Eppure basterebbe guardarsi negli occhi.

Giulia Gellini_”Divagazioni_Guardando_ci”_ Tecnica mista_100 x 48_2012

di Valeria Frascatore_

Quella che stiamo vivendo è sempre più l’era delle statistiche, del calcolo delle probabilità, della valutazione degli obiettivi produttivi raggiunti, della corsa smaniosa alla quadratura dei bilanci.

A ben pensarci, però, i numeri non ci mettono in affanno, almeno non quanto le parole.

I primi li trovi ma non li cerchi, le seconde le cerchi ma non le trovi.

E, se non trovi le parole, c’è la rete Internet: non sia mai che si possa attingere alla libreria di casa propria e sfogliare un’enciclopedia…che so, un Lessico Universale Italiano, un buon dizionario, qualcosa di cartaceo che, solo a maneggiarlo, ti prenda il piacere per la vetustà di cose d’altri tempi.

In ogni caso, non è mai sprecato il tempo che dedichiamo a soppesare le parole, a calibrarle perché vadano a segno senza esondare, in senso positivo o negativo.

Ma c’è un tempo, parimenti prezioso, che nessun orologio tende più a misurare:è il tempo che dedichiamo a guardare gli altri negli occhi.

L’abbiamo decisamente trascurata, ma esiste una forma di comunicazione legata a tutto ciò che è istinto ferino, riconoscibilità immediata tra individui insita in un guizzo dello sguardo: tutto questo non potrà mai essere soppiantato da uno schermo, da un video, da un’interazione mediata da dispositivi elettronici.

Ci sta sfuggendo di mano il contatto con la parte emotiva delle relazioni, che poi è quella profondamente motiva del vivere:non ci guardiamo più dritti in faccia, l’uno con l’altro.

Come se ci portassimo costantemente sul groppone un sottile senso di colpevolezza rispetto alla violazione di chissà quale standard di comportamento ottimale:una specie di eterno confronto con “Il saper vivere di Donna Letizia”, testo la cui lettura, un tempo, si consigliava come breviario delle buone maniere.

La logica dell’evitarsi si sta pericolosamente facendo strada dentro e fuori di noi al punto che, a volte, non riusciamo neppure a ricordare dettagli identificativi dei volti delle persone del nostro diretto entourage familiare: un neo, una macchia discromica della pelle, una vecchia cicatrice.

E,invece, ogni singolo viso potrebbe parlarci di un’armonia tra sguardo e mimica, di un’essenza che appartiene a quel soggetto e solo a lui nelle espressioni che fa quando parla, nelle piccole smorfie e nelle involontarie contrazioni della muscolatura che, in ciascuno di noi, dicono molto più dei gesti.

D’altra parte c’è chi, dalla mimica facciale e del collo di una persona che canta, è in grado di stabilire se quest’ultima stia usando correttamente il diaframma (oppure stia cantando di naso) e se stia sfruttando al meglio le proprie corde vocali.

Guardarsi negli occhi significa soprattutto mettersi a nudo davanti all’altro, richiede coraggio e sgomenta molto più dell’essere semplicemente svestiti.

Certo, a volte è proprio difficile sostenere determinati tipi di sguardi, senza alterare la rettilineità della comunicazione visiva, perché più sentiamo affini le persone che abbiamo di fronte, meno riusciamo a gestirne l’invasività. Tendiamo ad abbassare la testa, abituati a pensare che quello che vogliamo trasmettere possa arrecare fastidio, noia…non sia degno di interesse.

E non parliamo di quando non riusciamo a guardare l’altro dritto in faccia perché ci vergogniamo e sappiamo di aver commesso qualche birbanteria!

In linea generale scappiamo, scappiamo sempre quando arriva il momento del “redde rationem” ma siamo come quei buffissimi personaggi di alcuni cartoni animati che insabbiano la testa e, non accorgendosi di essere rimasti esposti al pericolo con il resto del corpo, pensano di averla fatta franca.

E allora ci ritroviamo, con lo sguardo basso e riluttante, a cercare rifugio nel cellulare. Lì, mal che vada, vediamo riflessi noi stessi e,comunque, non dobbiamo temere il giudizio o l’indagine volta ad una ricerca, che ci riguardi da vicino, della verità a tutti i costi.

Già…la verità. Quale?Quanta?

La verità è fatta di sfumature e, guardarsi negli occhi, consente di coglierle tutte, quelle sfumature.

Perciò, incrociamo gli sguardi, non lasciamoci sfuggire l’occasione di un incontro e di un’occhiata, anche fugace, in cui ritrovare il piacere della socialità e della comunicazione legata al linguaggio del corpo.

E basta pure con quell’asettico:«Prendiamoci un caffè...», «Andiamo a prenderci un aperitivo…», «Facciamoci una pizza…» come se, solo davanti al cibo oppure a una bevanda, riuscissimo a togliere il freno alle nostre più profonde ritrosie.

Addio ai gesti meccanici, privi di slancio e di passionalità.

Credo sia arrivato il momento di parlare guardandosi negli occhi. Senza mezzi termini, senza se e senza ma.

Se poi non aveste voglia di parlare, lasciate liberi i vostri sguardi di posarsi ovunque sia possibile ragionare, comunicare, esprimersi. Mettetevi in gioco:non abbiate paura di un diniego.

E troverete sempre altri due occhi, o anche di più se siete fortunati, pronti a restituirvi tutto ciò che desiderate. A quel punto perdersi o ritrovarsi non avrà importanza, purchè siate appagati e felici di aver sperimentato un incontro di anime.

Troppi involucri senza contenuto, troppi sacchi vuoti, troppa gratuita fatuità in questo nostro, incasinato mondo.

Un pensiero del genere,però,non deve generare rabbia o delusione:piuttosto,ogni tanto,spegniamo i cellulari,abbassiamo la guardia e lasciamo solo che gli occhi parlino di noi e per noi!

Ci sarà sempre qualcosa da dirsi.


Valeria Frascatore_

Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.




Sogno la rivoluzione dei piccoli gesti – [parte 2 (e forse ultima)].


di Giuliana Caroli_

Nel precedente articolo sono partita da un piccolo libro della fine degli anni ’90 per raccontare come alcuni piccoli piaceri della vita possono regalarci momenti di pura felicità. Per similitudine ho cercato di dimostrare che non sempre è necessario andare alla ricerca di gesti importanti ed eclatanti – che quasi sempre si rivelano anche estremamente gravosi – per innescare un cambiamento desiderato per il piccolo universo in cui ci troviamo a vivere, ma persino per il nostro pianeta. 

Una filosofia, quella dei piccoli gesti, che se fossimo in tanti a seguire potrebbe davvero essere rivoluzionaria. 

Con le nostre scelte di acquisto possiamo condizionare il mercato semplicemente decidendo di comprare il prodotto più sostenibile, perché il packaging è ridotto al minimo o non c’è plastica oppure utilizza materie prime ecologiche o è ricaricabile o, ancora, è di stagione e a km zero.

Noi consumatori dobbiamo acquisire consapevolezza del nostro potere e trasformarci in “consumattori” se vogliamo essere ascoltati e spingere all’azione verso una maggiore sostenibilità.

Ma la rivoluzione dei piccoli gesti ha ambizioni ancora più grandi.

