Da un lato multinazionali visionarie che hanno fatto del benessere del proprio dipendente un mantra (vedi LinkedIn) che ha concesso recentemente ai propri dipendenti di scegliere per davvero se tornare in ufficio in modalità ibrida o se lavorare al 100% da remoto), dall’altro piccole realtà che ancora oggi, nonostante una più accesa e matura consapevolezza sul tema sicurezza, le leggi e protocolli a tutela del dipendente e la capacità di poter investire in manutenzione, diventano luoghi di morte.
Sono pericolosi e fuorvianti i confronti tra i vari Golia (pochissimi in Italia quelli che possono fregiarsi del titolo di “gigante”, ma nel senso più umano e visionario del termine) e la moltitudine di Davide (tantissimi e non necessariamente PMI, che ancora intendono i dipendenti come “asset”, “costo fisso/variabile”, “manodopera” o “capitale”), però questa polarizzazione restituisce una fotografia del lavoro in Italia oggi.
Non bisogna sentirsi fortunati, perché “c’è chi sta peggio”, bisogna sentirsi insoddisfatti, perché il meglio dovrebbe essere la norma e non un privilegio.
A tutti dovrebbe essere garantito il rispetto della propria dignità.
In settimana Laila El Harim, operaia di 41 anni rimasta incastrata in una fustellatrice. A maggio Luana D’Orazio, operaia di 22 anni , stritolata da un macchinario manomesso. A marzo Sara Pedri, la ginecologa forlivese di 31 anni, scomparsa dall’ospedale Santa Chiara di Trento, dove subiva mobbing e violenza psicologica.
Che cosa c’è da celebrare esattamente, qui sopra?
Note a margine _
Con questo articolo intendiamo richiamare l’ attenzione – con continuità di azione nel lungo periodo – alla sempre attuale e interessante tematica riguardante la donna e la sua posizione nel mondo del lavoro.
Cercheremo di denunciare, in forma sintetica ma precisa, il fenomeno del mobbing che, a tutt’oggi, presenta come vittima preferenziale la donna.
Milioni di donne , ogni giorno, subiscono discriminazioni nel mondo del lavoro. Questo preoccupante fenomeno non solo viola i diritti fondamentali ma ha anche conseguenze rilevanti dal punto di vista economico e sociale. Le discriminazioni soffocano opportunità, sprecano il talento umano necessario per il progresso economico e accentuano le tensioni sociali e le disuguaglianze. La lotta alla discriminazione è parte essenziale della promozione del lavoro dignitoso.
Le Olimpiadi di Tokyo si sono concluse, sappiamo tutti com’è andata, siamo tutti giustamente euforici e grati, per le vittorie degli Atleti che rappresentavano la nostra Italia.
Sono già stati spesi e versati “fiumi di inchiostro”per lo più “digitale”, sul valore e i valori, sui significati, sulle metafore, soprattutto in questo Tempo. Non assenti critiche o lamentazioni, ma tutto sommato passate in secondo piano. Anche tanto è stato scritto, sulle storie e magari gli aneddoti, di questo o quell’ atleta, inevitabilmente, ma non giustamente, rispettando personaggi “più popolari” o mediaticamente appetibili e discipline popolari più di altre, ma credo non abbastanza e temo come si usa dire, si “spegneranno i riflettori” con la stessa velocità con cui si è spenta la mitica fiamma su quel braciere.
Quindi care TV, private o meno, che ci inondate di storie e storielle, non tutte poi così importanti e di spessore, tali da giustificare ore di trasmissione o che qualcuno che abbia un minimo d’altro da fare, debba rimandare per stare davanti ad un qualsivoglia schermo. Che ci sciorinate tra cuoricini e lacrime, carrambate (mitica Raffaella) e comparsate, apparizioni di ectoplasmi – tali credo siano – che si sono agitati nell’ultima casa di un qualche fratello o misteriosa isola ipoteticamente sperduta in lontano atollo. Che ci svelate verità nascoste del VIP del momento, che sinceramente potevano rimanere ancora nascoste sino alla fine dei giorni, perché non mettete su una belle trasmissione, un “format” di guarda caso 40 puntate, che ci racconti del prima e se vogliamo anche un po’ del dopo, della storia, le fatiche, i sacrifici, le rinunce, le attese, le delusioni, ma evidentemente anche i sogni, le soddisfazioni e le prospettive, di questi Atleti, di queste donne e uomini, che hanno scelto un percorso certamente non semplice, in discipline – e sottolineo #discipline – tutte esigenti, totalizzanti, ma certamente esaltanti che regalano a noi “atleti solo per partecipazione” tante emozioni e a Loro anche medaglie e riconoscimenti (ma “uno su mille ce la fa”), gloria magari fugace, ricchezze penso poche, ma una dimensione, una ragione, una crescita, un’umanità che, senza farne degli eroi (certamente Christian Lezzi sarebbe d’accordo), possono diventare un riferimento, uno stimolo, un (buon) esempio per “adulti e bambini”, certamente per tanti giovani la cui unica aspirazione è talvolta solo aumentare il numero dei “followers”, non importa come purché sia. Dove porta invece una #passione, laddove “al cuor non si comanda”, ma quel cuore, quella passione, comanda ed educa mente e corpo sino a diventare uno splendido tutt’uno.
Magari potremo anche raccontare di chi “nell’ombra”, ma quella buona, umile che non chiede la ribalta, questi Atleti, ha aiutato, educato, sostenuto, tecnicamente formato. Penso alle Famiglie e agli Allenatori e perché no anche ai cosiddetti “sponsor” che negli sport cosiddetti “minori”, non lo sono a fine di lucro.
Insomma, raccontiamo le loro storie, non lasciamo che si rispolverino solo alla prossima Olimpiade se per età e risultati potranno di nuovo esserci. Sarebbe davvero un grande spreco!
Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti. Appassionato di Design e Fotografia.
Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.
Siamo cresciuti in una democrazia, siamo cresciuti in una cultura socialdemocratica.
Siamo cresciuti in un ambiente pieno di contraddizioni.
Non è sempre facile crescere in un ambiente e accorgersi delle sue profonde incoerenze.
La Storia racconta di tantissimi sognatori e rivoluzionari che hanno saputo raccontare e superare le contraddizioni della loro epoca: Marx e Rosa Parks, Georg Cantor e molti altri.
Quello che la Storia difficilmente racconta sono le difficoltà che sono state superate per arrivare a mostrare quelle contraddizioni.
Noi siamo nati in un contesto di socialdemocrazia. Significa che possiamo andare a scuola e imparare gratuitamente; possiamo chiamare la polizia, la quale correrà in nostro soccorso; possiamo andare a votare per i rappresentanti migliori. Siamo cresciuti nell’idea che noi siamo i lavoratori, siamo la maggioranza, siamo quelli che, fino a 100 anni fa, facevano la fame.
Noi siamo i poveri, nel senso che è storia recente il boom economico che ha reso l’Italia ricca.
Quindi siamo quelli poveri, nati e cresciuti in un contesto di Stato Sociale che ci regala servizi.
Quando andavamo alle scuole pubbliche, per noi era facile scegliere: sei di destra o sei di sinistra?
Destra significava Berlusconi, soprattutto in certi anni. Significava DC o neofascismo, pochi anni prima. Sinistra significava PCI o sinistra extraparlamentare, poi ha significato una galassia di “robe” che possono essere chiamate “post-comunismo”.
Insomma: se sei di destra sei fascista o cattolico, se sei di sinistra sei con i lavoratori.
Però… però qui iniziamo i problemi: noi eravamo con i lavoratori, per carità, ma poi odiavamo gli stessi lavoratori che si infilavano per ore in autostrada per fare un fine settimana al mare.
Eravamo contrari a regimi che sfruttassero il lavoro delle persone umili, ma alla fine non trovavamo tanta distanza tra quello e la vita di certi animali negli allevamenti intensivi o nei laboratori di ricerca.
Per quelli più esperti esistevano anche i Verdi, partito ambientalista vagamente diffuso, ma anche lì qualcosa non funzionava. Era anche difficile capire cosa.
Insomma: l’immagine non quadrava.
Crescendo, quando ci siamo appassionati davvero di ambiente, di politica o di filosofia, abbiamo studiato ciò che potevamo su questi argomenti.
Il problema era che gli autori disponibili continuavamo a commettere gli stessi errori: descrivere la società umana in maniera molto coerente secondo i criteri del socialismo o del liberalismo o i dettami di una particolare dottrina religiosa… poi la Natura veniva spesso letta con freddi parametri biologici e scientifici distanti chilometri dai parametri usati per la società.
Che fossero autori del XIX secolo o del XX, l’umano veniva descritto come creatore di valore, pieno di emozioni e di speranze, come degno della società migliore possibile; l’animale veniva, invece, descritto come un oggetto, come una macchina che risponde a certi impulsi.
Il lavoro umano genera valore.
… eppure una montagna o un tramonto hanno un valore enorme, anche se nessun umano li ha costruiti.
La Natura viene spesso descritta come una bestia feroce che ti mangia appena può, una bestia che va ammaestrata grazie all’intervento dell’umano, che ne aggiunge valore tramite il suo lavoro.
Eppure… eppure la Natura è così piena di bellissime cose e l’essere umano può anche distruggerle, tramite il suo lavoro.
Ecco che nel corso degli anni si è venuta a formare, nella nostra mente, un’immagine chiara: una socialdemocrazia che accogliesse anche gli animali e le piante.
Una socialdemocrazia che accogliesse forme di valore diverse da quello economico, alle volte forme di valore innate nella Natura stessa che verrebbero corrotte dall’intervento umano.
Una socialdemocrazia che accetti un limite invalicabile: gli ambienti vergini, gli ambienti naturali, non vanno antropizzati.
Negli anni abbiamo imparato a chiamare questa idea Ambientalismo Democratico, per dire che siamo ambientalisti, ma siamo a favore della democrazia quella vera, quella dove non decidono e non scelgono solo gli umani.
Siamo un team di ragazzi giovani, che si sono riuniti nell’estate del 2020 per organizzarsi e aprire la paginawww.facebook.com/ambientalismodemocratico Veniamo tutti da esperienze diverse: chi dall’università, chi dai primi anni del lavoro, chi dalla militanza in alcuni partiti, chi dalla passione per l’ambiente scevra dall’impegno istituzionale.Ad agosto abbiamo capito che serviva dare spazio ad un’idea molto semplice: la socialdemocrazia occidentale aveva smesso di funzionare perché lasciava indietro molti, troppi, che sono membri attivi della società. Questa idea sembrava non aver spazio nei giornali ufficiali o nei dibattiti, quindi abbiamo deciso di impegnarci noi, giorno e notte, per diffonderla. Ecco che abbiamo aperto la pagina Facebook e abbiamo iniziato a descrivere una società ambientalista democratica nel migliore dei modi possibili.
