ritrovata gioia anche, ma tal altre, cariche di angosce, di ritrovati conflitti, di introspezioni dolorose… Figure che ritornano.

Quanti avvenimenti, persone, situazioni, abbiamo rinchiuso nel nostro passato per poi “buttar via  la chiave”? Abbiamo chiuso quel sottoscala, quell’abbaino della nostra memoria, quel luogo rimasto oscuro e freddo, come le viscere del vulcano della “fiction”, scegliendo coscientemente di non ritornarvi per nessuna ragione.
Non è che tutto ciò sia sbagliato, talvolta è necessario, è questione di legittima difesa, la necessità di voltare pagina, ma è pur sempre un sorta di realtà sospesa, un binario morto che abbiamo deciso e voluto attivando quello scambio, per restare noi sui binari che procedono verso quell’orizzonte che si spera più sereno.

Tutto questo in una serie televisiva, su uno di canali più in voga, sotto le mentite spoglie di una serie fanta-thriller dagli scenari inverosimili (per noi forse) ma assolutamente realistici?
Beh si, può essere, può essere quando c’è un certo spessore di trama, sceneggiatura e regia (anche se Finlandese ;-), perché no?

A questo punto non vi dirò il titolo della serie, il senso non era una “promo”, ne tanto meno – Dio me ne scampi e liberi – “spoilerare” come usa dire, è solo un invito a riflettere sulle vostre, nostre vite, semmai dovesse capitare quanto fantascientificamente raccontato.

Il senso ultimo è tutto nel titolo di questo articolo.

Per il resto avete abbastanza spunti per andare a cercare la serie da cui sono partito per il mio sproloquio (io me la sono già vista tutta)…

Poi magari ne riparleremo.

Note sull’Autore

Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti.
Appassionato di Design e Fotografia.

Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.

Blog:
https://ceuntempoperognicosa.wordpress.com/
https://immaginieparoleblog.wordpress.com/




Orgosolo, tra immagini e silenzi.

di Maria Patrizia Soru

C’è una Sardegna lontana dal suono delle onde, dalle trasparenze smeraldo e dalle rocce che sanno di salsedine. E’ una Sardegna da tutti definita aspra e selvaggia che da sempre si è sottratta alla conquista e all’omologazione.“ Barbaria”, così la battezzarono i romani  capaci di conquistare e piegare il mondo, ma non il cuore della Sardegna ed i suoi  abitanti protetti dall’ombra del Gennargentu e forti come le sue rocce, che li costrinsero a porre un avamposto, un limes”,  Forum Traiani ( l’ attuale  Fordongianus in provincia di Oristano) ai margini di quella regione per contenere la loro indole indipendente. 

Anche Gregorio Magno spese molte delle sue energie per estirpare il paganesimo da quelle terre, ma a niente valsero i suoi sforzi. La conversione al cristianesimo e la conseguente romanizzazione  si compirono secoli più tardi in maniera semplice e naturale quando la Barbagia accolse le genti che dalle coste cercarono rifugio nell’entroterra per sfuggire alle invasioni provenienti  dal mare. 

Ne i pisani, ne gli spagnoli o gli aragonesi e neanche il governo sabaudo riuscirono a durare nell’isola un tempo sufficiente per esercitare la propria autorità innovatrice tra le “genti barbare” di Sardegna. L’isolamento, la cultura pastorale, l’ambiente fisico ed il clima hanno resistito allo scorrere della storia come racchiusi dentro ad uno scrigno del tempo che ha protetto le tradizioni ma soprattutto, il carattere di una popolazione antica forte e speciale che esprimeva  attraverso la “balentia”  il massimo della potenzialità dell’uomo suggellata tra le righe di un codice non scritto, il Codice Barbaricino.

La natura dei sardi è nota per i suoi silenzi, per le poche parole. E se lungo le coste la voce più potente è quella del maestrale capace di innervosire ed incupire il mare, nel cuore della Sardegna il silenzio ha una voce differente. Il  vento deve attraversare muri di rocce e foreste di lecci, l’acqua striscia e salta nel sottobosco e tra le gole. Qui le “parole” hanno il loro peso, anche se silenziose ed apparentemente leggere come i fiocchi di neve che lentamente in inverno,  ricoprono il suolo. 

La chiamano omertà, la definiscono un’ ancestrale forma di difesa e ribellione al mondo interno ed esterno che contraddistingue l’indole  dei barbaricini  facendo pensare che abbiano poca voglia di aprirsi, di raccontarsi, di raccontare. Per capire che questo pensiero è privo di fondamento bisogna visitare uno dei borghi più belli e particolari, camminare lentamente tra i vicoli antichi, stare in silenzio, aprire gli occhi, osservare ed ascoltare al contempo ciò che le immagini vogliono comunicare.

E’ noto che “anche i muri hanno orecchie”  ma ad  Orgosolo si può dire invece che “i muri parlano” ed urlano a gran voce la storia, le sofferenze e gli ideali di un popolo.

Eco lontano , figlio delle pitture rupestri, la tradizione dell’arte muraria attraversa la storia dell’umanità come forma di decorazione, narrazione o indottrinamento sia  sacro che profano,  in ambito pubblico e privato. L’arte dei murales così come oggi la conosciamo quale forma di denuncia sociale, si sviluppa in Messico dopo la grande rivoluzione del   1910. Immagini rappresentanti  lotte sociali, particolari della storia popolare e sentimenti nazionalisti  presero forma attraverso la pittura  di grandi muri esterni di edifici destinati al popolo.

Proprio nella manifestazione di dissenso, di ribellione ed al contempo nell’unione popolare Orgosolo vede nascere il suoi primi murales . Nel 1969 la tenacia della popolazione lotta e vince contro la realizzazione di un poligono di tiro nel territorio comunale di Pratobello, tradizionalmente asservito al pascolo. Si narra che nei muri del paese comparvero dei manifesti che esortavano i pastori ad abbandonare i pascoli.

 Nello stesso anno un gruppo anarchico denominato  ‘Gruppo Diòniso’ creò un murale di chiara matrice politica ed un murale tipo ‘reclame’.

Dal quel momento venne rotto il silenzio e dal 1975 in poi grazie ad un insegnate d’arte Francesco del Casino, i muri degli edifici del paese iniziarono a parlare.. un sussurro lieve, un urlo potente ma sempre in una “lingua universale” quella dell’immagine e del colore, talvolta accompagnata da qualche nota che attinge alle tecniche narrative del fumetto , talvolta totalmente priva di “parola”. Tratto nitido e  segno inconfutabile assumono ruolo divulgativo, creando un contesto figurativo immediatamente comprensibile anche a distanza, un  messaggio essenziale che può essere colto in maniera chiara a prescindere dall’età e dal livello di istruzione, poiché è sufficiente il solo atto di guardare le figure. 

Così Orgosolo narra se stessa, lo fa senza timore lasciando che il colore si arrampichi sui muri, prenda forma, catturi l’attenzione dei passanti e consegni il suo messaggio in una forma semplice che attraversa lo sguardo e giunge al cuore.

Il fermento intellettuale degli anni ‘60 e ’70 favorì il nascere e svilupparsi dei murales collettivi che illustrano tutt’oggi con dovizia di particolari le lotte di potere, la vita contadina e pastorale, alternando tematiche socio-politiche alla rappresentazione di simboli tipici appartenenti alla quotidianità. Quotidianità che trova spazio tra i “vicoli della narrazione” dolce ed affabile della vita   di donne e uomini impegnati nei loro lavori, nel loro vivere sereno e familiare..   Uomini e donne senza nome e senza gloria che a quella storia, alla storia di Orgosolo e della Sardegna  appartengono perché in essa hanno vissuto, l’hanno alimentata e, consapevoli o meno  sono stati e, ne sono tutt’ora il motore.

Orgosolo adagiata nel verde dei suoi boschi si offre a se stessa ed al mondo come un grande museo sotto il cielo. Parla ed accompagna se stessa verso il futuro mantenendo nitidi i “tatuaggi e le cicatrici sulla sua pelle” su tutti i suoi muri, protetti ed al contempo,  mostrati con semplicità, genuinità ed orgoglio.

Anche se campidanese e non barbaricina sento che quelle immagini, che quella storia mi appartiene. E’ quella della Sardegna intera e dell’Italia, forse cambia solo il tono dei colori, ma i tratti ci accomunano.

link di riferimento

https://www.comune.orgosolo.nu.it/index.php/vivere/cultura/17

https://www.sardegnaturismo.it/it/la-voce-silenziosa-dei-murales-di-orgosolo

Nota sull’Autrice.

Maria Patrizia Soru è una Guida Turistica Archeologica.
Appassionata di Storia e letteratura della Sardegna, è alla continua ricerca di immagini e parole capaci di raccontarne il passato, il presente ed il futuro.

Disclaimer: tutte le immagini presenti in questo articolo sono tratte dal web




L’orco in vacanza.

immagine tratta dal web – artista sconosciuto –

di Christian Lezzi

Sobborghi di Bangkok, un pomeriggio d’estate come tanti, un pomeriggio come tutti, per chi in quei posti c’è nato e lotta per non morirci.

Una casupola della periferia degradata, pareti scrostate e macchiate di tristezza. All’interno penombra, odore stantio di riso bollito e curry, di sudore e lacrime, di fame e miseria, che ti si attacca addosso come il caldo e l’umidità, come gli insetti sempre presenti, come la paura che, come le mosche e le zanzare, vola nell’aria. 

Una donna accoglie un turista occidentale e lo fa accomodare in casa, con l’ospitalità e il sorriso di chi non attendeva altro, di chi è prossimo a concludere un interessante affare. E’ grasso, l’uomo, affannato e sudato, l’umidità lo fiacca e gli insetti gli danno il tormento ma, nonostante ciò, sorride anche lui, di un sorriso malsano, che non lascia presagire nulla di buono. 

Ha gli occhi da satiro l’uomo, mentre la sua mente vola già verso quel paradiso di lussuria che sognava da tempo, un sogno che mai aveva trovato il coraggio di realizzare. Fino a questo momento, fino a questo viaggio.

Socchiude gli occhi l’uomo e, come un predatore che fiuta la preda, già pregusta il piacere che riceverà tra pochi minuti, in cambio di qualche misero dollaro. Ma non sarà la donna a soddisfare le sue voglie, i suoi desideri, le sue perversioni, ogni nascosta e indicibile fantasia. Lei si limita a prendere i soldi pattuiti e offre un tè freddo all’uomo, mentre entrambi attendono che, la vera protagonista faccia la sua comparsa sullo squallido palcoscenico, concedendosi al suo pubblico.

No, non sarà la padrona di casa a essere picchiata e abusata, non questa volta, non più. E’ troppo vecchia e non soddisfa i gusti dell’uomo, che è lì per qualcosa di particolare, di finalmente diverso, che dalle sue parti è vietato, condannato non solo dalla legge, ma anche dalla comune morale. 

E’ un occidentale l’uomo, lui viene dall’Europa. E nella civile Europa, certe cose non si fanno!

Una porta si schiude, con un lieve cigolio ed eccola, la protagonista dell’imminente amplesso.

Si chiama Janjira e il suo nome significa Luna. Entra nel piccolo e maleodorante locale dalla porta laterale che conduce alla piccola camera da letto. E’ nuda, ha gli occhi rigati dal pianto, lividi sulla pelle e graffi e morsi, come se qualcuno avesse provato a farla sua, lottando per piegare un rimasuglio di volontà, già messo a dura prova dagli stenti della sua miserabile vita. Dona un sorriso di circostanza al cliente, fa buon viso a cattivo gioco, proprio come le ha insegnato la donna. Perché lo sa, ormai lo ha imparato, che se vorrà mangiare, quella sera, dovrà fare tutto quello che l’occidentale le ordinerà di fare. Tutto!

Ha solo nove anni la piccola Janjira… ma già non ricorda più, di quand’era solo una bambina serena!

Una storia amara, seppur di fantasia, ma verosimile, che ricorda brutalmente tante altre storie reali, che di tanto in tanto fanno capolino nella cronaca internazionale e ci giungono da mondi lontani. Una storia inventata, com’è inventato il personaggio di Janjira, mentre non sono inventate le centinaia di migliaia di bambini che, ormai, non hanno più il diritto di essere tali, nel mondo. Un artifizio letterario utile a introdurre il discorso e portare l’attenzione su quello che viene definito, con un termine generico e generalizzato, quasi a volerlo derubricare, spogliare di parte delle responsabilità, “turismo sessuale”. Un termine quasi innocuo, del quale, magari, sorridere maliziosamente, con il quale si tende a indicare quel fenomeno, in continuo aumento, che vede individui adulti – solitamente di sesso maschile – scegliere, per le proprie vacanze, quelle mete esotiche o dell’est europeo che, accanto alle bellezze paesaggistiche o artistiche del posto, offrono piacere sessuale mercenario, facilmente reperibile e a prezzo modico, almeno in relazione agli standard di spesa occidentali.