Sogno uno sconvolgimento anche nell’ambito delle relazioni, della socialità, dei rapporti umani. Un terremoto capace di sconquassare le nostre coscienze e costringerci ad aprire gli occhi sulle brutture e sulle deformità del nostro modo di relazionarci con gli altri esseri viventi, umani ma non solo.

E qui mi sovviene un altro libro, più o meno dello stesso periodo: “Brodo caldo per l’anima”.

In una sorta di viaggio gustativo che ci trasporta dalla prima sorsata di birra ghiacciata che regala un attimo di refrigerio unico e irripetibile al calore di un brodo che riscalda l’anima e ci porta ad assaporare ardenti attimi di felicità.

Perché voglio disperatamente credere che l’uomo sia assetato di amore e comprensione e che sia ancora possibile nutrire fiducia nel prossimo e aprirsi al mondo con serenità, senza paura e timore. 

Perché voglio sperare che altruismo e gentilezza dimorino nell’animo umano come qualità innate, e per quanto assopite, siano capaci di risvegliarsi e di prendere il sopravvento sull’egoismo e il cinismo che paiono aver ricoperto la nostra umanità.

Come? Con piccoli gesti garbati e cortesi, con minuscoli atti premurosi e amorevoli, come un sorriso sincero o un grazie genuino.

Il sorriso è un’arma potente in grado di disinnescare la nostra diffidenza. È contagioso e agisce come un riflesso condizionato inarrestabile. È un antidolorifico naturale perché, rilasciando endorfine, abbassa il livello di stress e induce una sensazione di calma e tranquillità. È un potente mezzo di comunicazione che parla un linguaggio universale, a cui tutte le culture e le società del mondo attribuiscono lo stesso significato di positività. È espressione di sicurezza e serenità e fa trasparire un senso di fiducia e autostima. È benessere puro per la nostra mente e aumenta la capacità di concentrazione. È capace di modificare il nostro umore, ingannando il nostro corpo e la nostra mente e spingendole a migliorare rapidamente lo stato d’animo. E soprattutto non ci costa nulla, ma può essere un regalo prezioso per gli altri.

Per Charlie Chaplin “un giorno senza sorriso è un giorno perso”. Che inutile spreco di tempo sarebbe una vita senza sorrisi!

Allora, la prossima volta che saliremo su un tram o una metropolitana, che entreremo in un bar per bere un caffè, o in un negozio per fare acquisti, o in un ufficio per sbrigare una pratica, oppure che incontreremo un collega nel corridoio dell’azienda, ricordiamoci di sorridere.

Pensate come sarebbe migliore il mondo se la moneta di scambio di ogni nostra relazione fosse un sorriso.

Un piccolo gesto può avviare una rivoluzione?

Sì, se saremo in tanti a farlo.


Giuliana Caroli, classe 1965, lavoro in una grande cooperativa di servizi come Responsabile Comunicazione, ma mi porto come bagaglio una lunga esperienza in ambito consulenziale e formativo.

Scrivo di ciò che conosco e di ciò che mi appassiona. Coltivo la curiosità e alimento le relazioni positive. Detesto l’indifferenza e l’irresponsabilità.

A cosa aspiro? A fare la differenza: per qualcuno, per il pianeta.




L’equilibrio dell’amore.

Foto di Mario Barbieri_”Il bacio non dato”_ E’ vietata la riproduzione senza l’autorizzazione scritta dell’autore.

di Valeria Frascatore_

No, stavolta e per una volta, non tirerò in ballo la pandemia parlando di disvalori affettivi.

Sulla linea della temperatura di un immaginario termometro delle emozioni, l’AMORE cammina sempre in bilico, come un giocoliere che oscilla tra il ”Non so se ce la faccio a farcela” e un “Ho capito che oggi non è giornata!”.

E la presa d’atto della definitiva perdita di equilibrio da parte del saltimbanco, viene puntualmente slatentizzata attraverso la consueta elencazione di catastrofi di proporzioni bibliche:la calata delle invasioni barbariche, lo scoppio di epidemie e il trionfo della logica dei piccoli, grandi compromessi di Stato.

L’annuncio parla chiaro: “Venghino signori, venghino…qui giace l’AMORE, precipitato, per cause fortuite e calamità non ben precisate, dalla fune sospesa lassù in alto:anche stavolta ha vinto il DISAMORE, con buona pace degli idealisti dell’ultim’ora!”

Scuse, un mare di scuse, addotte per non buttarsi nella mischia e sperimentare a carte scoperte le relazioni, lasciandosi travolgere da quel briciolo di turbamento emotivo di cui tanto si avverte la mancanza.

E se,invece, turbati e scossi, in ordine sparso, facessimo la rivoluzione attraverso uno Sturm und Drang del cuore, in grado di lasciarci dentro una traccia profonda di tutto ciò che testiamo nel corso dell’esperienza terrena? Forse riusciremmo sul serio a sperimentare l’eccezionalità di un sentimento…certo…ma dovremmo, al contempo, essere in grado di comprendere la portata dei risvolti mortificanti insiti  in un’accusa di DISAMORE.

Già il suono di questa parola tocca profondamente l’intimo sentire, è una specie di paravento che affligge il relazionarsi dei tempi moderni, un palcoscenico montato ad arte per guadagnare una via di fuga dai propri fantasmi ed inscenare una recita a soggetto perché, diciamocela tutta,  l’atto di far finta di desiderare ciò da cui, in realtà, rifuggiamo quasi con orrore, è seducente come pochi altri. Per noi e per chi ci ascolta, il più delle volte, inebetito dalle delusioni rimediate nella vita e pendente dalle labbra di chi spaccia l’Amore per Disamore, l’Interesse per Disinteresse, l’Empatia per Apatia.

Così, seduti ai margini dello strapiombo da cui contempliamo le nostre vite, con le gambe a penzoloni nel vuoto a rendere delle relazioni interpersonali, tendiamo le mani tremanti verso chiunque ci appaia in grado di sottrarci alle insidie di un abisso, spesso denso di limitatezza sul piano spirituale e morale.

E’ un meccanismo,il nostro, oliato da quella insostenibile leggerezza che regola il desiderio di essere accolti e che trova precisa rispondenza nell’insostenibile, leggera indifferenza, di chi, il più delle volte, è capace soltanto di regalare DISAMORE.

Ma il comune senso del pudore, sempre che esista, alberga proprio in quella manifestazione di sommo ritegno e rispetto per l’altro attraverso la quale si opera nel suo interesse e non contro a prescindere. La vera vittoria resta la precisa scelta di non ritrarre una mano tesa sulla vita di un altro individuo.

Chi ha esperienza diretta con l’insostenibile leggerezza di una forma di DISAMORE subìto, di solito si libera e arriva sempre lì, dove si può osare solo AMORE.

Non si tratta di un luogo fisico:è un anfratto dell’anima in cui le persone si riconoscono nell’alternanza di luci e ombre del proprio Essere.

L’Amore osa ove non sono necessari preamboli, non c’è spazio per il calcolo e nessun preconcetto è ammesso.

Tutto è straordinariamente nitido, i lineamenti si distendono in un sorriso accogliente e cadono le barriere.

L’Amore osa quando l’intuizione istintiva si fa certezza incrollabile e quando una cosa lungamente attesa si realizza,magari contrariamente ad ogni aspettativa.

Ce lo domandiamo spesso se, per raggiungere questa condizione di estatica contemplazione di un’altra esistenza, esistano delle coordinate precise da seguire:una mappa, una scorciatoia, una dritta furba.