“Sono sacre le mie origini, in me è parte della creazione. Ribelle, desiderio degli uomini mi sono fatto catturare. Servo della vita o strumento degli dei, vivo oggi imprigionato tra mani candide consacrate che al crepuscolo di un giorno stabilito per devozione, liberano la mia forza in falò che illuminano la notte, purificando fedeli chini dinnanzi alla mia luce, al mio calore.
Profano è il mio nome se a liberarmi è una mano vestita di fuliggine mossa da occhi celati da una maschera che tra la folla incita alla danza.
Mio è il potere di invadere sguardi e consumare sentimenti sfidando il tempo. Fulmineo come l’ardere di un campo di grano in estate tra il calore del sole e l’alito del vento. O lento, sotto la cenere, memore chioma di quercia ora sottili grigi capelli. Puoi sentire il mio calore poggiando la mano al centro del cuore, un calore lieve e persistente più forte del freddo della morte.
Ardo tra le mani di chi scrive, dipinge, scolpisce, suona strumenti. Coloro, invado l’aria, sfreccio velocemente nella mente e nei cuori di chiunque lavori con passione. Di chi sogna e spera in un futuro migliore.
Io amo ascoltarlo ardere nel camino, e mi sento parte del suo mondo, se pur piccola, come la fiamma di una candela.
Come fuoco”
Forse questo non è il modo più ortodosso per accingersi ad affrontare un argomento così delicato come quello degli incendi in Sardegna. Ho scelto di citare me stessa, di usare le parole con le quali poco tempo fa descrivevo un aspetto della mia isola, un’isola dove il fuoco non sempre richiama alla mente immagini di morte e terrore, ma è sinonimo di cultura e tradizione, d’amore e passione. Tra quelle parole non posso negare vi sia un’immagine vivida di distruzione, un campo di grano in fiamme, una quercia, sono metafora d’amore ma sono anche quanto di più vicino alla brutalità del fuoco, all’immagine di sofferenza che ogni sardo porta nel cuore soprattutto in questi giorni, da quando il Monte Ferru è rimato vittima del fuoco, un fuoco che a distanza di una settimana ancora arde ed ha distrutto più di 20.000 ettari di bosco.
Non è facile affrontare un argomento che tocca l’anima in prima persona, nel quale è impossibile trovare una giustificazione, un argomento che ha i tratti vividi di una piaga dolorosa, una ferita sempre aperta che quando sembra potersi rimarginare, viene ravvivata, resa sempre più ampia e profonda perché è la mano dell’uomo a volerlo, perché esistono esseri umani che godono nel vederla “sanguinare”.
L’impiego del fuoco in ambito agropastorale in Sardegna così come in tutte le regioni del mondo dedite a questa vocazione, risale ad epoche molto remote: esso veniva impiegato come strumento per la creazione o pulitura dei campi, o per il rinnovo dei pascoli. Non meno importante è sempre stata la sua funzione sacrale, un connubio di rispetto e riverenza che l’uomo da sempre, dedica a questo elemento della natura, riconoscendone la sua forza e la sua vitale importanza tali da forgiare l’identità culturale di interi popoli, tra i quali appunto, il popolo sardo. Il fuoco in Sardegna è parte essenziale della cultura e delle tradizioni legate ad un paganesimo mai estirpato impregnato di saggezza e rispetto per la vita e per la natura.
L’incendio invece è sempre è stato un male endemico dell’isola, attribuibile totalmente o in parte a pratiche colturali radicate sia nel mondo contadino che in quello pastorale: l’incendio è “appiccato abitualmente dai pastori per ripulire i pascoli, per fertilizzare e migliorare il cotico erboso, o per favorire il ricaccio dei giovani polloni delle essenze arbustive invecchiate, e per narbonare; od ancora causato accidentalmente dai contadini con l’abbruciamento delle stoppie.”
In Sardegna l’incendio venne considerato un delitto e come tale perseguito da precise norme fin da epoca giudicale. La Sardegna nel Medioevo era divisa in quattro Giudicati, ognuno col suo sovrano, il suo parlamento, il suo esercito e le sue leggi. L’insieme delle leggi prende il nome di Carta de Logu perché “su logu” (il luogo) era il territorio dello stato dove queste leggi arano in vigore.
La Carta de Logupromulgata prima del 1392 dalla Giudicessa del giudicato d’Arborea Eleonora De Serra Basche governò in nome dei figli minorenni, Federico e Mariano V D’Arborea tra il 1383 ed il 1403, consta di 198 articoli dei quali cinque contenuti nella terza sezione sono gli Ordinamentos de fogu(Ordinamenti del fuoco) dal cap. XLV (45) al cap. XLIX (49) e sono atti a disciplinate, reprimere e punire in materia di incendi.
Nello specifico è interessante notare come al capitolo XLV (45) si punisca l’incendio di natura accidentale con ammende di £ 25 e il rimborso dei danni provocati. Il capitolo XLVI (46) punisce l’incendio doloso di case e il capitolo XLVII (47) l’ incendio di terreni coltivati prevedendo pene molto più severe: la pena di morte nel primo caso “… e siat juygadu dellu ligari a unu palu, e fagherillu arder…” ovvero: “il colpevole venga legato al palo e fatto ardere ”, mentre nel secondo caso sancisce che “… e si non pagat issa… saghitsilli sa manu destra…” letteralmente: “ e se non paga gli si tagli la mano destra”, qualora l’incendiario non fosse stato in condizioni di risarcire il danno cagionato
Altre norme della Carta de Logu riguardavano la prevenzione degli incendi, come “il divieto di bruciare le stoppie prima dell’8 settembre e l’obbligo di provvedere alla difesa del villaggio e delle aree coltivate mediante apertura di fasce parafuoco (sa doha) entro il 29 giugno (Santu Pedru de Lampadas), pena, in caso contrario, il pagamento di un’ammenda di soldi 10 per abitante del villaggio.”
Si evince una forte consapevolezza del reale e terribile impatto che gli incendi nel tempo avevano sulla conservazione dei boschi, percepiti come ricchezza della collettività e come tali, oggetto di tutela. Nelle aree boschive tuttavia l’uso del fuoco colturale era di fatto accettato o tollerato, e dal fuoco, impiegato come strumento colturale, facilmente potevano originarsi degli incendi che divenivano incontrollabili ardevano per settimane intere e distruggevano superfici forestali vastissime. Si prevedeva così, anche “la pena in solido per il villaggio..” nell’eventualità che il colpevole non venisse individuato (istituto detto incarica): i Giurati del villaggio erano tenuti ad eseguire le indagini e a provvedere alla cattura dei colpevoli entro 15 giorni, “…pena una multa di £ 30 per il villaggio grande e di £ 15 per il piccolo, oltre a 100 soldi a carico del Curatore.”
La preoccupazione per gli incendi non si estinse in epoca giudicale. Nel Parlamento del Duca di Gandia, don Carlo Borgia conte di Oliva (1612-1614), venne prevista una “pena di due anni di galera a chi avesse appiccato fuoco nelle zone ove si erano praticati innesti di ulivi”, inoltre “si raccomandava che i prelati minacciassero la scomunica a carico degli incendiari.” I provvedimenti erano atti a proteggere beni considerati fonte di ricchezza, le piante che col loro prodotto potevano concorrere ad accrescere il reddito dell’isola affrancandola dalle importazioni d’olio di oliva dalla Andalusia. Successivamente, sotto Filippo III di Spagna (1578-1621), si prese ulteriore coscienza della pericolosità e della vastità del fenomeno e si cercò di reprimerlo con norme idonee, quale quella contenuta nelle Prammatiche spagnole al capo XI del titolo 42, che ripropose “l’istituto della responsabilità collettiva nel caso che gli autori dell’incendio fossero rimasti ignoti. […]”
Con la Carta Reale 29.8.1756, in epoca sabauda venne introdotto il “divieto di impiegare il fuoco per eliminare la vegetazione e coltivare nuove terre” o per “procurare pascoli più abbondanti”. Col Pregone del 2 aprile 1771, n. 66, si fece divieto “d’accensione di fuochi sotto le piante o nelle loro vicinanze (art. 68), pena il risarcimento dei danni e l’ammenda di scudi 25”.
Venne inoltre prescritto “ l’obbligo per “i passeggieri, che faranno fuoco nelle montagne, dove sogliono soffermarsi.” di spegnere il fuoco stesso prima di abbandonare il sito, ” pena un’ammenda di lire 25, oltre il risarcimento dei danni.”
L’insieme di queste norme manifestano l’attenzione delle istituzioni verso un evento che non finiva di produrre ingenti danni al patrimonio boschivo. Tali norme ciò nonostante, venivano osservate solo in parte; come nella Gallura, dove infrangere sistematicamente i divieti connessi all’accensione dei fuochi nella stagione estiva, era motivo da parte del feudatario per esigere un “balzello suppletivo” denominato capretta di fuoco (oveja de fuego) consistente nella corresponsione di una capra in cambio del permesso di accendere fuochi in tutte le stagioni. Vittorio Emanuele I, col Regio Editto riguardante gli incendi del 22.7.1806, oltre a reiterare le norme in uso sopra elencate, introdusse due importanti novità riguardo il divieto di metter fuoco nelle terre nel periodo estivo e prima dell’ 8 settembre:” la perdita, a carico del trasgressore, della superficie coltivata e del suo frutto, a favore del Monte Granatico e l’obbligo di munirsi di apposita autorizzazione del Giudice del luogo per impiegare il fuoco dopo l’8 settembre “. Introdusse inoltre il divieto di pascolo per un anno sui terreni oggetto d’incendio in violazione di legge, “..sotto pena di sei scudi per ogni capo di bestiame”. “[…] il Codice di Carlo Felice (Leggi civili e criminali del Regno di Sardegna) prevedeva ” la pena di morte per chiunque avesse appiccato dolosamente il fuoco a case, magazzini od altri edifici entro o contigui al popolato (art. 1958) o a case o capanne abitate (art. 1959), e la galera a tempo a chi volontariamente avesse incendiato piante in piedi o atterrate e a legne e legnami ammassati o in catasta, nonché a vigne, oliveti e coltivi. […]”
Ma non tutti incendi erano dovuti a cause colturali. Molti erano espressione del malessere del mondo rurale che attraverso modifiche legislative si vedeva “derubato” di consolidati o supposti diritti, spesso secolari. Ne sono un esempio gli effetti dell’Editto delle chiudende, le ripercussioni che si ebbero a seguito delle tagliate eseguite sui boschi di roverella negli anni ’30 e ‘40, oltre alle reazioni dopo la metà XIX secolo, nel mondo rurale in conseguenza dei mutamenti intervenuti nell’organizzazione della proprietà terriera.