L’Organizzazione Mondiale del Turismo (OMT) lo definisce “viaggio organizzato da operatori del settore turistico, o da esterni che usano le proprie strutture e reti, con l’intento primario di far intraprendere al turista una relazione sessuale a sfondo commerciale con i residenti del luogo di destinazione”. Di cosa si tratti è ben chiaro, fin troppo evidente e se ne distinguono almeno due forme primarie: Quello promosso da Paesi in cui la prostituzione è legalmente un lavoro, costituendo così una risorsa economica trasparente e quello praticato in Paesi poveri, o in via di sviluppo, dove determinati comportamenti sessuali non hanno alcuna regolamentazione, sfruttati da organizzazioni illecite o pseudo legali che, forti della dilagante corruzione tra le forze dell’ordine e facendo leva sulla miseria e sull’ignoranza di un popolo allo stremo, rendono schiavi i bambini o i giovanissimi, maschi e femmine, non solo uomini e donne.

Evidenti le differenze tra i due casi. Il primo è un sistema legale (almeno stando all’ordinamento legale di quei Paesi) basato sulla consapevolezza delle parti, sul consenso, sul mutuo accordo e, nei limiti del possibile (per lo meno si spera) sull’altrettanto mutuo rispetto. Una prostituzione regolamentata, esercitata in locali privati o aree circoscritte e designate allo scopo. E’ il caso di Olanda, Svizzera, Germania, Belgio, Slovacchia (dove, all’ingresso di alcuni locali che offrono questo servizio, è esposto in bella evidenza un cuore rosso), solo per fare qualche esempio, ma dove è comunque aspramente punito lo sfruttamento della prostituzione in strada e al di fuori della legge. 

Decisamente diverso il secondo caso, fatto di sfruttamento nel senso più cupo della parola, di violenza e riduzione in schiavitù, basato su un carente sistema sociale e culturale, alimentato dalla dilagante corruzione tipica dei paesi “poveri” e che, viste le preferenze più in voga, tocca principalmente i giovanissimi. 

Le mete classiche del turismo sessuale illegale sono Cina, Brasile, Repubblica Dominicana, Colombia, Thailandia, India, Cambogia, ai quali, di recente, si sono aggiunti alcuni paesi dell’est europeo e l’Africa. Ma l’elenco è lungo e non si ferma a questi Paesi. Maschi e femmine, comunque bambini o giovanissimi, ridotti in schiavitù e obbligati a vendersi anche dalla propria famiglia che vede semplicemente, in questa pratica, un mezzo per sbarcare il lunario. Un modo come un altro, come se il figlio non fosse il loro, come se quello non fosse un bambino. 

A volte l’unico. Perché dietro questo tipo di schiavitù c’è sempre la miseria e il denominatore comune resta la fame.

E’ una storia turpe, quella del turismo sessuale, fatta di uomini benestanti, socialmente produttivi, rispettati e rispettabili in patria che, in quei pochi giorni di vacanza, si trasformano, tirando fuori il peggio di se stessi e delle loro depravazioni e vanno a cercare quello che, nel paese d’origine, è difficilmente reperibile, o che viene considerato esecrabile e legalmente perseguibile. E per soddisfare queste voglie, violano l’infanzia, la dignità, l’integrità fisica di persone che normalmente vivono ai margini della società e che non hanno scelto di fare questo per vivere. Non lo hanno chiesto loro di essere il giocattolo di una notte ed essere trattati da oggetti in cambio di una ciotola di riso. E’ un quadro comune e sconcertante, rintracciabile in tutti quei Paesi in cui la dignità, il rispetto, la salute e la vita di un bambino sono solo merce di scambio, qualcosa che giova al tornaconto dei singoli adulti e, alla lunga, all’economia nazionale. 

Tutte le conseguenze sono secondarie, fanno parte del mestiere.

In Italia, la questione del turismo pedo-sessuale è regolata dalla legge n. 269 del 1998 (Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù), aggiornata poi dalla legge n. 38 del 2006 (Disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo Internet). La normativa italiana in merito, è considerata molto avanzata, essendo stata la prima a prevedere il principio di extraterritorialità e per questo tradotta in diverse lingue. Proprio in virtù della giurisprudenza extraterritoriale, l’italiano protagonista di questo aberrante tipo di turismo, è perseguibile nel paese ove sono accaduti i fatti, su denuncia delle vittime e poi, d’ufficio, in Italia.

Un viaggio a sfondo pedo-sessuale, per questi individui dall’ordinaria apparenza, con una buona cultura, tendenzialmente benestanti e, in media, d’età compresa tra i 20 e i 40 anni (fascia che si è abbassata, negli ultimi anni), per il 90% uomini, significa poter finalmente scatenare perversioni e fantasie, concedendosi il lusso di sensazioni fuori dall’ordinario che, prima di allora, albergavano solo nei loro sogni più deviati. Il tutto condito dall’inebriante impunibilità tipica di alcuni paesi, nei quali basta una tasca piena di dollari per aggirare le leggi e le sanzioni, cullati dall’anonimato e ben lontani dalle condanne morali. 

Un viaggio di liberazione dell’Io malato, dal rischio calcolato e dal basso costo. Tanto poi, il vero costo, lo pagano le vittime. E quello, di certo, non può essere definito basso.

Parliamo di soggetti animati da desideri che, spesso, sono in linea con precise forme psicopatologiche, catalogate dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, che li definisce pedofili in piena regola, nella piena corrispondenza con il criterio dell’Egodistonia, quel disturbo della personalità che caratterizza i soggetti incapaci di provare disagio nel realizzare le proprie perversioni, pur riconoscendole come devianze. Ne consegue il rischio, in verità molto concreto e statisticamente rilevante, di reiterazione futura del criminoso operato. Una volta rotto il blocco mentale ed effettuata quindi l’esperienza “liberatoria”, i soggetti in questione tendono a ripetere l’esperienza arrivando, in preda all’escalation comportamentale, ad abusare anche dei propri figli. 

Il turismo sessuale, quando non si svolge tra adulti consenzienti e secondo la legge, rappresenta l’ultima frontiera della perversione illecita e rende, certi Paesi, un paradiso dove tutto è concesso, dove basta pagare (e nemmeno tanto) per soddisfare qualsivoglia prurito. Una piaga non indifferente per tutto il mondo, soprattutto in virtù della violenza, dello sfruttamento e della riduzione in schiavitù di cui abbiamo già parlato che, statisticamente, vede protagonisti gli italiani (primi in classifica, con ben 80.000 viaggiatori annuali, seguiti da francesi, tedeschi, inglesi, cinesi e giapponesi). 

Solo se consenziente, il sesso può assumere quella connotazione di piacere ludico e ricreativo, anche all’interno di un viaggio organizzato, ideato allo scopo o meno, anche se dietro quel piacere c’è una contropartita in denaro, perché rispetta la dignità e la libertà altrui, senza ledere diritti inviolabili e naturali come quelli dell’infanzia o dell’essere umano. 

Sostituiamo quindi, una volta per tutte, il termine “turista sessuale” con quello più adeguato di “turista pedofilo”.

Occorre separare nettamente le due definizioni, mettendo da una parte i casi di prostituzione consenziente, legale e con persone adulte, dall’altra la finalità sessuale violenta, rivolta ai minori, ovvero quelle pratiche ripugnanti, soddisfatte ai danni di chi non ne ha colpa e ancor meno interesse ma che, suo malgrado, concorre per necessità a tenere in piedi questo marcio business, questo affare che prolifera sotto gli occhi, l’indifferenza e il silenzio complice di buona parte del mondo. E occorre parlarne, con le giuste parole e senza paura. 

Così come Giovanni Falcone ebbe a dire che “di mafia si deve parlare”, Teorema sostenuto e dimostrato da Roberto Saviano, è il caso che tutti noi, anche della pedofilia (nostrana o itinerante) iniziamo a parlarne, senza paura e senza inutili giri di parole, senza se e senza ma, senza giustificazioni e senza attenuanti, perché l’infanzia torni a essere un diritto inalienabile, non una concessione da applicare nei soli giorni feriali.

Nota sull’ Autore

Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano. Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




Per sesso o per possesso.

di Ludovica D’Alessandro

Nessuno ci insegna ad amare. Nessuno ci impartisce quella misura precisa con cui farlo.
E nessuno ci insegna neppure a disegnare l’area dentro la quale, con un compasso, racchiudiamo cosa amiamo e chi amiamo.
La famiglia, le esperienze, la società ci insegnano come e dove amare qualcuno ma non è sempre esattamente così.
Come? Ci dicono che bisogna amare prima se stessi e poi gli altri .
Come se volersi bene o non volersene precludesse in sintesi la possibilità di essere pazzi di qualcuno o che qualcuno possa desiderarci lo stesso.
Con tutte le ossa fracassate, con tutta la carne scoperta che abbiamo, con tutto il marcio che c’è.
Dove amare qualcuno? In quello spazio che c’è tra il rispetto per se stessi e l’ossessione.
Certo perché è così facile trovare una linea di comportamento socialmente corretta quando c’è di mezzo una dipendenza. Una dipendenza da un profumo, un corpo, la semplice “presenza” di qualcuno o anche il sesso.

Come se, tra le strade di Buenos Aires, sotto le stelle (a volte) e sotto la tempesta altre, ballassimo un tristissimo tango.
Astor Piazzolla, definiva quella musica,come un emozione triste che si balla. 
Sí perché nella malinconia, c’è dentro un po’ di tutto questo.
Due corpi che si sfiorano e che si lasciano andare ad una fusione completa .

Per chi come me ha sofferto di dipendenze, è veramente difficile provare un sentimento calmierato, diciamo “ un emozione misurata”. 
Non mi hanno insegnato a farlo e a dir la verità non sarei nemmeno interessata.
Dentro a quell’area circolare che provo a disegnare con il compasso, moltissime volte ci giro dentro come un topo in gabbia che non riesce a trovare una via di fuga.

Mi scontro con il voler dare troppo, con il non avere freni, con il desiderio di sperimentare cose nuove, con la paura di essere assolutamente e sempre fuori luogo, con la certezza che se è vero che non ho mai imparato a scegliere cosa offrire di me so, allo stesso modo ed esattamente quanto sia importante vivere tutto.

Da piccola era molto diverso, appannato, aggrovigliato , non volevo sentire e non volevo essere vista. 
Oggi da donna adulta , invece , sono dipendente da quella adrenalina che è una meravigliosa scoperta .
Ho bisogno di sentire quella scossa che mi fa sobbalzare dalla sedia, quel dolore che ti sventra e ti denuda, quel desiderio che ti fa chiedere e supplicare ancora. 
Sono seduta in macchina, con il culo attaccato al sediolino, solo perché sò che tra pochi secondi spingerò l’accelleratore.
E ci saremo solo io e la potenza e la follia di questa corsa, in piena notte senza una meta.

Scrivo queste cose perché so che la fuori ci sono tantissime donne e uomini che hanno delle dipendenze, ma che credono che averne una significhi per forza di cose doversene liberare.

Ho imparato, invece, che forse la strada migliore per gestirle è quella di viverle con qualcuno che le sappia trasformare in amore.

La trasformazione è la chiave.

Forse , non aprirà tutte le porte ma sicuramente aprirà le porte di noi stessi alla ricerca della nostra essenza.
Qualunque essa sia, qualunque intensità abbia e dovunque ci stia inesorabilmente portando.
Ci vediamo lì in fondo al pozzo dove nessuno ci dirà come e quanto amare, chi e cosa, di che sesso, cultura o estrazione sociale , ossessivamente o di nascosto, per sesso o per possesso, per una vita di comodo o per una allo sbando.

Io voglio continuare a ballare il Tango con Astor Piazzolla in sottofondo. 

Nota sull’autrice.

Ludovica D’Alessandro è una Office Manager and Executive Assistant.

Nata a Napoli, ha vissuto e lavorato per molti anni a Londra.

Ora vive a Milano.

Scrittrice per diletto, talento enorme e indiscutibile, è prossima alla pubblicazione della sua opera prima.




Preferisco non avere scelta

Ringraziamo Filippo Russo, amico personale, per averci offerto la testimonianza di una “normalità” le cui stesse fondamenta sono messe in discussione dall’ambiente. Dalla famiglia. Dalla sfortuna, forse.

Immagine tratta da Google- The Sleepers – 1996

“Usurpatore di un cane che non sei altro! Padre immeritevole di amore che non hai saputo darmi       scelta, vorrei che bruciassi all’inferno!”

Questo è quello che Alessio (lo chiamerò così) avrebbe voluto urlare al mondo se   solo avesse avuto la possibilità di farlo.

E come lui forse molti altri, ragazzi abituati ad entrare ed uscire dai riformatori di mezza Italia, ragazzi nati già adulti, costretti a darsi da fare da subito, “svantaggiati di senno e di settore” avrebbe detto un famoso cantastorie siciliano di nome Ciccio Busacca.