E invece no: tocca arrangiarsi. Che poi, in sostanza, significa mantenere una linea di genuinità.

Resta il fatto che l’occasione in cui si riesce a osare amore è un posto bellissimo, la cui particolarità incanta gli occhi e il cuore e invita a trastullarsi per sempre nella deliziosa incapacità di distinguere il sogno dalla realtà.

Ed è proprio con questo spirito intriso di ingenua incredulità, di movenze incerte, di sequenze interrotte da sguardi lucidi come di pianto ma di coscienza estremamente consapevole e padrona di sé che dovremmo osare tutto l’Amore di cui siamo capaci e dargli peso.

E’ l’unica strada che rende sostenibile la leggerezza del DISAMORE ricevuto.


Valeria Frascatore_

Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.




L’Amor Capestro.

illustrazione Mario Barbieri
(è vietata la riproduzione senza autorizzazione scritta).

di Mario Barbieri,

Qualche giorno fa, mi sono ritrovare a chiacchierare con una persona pressoché sconosciuta, mentre entrambi aspettavamo il nostro “turno distanziato” nei pressi di un ufficio pubblico.

Come talvolta capita tra sconosciuti, forse proprio perché tali, forse per “empatie” che ci sfuggono o solo perché chi si racconta ha voglia di farlo, oltre all’elenco di una serie di acciacchi e malanni che mai non possono mancare, vengo a conoscere parte dell’umana vicenda che ha coinvolto e segnato questo comunque simpatico signore ultra cinquantenne.

In modo sintetico qui li riassumo perché questi episodi, questi “fatti di vita”, sono il punto di partenza per la mia riflessione spero non banale.

Quest’uomo, sposato o “accompagnato” come usa dire, non ricordo ma è dettaglio secondario, quando la figlia ha nove mesi, vede le sua moglie/compagna, andarsene con un altro uomo e lasciarlo solo con la figlia, senza più “voltarsi indietro” e, se ho capito bene , senza più avere alcun tipo di rapporto con lui e neppure con la figlia.

L’uomo cresce la figlia e quando questa è adolescente, lui si trova a frequentare un’altra donna o forse negli anni più di una, ma i suoi stretti legami con la figlia, gli impediscono di avere una relazione stabile o di convivenza e di fatto oggi si trova solo e con la figlia oramai ventiseienne che è uscita di casa.

Possiamo partire da qui cercando di evitare giudizi e/o sentenze sui comportamenti di una o dell’altra persona e nel contempo prendendo per buono il racconto dell’uomo, che è ovviamente solo la sua versione dei fatti. Capirete spero in seguito, che la ratio non è “scoprire la verità” o arrivare a stabilire chi si è comportato peggio e chi meglio rispetto le nostre idee o la morale. Quella morale che si può considerare comune e che si vorrebbe potesse segnare la netta demarcazione tra il Bene e il Male.

Sospendiamo il giudizio morale su una madre che abbandona un figlia di soli nove mesi per andarsene senza tornare indietro. Quello che mi preme indagare e evidenziare è il motivo (per come mi è stato raccontato) che ha portato a questa drastica e per certi versi terribile, decisione.
La donna, aveva una relazione con altro uomo e questi, alla nascita della figlia o comunque qualche mese dopo, avrebbe posto un diktat: “Scegli… o me o tua figlia, perché io lei non la voglio con noi!”.

Terribile diktat, terribile scelta, ma dal racconto fattomi pare ci sia stato l’uno e l’altra e quella donna sceglie l’amante. Potremmo dire l’amore? Non so…

Facciamo un salto in avanti. L’uomo prosegue nel suo racconto e mi narra di come ha allevato la figlia e come il loro si diventato un legame molto forte, totalizzante, al punto che la figlia, divenuta adolescente, non accetta che il padre frequenti alcuna donna o quantomeno, che un’altra donna entri in modo stabile nella loro vita. L’uomo, il padre, sceglie in questo caso la figlia, il suo legame con lei e tronca il rapporto con una possibile compagna. Ma, a ventiquattro anni, la figlia, come fanno o dovrebbero fare tutti i figli, lascia la casa del padre per andare a vivere da sola. Una sua legittima scelta e chi rimane (nuovamente) solo è il padre. Rimangono in buoni rapporti, si sentono e vedono spesso, ma questa è un’altra questione e meno male almeno questa consolazione al mio compagno d’attesa, è rimasta.

Siamo al dunque… potremmo arrivare alla morale – che niente ha a che fare con il moralismo – di queste umane vicende. Una morale amara ma reale, una morale temo tutt’altro che rara da ritrovare, quella dell’ “Amor Capestro”. Quel tipo di amore intriso e anzi costruito su tanto e tale egoismo che fa del supposto “amore” un capestro appunto, una corda al collo o talvolta una prigione, un’arma carica puntata alla tempia. E’ quel (supposto) amore che ti chiede di scegliere tra lui – l’amor capestro – ed un altro amore.

L’amore dell’amante – in questo racconto – che chiede ad una madre di scegliere tra lui e la figlia!
L’amore di una figlia – in questo racconto – che chiede al padre di scegliere tra lei e un possibile amore “rivale”, anche se non esattamente dello stesso genere.
L’ Amor Capestro è quello che ti mette difronte ad una scelta obbligata, una scelta dolorosa, una scelta che comunque ti infliggerà sofferenza. Finirà per stringersi al punto ti mancherà il respiro!

Perché non stiamo parlando di quella scelta che per quanto difficile, può per amore, cambiarti in meglio la vita – scegli me, o la bottiglia! Scegli me o la tua droga! E tante volte non la si spunta perché sono legami o meglio catene ben più complesse – ma di rinunziare ad una parte di ciò che ami, perché qualcuno, vuole questo tutto per sé, non permette esista altro. Un egoismo che inghiotte, come un buco nero. Un amore che non riesce ad amare ciò che tu ami, un amore “taccagno” nel migliore dei casi.

Io amo te, ma tua figlia che non è mia, mi dispiace no. Non ci riesco e forse neppure voglio provarci.
Io ti voglio bene papà, ma questa donna che non è mia madre, mi dispiace no. Non ci riesco e forse neppure voglio provarci.

Bisognerebbe avere la forza di fuggire dall’Amor Capestro… e qui veniamo all’ultima parte della mia riflessione, per chi ha avuto la pazienza di legger sin qui.
La debolezza, la paura, del restare soli, del “perdere l’amore” (seppur capestro).
Una paura che forse un po’ tutti ci attanaglia, ma che talvolta è tale e talmente forte, che acceca, non permette di vedere l’evidente, di avere discernimento, di indirizzare le nostre scelte verso un bene maggiore. Un bene maggiore che non coincide per forza con il nostro “immediato bene”, che anzi nell’immediato ci porterà nuovamente una sofferenza, uno strappo, magari un conflitto, ma nel tempo ci ripagherà.
Per essere pratici, possiamo calare questa idea, nuovamente, nella vicenda umana raccontata.

“Mi chiedi di scegliere tra te e mia figlia? Scelgo mia figlia e non perché ami più lei di te, ma perché mi rendo conto che tu non mi ami e sei incapace di amare ciò che amo, semplicemente mi vuoi (forse), ma se mi amassi non mi chiederesti una cosa del genere! Mi domando cosa mi chiederai domani…”.