Uno sguardo alla storia, un veloce excursus può aiutare almeno in parte a capire per quale motivo il problema degli incendi, non conosca ancora una fine e non venga relegato definitivamente al passato. I tempi sono cambiati e le leggi si sono evolute abbandonando il risvolto drastico e disumano della pena di morte o il taglio della mano. La stessa evoluzione a livello umano non ha accompagnato però alcune menti insensibili che nascoste sotto la maschera di presunti diritti, o sotto quella altrettanto ignobile della vendetta, del “dispetto”, per poter “lavorare” o per denaro liberano la potenza del fuoco contro l’habitat che li nutre e permette di respirare. Niente giustifica questo gesto, niente ne crea il diritto e niente dovrebbe alimentarne neanche il solo pensiero.
Quale gesto è più deplorevole del muovere la mano contro chi inerme non si può difendere, piante ed animali. E poco importa se talvolta a perire tra le fiamme è carne umana. Tra il 1945 e il 2013 a causa degli incendi in Sardegna sono rimaste uccise 67 persone ed altre 17 sono rimaste ferite in modo grave. Tra questi, il 28 luglio del 1983, 9 persone persero la vita e 15 rimasero gravemente ferite nel rogo della collina di Curraggia a Tempio Pausania (SS), mentre cercavano di strappare al fuoco, case alberi ed animali. La loro vita per la vita, così i miei occhi vedono quel sacrificio umano che niente ha insegnato così come la pena di morte, così come il taglio della mano.
Per i boschi e per la natura è impossibile non provare gli stessi sentimenti, le stesse emozioni e sensazioni di fronte alla devastazione del fuoco. Credo ci voglia coraggio come per togliere la vita ad un essere umano nel scegliere il giorno, cogliere il momento, capire la direzione del vento, meditare, preparare l’innesco e liberare il male.
Un incendio di vaste proporzioni ha effetti devastanti non solo sulla regione che lo subisce, ma anche sulle persone che quella terra amano profondamente.
Si narra che i sardi siano talmente legati alla loro isola che tutte le volte che si allontanano dal luogo natale per amore o per “cercare fortuna”, lascino una parte del loro cuore e dell’anima sulla banchina o fuori dal terminal dell’aeroporto o semplicemente al confine della provincia. Anima e cuore sono pronte a vagare in preda alla nostalgia ed in cerca di consolazione tutte le volte che la mente e il corpo lontani ne sentono il desiderio.
Vagano tra le antiche vie di città o paesi tra i profumi inebrianti del cibo e delle feste. Vagano tra i boschi di querce e lecci per udire il canto degli uccelli, scorgere l’ombra del cervo. Vagano tra Domus de Janas e nuraghi in cerca delle loro radici. Vagano tra mirto, ginepri lentisco e rosmarino fino a giungere in riva al mare per contare i granelli di quarzo o ingannare il tempo facendo scorrere tra le mani la sabbia sottile come quella delle clessidre.
Quando un luogo amato scompare in preda alle fiamme, la sofferenza non è dissimile a quella della perdita di un familiare, di una persona cara. L’anima, il cuore, perdono la loro gioia, la loro consolazione, il loro rifugio ed è difficile trovare conforto, perché quel luogo come fosse una persona, non esiste più, sarà per sempre perduto.
La terra bruciata assume l’immagine che nella tradizione contraddistingue la sofferenza della donna sarda quando perde il suo amato, quando il “fato” il destino la condanna a sopravvivere al proprio figlio, quando il dolore deve essere coperto per poter essere mostrato con dignità. La donna veste il lutto, il nero della gonna e dello scialle che avvolge in un abbraccio le spalle ed il capo. Così la terra arsa privata del suo amore più grande, la fauna e la vegetazione mostra vestita di nero, immobile, la sua dignitosa sofferenza. Non il canto di un uccello, non il fruscio di una foglia, solo l’odore acre del fumo, del carbone, della cenere e della morte.
Questo nella mia mente è un incendio, un rogo voluto, desiderato ed augurato con estremo disprezzo per la vita.
La storia ha evoluto le sue leggi ma in Sardegna non è riuscita a porre rimedio a ciò che forse poche, ma agli atti ancora troppe persone sentono come lecita azione perché radicata come tratto culturale o strumento di protesta sociale.
Da sarda rinnego con tutta me stessa chi si appella alla consuetudine per giustificare, chiudere gli occhi, non tutelare e vigilare sul nostro patrimonio boschivo, sulla nostra terra, sui nostri animali.
So per certo che le “mani” della maggior parte dei sardi “candide” o “vestite di nera fuliggine” se pur “mosse da occhi celati da una maschera”, non libererebbero mai la forza del fuoco contro le proprie case, i propri campi, i boschi e quanto racchiudono e proteggono. I figli di questa terra conservano un ancestrale rispetto così per la natura così per il fuoco.Io nel mio piccolo rimango vicina alla mia terra in lutto e pazientemente aspetto, aspetto perché so che sotto il dolore palpita la vita. Aspetto di scorgere tra il nero del suo “scialle” il luccicare verdeggiante dei primi fili d’erba che hanno il sapore del perdono, di un sorriso. Aspetto e prometto che non sarà più lasciata sola. Aspetto e prometto ciò che so che tutta la Sardegna desidera, vuole.
Nota sull’ Autore_
Maria Patrizia Soru è una Guida Turistica Archeologica. Appassionata di Storia e letteratura della Sardegna, è alla continua ricerca di immagini e parole capaci di raccontarne il passato, il presente ed il futuro della sua Terra.
Alice in W-land
Spiaggia Tirrenica. Ultimo giorno di vacanza al mare. Pomeriggio inoltrato, ma fa ancora molto caldo. Assorta, annoiata, rannicchiata sulla panchina davanti alla piccola piscina d’acqua salata dello stabilimento, la schiena poggiata al muretto arroventato, mento e mani intrecciate che poggiano sulle ginocchia, Alice fissa i guizzi di luce dipinti dal sole sulla superficie e pensa ad altro.. “Uffa, domani devo tornare in città, non c’è più nessun amico con cui giocare, neanche il maestro che quest’estate proprio qui mi ha insegnato a nuotare – vabbè, certo, ancora con i braccioli, ma prima o poi li toglierai, mi dice sempre….”
Già, Marco, il giovane, abbronzato e sempre sorridente animatore del villaggio vacanze, con le sue magliette colorate dalle scritte che non si capiscono, i suoi telefonini a ciondolo perennemente accesi e i suoi occhiali da sole che non si era mai tolto… era appena partito, anche lui – e quel che è peggio – portandosi via tutto il campionario di oggetti colorati che lo aiutano nel lavoro e tanto divertivano adulti e bambini: gonfiabili, tubi, tavolette di ogni forma e dimensione, isole galleggianti con le palme, materassini e canotti…di tutto, di più…
“Quando li usava tutti insieme, l’acqua quasi non si vedeva più ” Per un istante, ma solo per un istante, per la durata del passaggio di questi suoi pensieri, Alice sorride, alza leggermente la testa e mette a fuoco l’orizzonte: “Oggi il mare è proprio piatto! Non vedo un’onda. Piatto come la piscina, in acqua non c’è nessuno…e che silenzio!”
Silenzio?…Marco si era portato via anche la radiolona che usava per la ginnastica in acqua. “Però sento il cri-cri delle cicale in pineta”. Poi riabbassa la testa, spegne un po’ il sorriso e si fa riassorbire dal gioco dei riflessi sull’acqua – anche da quelli sul mare, stavolta – e dalla sua piccola e tenera malinconia.
“Signorina, posso aiutarla? Andiamo, cosa c’è che non va? Mi creda, sono tanti anni che sto qui e non ho mai visto un’acqua così bella e calma come in questo momento….”
In effetti Alice non è proprio sola mentre aspetta la sua mamma per fare insieme l’ultimo bagno di stagione . Ma quel signore maturo, che non si allontana mai dalla piscina e che, scherzando, durante tutta le vacanze l’ha sempre trattata “da grande” dandole del lei, nel conteggio non era stato considerato: perché, per lei, lui fa ormai parte del paesaggio: tutti i santi giorni sotto l’ombrellone rosso, con la barba bianca e maglietta rossa, e quella scritta assistentebagnanti….
“Finalmente capisco quella scritta, in fondo l’anno prossimo andrò in seconda elementare” considera tra sé e sé e subito dopo, questa volta ad alta voce: “Ciao, è vero, mi sto annoiando un po’, vorrei nuotare ma non ho i braccioli e tutti gli altri giochi sono spariti….quindi non saprei proprio come fare”
“In piscina, per giocare, nulla meglio dell’acqua, signorina! Non ha bisogno di altro, mi creda! …L’importante è che non sia fredda, e deve essere ben trasparente. Io sono qui anche per questo; ma soprattutto sono qui per permettere a tutti di giocare in acqua, e con l’acqua, in sicurezza e libertà. Perché, quando si ha a che fare con qualcosa che ancora non si conosce troppo bene, bisogna essere sempre assistiti – non sorvegliati né diretti, assistiti, per questo mi chiamano assistente – da una persona esperta e soprattutto fidata come me. Anch’io sono stato bambino, e questo mio lavoro mi aiuta a non dimenticarlo, mai, signorina Alice: e allora, mi ascolti: i giochi più emozionanti sono quelli dove si sperimentano nuove situazioni, dove succede qualcosa di inaspettato…come scoprire un nuovo sentiero tra gli alberi, o mescolare in tanti modi dei colori a tempera per vedere cosa ne esce; oppure, provare per la prima volta a cuocere una crostata. Sono solo tre esempi ma ce ne sarebbero infiniti. In tutti e tre i casi c’è bisogno di questi assistenti per non combinare pasticci: senza di loro ci si potrebbe perdere nel bosco, si potrebbe imbrattare la casa o far bruciare la torta. Ma attenzione: devono assistere agli esperimenti, intervenire in caso di bisogno, non dirigere le operazioni! Altrimenti, sarebbe forse più facile ma molto meno emozionante…cosa rimarrebbe della sua soddisfazione, signorina Alice, se, per preparare una torta la sua mamma le dicesse esattamente quali ingredienti utilizzare, in quale quantità ed ordine, per quanto tempo cuocerla e a quale temperatura? Certamente uscirebbe dal forno un ottimo prodotto, ma assolutamente uguale a quelli che ha già assaggiato. E dove andrebbe a finire il divertimento, la sorpresa? Invece accade proprio così quando c’è troppa fretta…quando si stabilisce che un gusto conosciuto è più importante di quello della scoperta, la velocità è più importante del gioco e della soddisfazione. E della fantasia.”