Ricordo come se fosse ieri il mio primo giorno di lavoro come educatore in una comunità   alloggio per minori detenuti. 

Arrivai carico e teso come la corda di un violino. Non sapevo cosa aspettarmi né come sarebbe   stato l’impegno su cui avevo investito tanto.

“E se non fossi all’altezza?”

Me lo chiedevo continuamente. D’altronde avevo 26 anni e nessuna esperienza sul campo. Solo tanta teoria imparata durante l’anno trascorso in una scuola specializzata.  Nulla a che vedere con i colleghi conosciuti in seguito, che erano là da anni, a proprio agio, con lo sguardo sornione e un po’ menefreghista di chi ne ha viste tante e probabilmente ha perso fiducia e speranze.

Feci in fretta ad imparare. Il terzo giorno mi toccò il turno notturno in solitaria. Un collega molto “incoraggiante”, mi aveva raccontato che il ragazzo di cui avevo preso il posto, era andato via perché non aveva resistito alla pressione dell’ambiente.  La settimana prima, durante lo stesso turno, in piena notte aveva chiuso gli occhi per un attimo, e si era addormentato.

Così i ragazzi (già organizzati in un’associazione delinquenziale contro la comunità/ sistema che di loro si prendeva cura malamente) avevano dato fuoco al divanetto   sul quale riposava e solo un miracolo lo salvò dal morire bruciato vivo a 25 anni.

Siamo onesti: nessuno di noi voleva immolarsi e, perciò, proprio coloro che dovevano   rappresentare dei modelli educativi da seguire, si trasformavano spesso da vittime a carnefici. In episodi che, di educativo, avevano ben poco.

Da parte mia, pur senza giudicare l’atteggiamento di alcuni, volevo sperimentare tutta la difficoltà del mio ruolo. Forse solo per imparare che “educare” dei giovani reietti della società a NON emulare padri, madri   e fratelli entrando ed uscendo di galera come dal Grand Hotel, è impresa quasi disperata.

Dire che mi sentivo inadeguato è davvero poco. Durante il periodo di formazione ci avevano spiegato come aiutare le persone a reinserirsi nella società. Avevamo appreso le tecniche   di persuasione, l’importanza dell’ascolto, tutta la teoria possibile sulle cause sociali del disagio. Frequentammo persino un corso di clowneria…chissà poi perché. 

Ma nessuno ci aveva spiegato come reagire all’incendio del divano sul quale ti sei appisolato, magari dopo una serata apparentemente del tutto normale.

Decisi di resistere alla tentazione di darmela a gambe levate. Resistere ancora per un po’, per non darmela vinta e dimostrare a me stesso di essere più coraggioso di quanto non fossi. Perché sì: in realtà me la   stavo facendo sotto.

Ma forse è questo il coraggio, no?

Feci la scelta giusta e in qualche modo riuscii ad instaurare un dialogo con quei “diavoli   scatenati”, come li chiamava il parroco presidente dell’associazione che gestiva la comunità.

Nel tempo sono riuscito a capire quanta rabbia ci fosse nel cuore di questi ragazzi, quanta dolore si   nascondesse dietro ogni terribile azione commessa.  La fame di un amore mai corrisposto, la solitudine di un adolescente che sembra non avere una scelta.

Tra una risata compiaciuta e l’altra, Alessio mi raccontava le sue bravate, quanti soldi era riuscito a rubare senza farsi mai scoprire, le armi che nascondeva per conto di un padre contrabbandiere e i motorini che rubava per poi rivenderli in pezzi di ricambio.

“Ma sei un genio, cazzo!”

Ricordo che, una volta, rapito da un turbinio di emozioni contrastanti, esclamai così. Di puro istinto. I suoi   occhi si spalancarono, ed io capii che, in quel momento, non si sentiva più giudicato. Per questo si raccontò a ruota libera per tutta la sera, tra una sigaretta e l’altra.

Ma sapevo che quel momento di complicità era destinato a finire.

Alessio, allora, aveva solo 14 anni. E già una lunga storia alle spalle.

Era stato arrestato in flagranza di reato con il suo complice, un ragazzo più grande di lui, mentre    effettuavano una rapina in un supermercato.

Dopo vari interrogatori e dopo che il giudice ebbe sentito il parere positivo del collegio degli educatori (capitanati da un’improbabile psicologa alle prime armi) e dell’assistente sociale, venne deciso che poteva scontare la sua pena presso la comunità con “messa alla prova”.

Una sentenza dal significato pesante.

I ragazzi che vengono mandati in comunità, vivono una sorta di carcere surrogato in cui hanno, sì, la playstation e un calcetto balilla per ammazzare le giornate, ma non possono fare praticamente nient’altro che non gli venga preventivamente consentito.

Come in un carcere minorile qualunque, ma con “la libertà” di scappare in ogni momento, perché la porta è sempre aperta.

Nessuno degli educatori ha il potere o il dovere di trattenerli con la forza.

Sono liberi di uscire, ma consapevoli che, dopo la segnalazione della comunità alle forze dell’ordine, verranno arrestati e costretti a finire la loro pena in carcere.

Verrebbe naturale pensare “meglio la comunità che il carcere”, ma ho scoperto che, in realtà, non è così.

Ne erano scappati tanti, apparentemente senza motivo. Passavo il tempo a domandarmi perché lo facessero.  

Mentre lavoravo, Alessio scappò 2 volte. La prima volta il giudice lo perdonò e venne riaccompagnato in   comunità.  La seconda venne richiuso in carcere minorile.

Durante le nostre chiacchierate, una sera mi confessò: “sai perché preferisco stare in carcere?”        

“     No, perché?” Gli risposi stupito.

“Perché sapere che dietro quella porta c’è la libertà… e la porta è lì, aperta, ma io non posso varcarla, mi pare la storia della mia vita.  Fa troppo male e non riesco ad accettarlo.  

Preferisco non avere scelta”.

Dunque era questa la spiegazione che cercavo. Avere una scelta, è impensabile per chi è nato, vissuto e cresciuto credendo di non averne alcuna.

È megliovivere sottochiave; è più “comodo”. Così, almeno per una volta, non sarai tu a doverti prendere cura di te stesso: saranno altri. Non importa chi.

Non ho mai saputo che fine abbia fatto quel ragazzino che adesso sarà un uomo; ma mi piace pensare che abbia trovato il coraggio di aprire la porta verso la libertà e verso una vita migliore, che si sia preso quello che gli spetta di diritto e gli è stato negato in gioventù. Spero che la vita, se la stia mangiando a morsi.

Per quanto mi riguarda ho lasciato la comunità dopo 4 mesi.  Il coinvolgimento emotivo era troppo grande e questo non è un lavoro nel quale ti puoi permettere di cedere alle emozioni.

Anche adesso non riesco a vomitare su questo foglio altre storie di   vita negata.

Da quest’esperienza ho avuto molto più di quel che mi sarei aspettato. Soprattutto ho imparato che non esiste libertà che non debba essere conquistata. E che chiunque, anche l’uomo più   ricco e amato della terra, deve lottare per averla.

Lottare per pensare, agire ed essere.

Mentre scrivo passa un bluse nostalgico di Gary B. B. Coleman alla radio e il mio volto non è più così asciutto, prendo consapevolezza, un senso di serenità mi assale dentro.

Adesso ho capito perché “visto da vicino nessuno è normale”.

Filippo Russo.

Filippo Russo è un Content Creator esperto in strategia di Business Online.

Attivo nel Sociale ha collaborato con Istituzioni Locali , progettando e sviluppando diversi eventi socio-culturali.




La linea editoriale

Ci chiedono, da più parti,  di definire la nostra linea editoriale. …ok, allora dovremmo fare il punto per collocarci nell’area culturale di riferimento più appropriata per evidenziare al meglio lo spazio creativo che vorremmo offrire nel tempo ai nostri scrittori e ai nostri lettori?

…ah, saperlo! 😉

Vassily_Kandinsky, Composition #8, 1923. Guggenheim museum, New York, USA



Il cielo è sempre più blu

Intervista a “Rob”, Roberto Paolo Pirani

di Marina Ruberto

Ci siamo conosciuti su Linkedin. Complice la nostra comune passione per Boris (se non lo conoscete, peggio per voi. Noi addicted stiamo aspettando la reunion).

Poi ci siamo messi a chiacchierare di cose più serie. E ho scoperto che “Rob”, Roberto Paolo Pirani, è un Fighter della sostenibilità. Un drago delle soluzioni tagliate su misura per le smart cities. Un super eroe dell’anti-spreco più ancora che del riciclo. Un portatore sano di economia circolare.

Così ho deciso di intervistarlo (previa telefonata di un’ora e tre quarti).

Primo perché dice cose buone e giuste. Poi perché le fa e, infine, perché così, magari, vi evito qualche “post matrioska”, di quelli che scrive lui: un post nel post nel post. Personalmente non sono mai arrivata all’ultima bambolina.

Cominciamo in leggerezza… che mi dici di Boris? Perché ti piace tanto?

Boris è l’Italia. Quella vera. Chi ha scritto Boris ha previsto praticamente tutto. Il monologo della Locura ci ricorda da più di 10 anni che “serve qualche cazzo di futuro…” e che gli equilibri politici possono dipendere (per dire) da un Senatore.

Il monologo della locura (Boris, la serie)

Al Regista René Ferretti viene fatto notare dal delegato di rete: “sai anche girare… ma ti manca la protezione politica”.

“E dai dai dai (pure a cazzo di cane se occorre), che si porta a casa la giornata!”. Risponde Ferretti. Anche se molte scene che gira sono povere e mono espressive, perché gli sceneggiatori non hanno voglia di lavorare e gli attori sono dei cani.

Boris è una critica mirata ai compromessi che impediscono di fare le cose come andrebbero fatte in Italia, ma facendo sorridere e, di conseguenza, pensare.

Nel 2009-2010 abitavo in una specie di residence, e un mio vicino che di mestiere sonorizzava cartoni animati è arrivato con una pen drive con le prime due serie complete. “Le DEVI vedere” mi fa. “Fidati”. (Nota: Ciao Sean, e grazie ancora!).

Credo che a molti della piccola massoneria di seguaci di Boris sia accaduto questo strano passaparola. Con ogni probabilità è la cosa migliore mai passata in televisione in Italia, insieme ai Mondiali di Spagna 1982. Ho rottamato il televisore nel 2009 e con queste affermazioni (intendiamoci) non voglio offendere nessuno, ma solo ribadire che chi ha scritto Boris è un Genio. Come Corrado Guzzanti che, non a caso, è parte della banda.

Veniamo a noi/te/. Quand’è nato il Rob paladino della sostenibilità? 

Non so di preciso da cosa dipenda, ma da che ho memoria sono sempre stato così. Si può parlare di inclinazione, credo. A 9 anni mi guardavo attorno e mi chiedevo perché Natale dovesse essere così consumista. Detesto gli sprechi. Il me bambino novenne non capiva perché gli altri non notassero una così palese mancanza di razionalità. Poi negli ultimi 30 anni “ambientalista” è stata considerata una parolaccia. Meglio che essere un esponente del Petrolitico, secondo me.

Nel mio piccolo, poche idee in compenso fisse, sono di parte. Parte minoritaria quanto si vuole, almeno in Italia. In altri Paesi UE pare proprio che non sia così.

L’unica volta in vita mia che mi sono sentito in maggioranza è stato quando abbiamo vinto i referendum 2011; è durata pochi giorni, poi abbiamo subito realizzato che al Parlamento (regolarmente eletto, per carità), della volontà popolare, non importa una beata mazza.

In ogni caso, dal momento che in Italia il Club di Roma non è stato preso sul serio per tempo, è troppo tardi per lamentarsi. Ognuno si impegni in qualcosa, o siamo fritti (cit Boris: “non è ironico”).

Mi dicevi che sei stato un attivista di Greenpeace. Raccontaci la “mission impossible” più spettacolare/eclatante a cui hai partecipato, dai!…Quella di cui vai più fiero.

Credo che nascere a Ravenna abbia contribuito alla mia formazione, anche per reazione ad uno status quo molto “business as usual”.

Ho deciso di aderire spontaneamente a qualche azione: legname insanguinato dalla Liberia, soia OGM… tutta roba che non doveva arrivare in Italia perché illegale, ma che arrivava lo stesso al Porto di Ravenna. Ho dato un piccolo contributo “attivo” tra il 2000 e il 2008. Poi c’è una età per tutte le cose…

Comunque colgo l’occasione per precisare che da quelle vicende sono stato assolto! Secondo gli Inquirenti fu (solo) “Esercizio arbitrario delle proprie ragioni”.

Durante l’azione più eclatante non sono servito (perché non facevo il climber). Il blocco della centrale di Porto Tolle, nel 2006, non fece notizia sui giornali italiani, ma all’estero sì. Per chi volesse…

In “discussione” era il “carbone pulito” della centrale (c’è un mucchio di gente che dovrebbe chiedere scusa, e magari, ritirarsi a vita privata. E invece fa come se niente fosse accaduto).