“Figlia mia, lo sai quanto bene ti voglio, ma se anche tu mi vuoi bene, perché mi chiedi di restare solo, di rinunciare a chi mi può stare vicino, con cui spero condividere una altro pezzo della mia vita anche quando tu te ne sarai andata… perché figlia mia tu, come è giusto, te ne andrai, te ne andrai con chi amerai in modo totale e diverso dal bene che dici di avere per me… e io ne sarò felice!”.

Questo forse è quello che si sarebbe potuto dire e certamente ci sarebbero potute essere delle conseguenze, non è detto che tutto si sarebbe risolto con un abbraccio piuttosto che con una rottura, ma nella vita le scelte possono essere “stroncature” che non lasciano speranza o “potature” di evangelica memoria, che permettono all’albero di crescere più rigoglioso e forte di prima… e a suo tempo dare frutto.


Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti.
Appassionato di Design e Fotografia.

Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.

Blog:
https://ceuntempoperognicosa.wordpress.com/
https://immaginieparoleblog.wordpress.com/




Assorbire il nero oscuro.


di Pierluigi “Pierre” Ibba.

Ogni giorno quando mi sveglio una delle prime cose che faccio è guardare il cielo. Credo sia una sorta di saluto al mondo, al pianeta . Saluto, ringrazio e mi preparo il caffè, la mente potrebbe “sembrare” sgombra ma la mia è carica di sogni, tutti legati alla bicicletta.

Riflettendo, tra un cucchiaio e l’altro mentre riempio la mia moka di caffè, a volte mi sorprendo della sensazione che questo mezzo mi crea. Rilassamento, ma anche una carica energetica, un desiderio un bisogno proprio fisico di salirci e di provare quel senso innato di vivere…

La bicicletta per me rappresenta il perno su cui far girare la mia vita. É quel lato che trasforma il mio modo di relazionarmi, rapportarmi al mondo circostante e ancor più a me stesso. Vivere la bici è il vero senso della libertà, della gioia e del delirio delle mie paure. Sto in bilico attraverso il mondo e ha volte questo si paga. Se conosci le sensazioni del poter pedalare sai cosa vuol dire, non la puoi spiegare a qualcuno che non l’ha mai provata. Ma io ci provo, troppo bello poter far sognare le persone.

Si la bicicletta è fatta di sogni, che poi grazie a lei diventano realtà. E Forse proprio quella realtà diventa ancor più bella in sella. La mia bici quindi diventa una sorta di identità, il mio stile, la mia indole, il mio vero essere. É una prova di forza, è il coraggio di valicare i miei limiti, di voler scoprire, andare oltre…Ecco questo “tratto” è il mio preferito, la scoperta inebria, la mente si apre e il mio corpo si adatta tra il ritmo della mente e del cuore. I miei occhi aperti, l’aria che mi impregna il viso, le mie gambe, dure, a volte…Sensazioni, dolori anche profondi come la vita… La bici ti guarda in faccia, ti affronta , a volte vince, a volte vinci tu, altre ti logora perché ti porta all’estremo di tutto.

Mi sono spesso sorpreso, ancor adesso che sto scrivendo accade, di quanto subisca la sua mancanza. Se non pedalo in qualche maniera soffro. Come mi capita per la perdita di qualcuno di speciale. Un vuoto potente. Ditemi pure che può sembrare follia la mia, ma è vero…Mi succede anche ora che cerco in ogni modo di far capire che cosa valga davvero la pena vivere attraverso una bicicletta. Sembreranno solo una accozzaglia di emozioni sconclusionate, invece, quasi istintivamente come un correttore automatico, la bicicletta distribuisce in modo naturale le cose, soprattutto il sorriso. Credo di non essermi mai sentito così “naturalmente” felice come quando salgo su una bicicletta, di qualsiasi forma essa sia. Potrei quasi definirla curativa per i miei “bui emotivi” ; assorbe il nero scuro e rilancia i colori, li irradia; ecco perché dovremmo fare di tutto e spingere le persone a usare una bicicletta, anche per i piccoli tragitti. Un cambio di rotta, un modo di intendere la vita più leggera. Chi lo sa se il mondo capirà che la bici è il futuro dell’uomo…per me è così.

Sono selvaggiamente sporco, amo il selvaggio e il pantano che mi resta attaccato, amo le vie impervie e i colori delle montagne nei boschi. L’asfalto l’ho vissuto molto, le paure date dal traffico dagli automobilisti e dalle distrazioni ovviamente le conosco, ma preferisco il rischio naturale dove l’errore resta umano e non del caso. Dove e come sentirsi lo dice il percorso, mi indica dove scegliere le vie che mi portano alla gioia di raggiungere un luogo davvero speciale ,una discesa ripida. Il punto più alto del viaggio è il mio momento più intenso, se poi uno sguardo arriva a vedere la vastità del mondo, allora è davvero indimenticabile. I momenti più alti sono quelli in cui il mio istinto prevale sulla mia ragione. Il vero coraggio di voler vivere senza trattenere le emozioni catturandole una ad una, una scorpacciata di vita.

La vera forza della bicicletta sta nel non dare limiti a me stesso, se mi sento di andare, uno scatto mi spara in paradiso. Se amo vivere e cogliere l’attimo tengo una velocità leggera, ascolto il rumore del cuore e del terreno, e se invece ho bisogno di riflettere basta fermarmi, posare la bici e sdraiarmi per terra, ed osservare il cielo.

Tutto questo per me è vita, da vivere adesso, senza più rimandare .


Pierluigi “Pierre” Ibba.

Il mio é un amore, e la bici mi rende vivo.Ho fatto molti sport ,ma solo con lei vivo questa energia questa essenza di vita e libertá. Ho 40 anni ,ma ho un energia da ragazzino. Tutto ció che piú vorrei é poter lavorare e vivere per e con la mia bici. Sono di origine Sarda, anche se nato in veneto, e naturalmente amo la Sardegna, altro infinito amore che sento vibrare profondamente in me.

p.s.= la bici sullo sfondo è “Daisy”, la mia vecchia bici protagonista di molte avventure.




Guerrieri bramosi di vita e luce.

Giulia Gellini_Femminilità incisa_

di Valeria Frascatore_

Come fare a recuperare la dimensione ideale del proprio ESSERE che annulla se stessa e si perde nei lugubri sotterranei della mediocrità?

Avanziamo nelle tenebre, con passo lento ma deciso, perché vogliamo aprirci un varco che ci permetta di conquistare finalmente la LUCE. Non più, dunque, guerrieri erranti sottèrra in lotta con fantasmi di un passato troppo ricurvo su se stesso, ci apprestiamo ad affrontare la madre delle battaglie: il nostro avversario è la morte, la morte dell’anima.

Le sole armi di cui disponiamo sono gli ideali che la massa, impietosa e vigliacca, reputa degni del più profondo aborrimento.

Ci condannano, ci scherniscono perché vagabondiamo alla ricerca di sensazioni forti, di brividi e sussulti: non sanno che , solo appagando il desiderio di sfuggire alle pastoie di un’esistenza scontata, avremo requie.

Siamo un piccolo esercito di uomini e donne nuovi, marciamo alla conquista di un mondo privo di confini visibili, coltiviamo un’idea che è già una realtà, siamo terreno fertile su cui essa attecchisce e si sviluppa.

Ognuno di noi, in potenza, custodisce una tessera del mosaico di quel mondo così tanto agognato ma si ostina,caparbiamente, a volerla cercare nel proprio simile al punto che, quando la scova, si illude di aver trovato l’incastro perfetto.