“Quindi, posso inventare dei giochi in acqua proprio come faccio a casa o in giardino? Ma come è possibile se non ci sono i giocattoli? Oggi la piscina è vuota, c’è solo l’acqua…”
“L’acqua è la migliore compagna di giochi che si possa desiderare…accoglie i nostri corpi senza sforzo. Si adatta a noi subito e alla perfezione. Mai stata scomoda in acqua? Non credo. E poi, quando la si conosce bene, ci permette di galleggiare come le boe o di affondare come dei sassi, di ondulare tra la superficie e la profondità come i delfini, o di scivolare in tutte le direzioni come le foche. E fare le capriole avanti ed indietro, rannicchiarsi, stiracchiarsi, avvitarsi…le possibilità sono infinite, ma bisogna scoprirle da soli, altrimenti addio divertimento”
“E come posso conoscerla meglio questa mia magica nuova amica, signor assistente?”
“Proprio come con le altre amiche: frequentandola spesso, giocando e sperimentando in libertà, ma mi raccomando…sempre con l’assistenza di persone esperte. E non si stupisca, signorina Alice, ma l’emozione sarà doppia: conoscerà l’acqua grazie al gioco, e grazie all’acqua conoscerà un po’ di più sé stessa”.
Boe, sassi, delfini e foche…Alice cerca di visualizzare sé stessa in magica trasformazione. Non aveva mai provato a galleggiare senza braccioli, ad affondare… non ci aveva mai nemmeno pensato, figuriamoci! E si guarda le mani – ma non vede le pinne; e si guarda i piedi – ma non vede la coda. “E come potrò fare?” Intanto, stacca la schiena dal muretto, si alza dalla panchina va a sedersi sul bordo della piccola vasca. Immerge un piede, poi l’altro. E poi le gambe, fino alle ginocchia. E bagna anche le mani, per essere sicura che l’acqua non sia fredda. Non lo è. Cerca – e ritrova subito – i riflessi del sole che aveva abbandonato un minuto prima, ma stavolta l’attenzione si sposta sull’aspetto dell’acqua: uno specchio, un po’ riflettente “…quante lentiggini mi sono venute quest’estate” – un po’ trasparente “…non mi ero mai accorta di quei bei disegni sul fondo”. Stelle, cavallucci marini, pesci e polipetti, composti da piccole tessere di mosaico colorate, aspettano il tuffo di Alice. Sarà anche per questo ma oggi l’acqua non sembra poi più così alta.
“Oggi fai il bagno da sola?” Alice, nuovamente assorta ma certo non più annoiata, non si accorge dell’arrivo di sua madre e quasi sussulta nell’udirne la voce.
“Sai mamma, il signor assistente mi ha raccontato delle cose bellissime ma un po’ strane.”
“Vediamo se riesco ad indovinare: ti ha detto che la piscina è un luogo pieno di sorprese e che in acqua puoi imitare le balene, le meduse e le stelle marine”
“Anche le balene? Veramente aveva detto foche e delfini, ma hai quasi indovinato. come fai a saperlo? Sei magica anche tu, come l’acqua?”
“Alice, ti devo confidare un segreto: da quando avevo la tua età, il signor assistente, come lo chiami tu, mi ha lasciato esplorare questa piscina tutte le volte che volevo. Quei polipetti blu c’erano già, lo sai? E in tutti questi anni mi ha anche raccontato delle bellissime storie di mare…piene di tutti questi animali… ma me le ha raccontate tutte a metà, ….solo l’inizio, però….chissà perché….”
“Ho capito! Adesso so perché ha fatto così, per lasciarti il divertimento di scoprire, o di inventare, la fine di ogni storia da sola! ” E la mamma, il signor assistente, gli occhi e le lentiggini partecipano tutti insieme al sorriso di Alice, finalmente liberato dai suoi malinconici pensieri.
Splash! La mamma è in acqua, con le braccia tese verso di lei. Alla sua portata. Le sorride, la chiama. “Alice!” …e i braccioli? …e le tavolette? …e i galleggianti? “Forza, Alice, ci sono io, tuffati!” Alice fa i suoi bravi conticini…”Se mi slancio abbastanza, però, arrivo direttamente tra le sue braccia….” Si guarda intorno, c’è anche il signor assistente che la osserva, sorridendo anche lui. E che sembra proprio aspettare il suo tuffo. La mamma sembra ancora più vicina…
Splash! Non lo era!..o si è spostata? “Comunque adesso, mamma, ti sto abbracciando lo stesso, anche se sono completamente bagnata…” Alice si sente sorpresa, ma sicura. La mamma ride di cuore, e lei si sente ancor più sicura. “Brava Alice, questo è stato il tuo primo, vero, tuffo della tua vita! Complimenti! Hai visto? L’acqua ti ha portato subito da me”
“E’ vero, qualcosa mi ha tirato su, la mamma mi ha abbracciato dopo…l’acqua è veramente magica…e poi è stato divertente! “Dai, riprova!” La mamma la riporta sul bordo. “Splash! Splash! Splash! Un tuffo, poi un altro, e un altro ancora…con la mamma che, ogni volta si allontana di un passo dal bordo. “Tanto ci arrivo lo stesso…”. Alice, sempre più sicura, sente ogni volta un po’di più che non ha bisogno di null’altro oltre che di sé stessa per tornare a galla. E’ l’acqua stessa a sostenerla, non i braccioli. Una bella sorpresa!. Dopo ogni tuffo, più va a fondo, più forte sente la spinta verso l’alto. Anzi, quando dopo una “bomba” – come quelle che piacciono tanto ai ragazzi grandi quando si raccolgono in volo per fare gli schizzi dappertutto – riesce a rimanere ferma in quella posizione, rannicchiata proprio come quando siede sulla panchina abbracciandosi le ginocchia, sente che non c’è proprio bisogno di far nulla per riemergere. Basta saper aspettare…per sentirsi come un palloncino che “vola” verso l’alto dal fondo della piccola vasca. Un palloncino che si può gonfiare e sgonfiare a piacere – dipende da cosa si vuol fare. Per salutare il polipetto dipinto sul fondo, sgonfio. Per rimbalzare sull’acqua, gonfio. Che meravigliose scoperte!…
“Basta aspettare, e capire cosa succede. Perché, in acqua, qualcosa succede sempre ogni volta che si cambia, anche solo un pochino, la forma del proprio corpo o si aumenta o si diminuisce la quantità d’aria nei polmoni. In acqua non si può nasconder nulla, è veramente trasparente”. Ad Alice, improvvisamente, tornano in mente quelle parole che il signor assistente disse a Marco, l’istruttore con gli occhiali da sole, i ciondoli ed i galleggianti, il primo giorno del corso di nuoto. Ma che da Marco non sentì mai ripetere, né a lei né agli altri bambini, forse perché il volume della radiolona era sempre un po’ troppo alto…
“E’ proprio vero, il signor assistente aveva ragione: l’acqua è la migliore compagna di giochi che si possa desiderare”. Presa dall’entusiasmo di queste “sue”, sperimentate, considerazioni, Alice continua a giocare senza freni : mentre scivola a pelo d’acqua, incrocia le gambe e “sente” la coda, allunga le braccia in avanti e “sente” le pinne. E piega la testa in avanti per andare giù come un delfino, e la ruota a destra e sinistra per avvitarsi come una foca. Apre le braccia per galleggiare come una stella, e poi si allunga per scivolare come un’anguilla.
“La signorina è diventata una vera nuotatrice, complimenti! Ma adesso, la prego, esca dall’acqua, perche sua madre l’aspetta in cabina già da un bel po’ di tempo…..e poi, ormai, dobbiamo chiudere lo stablimento”
Alice esce dall’acqua e si guarda intorno: il sole, un disco rosso fuoco, sta per tuffarsi – anche lui! -in mare; le ombre si sono allungate a dismisura; gli ombrelloni sono stati portati via da un trattore sbuffante – e la mamma, lì in fondo, già vestita, la sta chiamando a gesti dall’ultima cabina rimasta aperta. A vigilare su di lei è rimasto solo il signor assistente con il suo largo sorriso.
“Come? Mamma è uscita dall’acqua e io non me ne sono accorta? Ma quanto tempo è passato?”
“Signorina, sono quasi due ore che la ammiro, sembra una sirenetta, ma è ora di uscire”. Il signor assistente, mentre le parla, sorride come mai l’aveva visto sorridere durante tutta l’estate. E sarà per la barba bianca, perché la paragona ad una sirenetta, per l’euforia delle libertà acquatiche appena conquistate, o per la magica atmosfera del tramonto…. sarà per tutto questo, ma per Alice, in quel momento, il signor assistente assomiglia tanto Nettuno, sì, proprio quello del film, il Re dei mari.
*****
In città. Primo giorno di scuola, in seconda elementare. Attiva, allegra, seduta al primo banco in attesa dell’inizio della lezione d’inglese, le mani che sostengono le guance rosee, Alice osserva con attenzione i movimenti della Maestra, che, davanti alla lavagna con il gessetto in mano, parlando alla classe sembra rivolgersi direttamente a lei: “Allora, bentornati! Spero abbiate passato delle belle vacanze! Ma spero anche che non abbiate dimenticato le nostre letture in classe. Vi ricordate le ultime parole in inglese che abbiamo cominciato ad imparare l’anno scorso? Quelle tratte dal libro Alice nel paese delle meraviglie? Alice, tu che ti chiami come la piccola protagonista, dovresti ricordare bene il titolo del libro in inglese. Ti aiuto… Alice in… la parola comincia con la w…”
Alice risponde immediatamente: “Si, mi ricordo…. Alice in waterland”
E la maestra, sorridendo: “Alice, wonderland! watersignifica acqua, non meraviglia”
“Gli animali hanno propri diritti e dignità come te. È un ammonimento che suona quasi sovversivo. Facciamoci allora sovversivi: contro ignoranza, indifferenza, crudeltà.”