L’azione diretta non violenta è sempre stata meglio del pessimismo del pensiero. E conservo un bel ricordo di chi, al Porto di Ravenna, ci definiva “prepotenti gentili”. Di fatto ammettendo che avevamo ragione su diritti umani, commercio illegale, taglio a raso di foreste primarie, eccetera. Cosette su cui oggila EU intera, con un ritardo di decenni, è costretta ad interrogarsi per salvare il salvabile.

Come mai ti sei trasferito da Ravenna a Bassano Romano? Una scelta green anche questa o altro?

Ci sono diversi motivi. Anche per fare quello che volevo fare, a Ravenna sarei stato limitato. Dopo un anno su e giù dal Lazio quasi tutti i fine settimana, o si trasferiva la mia compagna o mi trasferivo io. Ecco, tutto qui. Sta di fatto che il mio socio, Paolo Garelli (che è siciliano di origine), l’ho conosciuto a Roma grazie ad amici comuni. È uno di quei non-casi che, col senno di poi, ti fa capire che hai fatto la scelta giusta.

Dopo aver cambiato alcuni Comuni sempre a nord di Roma, oggi risiedo al confine fra Roma e Viterbo. A Bassano Romano, appunto. Non essendo un albero, ho potuto scegliere (luoghi magnifici, sia detto per inciso). A circa un km da casa mia, hanno girato la scena della festa de La Dolce Vita di Fellini, i 15 minuti centrali del film. E anche una scena di Boris (il film), in cui si straparla del “microclima dell’Argentario…”

Parlaci di quando il lavoro “ti ha scelto”. È una frase che mi ha colpita, perché anche a me è successa più o meno la stessa cosa

Quando per anni fai un lavoro tecnico specifico, ma una parte del tuo cervello pensa altro, nel tempo libero studi altro, vedi troppe cose che non ti convincono… poi o ti dedichi alla tua inclinazione o, credo, vivi molto male. Io mi ritengo fortunato perché amo il mio lavoro. Non c’è un corso di Laurea che insegni a dimensionare i servizi applicando l’intera normativa vigente. S’impara un po’ dai Maestri (ne ho avuti) e un po’ ci si mette del proprio. In ogni caso un diploma da Geometra mi ha dato le basi della disciplina necessaria per.

Nei tuoi post su Linkedin parli spesso di “economia collaborativa”.

Ci spieghi qual è la tua visione e il significato dell’espressione?

In realtà sono concetti già codificati in ambito EU, anche se in Italia non se ne parla. Più o meno come quando, 15 anni fa, l’economia circolare era sottovalutata. Per chi ha voglia di entrare nel merito, ci sono due articoli sull’economia collaborativa nel mio feed.

Parte prima, maggio 2020:

Parte seconda, ottobre 2020:

In sintesi, mettere a sistema diverse competenze, significa lavorare nel miglior modo possibile. Se ci pensiamo, per costruire un edificio in classe A (o superiore) non servono solo le competenze per realizzarlo, ma prima serve un Geologo che impedisca di buttare soldi su un terreno inadatto ad ospitare quell’edificio.

Cosa pensi sarà necessario fare nei prossimi dieci/vent’anni per assicurare un futuro al pianeta?

Ci sono talmente tante cose da fare che personalmente consiglio di ascoltare gli Scienziati. IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’agenzia Onu per il cambiamento climatico, ha vinto un Nobel per la pace nel 2007, e non per sbaglio.

O perlomeno, come illustra in modo brillante una recente trasmissione di Sky “Impact”, il 97% degli Scienziati del mondo spiega che il cambiamento climatico è di origine antropica.

Cioè: colpa nostra e a noi umani riparare i danni.

Rob, parlaci della tua rivoluzione culturale a misura di smart city. Cos’è “WormApp” e a chi è diretta?

È una piattaforma operativa sia fisica che tecnologica in cui vengono “messe a sistema” molte competenze e diverse professionalità. È stata pensata per soddisfare qualsiasi esigenza (anche di orari) nei luoghi più complessi a livello urbanistico: centri storici e adiacenze, luoghi turistici, quartieri con ridotta o ridottissima viabilità di accesso. Dove gli spazi non ci sono e non si possono inventare.

Con l’utilizzo della piattaforma si riducono i costi (calcolati un terzo in meno rispetto ai più noti e non sempre applicabili servizi domiciliari) e si favorisce il passaggio alla mobilità elettrica, pedonale e a due ruote. La città diviene a misura di bambino, non a misura di auto. Un luogo piacevole e ordinato dove incontrarsi, nonché l’occasione per erogare molti servizi di interesse pubblico o di business per il cosiddetto “ultimo miglio” (il percorso della merce da un centro logistico alla sua destinazione finale, n.d.r).

In sintesi WormApp vuole far uscire le città dalla paralisi dovuta ad un approccio caotico rimasto al 1999. Le leggi della fisica (leggasi “impenetrabilità dei corpi”) non sono aggirabili. O si razionalizzano e ottimizzano i servizi e i passaggi dei mezzi, o le città NON     saranno mai “intelligenti”. Nel video illustriamo come si gestiscono molteplici servizi grazie all’interazione tra pubblico e privato. Un nuovo approccio in cui i diritti sono bilanciati dai doveri, e viceversa. Guardatelo: è più facile.

In pratica…?

In pratica con WormApp, a 1/2 minuti a piedi da casa, si trovano moltissimi servizi che normalmente non sarebbero garantiti, se non paralizzando la circolazione. Pensiamo ad un corriere che parcheggia sul marciapiede perché non ha alternative (a rischio multa…).

Si ottimizzano gli spazi nelle città tramite postazioni identificate sia in modo digitale che fisico, dove i servizi vengono erogati nelle 24 ore.

Insomma: molto di quanto è necessario compiere per aumentare la qualità della vita nelle città. Luoghi turistici compresi.

Dietro c’è moltissimo lavoro utile e diverse tecnologie su cui non sto a dilungarmi qui.

So che l’Italia è piena di estimatori delle cabine telefoniche, dei tecnigrafi, o (per citare il grande Lucio Dalla) dei Linotipisti. Lavori e attrezzature anacronistiche che non tornano perché non possono tornare: il mondo è cambiato con la rivoluzione digitale. I dati possono essere gestiti dal pubblico per interesse pubblico, o essere ammonticchiati in piramidi con in cima Zuckerberg e pochissimi altri. Tocca scegliere.

Dov’è utilizzata, WormApp, per ora?

Oggi WormApp (direttamente o indirettamente) è applicata in 7 Regioni italiane. Ma, per ora, ne è compresa e utilizzata solo la punta dell’iceberg: i servizi di igiene ambientale.

La sfida in cui siamo impegnati dal 6 ottobre 2020 (da quando WormApp è un brevetto europeo) è applicare l’intero iceberg.

Molte cose si muovono, siamo abituati a parlare solo di risultati, non di auspici.

Vorrà dire che ci risentiremo per scoprire come è andato il primo vero anno.

La nuova società è stata costituita 3 giorni prima del lockdown nazionale: il 5 marzo 2020.

Voglio ricordare che WormApp è disponibile e applicabile anche in “emergenza”. Ad esempio, durante un lockdown, per ricevere la spesa o conferire materiali differenziati: attività che la Legge considera incomprimibili (e cioè da garantire a tutti) all’interno delle città.

Capito tutto, Rob. Ti ringrazio del tuo tempo. E Boris ringrazia per lo spottone. Ora che fai?

Vado a scartoffiare parecchio. Ma incombenze positive, per fortuna…

Ci diamo un cinque virtuale e ci salutiamo.

Roberto Pirani

www.wormapp.it

Per tutta la chiacchierata ho canticchiato fra me la canzone di Rino Gaetano.

Gente come Rob autorizza a pensare che il cielo possa diventare davvero sempre più blu.




Costruire e ricostruire attraverso il Suono.

(di Federico Longo)

La musica offre un’importante e intensa esperienza di costruzione e di ri-costruzione.

Per il concetto di costruzione musicale basta tenere presente l’opera del compositore quando decide di affidare al suono la sua esigenza comunicativa.

I rapporti tra suoni e silenzi, tra vibrazioni che generano una determinata armonia e tra impulsi ritmici che scandiscono nel tempo la successione di suoni e pause, sono stabiliti e governati da un progetto primario che conferisce una precisa architettura alle composizioni musicali.

Si può sostenere che le composizioni musicali hanno un’identità diversa da qualsiasi altra forma di espressione artistica. Il compositore, con la musica, crea una “mappa di suoni” che viene fissata attraverso dei luoghi fondamentali che sono le note. Far vibrare questi suoni, ripercorrendo questa “mappa”, ci pone su un piano di comunicazione diverso da quello convenzionale e offre la possibilità di riferirci a un campo espressivo-comunicativo arcaico che concepisce il Suono come qualcosa che precede qualsiasi parola determinata e qualunque concetto logicamente fondato.

Secondo questa visione , appare evidente che la musica esista solo nel momento in cui vibra e, insieme, che una singola composizione possa esistere però simultaneamente infinite volte. Appare altresì chiaro che ogni composizione abbia una precisa identità e che essa possa cambiare ogni volta che viene eseguita a seconda di chi la produce e di chi la fruisce.

La musica, linguaggio simbolico per eccellenza, offre molteplici possibilità espressive ed interpretative e, pochi suoni, magari sempre gli stessi pochi suoni, possono condurre l’ascoltatore in infiniti percorsi attraverso le tre dimensioni: altezza, lunghezza e profondità, rappresentate dall’altezza del suono, dalla sua durata e dalla sua intensità, oppure dall’armonia (dimensione verticale), ritmo (dimensione orizzontale) ed intensità dello stesso suono appunto.

Seguendo e dando vibrazione a questa “mappa di suoni” tracciata dal compositore, sia l’esecutore che l’ascoltatore ripercorrono e ri-costruiscono un progetto che cambierà nel suo potenziale espressivo ogni volta che viene eseguito, fosse anche sempre lo stesso.

Dare luogo ad una esecuzione musicale mette in simultanea operatività diversi individui che agiscono interiormente. Ecco forse, come raccontato dalle cronache, cosa andavano a ri-costruire nella Germania nazista quelle persone che, camminando tra le macerie e rischiando di trovarsi allo scoperto durante il suono delle sirene, si recavano ai concerti di musica sinfonica.

Il QR-code che segue conduce alla piattaforma Spotify per ascoltar un brano dal nome “Lamed (A letter for a friend)”.

Si tratta di una vera e propria lettera scritta con il suono e non con le parole. Prende il suo primo titolo e ispirazione da una lettera dell’alfabeto ebraico: la lettera lamed che, grazie anche alla sua forma, può rappresentare un canale di energia che unisce la terra al cielo. Questa suggestione è affidata al suono, con la speranza che esso conduca in quel campo espressivo-comunicativo a cui è stato fatto cenno in precedenza e che, superando ogni barriera culturale-linguistica, crea una comunicazione pura che trova il suo fondamento nella condivisione.

Federico Longo – Lamed (A letter for a friend) – Spotify

Note biografiche sull’Autore

Federico Longo è un musicista attivo sia come compositore e pianista che come direttore d’orchestra.
Nell’agosto 2020 ha registrato live, in piazza del Duomo a Cremona, l’evento Notte di Luce, cheche è stato trasmesso da RAI1 il 29 agosto e che lo ha visto eseguire le proprie musiche dirigendo l’Orchestra Filarmonica Italiana e tre solisti internazionali quali il clarinettista Alessandro Carbonare, il pianista Carlo Guaitoli e la violinista Clarissa Bevilacqua.

Concatenation, il suo terzo Cd con musiche composte e suonate dall’autore, succede a L’arte del volo e a La vena giusta del cristallo, album quest’ultimo che ha riscosso un notevole successo di pubblico e di critica ( “Compostezza e amabilità espressive. l’interprete autore si affida alla naturale architettura dell’articolazione pianistica con melodie garbate”. Angelo Foletto, La Repubblica, 23 febbraio 2014).

Sempre come compositore e pianista sta svolgendo un’intesa attività concertistica in tutta europa. Di particolare rilievo le due tournée negli Usa nel 2016 e nel 2018.
La sua musica è prodotta dal celebre compositore Maurizio Fabrizio, autore quest’ultimo di alcune fra le più celebri canzoni italiane come Almeno tu nell’universo, I migliori anni della nostra vita etc.
Come direttore d’orchestra, dopo i debutti alla Philharmonie di Berlino e all’Opera House di Sydney che hanno segnato l’inizio della sua carriera internazionale, risulta fondamentale il rapporto con la Germania dove è regolarmente ospite al Festival Rossini in Wildbad, e oltre ad aver realizzato numerose produzioni liriche e sinfoniche, ha diretto stabilmente l’orchestra Kammerphilharmonie Berlin – Brandenburg di Berlino.
L’attività direttoriale di Federico Longo vanta affermazioni importanti sui podi delle maggiori compagini orchestrali del mondo: dalla Sydney Symphony Orchestra alla Philharmonie di Berlino, dalle orchestre italiane del Teatro dell’Opera di Roma, del Carlo Felice di Genova e del Teatro Comunale di Bologna alla Melbourne Symphony Orchestra.

https://www.facebook.com/FromSilenceToSilence




Al Confine.