Ma completarsi è scoprire di possedere in sé per poi stanarlo altrove, quello speciale corredo di principi, valori e verità che vincono il transeunte e ci elevano al grado di persone, strappandoci a quello di ombre di umanità.

Ora che finalmente percorriamo le giuste vie, il SOLE ci inonda del suo calore e scioglie il ghiaccio dei nostri cuori inariditi dal contatto con le gelide profondità della TERRA: è come rinascere, è il segnale che attendevamo per tornare ad attingere alla sacra sorgente della SAPIENZA.

Per raggiungerla, scaleremo rocce acuminate, cadremo ferendoci mille volte e mille volte ci rialzeremo e, alla fine, laceri e sfiniti, potremo dissetarci senza sosta e medicarci le ferite.

Lungo il tragitto avremo modo di rivivere in un solo attimo tutta la nostra esistenza e forse ci sembrerà di non aver vissuto affatto: avremo la sensazione di esserci lasciati vivere.

Se mai questo momento dovesse arrivare, nessuno si farà trovare impreparato e supereremo le asperità mettendo in condivisione le tessere del nostro mosaico di speranze: i dubbi del singolo saranno i dubbi del gruppo, così come le certezze.

Ci hanno insegnato a vivere – o forse a sopravvivere – contando esclusivamente sulle nostre forze e trovando in noi stessi le risposte a tutte le domande: condizione né piacevole né equa.

A volte il sole ci sembra davvero non sorgere mai. Ma quando il senso del viaggio è chiaro, il sentiero da percorrere apparirà sempre battuto.

I guerrieri di questo tempo balordo ottengono dalla vita una sola e inestimabile ricompensa: quella di non ritrovarsi soli sul campo di battaglia e di scoprire che, nei loro sussulti di vita e di luce nuova, si riflettono altre vite, si incrociano altri destini. Ci si dona gli uni agli altri, con spontaneità e gentilezza, senza mai smettere di cercarsi e senza voler ricevere nulla in cambio.

Insieme si cade, insieme ci si rialza. Siamo note di vita, passi di danza sincrona, cenni di consumata teatralità, fascino dell’essere. Siamo una realtà palpitante e viva, non un sogno distopico affidato agli scettici. ANIME scintillanti nel presente che non hanno bisogno di interrogare uno specchio per sapere chi sono, libere dai fantasmi «del tempo che fu» e che combattono con tenacia affinché, su chi è bramoso di vita e di luce,non cali mai il sipario. Non ambiscono a nulla, se non a questo i veri guerrieri.

Loro sono altrove, sono qui e ora. Sono FUORI.


Valeria Frascatore_

Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.




QUANDO IL FAKE SIAMO NOI.

Giulia Gellini_Respiro libero_70 x 100_tecnica mista_2019

di Valeria Frascatore_

Viviamo una fase storica piuttosto delicata, carente a vari livelli sul piano formativo.

Il grado di istruzione non rappresenta più un discrimen sociale e sembra quasi che la linea di demarcazione tra addottrinamento obbligatorio e non obbligatorio sia tracciata dai social che, indubbiamente ,non garantiscono alcuna forma di controllo sul livello di recepimento dello sciame di informazioni quotidianamente veicolate.

Si percepisce la mancanza di idonei strumenti attraverso cui educare le coscienze all’autonomia in tema di libera formazione di pensiero e di giudizio, laddove per giudizio non si intende la capricciosità di una teoria volubile ma un vero e proprio costrutto strutturato, ancor meglio se supportato sul piano argomentativo. Oggigiorno praticamente un’utopia!

Esistono,infatti, troppe forme di dipendenza e di condizionamento da opinionismo nozionistico, talmente radicate da rappresentare, a volte, una specie di anticamera dello shit-storming, nel senso che lo alimentano attraverso l’immissione e la condivisione in rete di  affermazioni categoriche e perentorie, pronunciate con eccessiva – o  a volte senza alcuna – partecipazione emotiva e che finiscono con l’affiancare i casi di vere e proprie offese gratuite disseminate, qua e là, dagli haters a colpi di post e di commenti sui social.

Ferma restando la netta condanna nei confronti di tutto ciò che nel web lede l’altrui immagine e reputazione, ciò che, in alcuni casi, risulta fuori controllo è la tendenza, soprattutto nel mondo dei social, a giocare allo sceriffo a oltranza, nel tentativo di smascherare qualsiasi profilo/persona poco rispondente ai canoni dell’autenticità e della trasparenza.

E’ avvilente constatare che si è persa l’abitudine a distinguere uno schiaffo da una carezza e che, tutti presi dalla caccia alle streghe in rete, come nella vita, non riusciamo a concederci cedimenti emotivi, viviamo nel terrore di essere circondati da approfittatori di professione o,peggio ancora, da esperti di modi affettati e di strategico perbenismo.

Si finisce col tacciare una persona gentile e ben educata di buonismo con la medesima facilità con cui una persona insolente viene accusata di maleducazione e rozzezza! E questo, oltre che paradossale è anche pericoloso, perché provoca nelle persone corrette la sensazione di sentirsi sbagliate e fuori posto.

Inevitabilmente,infatti, l’individuo costruisce il proprio “IO” rapportandosi con l’immagine di sé che riceve come output dal suo approccio con altri individui, anche attraverso occasioni di confronto offerte dalla  comunicazione virtuale.

E’ importante essere capiti, anche nel web: è molto facile, invece, essere fraintesi e finire nel calderone degli haters o dei polemici di professione.

Non si può pensare di liquidare con un click,mediante un freddo automatismo, un soggetto pensante e vivo sul piano emozionale per la smania di voler frugare trovando il marcio che lo renda più facilmente attaccabile.

Che triste eredità ci ha lasciato l’esperienza pandemica!

La tendenza a guardare in cagnesco l’altro come se lasciassimo scandire il nostro tempo da un count down in grado di allertarci sulla fregatura che, da un momento all’altro,potremmo rimediare da terzi. Siamo sempre più prevenuti e calcolatori:non ci lasciamo andare…questa è la verità.

L’alternativa non è più scegliere tra una persona che ci piace e una che non ci piace – il che sarebbe sacrosanto e legittimo perché nella vita non si può piacere a tutti – ma tra chi,rimanendo se stesso fino alla fine, ai nostri occhi giustizialisti a oltranza cade per primo in fallo e chi, invece, magari si vende meglio e quindi non commette errori.

Attraverso l’uso del “bannaggio“, della restrizione e del blocco sui social si spazza via tutto ciò che suona anche solo come posticcio e poco convincente: non c’è necessità di arrivare all’offesa…ormai si bollano le persone per molto meno.

E’ un fenomeno, quello della corsa a smascherare il “fake” che è fuori di noi, che spesso tradisce la necessità di disconoscere i nostri stessi limiti, soprattutto l’incapacità di distinguere un essere umano moralmente integro da uno che non lo è. Il sentore, purtroppo, è che al senso di umanità abbiano rinunciato a credere un po’ tutti.

E’ indubbio, però, il giudizio da presunto impostore affibbiato ad altri ci costringe, prima o poi, a fare i conti con noi stessi e con i nostri lati oscuri ma soprattutto con l’esigenza di dover bandire qualcosa o qualcuno che ci ha toccato  – sebbene attraverso una forma di relazione virtuale – e che è riuscito a smuovere in noi delle sensazioni scomode.   