Se dovessimo usare una frase che rappresenti l’Avvocato Giada Bernardi, useremmo senza dubbio questa di Marguerite Yourcenar che ne rispecchia in pieno la determinazione, l’energia, e la sua capacità di essere sovversiva in una professione che è costretta da codici, leggi e regole.
Avvocato al foro di Roma e Presidente dal 2014 della “Zampe che danno una Mano” Onlus, Giada Bernardi ha fondato insieme a due colleghi “GiustiziAnimale” un vero e proprio studio legale esclusivamente in difesa degli animali che non hanno voce.
Lo studio legale intende lavorare, con forte determinazione, sui vari problemi che al momento il nostro Paese presenta in merito alla tutela degli animali, la difesa dei loro diritti e sulle questioni che è importante migliorare.
“ L’impegno di enti attivi da anni nella sensibilizzazione su temi come la speculazione economica sugli allevamenti intensivi, la vivisezione, il traffico illegale di animali, il bracconaggio selvaggio, e più in generale quelli che riguardano il mondo degli animali, hanno trovato successi ma ancora molto lontani dalla piena realizzazione” – ci dice Giada –“Le disposizioni per la tutela degli animali di affezione dettate dalla Legge quadro 281/91 avente ad oggetto anche la prevenzione e il controllo del randagismo e che in una lunga lista di articoli impone diversi paletti alle condizioni dei canili pubblici e privati, allo sfruttamento economico per la gestione dei rifugi, all’aumento degli abbandoni, alla responsabilità di custodia, alle difficoltà di accesso ai luoghi e trasporti pubblici e a molte altre situazioni ancora ritenute inadeguate e inaccettabili in una società moderna e legate alla convivenza dell’uomo e degli animali ,è molto spesso non rispettata”
La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Animale, sottoscritta a Parigi nel lontanissimo 1978, è probabilmente l’atto più significativo che le istituzioni politiche internazionali abbiano adottato in direzione di una vera solidarietà uomo-animale. Tuttavia, seppur generalmente riconosciuta nelle varie comunità nazionali, essa non ha ancora oggi valore giuridico e dunque non ha ancora raggiunto la forza di essere vera e propria legge costituiva dei principi delle nazioni.
“Ed è proprio questa mancanza di forza e sostanza che rende i diritti degli animali poco rappresentati e riconosciuti. Innanzitutto, è fondamentale modificare le leggi perché al momento le pene sono bassissime, non fanno paura a nessuno. Bisognerebbe inoltre fare, e questo è un progetto su cui stiamo lavorando, un protocollo da portare nelle scuole, per sensibilizzare i bambini sin da piccoli a rispettare gli animali che sono parte integrante della nostra vita non solo a livello di compagnia ma anche dal punto di vista terapeutico e di salvataggio. Il soggetto responsabile di atti di violenza nei confronti degli animali è socialmente pericoloso: educare l’individuo sin dalla tenera età al rispetto dell’animale e, quindi, della vita, può essere un’arma efficacia di prevenzione della violenza “.
Una iniziativa di questa portata richiede uno sforzo complessivo, che venga rappresentato su tutto il territorio e che non si limiti ad essere una attività, per quanto encomiabile, di portata locale.
“Il nostro Progetto – nonché sogno – è quello di riuscire a costituire un giorno una rete a livello nazionale, formare un gruppo ed espanderci a macchia d’olio per costituire una struttura forte, importante, un punto di riferimento per tutti. Noi ci teniamo che questa diventi una cosa grande e riconosciuta istituzionalmente, in grado di aiutare più animali possibili e garantire la massima tutela a chi non ha voce, tutela che noi siamo pronti a dare con avvocati, Forze dell’Ordine, Veterinari e specialisti del settore in tutte le Regioni e in tutte le Province a cui fare riferimento. Questo è il nostro Progetto ed il nostro obiettivo per cui ogni giorno ci battiamo.”
Attualmente le normative si basano sul biocentrismo, segnando dei confini e dei divieti a tutela dell’ambiente e della specie animale, specificando che i diritti degli animali devono avere pari importanza ai diritti riservati all’uomo.
“Eppure, abitualmente i diritti degli animali vengono spesso chiamati in causa solo per i problemi legati alla convivenza con l’uomo, ma le problematiche in realtà sono tantissime e spesso sconosciute ai più”
Da tempo un Decreto Legge ha l’intento, tra le altre cose, di riconoscere l’animale non come oggetto ma come soggetto, inteso giuridicamente come tale, meritevole di tutela penale e civile.
“ Si esatto, in questo caso la differenza è sostanziale perché riconoscere questo diritto in maniera diretta, senza che vi sia un collegamento con il “sentimento” umano, permetterebbe di poter inasprire le pene inflitte.
Il nostro Codice Penale oltre a contemplare il reato di maltrattamento ed uccisone di animale, classifica come reato l’utilizzo di esche e bocconi avvelenati o tossici, compresi vetri, plastiche e metalli che possono causare intossicazioni o lesioni o la morte degli animali che li ingeriscono.
“Mi sembra il minimo. Questo aspetto tocca non solo il randagismo ma anche animali detenuti da privati: tantissimi cani muoiono tra atroci sofferenze a causa di questi gesti criminali, spesso perpetrati per vendette personali o stupide ripicche. Aumentare le pene, anche dal punto di vista economico, potrebbe ridurre i casi ma non sempre è semplice risalire ai responsabili.
Le cose da fare sono tante, tantissime.
“Ogni giorno ci arrivano segnalazioni di illeciti e situazioni non consone. La violenza nei confronti di un animale, di chi non può difendersi, è ciò che presto porterà alla violenza nei confronti dell’uomo. Quando capiremo, a fatti e non a parole, che le scelte esercitate contro gli animali sono anche scelte contro di noi? “
Quanto incide l’aspetto emotivo in una attività che dovrebbe essere esente dal coinvolgimento morale?
“Io non mi vergogno a dire che piango. Negli anni però, per preservarmi ho imparato a trasformare il dolore in forza. Certo, all’inizio è dolore, sono lacrime. Ma per diventare forti, per combattere, per risolvere bisogna guardare, capire, comprendere. Se non guardi non puoi sapere come affrontarlo, girare la testa non cambia le cose. E noi le cose le vogliamo cambiare.”
Note a margine dell’Intervista.
L’Avvocato Giada Bernardi, Patrocinante in Cassazione, Professore incaricato di Diritto Civile presso l’Università Popolare degli Studi di Milano, è co-fondatore dello Studio Legale “GiustiziAnimale” e Presidente della ONLUS ” Zampe che danno una Mano”.
Per info e segnalazioni:
“GiustiziAnimale” ha le sue sedi principali a Roma in Via Virgilio n 1 L ( Tel. 06.36003788 – 338 8133499 – 349 3279472 ) ed a Catanzaro in Via Conti di Loritella n° 7C ( Tel 0961.61000 -340.4939856) mail: studiolegalegiustizianimale@gmail.com
Il senso del dovere: una forma di rispetto?
di Christian Lezzi_
Tutti noi abbiamo guardato (forse anche più volte) le varie trasposizioni televisive delle umane vicende di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Ninni Cassarà, Boris Giuliano e tutte le altre vittime di quella immonda vigliaccheria che, genericamente, chiamiamo mafia. Film (o telefilm) che, a volte bene, altre molto male, puntano l’occhio indagatore sulle vicende del diretto interessato, sul suo lavoro, tra luci e ombre, sulle vittorie professionali e le umane sconfitte, su ciò che lo ha portato alla morte e, a volte, come nel caso di Falcone, anche al pubblico linciaggio (guitto mediatico, Falcon Crest, il giudice abbronzato, l’amico dei socialisti… ce le ricordiamo queste infamie, lanciate al suo cospetto da buona parte dei “giornalisti” italiani?).
Si parla solo di rimbalzo, spesso come se fosse una componente secondaria, il poco importante contorno al piatto di portata, della loro famiglia, delle persone ugualmente importanti che, del personaggio principale, hanno condiviso ansie e dolori, gioie e paura, percorsi di vita e, a volte, di morte.
Per quanto sia stato da poco l’anniversario della morte di Falcone (23 maggio) e appena passato quello di Borsellino (19 luglio), e per quanto non sia mai abbastanza lontano nella memoria l’estremo loro sacrificio (29 anni) non è dei protagonisti del Pool antimafia e del maxiprocesso di Palermo, che voglio parlare. Non di mafie ma di rispetto e, per una volta, voglio dare luce e voce a chi, silenziosamente, ha rischiato e sofferto, pur di restare al fianco dei protagonisti di queste brutte storie di sopruso e inumana violenza. Mogli, figli, in primis, travolti dal pericolo che, dal loro congiunto, come un cancro, si è esteso fino a loro. Famiglie intere stravolte dal cambiamento delle abitudini, dovuto alle minacce e alla non-vita sotto scorta, tra canne di pistola e luci blu. Qualunque cosa, ogni sacrificio, pur di restare accanto alla persona amata che, non per eroismo (e di questo abbiamo già parlato qui ) bensì per un altissimo senso del dovere e dello Stato, hanno deciso di giocare il proprio ruolo fino alle estreme conseguenze, fino a quel sacrificio, di cui avrebbero fatto volentieri a meno, che era parte del gioco.
“Io accetto, ho sempre accettato, più che il rischio le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall’inizio che dovevo correre questi pericoli. La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi, come viene ritenuto, in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare dalla sensazione che, o financo, vorrei dire, dalla certezza, che tutto questo può costarci caro.”
(Paolo Borsellino, a proposito di senso del dovere).
Ed è proprio di senso del dovere, inteso come forma di rispetto per le altre persone coinvolte dalle nostre scelte e dalle nostre azioni, che desidero parlare. E voglio farlo riportando alla memoria di tutti noi, un episodio di vita quotidiana, di desiderio di normalità e di ritorno alla vita, che comunque di rispetto e di senso del dovere, nobilmente si ammanta. Quella percezione di un dovere che non è un obbligo, bensì una scelta, libera, sofferta, ragionata, ma voluta e difesa perché sfida l’inevitabile, che ci fa alzare in piedi e dire “Presente“, quando la situazione lo richiede. Senza eroismi. Solo perché è giusto così.