Un racconto di Ludo D.

Rubrica a cura di Marina Ruberto

Esiste una sottilissima linea tra avere rispetto per sé stessi e vivere unicamente per sé stessi. Tra il voler migliorarsi e l’essere avidi. Tra l’indirizzare e il manipolare. Tra il proteggersi e il nascondersi. Tra l’esigenza di soffrire e il masochismo.

Tra l’amore e la dipendenza.

Esiste una linea ancor più sottile tra un bivio ed una scelta.

Sono tutti sottilissimi confini che non andrebbero mai oltrepassati ed io li avevo a volte per scelta a volte per casualità valicati tutti.

Sono Luna e ho 36 anni. Di cui 7 vissuti a Londra, da dove ho portato a casa qua e là qualche errore nella costruzione e, a volte, nella forma italiana. Ogni viaggio ha la sua valigia che, puntualmente, quando ritorni è un po’ più piena.

Non sono una persona speciale, ma ho quel super potere che hanno tutte quelle persone che amano attraversare le frontiere. Ci passano attraverso come quando i fantasmi passano attraverso le porte. Lo fanno e nessuno si accorge che ci sono passati. Senti un soffio e poi non lo senti più. 

Avevo un passaporto con pochissimi timbri, non ero una viaggiatrice incallita forse perché ogni paese era diventato casa per un po’ o forse perché quelle poche testimonianze di passaggio erano la prova certa che mi ero mescolata con la “popolazione locale”.

I viaggi per me non erano mai stati dei veri spostamenti di quelli transoceanici, ma piuttosto uno stare.  Non c’è bisogno di allontanarsi troppo per visitare posti nuovi. 

Amore e dipendenza. Casa.

Mi capitava spesso di perdermi nei miei pensieri, e di divagare con la mente alla ricerca di un passato sepolto, in ricordi, profumi e sensazioni, accantonati in un angolo di un cassetto che avevo riposto ed abbandonato tra polvere e cartacce, con la speranza di non dover mai più riaprirlo e riviverlo. 
Altre volte si faceva più forte e viva la necessità di toccare, riscoprire e rivivere quel che era stato, nonostante il timore che la sofferenza fosse più forte che mai.
Mi resi conto che il momento di intraprendere il viaggio era arrivato e che sebbene mi fossi illusa di poter continuare a ritardarlo ancora e ancora, non era più possibile farlo.

Mi rincorreva come un’ombra, attento ad ogni mio passo e ad ogni mio cambio di strada o direzione.
Mi obbligava ad inciampare come quando da bambino cerchi di scappare e ti si slacciano le scarpe e perdi tempo a rifare il nodo.
Ebbene: da dove dovevo ripartire, qual era l’inizio di tutto?
Lo trovai e lo persi continuamente, per poi riscoprirlo in punto del tutto differente da quello che avevo trovato in precedenza.

Tentai di chiudere gli occhi e di visualizzare quel che restava. 

Li riaprii come se non lo facessi da tempo, perché mi ero dimenticata quale fosse la sensazione di un risveglio improvviso in piena notte.

Sveglia, sudata e affaticata mi lasciai portare dove molti non vogliono andare.

Una stanza che puzzava di prigione. Le gambe semiaperte e appoggiate sul pavimento gelido, gli occhi fissi nel vuoto.

Ero seduta lì e ci rimasi per un bel po’.

Mi diedero un foglio ed un pennarello, quelli neri con la punta doppia. Disegnai un imbuto.

L’imbuto da cui mi sentivo risucchiata e da cui non riuscivo ad uscire nemmeno liquefatta o trasformata in polvere. Sarei rimasta esattamente dov’ero.

Avevo una fottutissima paura.

Il corpo, oramai reso irriconoscibile dalla malattia, non era più il mio.

Tutto scorreva troppo velocemente intorno a me e il mio tempo stava per finire.

Ossa e sottilissimi strati di pelle avevano ora lasciato posto a spessi e dolorosi ammassi di grasso.

Ebbene, la vita mi diede ciò che avevo chiesto: un lungo viaggio che a volte sembrava dare una risposta alle mie tante domande, altre sembrava portarmi in tutt’altra direzione. Negandomi ciò che pochi attimi prima mi aveva concesso: la speranza.

Piccole cicatrici da cui ancora sgorgava vivo e pulsante il sangue che aveva un tanfo così forte di vita e di morte. 

Sapevo benissimo che la strada non sarebbe stata lineare, che ogni mio sforzo non sarebbe stato ricompensato in automatico. Lo avevo messo in preventivo.

Sono nata a Napoli il 13 di giugno 1984 e ho sempre saputo di avere la tendenza a sviluppare dipendenze. La cosa più straordinaria è che ne sono sempre andata fiera, perché mi piace l’idea di appartenere a qualcosa anche di malsano.

L’amore, l’abnegazione…la necessità di soddisfare i bisogni altrui, mi trascinavano nella continua ricerca di tante piccole manie da cui non riuscivo a slegarmi.

Sono cresciuta in una bellissima casa con il parquet lucido, mobili pregiati e tanti ninnoli che mia madre collezionava con l’innato gusto che il nonno le aveva tramandato.

Tutto era perfetto, tutto al posto giusto.

I quadri ai muri erano centrati e perfettamente distanziati, come anche l’amore era centrato e perfettamente distanziato.

Lo era così tanto che non riuscivo ad avvicinarmici. Come a quel bellissimo mobile bull che troneggiava fiero ed immobile nel nostro salotto, circondato dai suoi fedelissimi divani angolari finemente tappezzati di seta.

Ero una bambina felice per quanto una bambina affamata può esserlo.

Decisi, quindi, che prendermi cura dei miei genitori era la strada giusta per sopperire alla fame.

La notte mi appostavo fuori alla camera dei miei genitori per controllare che non nessuno lasciasse il suo posto e ripetevo quasi come un’autistica la stessa frase: “Siete svegli?”

Era una cantilena che doveva infastidirli così tanto da farli smettere di litigare per tornare a dormire.

L’indomani avrei trovato tutto come doveva essere: le camicie di papà (che mettevo come vestiti) mi avrebbero trasmesso quel senso di ammirazione e pace che solo un profumo da uomo può dare.  La mamma, ancora mezza addormentata, si sarebbe presa il solito bacio del buongiorno da papà.

Sarebbe andata in cucina a bere il caffè e papà si sarebbe preparato per andare al lavoro con il suo completo blu fatto su misura. 

Crescevo nonostante i miei sforzi, ma il mobile bull rimaneva sempre immobile.         E quindi decisi, nonostante fossi ancora una bambina, che la scelta più intelligente sarebbe stata quella di spostarmi io e trovare un modo per aggirare tutta quella staticità.

Ecco che trovai il mio migliore amico: il cibo.

Ore ed ore a cucinare a memorizzare tutte le ricette che avrei poi preparato per i miei genitori, senza mai assaggiare. 

L’immaginazione è quasi sempre meglio della realtà!

Cucinavo, contavo e ricontavo grammi e calorie di cose che forse non avrei neanche osato guardare.

Di lì a poco il resto della mia vita fu accompagnato dalla fame, dal dolore e dall’ autodistruzione.

Il Natale, così come tutte le festività, era una prova difficilissima. Quindici persone intorno al tavolo, leccornie di ogni tipo e io che cercavo di capire se e come potessi concedermi qualche sorta di gratificazione e (soprattutto) come poi avrei dovuto fare per eliminare ogni sensazione di piacere.

Passavo le ore nel bagno chiusa a chiave, accovacciata vicino alla tazza.

Il resto del tempo lo passavo a vivisezionare tutto quello che accadeva intorno.

Le nocche delle dita lacerate dalla pressione dei denti sulla pelle, la gola con quel sapore amaro di vomito che era diventato il mio unico modo di espiare qualche colpa e di celebrare qualche vittoria.

La mia bellissima casa così lucida e rifinita, i lunghi e folti capelli di mia madre, l’eleganza di pensiero di mio padre erano un’eredità che avevo acquisito senza nessun merito.

Mi è stato insegnato che i doni bisogna meritarseli.

L’esigenza di soffrire: Luna.

Avevo anticipato che non sono mai stata una grande viaggiatrice e che non sono una collezionista di timbri né tantomeno di foto. 

Non mi è mai piaciuta l’idea che si debba fotografare qualcosa per ricordarlo.

Sarà che sono sempre stata così attenta che difficilmente qualcosa mi sfuggiva, anche se sarebbe stato decisamente meglio il contrario.

Non sono neanche mai stata una collezionista di persone. 

Mi piace pensare che chi per sbaglio inciampa nella mia vita abbia, in fondo, bisogno di me.

Essere specchio è un compito difficile. Riflettere un’immagine nella sua interezza, bellezza o mostruosità, è qualcosa che mi ha fatto sempre un po’ paura, ma a cui non sono mai riuscita a rinunciare.

Avevo solo 10 anni quando iniziai a guardare il mondo in bianco e nero. Un po’ come gli animali che non vedono i colori o le sfumature e possono esprimersi solo in due modi: con tristezza o esaltazione. 

Per le bestie non ci sono le sfumature.                                                                                                                                                        

Le vedi inebriate da una sensazione di invincibilità, esaltazione allo stato puro o con occhi tristi e pieni di rassegnazione dilagante, mendicanti di carezze e attenzioni.

Ero come loro. Lacerata dalla mia ambivalenza. Ho sempre sentito la felicità come qualcosa di assoluto così come la tristezza.

Questa ero io: bestia. 

Selvaggia e coraggiosa, mi sembrava di aver già vissuto troppe vite.

Avevo l’espressione di chi non si sarebbe mai accontentato della prima stesura di una storia, della prima versione dei fatti, di una sola faccia della medaglia.

Viaggiavo in mille posti e restavo in quella terra di nessuno che è confine.

Fosse stato solo quello avrei anche potuto recitare una parte, ma la bestia era un’altra e mi riconcorreva da tempo.

Conosceva le mie abitudini, i miei posti del cuore. Mi osservava attentamente e aspettava il momento in cui (come spesso facevo), avrei attraversato uno dei tanti “paesi” che mi ero proposta di visitare.

Sarebbe stato solo questione di tempo. Mi avrebbe azzannto alla gola, dritta alla carotide ma senza stringer troppo perché il suo intento era quello di avermi per sempre, non di metter fine alla mia vita. 

Crescendo capii che io e la “bestia” avremmo viaggiato insieme, zaino in spalla, trekking dopo trekking, distese di verde, prati all’inglese, barche sole in mezzo al mare e soprattutto labirinti di foreste.

Sono sua e lo sarò per sempre. 

In fondo non mi dispiace affatto.  Grazie alle sue continue interruzioni, agli incidenti di percorso, alle occasioni mai sprecate, sono cresciuta come volevo: attaccata alla vita, alla sua bellezza e crudeltà.

Eccomi qua. Luna, 36 anni, niente di speciale.

Proteggersi e nascondersi

Era il 2002 quando decisi che avevo bisogno di aiuto.

Ho sofferto di disturbi alimentari per 12 anni. Ricordo chiaramente quella sensazione di non potere, non dovere, non deludere, non assaporare, non meritare. Era tutto un “non”, ma ricordo con ancora più chiarezza il sentire tutto un po’ di più, il vedere un po’ di più, l’amare un po’ di più.

Mi nascondevo con la scusa di proteggermi che, alla lunga, fu la mia condanna.

Ricordo esattamente quando decisi che il gioco aveva bisogno di qualche spettatore.

Fu una sera in cui, dopo aver espiato le mie colpe in bagno, decisi di lasciare la porta aperta. 

Dovevano trovarmi, qualcuno doveva aprire quella cazzo di porta. 

Avevo smesso di giocare a nascondino e volevo finalmente proteggermi. 

Iniziai a correre in pigiama verso il salotto, accesi tutte le luci e mi rannicchiai sul divano vicino al bellissimo mobile bull che mi sorrideva come a dirmi “lo sai che da qui non mi sposto”.

Nessuno capì cosa avessi, ma abbracciata al collo di mio padre dissi solo: “Non ce la faccio più, ho bisogno di aiuto, qualcuno mi aiuti. “

C’erano giorni in cui mi grattavo così forte la testa che sanguinavo per giorni e, per rimarginare le ferite, ci buttavo su una polvere cicatrizzante bianca che sembrava borotalco ma bruciava come i miei pensieri.

Decidemmo che dovevo farmi visitare da una super psicologa con anni e anni di esperienza.

Ricordo con esattezza l’entrata del palazzo: un edificio della nobiltà napoletana con un cortile spazioso che affacciava su un bellissimo giardino. Papà mi aspettò giù.