Scovare ed isolare la falsità,talvolta, è come ottenere una ricompensa e consolarsi per non aver saputo gestire un’ingerenza nella propria vita. E anche una riflessione o un pensiero personale, formulato sotto forma di post o di commento, può essere vissuto come un’entrata a gamba tesa nella vita altrui.

In sintesi, se chi legge determinate parole frutto di scambi su un social conserva dentro di sé degli aspetti irrisolti, questi lo rendono estremamente vulnerabile ad interpretazioni poco felici nel tratteggiare la personalità di chi, dall’altra parte di uno schermo, quelle parole le ha scritte.

Si instaura una sorta di pregiudizio per cui sia gli haters che i personaggi considerati poco “LEGGIBILI” vengono considerati sullo stesso piano.

Il senso della crociata contro il fake nel web è tutto qui: nella paura di dover barattare parti di noi accondiscendendo al riconoscimento dell’altrui autenticità e consentendosi degli scivoloni che, inconsciamente, forse riteniamo di non poterci permettere.

Nel mondo virtuale queste sensazioni risultano addirittura amplificate e spesso dissuadono dallo sperimentare una qualsivoglia forma di comunicazione, anche embrionale, probabilmente perchè il concetto stesso di virtualità continua a rappresentare un mondo a parte rispetto alla tangibilità epidermica tipica delle relazioni interpersonali de visu.

Concedere ad un altro la possibilità di esprimersi in modo spontaneo e reale fa forse paura perché ci porta a pensare che, prima o poi, potrebbe toccare a noi doverci mettere a nudo? Probabile.

Ma fin quando si vivrà di paure e di conflitti irrisolti, reale e virtuale continueranno a muoversi su binari eternamente paralleli.

Vincere l’incomunicabilità in ogni sua forma: vale la pena provarci per dare un senso alla vita, per vivere da persone libere e dimenticare i tristi strascichi anti-sociali lasciati dietro di noi dalla pandemia.

L’autenticità deve poter essere liberata, non perseguita!


Valeria Frascatore_

Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.




La funzione costruttiva dell’ironia.

Anna La Tati Cervetto_”Specchio non riflesso”_Illustrazione digitale realizzata con “Procreate”_dim.100×70

di Christian Lezzi_

Definito da Sigmund Freud come “la più alta manifestazione dei meccanismi di adattamento dell’individuo”, l’umorismo ha una connotazione liberatoria in senso positivo, essendo un sintomo indiscutibile d’arguta intelligenza, di prontezza mentale, di elasticità e di apertura, atto a indagare e a decodificare, fuori dagli schemi, il mondo intorno a noi. 

Proprio per questa sua capacità di andare oltre gli standard che delimitano uno scambio comunicativo interpersonale, l’umorismo consente, con naturalezza e leggerezza (che non è da confondere con la futilità o con l’inopportuna leggerezza) di scoprire molto degli altri e di noi stessi, arrivando ad apprendere dettagli che, analizzati con rigore logico e con altrettanto eccessiva serietà, difficilmente scopriremmo.

Ciò accade perché, l’umorismo, supera le difese, gli scudi, le maschere che ognuno di noi, volente o nolente, applica, erge e indossa, per allontanare le paure, i rischi, ciò che non ci fa sentire a nostro agio, che ci espone alla minaccia, tranquillizzandoci e predisponendoci al confronto produttivo e rilassato con l’interlocutore.

E quando una trattativa volta a negoziare, o a mediare (di qualunque natura essa sia) si svolge in piena rilassatezza, grazie anche al piacevole senso dell’umorismo e all’ironia più rispettosa, può accadere ogni magia!

L’umorismo però (o ironia, che dir si voglia) non va confuso con il sarcasmo. 

Immaginando le due facce di un’ipotetica medaglia, una faccia (l’ironia) brilla nel sole, mentre la seconda (il sarcasmo) poggia direttamente sul nudo fango. Se il primo è costruttivo, distensivo, arguto e piacevole, se riesce a tradure, in una battuta ilare e in uno scambio ridanciano, l’essenza intelligente di chi la propone, il suo alter ego è cattivo, narcisista, irrispettoso delle altrui sensibilità, pronto a schiacciare e calpestare, distruggere e demolire, pur di primeggiare sull’interlocutore, vivendolo come un nemico da abbattere, prima che diventi offensivo e contundente, in ogni accezione possibile.

In altre parole ed esagerando volutamente i termini, potremmo ben definire il sarcasmo, come un disturbo sociopatico e antisociale del comportamento umano.

Al di là delle battute, è lecito pensare che, se l’umorismo è una forma d’intelligenza (adattiva per Freud, come abbiamo già visto), il suo Mr. Hyde è una materializzazione delle paure più profonde, quelle che condizionano il comportamento e distruggono le relazioni. Il sarcastico umilia offendendo, allo stesso modo dell’arrogante che soverchia urlando. 

In entrambi i casi, è la paura a farla da padrona, rubando la scena alla già scarsa autostima del soggetto in questione.

L’umorismo ride con te. Il sarcasmo ride di te. La sottile differenza è tutta qui. Sottile appunto, come una lama tagliente che di buone intenzioni proprio non ne ha.

L’aspetto costruttivo dell’umorismo si concretizza quindi nella sua capacità di mostrarci una diversa prospettiva, un differente punto d’osservazione, una nuova forma mentis nell’affrontare un determinato carico emotivo, spesso inaspettato. La battuta piacevole rompe ciò che potremmo definire iper-focus, ovvero quella concentrazione esagerata sul problema, a discapito della soluzione che perciò diventa invisibile, in cui il primo ruba la scena al secondo, rendendoci incapaci di essere produttivi e risolutivi.

Non a caso, lo psicologo americano Richard Bandler ha scritto “Se siete seri, siete bloccati. L’umorismo è la via più rapida per invertire questo processo. Se potete ridere di una cosa, potete anche cambiarla”.

E ciò ci porta a dissacrare (deo gratias) lo status quo, il “si è sempre fatto così”, l’assurdo “squadra che vince non si cambia”“finché la barca va…”, per affrontare le situazioni con un pensiero diverso, alternativo, leggero nella sua profondità, mirato a costruire una soluzione con il sorriso sulle labbra e con il giusto atteggiamento.

Un pensiero “laterale” che punta a fiaccare le resistenze, attaccandole laddove non se lo aspettano, proprio come nella strategia militare, come avrebbe detto l’indimenticato professore maltese Edward De Bono, famoso per i suoi sei cappelli per pensare, per il suo fine umorismo e l’altrettanto affilata intelligenza.

Quando parliamo di umorismo, quindi, definiamo un’alternativa positiva, proattiva, aperta al mondo intero che ne evidenzia gli aspetti ridicoli, così come mette in ridicolo la seriosità stessa, nostra e di molte persone, dall’apparenza rigida, con quel fare inflessibile, perché sorridere si può, anche nelle questioni più importanti, esattamente come una battuta ce la si può e ce la si deve concedere, per sopravvivere alla seriosità senza freno e senza prospettiva. Soprattutto senza soluzione. L’ironia alleggerisce le atmosfere più plumbee, assorbe gli urti, rende più confortevole un percorso che, diversamente, sarebbe scomodo o impervio, quasi impossibile da praticare.

E ponendosi come alleviatore, positivo e proattivo, alleggerisce i conflitti, distendendo gli animi, ponendoli in condizione di collaborare, limando alla base quelle asperità che inaspriscono gli scambi e rendono poco propizie le circostanze, accorciando le distanze che sporcano il momento d’ansia, paura e incertezza.