Oggi voglio parlare di loro, anzi, di una di loro, in particolare. Tra i tanti, diretti congiunti dei troppi caduti per mafia, voglio ricordare l’integrità morale e la forza d’animo di Lucia Borsellino, senza per questo sminuire il sacrificio e l’abnegazione dei suoi fratelli minori Fiammetta (la piccola di casa) e Manfredi, il secondo nato. E nemmeno privando di memoria il sacrificio e la disponibilità di Agnese, madre e moglie esemplare che mai, nemmeno per un istante, vacillò nel suo appoggio al giudice, ben consapevole del rischio e anzi, cosciente della certezza di quanto, prima o poi, soprattutto dopo lo scempio di Capaci, sarebbe accaduto anche a suo marito.
Ma io voglio ricordare Lucia, perché all’epoca dei fatti era solo una ragazza di 23 anni, magra e delicata, forse troppo sensibile per sopportare senza piega la scorta, la paura, l’esilio forzato all’Asinara, le corse nella claustrofobica auto blindata e quel telefono che, in casa Borsellino, seminava il terrore a ogni squillo.
Lucia, che tra mille disagi interiori, dovuti non solo alla situazione contingente, ma anche all’età fragile di per sé, al suo diventare donna, giorno dopo giorno, al bisogno negato (per forza di cose) di libertà e indipendenza, alla necessità di essere serena e di non aver paura, che seppe, nonostante tutto e malgrado tutti, farsi interprete di un’educazione morale eccellente (grazie a papà Paolo e a mamma Agnese) e di un altrettanto eccellente senso del rispetto e del dovere che mai fu solo parole o sterile proclama.
Lucia Borsellino, nel mio immaginario incarna il senso del dovere e del rispetto quanto (e forse più) del suo indimenticato genitore. Quel dovere così sintetizzato dall’insegnamento del Dalai Lama“Segui sempre le tre R: Rispetto per te stesso, Rispetto per gli altri, Responsabilità per le tue azioni”. Perché, in estrema sintesi, il rispetto è anche una forma di responsabilità, quando la responsabilità diventa un dovere.
“Segui sempre le tre R: Rispetto per te stesso, Rispetto per gli altri, Responsabilità per le tue azioni”.
DALAI LAMA
Fu Lucia a voler vedere e a ricomporre i resti martoriati del padre, nella camera mortuaria, nel tentativo di restituirgli quella dignità che la bestialità del tritolo aveva cancellata, distruggendo il suo corpo e quel sorriso che mai dimenticheremo.
Un atto di coraggio, quello di Lucia, che preannuncia l’essenza della donna che sarà, ricca di valori e di forza etica, di senso del dovere, della capacità di dire “ci penso io”, anche quando si trattava di avvolgere di dolorosa pietà (per quanto possibile) i resti del suo povero papà, morto da poche ore.
A tutti noi capita di rinviare un impegno, un appuntamento, solo perché piove, perché siamo stanchi, perché siamo pigri, perché abbiamo altro da fare o perché, tutto sommato, di quell’impegno ci importa poco, togliendo de facto il rispetto alle persone da esso coinvolte. Ma Lucia no, lei ha risposto “Presente“, anche nel momento probabilmente più duro e cupo della sua vita. Un “Presente” che, nelle sue sfumature, aveva la voce di Paolo, artefice di quell’educazione e della trasmissione di cotanto senso civico.
Ed è proprio frutto di quella educazione, di quella formazione genitoriale, di quella percezione del dovere, se Lucia, pochi giorni dopo i tristi fatti di via D’Amelio, con i resti carbonizzati del padre ancora negli occhi (temo per sempre nella mente) decide di onorare l’impegno di un appello universitario, nonostante le validissime giustificazioni che poteva addurre e alle quali nessuno avrebbe potuto obiettare, presentandosi alla commissione e sostenendo un esame universitario, tra lo stupore di professori e studenti presenti..
Perché rispettare i propri impegni, la parola presa, farsi carico dei doveri assunti, è un atto di rispetto, forse il più alto e nobile che l’essere umano possa esprimere e tributare. E Lucia Borsellino, grazie anche all’esempio di Paolo, ne è stata insuperabile interprete, rispettando la memoria di suo padre, le aspettative della sua famiglia, il lavoro dei docenti e la sua stessa dignità.
Oriana Fallaci ha scritto e non a caso: “Non si fa il proprio dovere perché qualcuno ci dica grazie, lo si fa per principio, per sé stessi, per la propria dignità”. Quella dignità che Paolo Borsellino, come tutte le altre vittime di mafia, ha rispettando, pagando con la vita il suo inarrestabile senso del dovere.
“Non si fa il proprio dovere perché qualcuno ci dica grazie, lo si fa per principio, per sé stessi, per la propria dignità”.
ORIANA FALLACI
Ma Lucia, sua figlia, ci ha dimostrato che di senso del dovere non si muore soltanto. Di senso del dovere si vive, ci si migliora, ci si allontana dalla bestia (come direbbe Immanuel Kant) dando forma alla propria esistenza, alla propria umanità, alle proprie scelte, perché il senso del dovere è, tutto sommato, l’espressione più immediata e tangibile del rispetto che tributiamo agli altri (coinvolti dalle nostre scelte) e a noi stessi, di quelle scelte artefici e protagonisti, nel bene e nel male.
Grazie Lucia. Il tuo esempio ci ha resi persone migliori.
Note sull’Autore_
Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano. Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.
COMUNITÀ SIGNIFICATO: Gruppo di persone unite da rapporti e vincoli tali da formare un corpo organico; corpo morale.
ETIMOLOGIA: dal latino commùnitas ‘società, partecipazione’, derivato di commùnis ‘che compie il suo incarico insieme’, derivato di munus ‘obbligo’, ma anche ‘dono’, col prefisso cum-.
Dal che si potrebbe dire che il termine “comunità virtuali” suona come un ossimoro.
La virtualità (virtuale: potenziale, che non esiste in atto; possibile; simulato) di fatto annulla nel concreto ogni possibilità di comunità reale, laddove per reale possiamo pensare a tangibile, persistente, che accomuna, ma non attorno ad una piattaforma o ad un “contenitore” di vari ed eventuali interessi comuni (in realtà molto eterogenei all’interno di ogni “comunità virtuale”), ma che crea e mantiene viva una comunione tra individui tutt’altro che “virtuali”.
Di fatto tutti verifichiamo che le “comunità virtuali” (continuiamo pure ad utilizzare questo termine), sono piuttosto variegate, non di rado conflittuali, mutevoli per contenuti se non anche per contenitore. Questo almeno se ci riferiamo ai cosiddetti social, perché di comunità virtuali che ruotano attorno a singoli specifici temi o interessi, se ne trovano quante se ne vuole, ma in questo caso abbiamo solo l’utilizzo del “mezzo virtuale”, che ha sostituito mezzi più arcaici e certamente meno diffusivi del “pre-web”.
Credo poi si possa anche affermare che le comunità virtuali, abbiano una caratteristica basilare che è quella dell’egocentrismo inteso come visione e proposta di sé e l’egocentrismo, pur senza voler dare al termine un valore negativo in assoluto, è certamente una componente basilare e pregnante dell’individualismo. Potremmo arrivare a dire che le comunità virtuali, i “social”, sono contenitori che per lo più presentato delle singole individualità o al massimo mettono in contatto individualità, che trovano interessi comuni (fugaci o relativamente duraturi) pur continuando a rimanere tali.
Si badi bene, non voglio affermare che sia tutto negativo, che nulla di buono o fattivo o concreto possa nascere, non sarebbe onesto e neppure nella realtà dei fatti, ma solo spingere ad una riflessione e alla distinzione fondamentale: fare parte di una comunità è altra cosa.
Di fatto la Comunità – con la C maiuscola appunto – presuppone singoli e singole individualità che si spendono per un’idea se non per un bene comune, al punto che l’individualità propria passa in secondo piano e, in taluni casi, gli appartenenti a determinate Comunità, sono facilmente riconoscibili come tali pur nelle loro singolarità (diversamente ci sarebbe plagio e massificazione). La Comunità assiste, aiuta, protegge, si fa carico, proprio per via della com-unione. Certo lo stesso non si può dire dei Social… al di là del dilagare dei cosiddetti “odiatori”, nessuno credo si aspetta di venir soccorso in un momento di crisi da Linkedin piuttosto che da TikTok, se non nel vano post di condivisione e per un attimo far puntare like e commenti su di sé (torna l’egocentrismo individualista), terminati – dopo brevissimo tempo – i quali, si ricade nell’oblio di una vita vissuta fuori da una qualsiasi Comunità concreta, come può essere molto semplicemente la Famiglia stessa.
Il vivere in una Comunità è spesso faticoso, è un “combattimento”, perché si tratta anche di un confronto e di dare “all’identità personale, la ragione primaria per cui le si cerca.” (di nuovo Bauman). Cresciamo e maturiamo nel confronto, confronto che non sempre significa “azione di forza”, più spesso significa introspezione, revisione di sé, accogliere le idee dell’altro nel bilanciare se non modificare le proprie.
Non è che questo non possa accedere in senso assoluto in una comunità virtuale, ma in genere accade a chi è già predisposto all’ascolto e possiede altre positive virtù dell’animo. Per lo più, come già o scritto, si vedono transitare virtuali presenze individuali dotate di granitiche certezze, di “capacità di engagement”, dispensatrici di saggi consigli che per altro hanno un preciso fine (se non è quello del venderci qualcosa): la sfuggente chimera del successo. Chi non dispensa, è invece alla ricerca del proprio “momento di gloria” (personale o professionale) tenendosi appeso a quel pezzo di banda wi-fi che grazie a Dio esiste e ci è data in dote. Salvo poi sparire gli uni e gli altri, quando la Comunità (vita?) reale – quale che sia e quali che siano gli accadimenti fausti o infausti – chiama, esige, si fa presente.
Insomma continuiamo a chiamarle “comunità virtuali” ma non confondiamo il virtuale con il reale.
Note sull’Autore_
Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti. Appassionato di Design e Fotografia.
Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.
Un tempo si diceva di noi italiani “popolo di poeti, santi e navigatori” ma, di questa gradevole descrizione, pare non esserne rimasta traccia nel nuovo mondo, essendo stata sostituita, da molto tempo ormai, dalle parole d’ordine che ci etichettano senza possibilità di replica: pizza, spaghetti, mandolino e… mafia!