Una donna magra, austera, vestita di grigio mi aprì la porta del suo elegante appartamento.

Mi sedetti su una poltrona e lei di fronte a me. Fu l’ultima volta che ci sedemmo così una di fronte all’altra.

Scriveva su un taccuino, mi faceva poche domande a cui io rispondevo con pochissime parole. Annotava tutto, anche i miei silenzi.

Non ho mai pensato che qualcuno potesse salvarmi e, sinceramente, non avrei mai permesso a nessuno di farlo. Era una partita che stavo giocando da sola e con me stessa.

Accanto a me restavano solo brandelli.

Brandelli di ricordi, di vita non vissuta, brandelli di cibo e vestiti. Mi bastavano.

Quanto avrei potuto resistere, quanto potevo tirare quella sottilissima corda, per quanto avrei potuto contenere tutto quel dolore?

Quanta rabbia poteva implodere dentro di me?  

Per quanti anni il mio corpo-macchina sarebbe stato in grado di reggere quello che gli stavo facendo? 

E, soprattutto, fino a dove potevo spingermi?

La risposta furono 12 lunghissimi anni di dottori, psicologi, nutrizionisti, viaggi all’estero, centri di riabilitazione; ma anche di alcuni angeli custodi che resteranno per sempre la più bella e pura forma d’amore che potrò mai sperimentare.

Fui ricoverata due volte, fui anche avvisata (molto più di due volte) che oramai il corpo non reggeva più.

Mia mamma, ogni tanto, entrava in camera da letto e mi passava una mano sulla bocca per vedere se respirassi ancora o no.

Le ossa del sedere erano così sporgenti da obbligarmi a usare un ciambellone per evitare le piaghe da decubito.

Le caviglie spesso si piegavano impedendomi di camminare ma io rifiutavo fino all’ultimo grammo di cibo che abitava ingiustamente il mio corpo e continuavo passo dopo passo la mia marcia punitiva.

Avevo in testa un gran casino.

Volevo farla finita. Un paio di volte ci provai con scarsi risultati: la varechina non funzionò e nemmeno i diuretici ed i lassativi.

Entravo sempre nella stessa farmacia e chiedevo del Lasix. “E’ per lei, signorina?” “No è per mio nonno diabetico”. Stessa farmacia, stessa scusa. Sempre più occhiaie e sempre più spettro.

Avevo anche l’abitudine di masticare e sputare il cibo nella pattumiera.

La notte mi svegliavo e rovistavo per recuperare il cibo che avevo sputato poco prima. Avevo una gran fame.

Sentivo sempre una voce dalla regia: sussurrare:” Lascia perdere il cestino dei rifiuti per stasera, non rovistarci dentro. L’ho svuotato.

Domani lo troverai di nuovo pieno. Almeno per stasera non metterci le mani dentro. È vuoto”. Ma io, testarda, non ci ho mai rinunciato.

Ed ancora aggiungeva: “Ti lascio perché ci rincontreremo stasera o domani. Forse è meglio vederci domani che stasera non ti vedo in forma” Una condanna, o una promessa? Non era così importante.

Le parole erano vomitate, riciclate. L’amore era ritagliato.

Soffrivo come un cane e volevo punirmi di sentire tutto quel dolore. 

Le ore passavano lente, talmente lente che l’unica cosa che mi restava da fare era contare le righe del parato della mia camera da letto. 

Escogitavo piani di fuga da me stessa e, non trovandone nessuno, mi seppellivo nel silenzio.

Per due anni smisi di parlare.

Mi stavo scavando una fossa così profonda che nessuno mi avrebbe mai più trovato.

Il limite non era più limite e il confine tra il dolore e l’autolesionismo lo avevo valicato da un pezzo.

Mi avvolgevo nuda nelle lenzuola pulite che profumavano di speranza. Seduta sul ciglio del balcone in quelle bianchissime lenzuola. Rimanevo lì, con il vento in faccia, per più di un’ora, guardando una strada gremita di gente.

Vivevano, ridevano, piangevano. Le strade di quartiere sono meravigliose da “vivere”, io però volevo solo sporgermi un po’ di più e mettere fine a tutti quei pensieri che si intrecciavano senza una via di soluzione

Una mattina qualcosa cambiò. Dissi solamente: “voglio andare a tagliare i capelli, mi accompagni papà?”

Avevo deciso di tornare a vivere.

Un profumo di orchidea che fuorusciva dalla scatola dei biscotti fu uno dei presunti segni che forse non era ancora tutto perduto.

Chiudo questo capitolo ricordando le orchidee e la gente che parla ad alta voce. Quella he dà fastidio agli altri, come me. Perché le lenzuola con cui tentavo di nascondermi ora le metto a prendere aria e profumano sempre di nuovo.

Le relazioni

Tra un viaggio e l’altro incontrai anche gli uomini. Alcuni mi hanno spezzato, altri avevo deciso di salvarli e altri li volevo scomporre e ricostruire.

“Accese una sigaretta e la lasciò bruciare in una tazza da caffè che usava come posacenere fino a quando non si spense.

Aveva l’aria disinteressata e lo sguardo fisso, le gambe incrociate su di un tavolo e le dita ingiallite dalla nicotina.

Lo guardai e capii immediatamente che non era uno sconosciuto.

Lo riconobbi.

Accennai un sorriso sperando che anche lui mi riconoscesse ma non fu così, non lo fece mai.

Ed è così che rimase per sempre uno sconosciuto.”

Un fiore sa di essere un fiore, così come una persona senza una gamba sa di averla persa. Io non ho mai capito cosa fossi e cosa mi mancasse.

Ho sempre pensato di essere un problema che va risolto in un modo o in un altro.

Il mio rapporto con gli uomini è sempre stato complicato non tanto perché mi sia mai aspettata molto, ma perché non mi sono mai aspettata nulla. Qualcosa di riciclato e ritagliato da un abito vecchio era più che sufficiente.

Resistere alle mancanze, alle manipolazioni fisiche e psicologiche, resistere alla privazione, resistere alle assenze è sempre stato il perimetro in cui mi sono mossa con naturalezza fin da bambina.

Il perimetro che ci hanno insegnato a costruire a scuola in matematica, è uno spazio circoscritto e ben delineato all’interno del quale c’è possibilità di calcolo precisa.  Le variabili X, Y e Z sono tantissime ma non infinite.

L’equazione matematica ci permette di calcolarne anche la sua più piccola parte ma non possiamo fuoriuscirne. Nella vita invece ogni perimetro può e deve essere ridisegnato.

Ho ridisegnato infiniti perimetri che mi ero costruita da sola, con la speranza di ritagliarmi un posticino dove poter essere me stessa con qualcuno, chiunque fosse.

Imparai a concedermi spazi aridi e senza linee definite dai quali è facile sia scappare che restarci incastrati.

Ci fu il primo che mi buttò a forza fuori dall’auto, quello che aveva problemi di droga e con cui pensavo di poter condividere la mia necessità di farmi del male, quello per cui ho sfidato la mia famiglia e che era così fragile da aver bisogno di me per tutto, quello che era il miglior “partito d’Italia”, ma mi usava come discarica emotiva e quello di quasi vent’anni più grande di me che aveva fascino ma nessuna sostanza e che mi ha fatto in mille pezzi.

Massimo aveva 36 anni, io 16. Mi venne a prendere a casa di una mia compagna di classe e mi portò a casa sua, dove diventai un’adulta. Scoprii successivamente che era un uomo violento rinchiuso nella sua bellissima villa con giardino.

Una volta mi chiuse il braccio nel portello della macchina e mise in moto. Il braccio rimase fuori per qualche metro.

Amedeo era un ragazzo di buona famiglia. Mia madre era contentissima, i suoi genitori mi adoravano così come la sorella, che diventò un’amica vera. Era depresso e mi costringeva a comprargli la droga nei quartieri spagnoli altrimenti non mi parlava per giorni e mi massacrava con insulti e crisi isteriche.

Nick era ricco da far schifo ma pieno di problemi. Uno che, se non avesse avuto il cognome che portava, non avrebbe combinato mai nulla.  Si “travestiva “da guerriero e per sopperire al senso d’inadeguatezza, aveva deciso di vivere secondo un codice di lealtà e compassione, a lui del tutto sconosciuto.

Ho anche convissuto a Londra per 6 anni. Una relazione lunga e dolorosa (interraziale, credo si dica così) dove avevo il compito di prendermi carico di tutto: dalle bollette ai mille tradimenti ad una famiglia che, per il colore della mia pelle bianca, non mi ha mai accettato. Esiste il razzismo anche al contrario. Ricordo di essere andata in quella casa di famiglia con regali e sorrisi, ma le porte delle camere da letto restavano sempre chiuse ed io sempre sola in cucina a giocare con i bambini.

Stefano faceva l’elettricista o il petroliere; questo dipendeva dalla situazione.         Un uomo di 18 anni più grande di me che mi ha spezzettato e vomitato nella solita pattumiera.

C’era complicità, notti a parlare di vita e di esperienze che ci hanno cambiato. Una moglie trofeo da esibire e un mondo costruito ad hoc per reggere una parvenza di solidità e perfezione che nulla aveva a che fare con la realtà.

La sera si usciva. Mi dovevo vestire come una prostituta, ci guardavamo negli occhi mentre lui possedeva un’altra ed anche più di una. Era, a detta sua, una cosa speciale che ci univa e ci avrebbe unito per sempre.

Thelma e Louise, Bonnie and Clyde pronti ad una nuova avventura fino alla fine della notte. Perché se per me quella era vita, per lui era una notte e poi un’altra ancora.

Bellissimi ristoranti e io che mi ostinavo a fargli dei regali per farlo sentire amato nonostante non ne avesse assoluto bisogno. Ero una fonte di energia. Bella e torbida allo stesso tempo, ma sincera.

Ho creduto che anche lui, come gli altri, avesse bisogno di me per riscoprire se stesso ed imparare a guardarsi allo specchio come meritevole d’amore e di accettazione.

Nonostante tutti i miei sforzi, anche lui rimase uno sconosciuto. Non mi sorrise mai e non imparò a farlo.  Non ne aveva mai avuto intenzione.

Resistere, resistere e ancora resistere. Dovevo resistere e provare a me stessa che resistevo.

Sono nell’angolo del ring, il paradenti è andato, ma ti prego: sferra l’ultimo colpo. Non ci sarà mai il KO.

Il Piacere

“Sempre lei Luna. Luna che si nasconde, luna che si mostra solo per metà. Luna che non chiede quando svelarsi e quando celarsi. A volte i paesaggi migliori sono quelli che nessuno riesce a vedere così come le lune quelle piene e quelle sbeccate.”

Sono dipendente dalle dipendenze e questo è un fatto, così come è un fatto che questo mi piaccia.

Ho sempre avuto l’esigenza di andare fino in fondo, sempre più in fondo alle cose, alle perversioni, alle ossessioni e a me stessa.

I grovigli dell’anima che a tanti spaventano, per me sono l’unica benzina possibile.

Ho usato ed abusato il mio corpo in tutte le forme e modi possibili, passando da un cumulo di ossa ad un ammasso di strati di grasso posticci e imparando, in seguito, a ostentarlo per dare piacere.

Entrare in una stanza e sentirsi come un pezzo di carne da masticare, ha sopperito all’esigenza di controllo che prima esercitavo con il cibo.

Ho conosciuto il sesso all’età di 14 anni, piccola e già affamata.

All’età di 17 mi svendevo in qualche locale al primo cretino di turno che mi sembrava essere sufficientemente vuoto da poter contenere tutta la densità che già mi portavo dentro.

Una sera, d’estate, mi ritrovai risucchiata da un divano e da una bocca sudata che puzzava di un misto di birra ed erba. Non riuscii a liberarmene e non volevo. Salimmo in terrazza e ci rimanemmo per un’ora.

Tornai a casa e mi sedetti fuori, sulla sedia a dondolo di vimini del balcone, con le cuffie nelle orecchie. Sfilai i tacchi e scoppiai a piangere. Lo facevo praticamente tutte le sere. Mi volevo riempire. Volevo sentire tutto su di me: le mani, la bocca e soprattutto la rabbia.

Non ho mai creduto di essere l’unica a sentirsi vuota e furiosa. Né ho mai creduto che gli “altri” (i “normali”) avessero trovato la loro “dimensione interiore”.

Fu un’estate particolare, quella. Ero finalmente come tutte le mie coetanee: svestita quanto basta, leggera quanto basta e facevo sesso con chiunque quanto basta.  Ero una di loro, ma segretamente mi allontanavo sempre più da me stessa. Iniziai a tirare la corda ma, purtroppo, all’altro capo c’ero sempre io che conoscevo il gioco e sapevo strattonare quando dovevo e allentare un po’ quando c’era troppa tensione. Un tiro alla fune in tensione perfetta. 

La partita doveva andare avanti all’infinito.