Un momento d’attrito concreto e potente, dovuto alla differenza tra stato desiderato e stato reale, ovvero una distonia relativa alla realtà che stiamo vivendo, evidentemente diversa da ciò che ci aspettavamo, che genera disagio. E quel disagio, prima che diventi stato ansiogeno, non può che essere risolto dall’adattività (altrimenti definita come l’arte di stare al mondo) di cui sa essere capace solo una mente pronta, sveglia e intelligente. Una mente che, spesso, si concretizza in un’uscita con stile, atta a rompere schemi e tensione e che, strappando un sorriso agli astanti e a noi stessi, cambia il modo di vedere le cose in tutti i presenti.

Una caratteristica umana, quindi, molto affine al più blasonato e abusato concetto di resilienza, che può essere allenata, rafforzata, affinata, tanto dalla nostra cultura, quanto dalla nostra curiosità e dall’ambiente circostante. Ma, soprattutto, una battuta d’arguto spirito, non trova spazio in assenza di ascolto attivo e costruttivo, nonché rispettoso dell’altro nel senso più vero.

Agli esatti antipodi del sarcasmo, che l’altro nemmeno lo ascolta, tutto teso e concentrato a scovare l’altrui tallone d’Achille, quel punto debole verso il quale vibrare il mortale colpo, nell’illusione d’apparire brillante.

Ed è la stessa storia a ricordarci come, anche nelle crisi più nere, quelle che hanno segnato il nostro passato, influenzando il nostro futuro, una battuta arguta ha sempre avuto spazio e, a volte, alleggerendo gli animi, ha contribuito a risolvere la querelle

Perché serio, non vuol necessariamente dire serioso.

Immaginare cambia il presente e prepara il futuro, mentre ci aiuta a sopportare un passato spesso ingombrante. Ci consola per ciò che non sappiamo o non possiamo essere e ci conforta, grazie a una risata, per ciò che davvero siamo, staccandoci da una routine pesante o da un momento che, in fatto di pesantezza, rischia di diventare un macigno e aiutandoci a sopportare ciò che di noi poco ci piace, ridendoci sopra, proprio grazie all’ironia che, soprattutto quando rivolta verso noi stessi, rappresenta l’apice nobile dell’arguzia umana.

E ristabilisce il giusto rapporto tra reale e percepito, perduta o sovrascritta dall’ipertrofia dell’ego, di norma talmente piccolo da ingannarsi, fino a sentirsi un gigante, in preda al delirio egocentrico, riconquistando il corretto equilibrio tra le parti e prendendo le distanze da noi stessi e dalla nostra (spesso) ingombrante personalità.

È una questione di stile, di buonsenso e di misura, l’ironia che accomuna.

L’umorismo scioglie i conflitti e alimenta il confronto (già questo concetto sarebbe sufficiente per renderlo di studio obbligatorio a scuola!) perché solo chi ride con gli altri, anche di se stesso, può essere definito brillante. Chi ride degli altri, dei loro sentimenti e delle loro debolezze, puntando a umiliare l’altrui debolezza, è solo un disgraziato meritevole di poco ironica pietà.


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.

Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




Conosci te stesso e le tue emozioni.

Anna La Tati Cervetto_Decadence_tecnica mista.

di Christian Lezzi_

Conoscere se stessi, come se fosse facile, così presi dal quotidiano apparire, dall’ordinario essere (o, per lo meno sembrare) qualcosa che agli altri piaccia, per essere apprezzati, accolti, coinvolti nell’Io collettivo che tanto agogniamo.

Conoscere se stessi, come se fosse semplice da fare e non solo da dire, come se già non fossimo presi, oberati ogni momento, dal vuoto concetto, dal fuorviante miraggio dell’essere se stessi, qualunque cosa voglia significare questo arido modo di dire, seppur consapevoli che ogni azione, ogni pensiero, ogni molecola di umanità, ogni scintilla di vita che ci anima, come un potente propulsore che ci spinge fino alle stelle, ci conduce al miglioramento di noi stessi e del mondo intorno a noi.

Perché la vita è crescita continua – diversamente vita non è! – senza sosta e senza ristoro, per non accontentarsi di ciò che si è e per ambire a ciò che si vuole essere, che si vuole fortemente diventare, in un percorso (a ostacoli) che muove dallo stato attuale e ci conduce a quello desiderato.

Parliamo quindi di auto-coscienza e di auto-consapevolezza, la seconda come ovvia conseguenza della prima (e forse anche viceversa), di presa di contatto con se stessi, con le metaforiche fattezze celate in profondità, nell’intimo, necessarie a scoprire chi siamo, come siamo, quali obiettivi vogliamo raggiungere e quali vette vogliamo scalare. 

Coscienza e consapevolezza di se stessi e delle proprie emozioni, utili e necessarie a conoscere, prima di ogni altro aspetto, i nostri stessi limiti, le carenze che ci trasciniamo dietro, le lacune che ci rendono incompleti, i margini di miglioramento sui quali possiamo attivamente agire e adoperarsi per completare quel percorso di apprendimento ed elevazione che ci rende, per dirla con Lao Tse, non solo intelligenti, da conoscere gli esseri umani, ma anche saggi, da conoscere noi stessi.

Tutto il resto è una vita nell’illusione, nella più sterile aspettativa di ciò che non può essere, o che, in realtà è ben diverso da come lo immaginavamo, presi come siamo dal sogno che c’inganna e che ci porta fuori strada, dall’illusione soggettiva e superficiale che ci delude.

Occorre quindi, per conoscere se stessi davvero, lungi dall’inganno, conoscerle a fondo quelle emozioni, per imparare a gestirle senza ignorarle, senza rimuoverle o respingerle in profondità, per capirle e reagire a esse nel modo più consono e opportuno (che non è mai l’emozione, il problema, ma come noi reagiamo al suo palesarsi), indagando i motivi che le hanno generate, il perché di quel sentire, di quello stato d’animo, di quella rabbia o di quella tristezza, eviscerandole nella loro più realistica verità, soppesandone il vero carico e il reale peso, senza cedere alle nostre soggettive aspettative, per smontarle e depotenziarle, fino a riderci sopra e trasformarle in emozioni positive o, per lo meno, in qualcosa di meno potenzialmente pericoloso.

Ed è proprio qui la difficoltà: razionalizzare le proprie emozioni, ai confini della nostra natura emotiva, senza cadere nel grave e ormai ben noto errore di Cartesio, perché noi umani, nonostante il lascito intellettuale del filosofo francese (ad esempio il suo fuorviante cogito ergo sum) siamo esseri emotivi che pensano, non esseri razionali che si emozionano. 

E la differenza, a ben riflettere, è di vitale importanza.

Analizzare noi stessi, quindi. E le nostre stesse emozioni, allo scopo di superare l’abbaglio delle aspettative e del costrutto immotivato della nostra fantasia. Allo scopo, può essere utile e opportuno confrontarsi con gli altri, discutendo gli accadimenti secondo il nostro e il loro personale punto di vista, aprendosi al confronto più edificante, perché non sia solo la nostra miopia, o l’angolo d’osservazione sbagliato, a determinare il nostro sentire a proposito, ma l’attenta e corale analisi dell’insieme.