Richard Nixon, particolarmente noto per il suo essere integerrimo, onesto, trasparente e ligio alle regole, ebbe a dire “gli italiani, tutti conniventi con la mafia, non puoi trovarne uno che sia onesto”. Certo, detto da lui è un po’ come sentirsi dare del mafioso da Totò Riina, che non sai se ridere o piangere.
Bob Marley (personaggio molto meno ambiguo del precedente, ma altrettanto universalmente noto) dal canto suo ebbe a dire, scivolato il discorso sulla credibilità dei giornali: “È vero che tutti gli italiani mangiano pizza e sono mafiosi? Perché è questo che scrivono i giornali”.
Analizzando la considerazione che gli Americani hanno dell’italoamericano medio (in particolare) e dell’italiano più in generale, ne viene fuori un ritratto disastroso, un elenco infinito di stereotipi, di miopia che non permette di vedere la propria immagine e i propri difetti allo specchio, in un coacervo di preconcetti, più dannosi che inutili.
E così i “poeti santi navigatori” diventano, nella visione a stelle e strisce, una banda di pseudo mafiosi, corrotti e corruttori, dalle scarse capacità professionali, dalla bassa statura intellettuale e dall’ancor più bassa statura morale, caciaroni e disordinati, più propensi all’impiego dipendente – meglio se statale – che non all’imprenditoria privata, al lavoro fatto di furbi e truffaldini espedienti e alla vita al di sopra delle proprie possibilità.
Che meraviglia! Questo è quello che negli USA dicono e pensano di noi.
Certo, dicono anche che, almeno storicamente, abbiamo espresso grandi geni e artisti, che siamo ottimi cuochi, che costruiamo belle macchine (de gustibus…) e che di moda ne sappiamo una più del diavolo, anche quando quest’ultimo veste Prada, ma solo in patria. Una volta giunti negli States, pare che si subisca una metamorfosi regressiva impossibile da evitare, nonostante, per linea di massima, siamo comunque apprezzati sul posto di lavoro (ipocrisia?).
L’italoamericano medio diventa, nell’immaginario collettivo, il cittadino di serie B, di classe bassa e di bassa cultura, il pizzaiolo, il poliziotto corrotto, il vigile del fuoco imboscato, il mammone rissoso e spaccone, il gigolò semi analfabeta, palestrato e pieno di brillantina che, per avere un’alternativa, al pari di portoricani e afroamericani, è costretto ad arruolarsi nell’esercito o a lavorare per il mafioso della zona.
Un ritratto ampiamente negativo, ribadito nei tanti, troppi, reality show e telefilm che, oltre oceano, deridono quella fetta della loro stessa popolazione, che ha come marchio d’infamia le origini italiane. Un esempio di estremizzazione dell’immaginario collettivo è l’ennesimo programma donatoci dalla televisione spazzatura, quel Jersey Shore che, mi auguro, non sia più in palinsesto, a tal punto offensivo nei confronti degli italiani d’esportazione e talmente dozzinale nell’uso dei preconcetti, da aver scatenato più volte la furiosa reazione di UNICO National, l’associazione degli italoamericani del New Jersey.
Che poi sia (lo scontro fra classi ed etnie) affidato a programmi di bassissima lega, che vanno in onda sui peggiori e secondari canali televisivi, la dice lunga sul livello culturale della diatriba.
Ma sia chiaro che, la televisione, come qualsiasi altro media generalista, non ha responsabilità dirette, al di fuori delle sue legittime scelte di marketing (parliamo di TV commerciale). Essa offre solo ciò che il pubblico richiede ed è disposto a guardare. La colpa, se di colpa vogliamo parlare, è di chi annichilisce la propria psiche e imbavaglia il proprio intelletto per dedicarsi a tale pattume mediatico.
Il fatto che i migliori scienziati operanti negli States siano italiani, passa in secondo piano, diventa irrilevante in un discorso denigratorio che si muove per schemi e per slogan. Per l’americano medio, quello che voleva rendere ancora grande l’America e chiudere le frontiere, tutto passa in secondo piano, in questo relativismo concettuale: a dispetto di mille prove a discarico, l’italiano resta, sempre e comunque, colui che ha esportato la mafia.
Touché!
Purtroppo la forma mentis in questione non è solo americana, ma è un male comune, fatto di becero e inutile campanilismo, che spesso sfocia in un altrettanto inutile razzismo, condito dall’ignoranza degli altrui usi e costumi e da una pretesa di superiorità del tutto immotivata. A titolo di esempio, è utile ricordare che, in alcuni Paesi del centro/est Europa, per bollare come tonto (nel senso di poco sveglio) qualcuno, spesso gli si dà dell’italiano.
Esattamente allo stesso modo in cui noi italiani usiamo l’appellativo “zingaro”, seppur veicolando ben altro significato di pari ignoranza.
Molto più facile parlare male dello straniero e del diverso, ingigantirne i tic, alimentare le leggende metropolitane che lo riguardano, piuttosto che provare a capire le diversità e farne tesoro, allargando la mente e gli orizzonti, perché se è vero che a tutti possiamo insegnare qualcosa, è altrettanto vero che da tutti, ribaltando la questione, abbiamo qualcosa da imparare. Ciò che è diverso va combattuto in quanto anormale turbativa della nostra omeostasi culturale, della nostra normalità il cui contrario è la diversità più denigratoria, qualunque cosa voglia significare essere normali.
Noi stessi non siamo immuni al nefasto atteggiamento e, dimentichi delle nostre peculiarità comportamentali, in patria e fuori, pretendiamo di essere gli unici depositari della cultura e della giustizia, oltre che della civiltà stessa, nel resto del mondo, pretendendo di chiudere a doppia mandata quelle frontiere che, quando fu il nostro turno d’andar per il mondo, pretendemmo aperte. E così, anche in Italia, si ragiona per compartimenti stagni. Lo spacciatore è sempre marocchino, lo stupratore è sempre rumeno, albanese o nigeriana la prostituta, giusto per citare alcuni esempi diffusi (un sempre pretenzioso e assoluto, che non trova conforto nei dati e nelle statistiche annuali del Viminale), come se infangare le altre etnie, gli altri popoli ci rendesse degni di rispetto. Come se, denigrando gli stranieri, potessimo finalmente sentirci un popolo (cosa che mai siamo stati e, forse, mai saremo).
Come se, in senso generale, buttare il fango addosso agli altri, ci rendesse automaticamente e senza sforzo più puliti e brillanti!
Due pesi e due misure, a celar la xenofobia di fondo che imbratta il ragionamento e che ci porta a chiedere a gran voce l’espulsione immediata dal Paese, dello spacciatore africano, arrestato con otto grammi di hashish, ma che non ci ha spinti a chiedere lo stesso provvedimento per i Riina, i Provenzano, i Mutolo, gli Schiavone, gli Zagaria e tutto il resto della feccia mafiosa!
Tutto il mondo è paese, certo, e ovunque ci sarà sempre chi parla male degli altri, degli stranieri, dei diversi, di coloro che non sono da considerare normali, secondo standard del tutto soggettivi. Perché, in fin dei conti, siamo tutti stranieri, se visti dal di fuori dei nostri confini. Ciò dipende solo dal punto di osservazione. Troppo difficile vedere, capire e risolvere i propri comportamenti sbagliati e le proprie pessime abitudini. Troppo complicato far tesoro delle differenze tra popoli, arricchendosi d’esperienza e di conoscenze nuove, scoprendo realmente i nostri interlocutori, liberandoci così, dalle sterili generalizzazioni e di quel nugolo di muffose convinzioni stereotipate.
Molto meglio, più facile e veloce, indolore quasi, additare gli altri, generalizzando e sparando nel mucchio, a volte solo per partito preso e per appartenenza politica. O religiosa.
Cambia il paese, ma le cattive abitudini no, quelle restano e si moltiplicano. Come la gramigna!
La pessima abitudine di notare le cose sbagliate solo se fatte da altri stenta a morire e, anzi, gode di ottima salute se non, addirittura, di vita eterna. E così, quella serie di sciocchezze e stereotipi che noi usiamo nei confronti degli stranieri, residenti o meno in Italia, per sentirci migliori e mascherare le nostre umane miserie, altrove (soprattutto oltreoceano) resta identica.
Cambia solo il bersaglio, il destinatario dell’insulto: questa volta, nel mirino ci siamo noi italiani!
Noi che, in patria, ci sentiamo depositari della cultura, dell’arte, di tutto ciò che è bello e sano, padri fondatori della civiltà moderna, profondi conoscitori della vita e del mondo intero (senza magari aver mai viaggiato) come se il resto del mondo fosse una nostra provincia, come se gli orologi della storia fossero rimasti fermi all’impero romano o al rinascimento. Noi che pretendiamo di essere migliori degli altri, di saperne una più di loro e che, di ognuno di loro, essere più furbi. Salvo poi vivere in una stagnazione economica secolare che, da sola, la dice lunga sulla nostra evoluzione e sul nostro essere perennemente il fanalino di coda europeo nelle innovazioni e nell’integrazione tra Paesi.
Noi italiani abbiamo tanto da dire, altrettanto da fare e grazie al quale farci volere bene. Ma ciò non accadrà se, noi per primi, non usciamo dal gorgo degli stereotipi, dei meriti ingigantiti e delle colpe delegate.
Denigrare gli altri per sembrare migliori noi stessi. Il concetto resta uguale, da qualunque angolazione lo si guardi. Cambia la lingua come la bandiera, ma questo atteggiamento distruttivo resta solo un dito puntato contro il nulla, quale che sia il colore della sua pelle.
Nota sull’autore_
Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano. Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.
Tutto sommato e analizzata la questione, non si può aver qualcosa in contrario alle manifestazioni popolari di gratitudine, alle celebrazioni e alle premiazioni dell’eroe di turno, o contro la definizione stessa di atto eroico, quando questa è attribuita a qualcosa – e a qualcuno – che ha davvero meritato questo nobile appellativo. Nulla da recriminare, in quel caso. Ciò che può infastidire una mente pensante è, semmai, la facilità, la superficiale leggerezza, il gretto populismo emotivo, con cui l’appellativo viene concesso, attribuendolo anche al senso del dovere e all’istinto, due considerazioni che hanno una propria dignità e che non hanno bisogno o motivo d’essere definite eroiche.
E’ la banalizzazione dei concetti nobili, che infastidisce la capacità senziente e avvilisce la stessa gratitudine.