Dopo quell’estate, mi ammalai e non ci fu più il sesso, solo un vero e proprio blackout. 

La lampadina si fulminò definitivamente e decisi di cambiarla solo dopo molti anni.

Usiamo tutti il nostro corpo per dare un messaggio all’altro o per sentire un po’ meglio noi stessi, per viverci un po’ di più e per superare qualche limite e paura.

Ho capito crescendo che il sesso può essere un modo di comunicare molto diretto e crudele ma soprattutto fonte di piacere, uno scambio di energia, di passato e presente. L’ho provato e sperimentato in ogni sua forma. A volte è stato occasionale, altre volte svilente. Altre ancora mi ha fatto conoscere il mio partner e le sue ossessioni, paure e manie. Ed anche le mie. Non ho mai avuto tabù. D’altronde, quando scendi all’inferno, il paradiso non è più così attraente. I santi non mi sono mai piaciuti così come le santificazioni.

Si può essere sé stessi nella propria interezza lasciando andare il proprio corpo al piacere, qualunque esso sia e come meglio si crede.

L’amore per sé stessi è parte integrante di questo percorso di accettazione che passa, è passato e passerà dal galleggiare, annaspare e dimenarsi in acque profonde.

E mentre prima entravo nella stanza facendomi scegliere come un agnellino pronto ad essere sacrificato, ora (sempre con qualche difficoltà) provo ad entrare nella stessa stanza lasciando una scia di buon profumo e una striscia di rossetto.

Il mio vissuto e tutta quella densità che prima mi faceva sentire pesante, ora me la porto dietro come un vestito di quelli trasparenti, misteriosi.

Le fughe

 Ed ecco la solita voce dalla regia incalzare

“Cara,

Mi auguro che tu ricordi le nostre passeggiate insieme. Quando mi chiedevi di stringerti la mano e, con quelle piccole dita, afferravi la carne che scivolava via come unta d’olio. 

 Sai, io non ti ho mai voluto bene ma neanche ti ho odiato, non ti ho mai amata ma neppure mi sarei permessa di lasciarti. Cosa ne sarebbe stato delle nostre passeggiate, dei bagnetti senza sapone profumato, delle case delle Barbie che non ti sono mai piaciute?

Ti scrivo ora per dirti che mi manchi un po’. Non ti ho mai persa di vista e non potrei mai dimenticarti.

L’hai capito che non si chiede permesso per un caffè? Hai capito che non si ringrazia sempre e comunque? Hai capito che, se cercano di stuprarti la vita, non devi ringraziare?”

Chi conosce Napoli sa che si mangia benissimo. Ad ogni angolo, in ogni piccolo vicoletto trovi una pizza a portafoglio, un crocchè o una buonissima pasticceria.

Le sfogliatelle calde, le pizze che strabordavano di pomodoro e mozzarella filante erano per me un luogo di culto.

La sera scappavo dalla porta blindata di casa.  Pesavo solo 34 kg ed era facile nascondermi nei vestiti. Tuta di 3 taglie più grande cappello con visiera ed ero pronta per scappare.

Facevo bottino di tutto il cibo possibile, mi sedevo su uno scalino vicino al museo in mezzo agli extracomunitari e iniziavo a trangugiare tutto quello che avevo comprato. Intorno a me un cimitero di cartacce sporche, avanzi e vomito.

Mi schiaffeggiavo come per prendere coscienza di me stessa, abbassavo la visiera del mio berretto, sguardo fisso al pavimento e ritornavo verso casa.

Negli anni ho sempre avuto la stessa fame. Fame di vita e soprattutto di verità. E’ così che l’anoressia, gli amori malati e il masochismo sono diventati amici inseparabili. Insostituibili.

Tuttavia, ho imparato, con il tempo, che mi è concesso godere di qualcosa di buono, che abbia sapore, odore e consistenza

La famiglia

Sono figlia unica. In casa siamo sempre stati solo noi tre anche se, a dir la verità, è sempre stata molto più affollata.

Mia madre è cresciuta in una famiglia numerosa (due fratelli ed una sorella), tanto unita da farti sentire a volte isolata, altre volte risucchiata.

Vivevamo tutti nello stesso palazzo. Il nonno materno aveva comprato, con tanti sacrifici, 4 appartamenti per ciascun figlio.

Credo che mia madre, ad un certo punto, abbia dimenticato di aver creato un proprio microcosmo che, quindi, si reggeva in piedi solo sulle nuvole.

Spesso, nel periodo in cui soffrivo di anoressia, le ricordavo “siamo noi la tua famiglia: io e papà!”. Una donna buona ma piena d’insicurezze, che non ha mai imparato a sganciarsi da tutta una serie di dinamiche distruttive che, anche se non lo ha mai ammesso, le hanno provocato molta sofferenza.

Le ho sempre voluto bene anche se ho nutrito tanta rabbia. Come me anche lei aveva avuto difficoltà a guadagnarsi uno spazio nella sua affollata casa e per questo se lo era preso tutto nella nostra.  L’ho protetta ed odiata allo stesso tempo, sentivo la sua sofferenza, il senso d’inadeguatezza verso se stessa come se fosse un po’ anche il mio.

Perfetta per chiunque fosse “normale”, ma non per me. 

Ho capito negli anni che due persone affamate non possono prestarsi del cibo, ma devo imparare a starsi accanto senza rubarne l’una all’altra. La nostra comunicazione è sempre stata interrotta da questa avidità di attenzione, tempo e spazio che mi relegò, per forza di cose, in un angolo che scelsi con cura.

Mamma si occupava di mia nonna che non è mai cresciuta.  Papà si occupava di mamma, che richiedeva “l’assoluto tutto”. E io mi occupavo di loro. Un vaso rovesciato da cui l’acqua cadeva sempre ed inevitabilmente sul tavolo: una disgrazia.

La nonna è sempre stata abituata ad avere qualcuno che si occupasse di lei anche quando era giovane e mamma, la primogenita, l’ha sempre dovuta accudire e custodire come se fosse una bambina.

Avevamo un citofono interno tra le due case.  Noi abitavamo al quarto piano e i nonni al sesto. Ogni giorno, al ritorno da scuola, andavo in camera mia e trovavo puntualmente mia nonna che dormiva nel mio letto e quindi mi rifugiavo in qualche altra stanza.

Anche d’estate era la stessa cosa: vivevamo tutti insieme e fino all’età di 15 anni, la mia camera da letto fu il soggiorno.

È assurdo pensare che in 180 mq di casa, non sapessi dove stare e che, nonostante avessi una stanza mia, non potessi chiudermici dentro. Tutti avevano un posto a disposizione tranne me.

Dicono che io e papà siamo molto simili, testardi e decisi. Anche lui non ha avuto compito facile in tutta questa faccenda. I ruoli sono sempre stati capovolti e lui si è trovato ad essere mamma, papà, amico e nemico allo stesso tempo. Doveva prendersi cura di me, di mio nonno, di mia mamma e un po’ di tutti.

Questo me lo ripete da quando avevo 10 anni “sarai in grado di prenderti cura anche di tua madre”. Ho sempre sentito questo senso di responsabilità verso di lui e verso tutti e, allo stesso tempo, l’esigenza di rompere degli schemi assolutamente malati. “Interrotti”.

La domenica, quando iniziai a star meglio, ci davamo appuntamento. Mi truccavo e andavamo a cena. Si sceglieva il ristorante e, con la musica di sottofondo e la sua mano che proteggeva la mia mentre cambiava le marce, si arrivava a destinazione. Era un appuntamento che gli piaceva sicuramente più delle nostre disperate trasferte dai medici che avrebbero dovuto salvare la sua unica figlia. Papà mi accompagnava dappertutto, lo avevo scelto per condividere un po’ del mio dolore.

Quando iniziai a soffrire di anoressia anche il nonno si ammalò di cancro. Un tumore doloroso che sembrava essere guarito ma che, come tutti i bastardi, tornò pochi anni dopo.

Passavo le giornate nel letto perché non riuscivo a camminare. Svenivo di continuo. Ricordo sorridendo, come in un film comico i posti più assurdi dove sono collassata: un negozio di cravatte fatte a mano, fuori dalla scuola e mentre giocavo a Trivial a casa di amici.  

Mamma, essendo la figlia maggiore, si prese carico di curare e far compagnia al nonno che peggiorava a vista d’occhio. Passava le giornate seduta ai piedi del letto, misurandogli la febbre e cambiandogli le pezze fredde sul piede diabetico. Cercava di dividersi tra me e lui.

Saliva con l’ascensore al sesto piano e ci restava anche una giornata intera. Ogni tanto scendeva a casa per controllare che non stessi facendo qualche cazzata e poi risaliva. Mi lasciava sempre il telefono vicino al letto. Io restavo lì in pigiama a contare le righe del parato domandandomi perché fossero così tante.

Tutti, comunque, ci siamo presi cura del nonno.

Papà lo accompagnava dai medici, e accompagnava me dai vari dottori, psicologi e nutrizionisti.

Il nonno morì dopo 10 anni di malattia, ma non andai al funerale.

Non perché non lo amassi, anzi. Negli ultimi tempi parlava pochissimo, non abbracciava mai nessuno, ma credo che quando si soffre veramente ci si capisce anche senza abbracciarsi. La realtà è che non riuscivo a vedere altra morte: era sufficiente la bara che mi stavo costruendo.

Nel 2011 decisi che volevo essere ricoverata. Mi stavo giocando un’altra carta. Non ci credevo molto ma come diceva il nonno ero troppo intelligente per non provarci. Fui ricoverata a Todi per otto mesi.

Partimmo con la macchina e con una canzone della Nannini …” sei nell’anima e qui ti lascio per sempre, seduto immobile”. Scoppiai a piangere e mi infilai con la testa tra i due sediolini frontali allungando le mani verso i miei genitori.  Non avevo paura, ero solo esausta.

Nella clinica c’erano delle sbarre alle finestre, messe per la nostra incolumità.  Per i primi 4 mesi non parlai con i miei genitori. Queste erano le regole e ovviamente le rispettai. Mai vomitato, mai preso un lassativo, mai fatto niente di autodistruttivo.

Ho visto tante di quelle cose in tutti questi posti, che ci vorrebbe una vita per raccontarle tutte. Non sono i fatti, né i luoghi che ricorderò.  Ma la disperazione e le persone che abbraccio sempre segretamente.

Finii il mio percorso e ritornai a casa. Nulla era cambiato. Il mobile bull era sempre lì: “lo sai che da qui non mi sposto”.

Gli Angeli Custodi

Quando soffri di disturbi del comportamento alimentare, vieni spesso ghettizzato. Mi sono sentita dire “ma non ti piace mangiare?”,” Pensa ai bambini in Africa o a quelli che hanno un tumore”. Mia madre tutt’oggi mi dice: “ti sei fatta venire l’anoressia, ci siamo impoveriti per colpa tua”.

Non esiste un protocollo di cura per la DCA. Neanche uno sperimentale.

L’anoressica, così come la bulimica, va a tentativi, brancola nel buio. Provi gli psicofarmaci per curare la depressione e l’ansia, ti affidi allo psicologo che ti aiuta a capire dove ti fa male e ti arrabbi con i tuoi cari che non possono e non vogliono vedere.

Anche io sono andata a tentoni ed è vero sono stata una giovane donna molto costosa.

Facevo terapia psicologica quattro volte a settimana.  La maggior parte delle volte ne uscivo distrutta, altre volte ero talmente debole che non riuscivo a parlare.

Insieme alla terapia avevamo trovato un dottore che aveva dedicato la vita alle “ragazze interrotte” come me. Il Mio Dottore.

Più che un medico è stato un nonno. Magro, elegante nei modi e, nel vestire, così raffinato da riempire la stanza e il mio cuore vuoto di serenità.

Sono stata in cura da lui per 10 anni. Ricordo con esattezza il suo studio, riceveva in una clinica privata di Napoli dove ci vedevamo due volte a settimana.

Perdevo peso con una velocità inaudita e quindi monitoravamo l’andamento ad inizio e fine settimana.

La mia preparazione per la visita era sempre la stessa.

Dovevo andare in bagno la mattina per defecare, utilizzare sempre lo stesso abbigliamento e indossare anche lo stesso intimo. Tutto questo in previsione della temibile pesata.

Arrivavo in studio, il dottore mi abbracciava e mi chiedeva come fosse andata la settimana e poi via tutti i vestiti.

Un piede e poi l’altro, senza respirare, salivo sulla bilancia senza guardare. Non ho mai voluto vedere il peso, il mio metro di giudizio era toccarmi le ossa che sporgevano e misurarmi i polsi con le dita.

Il dottore era dottore e custode anche al di fuori del suo studio. Avevo il suo numero di casa e potevo chiamarlo sempre e a qualsiasi ora.

Un Natale dopo la cena, mi chiusi in bagno per ore e vomitai così tanto da escoriarmi la gola e iniziai a spruzzare sangue. Rimasi abbracciata alla tazza per ore, piangendo, chiusa a chiave.