Impariamo, cammin facendo, ad apprezzarci. Impariamo a darcela, quella metaforica pacca sulle spalle, ad applaudire i nostri sforzi, ad apprezzare ciò che abbiamo fatto e come lo abbiamo fatto, festeggiando il risultato, seppur piccolo, che abbiamo raggiungo e conseguito, senza mai sminuirci, senza nicchiare, senza falsa e castrante modestia, senza dar per scontato il successo conquistato a fatica, per quanto piccolo e marginale esso possa essere. 

Che a darci addosso, ad additarci e auto-accusarci, a urlare contro noi stessi, a inveire contro i nostri stessi fallimenti, a darci degli idioti per ogni piccola mancanza, siamo fin troppo bravi!

Sono i piccoli passi, sommati nel tempo, a completare una maratona. L’insieme delle piccole attività, dei piccoli gesti sommati tra di loro, a portarci ai più grandi risultati. Anche a quelli che ritenevamo impossibili. Se non impariamo ad apprezzare quei singoli e apparentemente inutili passi, mai potremo apprezzare (e nemmeno concludere) il sovrumano percorso lungo 42 kilometri e 195 metri, che si snoda dalla partenza al traguardo dell’antica corsa.

Non è ciò che facciamo una volta sola nella vita, magari per caso o per fortuna, a dirci di noi e del nostro futuro. Solo ciò che sapremo rendere quantificabile, misurabile e ripetibile, saprà dirci dove possiamo andare e aiutarci ad andarci davvero. 

Se ti riesce una sola volta, hai avuto fortuna. Se puoi ripeterlo nel tempo, hai una strategia per il futuro.

Impariamo a capirle, quelle emozioni, non solo a comprenderne il perché, ma a valutarne l’intensità e l’incidenza sul nostro stato mentale, in funzione delle risorse a nostra disposizione, della fase della giornata che stiamo vivendo, delle energie di cui disponiamo in quel momento (la stanchezza è bravissima a esacerbare gli animi), del contesto generale e personale, in cui esse prendono vita. 

Estrapolato dal contesto, nulla ha più lo stesso significato. E ciò vale anche e soprattutto per le parole, che quelle emozioni sanno così bene descrivere e ingigantire nella nostra mente, nel bene e nel male.

Non può esservi felicità alcuna, se non impariamo ad apprezzarci, se non altro perché solo accettandoci potremo conoscerci meglio. Non c’è modo di migliorare qualcosa che non si conosce, come non c’è modo di migliorare chi si limita a essere ciò che è convinto di essere, tanto in senso diminutivo che accrescitivo, dando per scontato e per assodato che così sarà per sempre, per tutta la sua vita, perché lui così c’è nato! 

Conoscerci, interrogarci, apprezzarci, valutarci, stimolarci, premiarci, per superare le frasi fatte e continuare il cammino dentro noi stessi e nel mondo, lontani dalla frustrazione delle aspettative immotivate e della carente autostima, ben protetti dai colpi della vita, dai falsi miti e dai modi di dire avulsi dal contesto e dalla logica.

Sii te stesso, è lo stato attuale. Rappresenta ciò che sei qui e ora, dice molto di ieri e di oggi, ma ben poco (se non proprio nulla) di cosa potenzialmente tu potrai fare, diventare ed essere domani. 

Conoscere se stessi, nell’intimo più profondo, è la sfida più entusiasmante, quella che ci porta allo stato desiderato, che porta all’eccellenza (o, per lo meno, da quelle parti) con cognizione di causa.

Nel primo caso sarà una mera accettazione dello status quo, a vincolarci e a permetterci di essere solo in un certo modo, nel rifiuto più totale di crescere e di progredire, chiusi al cambiamento e alle novità. Nel secondo caso, avremo un punto di partenza, un campo base dal quale muovere la nostra scalata verso un Io migliore, evoluto, progredito, dalla mente aperta sempre alla ricerca, pronto a diventare davvero ciò che, da sempre, sognava di essere.

D’altra parte, non si fanno mille e mille corsi di formazione, che siano tecnici o di crescita personale, per rimaner se stessi, ma per conoscersi e imparare a migliorarsi, tirando fuori da noi stessi, con intelligenza e applicazione, la nostra versione migliore. In attesa di scoprire la prossima versione, quella ancora migliore!

Sii te stesso e la tua vita sarà pregna di frustrazione. Conosci te stesso e la tua intera esistenza ti ringrazierà!


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.

Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




La nostra storia.

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di Luca Bottari_

Il vagone della Metro A, direzione Battistini, singhiozza e procede. Il passo insicuro nel suo incedere borbottante è costante, somiglia alla storia dei suoi passeggeri. Scriviamo le nostre storie ordinarie o magnifiche bucando le città con un vagone metro o attraversandole a piedi, con il muso sfatto per la pioggia di problemi che ci casca ogni giorno in testa e con gli occhi rivolti in preghiera verso lo stato Vaticano. Salvo strappi benevoli del destino ci ricorderanno al massimo i nostri nipoti. Dopo di loro l‘obliò, molti di noi non saranno mai esistiti e di conseguenze nemmeno estinti.

I ragazzi nei vagoni brontolano, sbuffano, si allungano in pachidermiche mosse di stretching nonostante la loro evidente smagliante forma fisica. Non provano a costruire la loro storia. Se non ritengono di essere in grado di incastrare quei mattoncini uno sopra l’altro si potrebbero spendere per vivere grazie al potere dell’immaginazione nella storia di qualche eroe da romanzo storico. Non intercetteranno mai in cloud il mio auspicio anche se sono costantemente connessi.

La comunicazione silenziosa ed efficace dei loro e dei nostri telefoni ha quasi soppresso il volo d‘immaginazione che ci regalava la pagina stampata. La nostra storia di vita a metà tragitto, a metà romanzo, era meno scontata perché si confondeva con il protagonista di vicende lontane che ci rendevano più leggeri ed allo stesso tempo più cupi. Il vero volo low cost era quello che intraprendevamo grazie ai nostri occhi che correvano pagina dopo pagina, ora umidi di malinconia e rabbia, ora impiastricciati di desiderio erotico. Il libro era il viatico per spaziare in terre lontane a costo zero, era il lenzuolo di Snoopy con cui consolarsi dopo le note severe di un professore severo, era un grumo di farina per impastare il pane della conoscenza.

Noi tutti peniamo, sudiamo, speriamo e ci inginocchiamo al cospetto della durezza della vita ma oggi le armi in pugno sono smussate in punta, perché un cellulare non sarà mai la spada nella roccia per nessuno di questi ragazzi. Non è facile incrociare lo sguardo di un giovane uomo attento solo a quel mondo in quella scatoletta paradossalmente perfetta.

Senza guardarci non ci riconosceremo più.


Luca Bottari.

Ho avuto la fortuna di viaggiare con mia madre hostess per non stupirmi ogni volta di come siamo tutti cittadini di un mondo diverso,disunito,ma con i stessi connotati. Conoscere lingue diverse e poter scegliere di studiare il cinema e le arti senza seguire un percorso di studi tradizionale (forse piu’utile ai fini pratici) mi ha portato verso la scrittura con naturalezza e coscienza.Vincere premi letterari non mi ha legittimato a scrivere ma mi ha fatto capire che non solo il solo a sognare.Ho collaborato con diverse riviste letterarie e di cinema per dire in piccolissima parte la mia. Ho lavorato nel hotel management e vissuto a New York per respirare un aria internazionale ma amo al contempo anche le dimensioni locali ridotte dei paesini italiani.