Certo, la responsabilità è di alcuni giornalisti che, pur di attrarre l’attenzione sul loro articolo e su qualcosa di positivo, che rompa la monotonia delle notizie tristi, confezionano l’eroe a tavolino, anche quando di eroismo (nonostante l’indubbia nobiltà del gesto) non vi fosse traccia. Ma il lettore è correo, perché leggere di tragedie accadute agli altri, di cronaca nera e varie umane miserie, lo aiuta ad allontanare il rischio, a sentirlo esterno alla propria sfera vitale, come se ciò potesse farlo sentire al sicuro. Ma ama, al tempo stesso (ed è qui la correità morale) vedere una luce in fondo al tunnel, anche dove di tunnel non v’è traccia, una speranza in un mondo migliore che, senza la narrazione popolare stenterebbe a vedere, per sapere che, da qualche parte, esistono gli eroi, che in questo mondo, che gli fa tanta paura, che probabilmente non sa vivere completamente e al quale – altrettanto probabilmente – poco sa dare, c’è ancora qualcosa di buono, una speranza che, di fatto, induce l’attesa e l’immobilità.
Ma quella della speranza illusoria è un’altra storia.
La bramosia di bontà e di bei gesti, per coprire il male e i gesti che belli non sono, comporta inevitabilmente una banalizzazione di quei concetti, talmente alti e puri, da esserne gelosi, fino a usarli con estrema parsimonia, invece di attribuirli a tutto e a tutti, riducendoli ai minimi termini, privandoli della primigenia connotazione d’epica matrice, pur di trarne un esempio e una morale da spacciare come l’oppio (dei popoli).
Democratizzati, quasi, perché siano alla portata di tutti. Perché tutti, prima o poi, potremmo avere bisogno di quegli eroi. Perché quegli eroi, nelle opportune condizioni, presto o tardi, potremmo essere noi.
Ecco quindi che “eroe”, sulla stampa, diventa il soccorritore che, venuto giù dal cielo in elicottero, novello angelo meccanizzato, o sopraggiunto di gran carriera tra le onde, cavalcando un gommone, trae in salvo i naufraghi o i dispersi in montagna. Un gesto di alta professionalità compiuto da chi, per lavoro salva vite umane. Per professione, per scelta ragionata, per abilità allenata, mettendo a frutto anni di addestramento.
Ma siamo davvero certi che si tratti davvero di eroismo?
E, sempre sulla stampa, sotto un altro titolone, apprendiamo del carabiniere, del poliziotto, del militare che, fuori servizio, passeggiando sul lungomare, trae eroicamente in salvo l’annegante, strappandolo ai flutti impietosi e a morte certa. Stessa perplessità sulla certezza che, di atto eroico, si sia trattato.
Conscio della questione morale e logica a margine, il giornalista colloca l’eroe, quando ciò gli è possibile, fuori servizio. Per dare ulteriore risalto al gesto e alla notizia, anche quando questo giunge sul luogo del soccorso con la volante, a sirene spiegate e con la divisa addosso (galeotta fu la fotografia a corredo dell’articolo).
Ma l’invito al ragionamento non cambia (perché di questo si tratta) quando l’eroe di turno è un semplice passante che, buttandosi a capofitto tra le fiamme, sottrae alla morte gli occupanti di un’autovettura coinvolta in un grave incidente stradale.
Anche lui è un eroe? Ne siamo davvero sicuri?
Nulla da dire contro chi rischia la propria vita per salvare gli altri, sia chiaro, avendo io stesso un importante passato militare, proprio nell’ambito del soccorso. Ma l’attribuzione di atto eroico, può avere la stessa alta valenza, se conferita a chi ha agito quasi meccanicamente, per effetto di un addestramento e di un’abitudine, dettata dall’esperienza, che lo porta a reagire lucidamente e in tempo zero alle emergenze?
Un soccorritore, un membro delle forze di polizia, un militare, purché addestrati a pensare velocemente e ad agire altrettanto fulmineamente (e oggi che la leva obbligatoria non esiste più, lo sono più o meno tutti) probabilmente, seppur meritevole della più grande stima e riconoscimento, non può essere chiamato eroe e portato in parata, con tanto di premiazione in pompa magna, proprio perché, il suo intervento, è stato dettato dalle acquisite capacità operative, dalla fiducia in quelle capacità e da quel senso del dovere che, vestita la divisa, ti si attacca addosso anche quando non la indossi.
Ma tale atto non può essere considerato eroismo, se vogliamo preservare l’importanza della parola, se non vogliamo gettare al vento un titolo che prevede ben altri presupposti per essere tale e che costituisca un esempio formativo anche per i più giovani.
Stesso paio di maniche, nel caso di chi agisce per pulsione di conservazione (proprio o altrui) e per una sorta di elevato senso di appartenenza alla comune umanità. Istinto quindi, impulso, agito di getto, di pancia, d’emozione pura, magari come reazione alla paura, o drogati dall’adrenalina e dal testosterone. Anche dal machismo di periferia, perché no. Perché il senso del branco, della folla (come direbbe Gustave Le Bon) porta agli atti più infimi, ma anche a quelli più “eroici” o presunti tali.
Un intervento istintivo operato da chi, messo alle strette dall’impulso di agire, perché non può farne a meno e perché, sotto sotto, inconsciamente ha paura d’essere tacciato di codardia, se solo volgesse lo sguardo e passasse oltre, può ottenere risultati encomiabili, ma non può ardire l’ascesa all’Olimpo degli eroi, dei semidei di ellenica memoria. Quindi un istinto e un impulso culturali, dettati anche dalla civile convivenza, che porta a fare del bene rischiando la propria stessa incolumità, il bene più grande che ognuno di noi ha (la vita), che ancora una volta merita il più fragoroso applauso, ma non l’appellativo di eroe.
Lanciarsi a capofitto tra le fiamme di una vettura, per salvarne gli occupanti, mentre a pochi passi dalla carcassa indugiano i passanti, attratti magari dalla curiosità, è un atto scellerato, scriteriato, istintivo, forse tribale, che solo per fatalità salva qualcuno, mettendo a rischio qualcun altro. Un gesto che può anche connotare altruismo, ma non eroismo, per il semplice fatto che, probabilmente, se si fosse fermato a riflettere, quel passante ardito non avrebbe preso iniziativa alcuna.
Una semplice considerazione, questa, legata alla linea temporale degli eventi e delle competenze. Perché l’atto eroico, quello vero e di suprema nobiltà, è un gesto compiuto a bocce ferme, quando si ha il tempo di pensare, ragionare, calcolare le variabili e quindi agire. Non quando devi farlo per dovere o perché non puoi farne a meno. E non è un caso se, il passante che interviene in una situazione di pericolo, si guarda intorno prima di muovere la sua azione, come a volersi sincerare di dover essere proprio lui a intervenire, in assenza d’altri che, sollevandolo dall’incombenza, agiscano prima di lui.
Ma non basta morire per qualcuno, per essere eroi, se l’eroe è colui che, prima di fare qualcosa, anche a costo di perdere del tempo prezioso che potrebbe comportare, per se stesso, un concreto rischio di vita, lucidamente e razionalmente allontana le altre persone dalla scena della tragedia, mettendo in sicurezza il più alto tornaconto umano collettivo.
Eroismo è, in fin dei conti, un calcolo di opportunità, che mira a salvare l’infortunato senza mettere a rischio le altre persone intorno e che, anche rischiando la propria vita, cerca di massimizzare gli effetti del proprio intervento, riconducendo l’azzardo al concetto complesso di rischio calcolato.
Proprio come nel soccorso aereo, dove non si mette a rischio di vita un equipaggio di quattro persone, per salvarne una, se la percentuale di riuscita non è per lo meno credibile e accettabile. Perché non c’è eroismo nell’avventatezza, nemmeno quando quell’azzardo salva una vita. Soprattutto, non c’è eroismo senza eroe, perché non ha alcun senso perdere una vita per salvarne un’altra.
E invece, pur di scrivere titoloni roboanti, immediatamente tradotti in post virali sui social, nominiamo eroe colui che, a fronte del proprio addestramento, interviene e libera le vie respiratorie del bambino che stava soffocando, in un atto che, per lui, è di ordinaria amministrazione, seppur di grande impatto mediatico.
E poi? Sono eroi i medici? Gli infermieri? i paramedici dell’ambulanza? I soccorritori civili e militari? Gli agenti della stradale? Forse si, ma eventualmente lo sono nel singolo agito, non per appartenenza alla categoria. O forse eroe, nel senso vero e già espresso del termine, è quel comune passante che, pur rischiando la propria vita, senza esservi addestrato e senza dovere alcunché a nessuno, con calma e razionalità fa evacuare una palazzina, dalla quale fuoriesce un tremendo odore di gas e d’imminente tragedia?
E’ successo a Milano, diversi anni or sono, ma nessuno lo ha chiamato eroe!
Si senta libero il lettore, d’indignarsi per questi concetti forti che indispettiscono, fanno arrabbiare, andando a toccare nell’intimo più profondo le velleità eroiche di ognuno di noi, di coloro che ancora hanno bisogno di vedere angeli in ogni dove. Di chi nutre la quotidiana speranza di una bella storia da condividere sui social, per sentirsi un po’ eroe anche lui, a sua volta una persona migliore.
Ma se siamo tutti eroi, nella definizione superficiale e populistica, rischiamo di non riconoscere quelli veri, quando se ne presenta l’occasione e di trattare tutti alla stessa stregua, avendo svuotato di senso il riconoscimento d’eroismo.
Perché il rischio è questo, privare d’essenza e potenza il concetto, trasformandolo in qualcosa di usuale, ordinario, privo di quella straordinarietà che solo il vero eroismo sa portare con sé. Chiamiamolo valoroso, coraggioso, prode, se proprio dobbiamo attribuire un’etichetta a ogni cosa.
Ma non eroe.
Ed è su questo concetto che dovremmo riflettere, diventando avari d’encomi e medaglie, facendo sì che questi elogi non siano un atto dovuto e che conservino un peso vero, per non rendere, quello dell’eroe, un concetto vuoto, una polverosa coroncina d’alloro da dimenticare in un cassetto, accanto alla foto con il Prefetto e a una medaglia che, presto o tardi, sarà dimenticata, anche dallo stesso “eroe”, tra le altre cianfrusaglie accantonate ad arrugginire, nel cassetto della memoria.
Note sull’Autore.
Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano. Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.