I miei genitori provarono in tutti i modi a farmi uscire. Mia mamma piangeva seduta fuori dalla porta che mio padre prendeva a pugni per la rabbia e l’impotenza.

Lo chiamarono al telefono ed io aprii la porta. Me lo passarono e, subito dopo, mi infilai sotto le coperte nel letto dei miei genitori, come se avessi ancora cinque anni.

Voglio chiudere questo capitolo ringraziando la mia famiglia con cui litigo sempre ma che amo profondamente e il Mio Dottore che non so se mai leggerà. Bisogna saper ringraziare, non sempre come faccio io, ma a volte sì.

Questa è una di quelle.

L’ammorbidente

Ho 36 anni, non mi chiamo veramente Luna, mi chiamo Ludovica.

Non sono neanche completamente guarita, ma non soffro più di disturbi alimentari né di autolesionismo.

Sto imparando a volermi bene anche se mi è difficile, ci sono tante cose da sistemare, rileggere, riappuntare su tutti quei foglietti che immaginariamente scrivo. Li lascerò volar via quando avrò compreso il senso.

Dicono che chi si mette in discussione abbia una marcia in più. Non so se ho messo la prima o la seconda, se sto salendo o sto scendendo ma so che ho quella voglia di vita nella sua interezza che prima non avevo e questo è un gran traguardo.

Ho imparato che malgrado io sia imperfetta e nonostante, per anni, ci sia stato solo vuoto dentro di me, ci sono tanti prati all’inglese, infinite distese verdi su cui piantare fiori e mettere concime.

Ho imparato ad arrampicarmi sugli alberi e a non aver paura di cadere o di graffiarmi con un ramo.

Ho imparato a zappare perché tutto quello che ti fa sudare dà i suoi frutti. E soprattutto ho imparato a fare la lavatrice.

Ho imparato ad appaiare i calzini, anche quelli che restano divisi nella lavatrice. Ad usare l’ammorbidente per tutte quelle cose che vanno trattate con cura, a piegare i vestiti seguendone le naturali forme. Così come, nella vita, aspetto prima di cestinare quello che sembra non potersi ricongiungere, curo ciò che ha bisogno di essere preservato e rispetto quello che all’apparenza non trova una sua naturale evoluzione.

Vorrei concludere raccontando chi sono oggi e come vivo. È inutile negare che mi sento ancora interrotta e, a volte, completamente fuori luogo. Che bestia mi ci sento ancora e che il mio “viaggio” non finirà mai. Cerco ancora la verità, ma è sempre più vero che quella voce dalla regia ora promette qualcosa di nuovo:

“Eccomi qui mia cara,

Sono passate solo 24 ore e già ti sento diversa, non so se sia un’impressione e forse sono malpensante, ma non credo che tu mi abbia ascoltata. Il cestino era vuoto. Ti ho visto rovistarci dentro l’altra sera. Mi domandavo cosa cavolo stessi cercando, poi ho visto cos’hai trovato: un segnalibro. 

L’hai sempre detto che volevi prendere appunti anche se non li rileggerai mai. Hai ragione: le cose non vanno appuntante per ricordarsele o rileggerle, ma per lasciarle andare quando si levano i segnalibri e le pagine volano via alla rinfusa.

Ora ti lascio. È stato un breve incontro, ma ti prometto che ci sarò anche domani. Mi hai sempre chiesto di farlo e ti ho sempre detto di no. Ora te lo prometto: ci vediamo tra 24 ore.”

Gli appunti li prendo ancora e, a volte, li devo rileggere. Alcuni li conservo nel portafoglio anche se sono tutti stropicciati e andrebbero buttati via, ma quel profumo di orchidea che fuoriusciva dalla scatola di biscotti non è più un semplice segno o una promessa: è una realtà.

Io ci sono.

Al confine. Un racconto di Ludo D.

Graffi. Una rubrica a cura di Marina Ruberto




I primi amori di “Ernie”

Il Cartello di Bollate

(di Marina Ruberto)

Luglio 2020. Pomeriggio.  Mi trovo nei pressi di Bollate (Mi); per la precisione tra Novate Milanese e Cormano. Non che la zona sia granché, ma vogliamo visitare l’ex Parco della Balossa (dialettale che, da queste parti, ha più o meno il significato di birichina, bricconcella), ora accorpato al Parco Nord.

Ad uso preminentemente agricolo, in realtà, è una piccola distesa di campi piuttosto piatta e bruttarella. E poi c’è il sole a picco, fa caldo. La cosa più affascinante è che non c’è nessuno tranne le cicale che fanno casino senza obbligo di mascherina.

A un certo punto, però, compare lui: “quel” cartello, secondo il quale Ernest Hemingway avrebbe trascorso lietamente un po’ di tempo proprio qui, in questi campi.

Non me lo lascio sfuggire, e con una sorta di stupore tra il divertito e il reverenziale, lo immortalo sul fido smartphone.

La domanda sorge spontanea: oltre che appartarsi con le giovani donne, che ci faceva il grandissimo scrittore americano in ‘sto posto dimenticato da Dio, nel 1918?

Ernest Hemingway

Il 21 luglio del 2020, Ernest Hemingway avrebbe compiuto 121 anni.

Su di lui, qualche anno fa, è uscita una nuova biografia dal titolo “Hemingway’s Brain” di Andrew Farah. L’autore, psichiatra dell’Università High Point del North Carolina, ipotizza che lo scrittore fosse affetto da encefalopatia cronica traumatica: una patologia che può colpire chi ha riportato danni cerebrali dovuti a traumi al capo.  Ed Hemingway, di traumi durante la guerra e in diversi incidenti d’auto, ne subì parecchi. 

Ecco perché, alla fine dei suoi giorni, si lamentava spesso di non riuscire più a scrivere a causa di un cronico, divorante mal di testa. Nel 1961 si fece ricoverare e gli fu praticato persino l’elettroshock che, forse, gli provocò una grave forma di afasia. Uno scrittore che non riesce né a scrivere, né a parlare (e quindi a dettare) ha dei grossi problemi. Anche da qui, probabilmente, la decisione di togliersi la vita. Cosa che fece il 2 luglio del 1961, quando si sparò in bocca con un fucile.

Degna fine di un personaggio da film.

Per tutta la sua vita Hemingway, Premio Nobel per la Letteratura nel 1954, vagabondò in cerca (non è mai “solo” così. Ma in qualche modo devo chiudere la frase) di emozioni forti.

Giramondo, cacciatore, reporter, soldato, bevitore accanito e arcinoto donnaiolo.

Partecipò alla guerra civile spagnola, fu volontario in Italia durante la Prima Guerra Mondiale, viaggiò, si sposò quattro volte ed ebbe tre figli. Non si fece mancare niente, insomma; nemmeno il diabete, la cirrosi, l’insonnia e la depressione, che iniziò a manifestarsi circa 4 anni prima della sua morte.

Fu anche (merito da poco, lo riconosco) uno dei miei primissimi amori letterari adulti, iniziato con Il vecchio e il mare, divorato sul divano rosso della casa dei miei. 

Senza avere la pretesa di ripercorrere la complessa e avventurosa vita dello scrittore, mi è venuta la curiosità di ricostruirne un breve periodo, che forse potrebbe far luce sul contenuto misterioso del cartello. Perché dai!… Sarebbe praticamente uno scoop.

Così mi fiondo su tutto quel che trovo: vecchie biografie di vecchi Oscar Mondadori (dettagliatissime, va detto) e nuovi, fortunati frammenti in web.

E scopro che, cronista al Kansas City Star, quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, il giovane “Ernie” (diciannovenne) si presentò volontario per combattere in Europa.

(Pare fosse un trend tra cronisti e scrittori americani del tempo).

Per un difetto alla vista, venne escluso dai reparti combattenti, arruolato nei servizi d’ambulanza e destinato al fronte italiano.

EH 2723P Milan, 1918
Ernest Hemingway, American Red Cross volunteer. Portrait by Ermeni Studios, Milan, Italy. Please credit “Ernest Hemingway Photograph Collection, John F. Kennedy Presidential Library and Museum, Boston”.

La prima tappa fu Milano, dove si fermò alcuni giorni, per prestare opera di soccorso e pattugliamento. Poi, spedito nella zona del basso Piave, venne ferito alla gamba e curato prima sul posto, poi all’ospedale della Croce Rossa americana, a Milano. Dove rimane per circa tre mesi.

Ma questa è la seconda parte della storia.

La prima è antecedente al Piave.

Il 7 giugno 1918 a Castellazzo di Bollate, vicino a Milano, ebbe luogo un incidente di cui si trovano alcune tracce sul web: una terribile esplosione avvenuta nella fabbrica di munizioni Sutter & Thévenot, una delle più grandi fabbriche d’armi del paese. Tra i 1300 operai, quasi tutte donne, ci furono 59 vittime e oltre 300 feriti. Le cause dell’esplosione non furono mai chiarite e anzi, fino al centenario dell’incidente, sull’episodio cadde una cortina di silenzio. Oggi la tragedia viene finalmente annoverata tra gli anniversari d’interesse nazionale dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Tra i soccorritori della Croce Rossa Internazionale accorsa sul luogo dell’esplosione, c’era Hemingway, tenentino americano al suo primo incarico.

Di quell’episodio lo scrittore narrò in seguito in Piccola storia naturale: i morti, uno dei suoi Quarantanove racconti.

Ce l’ho! E leggo una storia cruda e straziante, dove Ernest confessa di aver visto per la prima volta vittime donne. Morte, bruciate, smembrate. Dev’essere stato un gran brutto ricordo, se decise di scriverne così; una terribile esperienza di cui, però, probabilmente salvò qualcosa.

Castellazzo di Bollate è nei pressi dell’ex parco della Balossa, appunto.

Dove si trova il nostro cartello.

Se vogliamo dargli retta (e dopo tutto perché no?) Ernie trovò il modo di sfuggire dall’inferno, con una giovane donna del posto. Chissà se un’operaia della fabbrica rimasta illesa, una ragazza del paese o un’infermiera.

In tutti i casi è bello pensare che, in mezzo al dolore, alla morte e allo strazio, questo ragazzo che non aveva mai visto niente di simile prima, abbia avuto una via di fuga. E che la sua generosa opera di soccorso abbia trovato una ricompensa.

Fugace quanto si vuole. Ma Altro dall’orrore.

Ha cominciato presto, ad avere una vita letteraria, Ernie.

Forse per questo non poté che scriverne.

Dopo questa prima missione, come dicevamo poc’anzi, Hemingway venne ferito dalle schegge di un proiettile di mortaio nella zona del basso Piave e ricoverato in un ospedale di Milano, dove oggi c’è una targa a lui dedicata, in via Armorari.

E insomma, anche in ospedale, nonostante sia stato più volte operato rischiando di perdere la gamba, trovò il modo di passare piacevolmente il tempo. E sulla terrazza, dove c’erano sedie di vimini e venivano serviti alcolici, conobbe Agnes Von Kurowski, un’infermiera americana di origini tedesche.

Pare fosse molto bella, Agnes (“Aggie”): assai corteggiata e di qualche anno più grande dello scrittore. Ma anche Ernie non scherzava; giovane, attraente ufficiale dalla lingua sciolta. E tra i due scoppiò l’ammoore.

Lui le fece addirittura una proposta di matrimonio. Lei, sulle prime l’accettò, ma più tardi, fece marcia indietro e ritirò la promessa con una lettera che Ernest ricevette quand’era già tornato in America.

Che sia stato un amore platonico o profano, non è dato sapere.

Ernie, comunque, trasfigurò Agnes in Catherine Barkley, il personaggio femminile di Addio alle armi, pubblicato in America nel 1929 e in Italia solo nel 1945.

Il contenuto, infatti, che narra anche della disfatta di Caporetto, non piacque un granché alle Forse Armate della dittatura fascista.

Ed Ernest, che sul Toronto Star aveva fatto uno spassoso ritrattino di Mussolini, (descrivendolo mentre “leggeva” un dizionario capovolto), non sembrò dispiacersene.

Impegnato com’era, in ben altre avventure. Umane, professionali e letterarie.

Peccato solo che abbia pagato a caro prezzo la sua intensa sete di vita.

Fino al punto da decidere di spegnerla con le sue stesse mani.

Materiali

https://rivista.vitaepensiero.it/news-vp-plus-hemingway-a-milano-nel-1918-dalla-guerra-allamicizia-con-alberto-mondadori-5037.html

https://www.immaginiememoria.it/storie/quellesplosione-centanni-fa/

https://www.ilgiorno.it/rho/cronaca/bollate-esplosione-fabbrica-armi-1.3931261

https://www.doppiozero.com/materiali/hemingway-milano

https://www.raicultura.it/storia/accadde-oggi/Il-giovane-Hemingway-ferito-in-trincea-c3412fcb-1fb6-47e9-94ba-948a094e1502.html

(Video Rai storia sull’8 luglio 1918)