Il divano rosso

Intervista a Marina Ruberto

In redazione avevamo deciso di ripercorrere la Belle Epoque della Pubblicità e delle Agenzie della Milano da bere, attraverso le interviste ai protagonisti (vedi anche quelle ad Anna La tati Cervetto e Fabiola Maria Bertinotti).

L’idea era quella di confrontare, attraverso i racconti di chi ha vissuto in pieno quel periodo, la realtà attuale di un settore che è stato totalmente stravolto (come quasi tutti) dai nuovi strumenti delle nuove generazioni.

Il progetto ha poi preso tutt’altra piega, per un motivo tanto banale quanto profondo.

Dietro quei Professionisti ci sono le Persone, che hanno cose molto più interessanti da raccontare.

E quindi da ascoltare.

Alla fine, indicavamo la Luna, ma guardavamo il dito.

Marina Ruberto è un punto di riferimento del Copywriting e della scrittura.

Le abbiamo fatto la corte a lungo e, non senza difficoltà, siamo alla fine riusciti a vincere la sua riluttanza.

“Fermarsi a ricordare, di questi tempi, ha parecchie controindicazioni. Ma visto che ci tenete tanto…” ci dice .

E con questo preambolo la strada è già in salita.

Cos’è la scrittura per te, oltre che uno strumento di lavoro?  

“Ce l’hai un paio d’ore?… Cos’è, per una persona, ciò che fa tutti i giorni, da un numero di anni ormai imbarazzante? Io non me lo chiedo manco più. So che mi alzo la mattina pensando a “quello che dovrò scrivere”. Non c’è differenza tra lavoro o scrittura volontaria. In modi diversi. Per scopi diversi. Su varie piattaforme, è sempre “quello che devo scrivere”.

Passione? Bisogno? Responsabilità? Pagnotta? Vita? Droga, anche un po’.

Perché la scrittura è possessiva. Non lascia spazio a molto altro. Al massimo io mi concedo di cambiare tastiera, to’.  Passando a quella del pianoforte come una sorta di prosieguo ideale o di stacco totale. Dipende.”

A noi interessa conoscere le persone più che il loro lavoro. In realtà è così che scardiniamo il cassetto che ognuno di noi tiene gelosamente chiuso.

C’è stato un “inizio” del tuo percorso? O c’è un filo conduttore?

“Mi è sempre piaciuto scrivere storie. In quinta elementare le maestre applaudivano al fatto che tramutassi i loro ingessati termini, in storie. Di fantasia pura o di vita reinterpretata. Ho scritto il primo racconto fantasy a 22 anni. Si chiamava “la civetta”. Qualche giorno fa, un amico mi ha detto che i miei post su Linkedin (di cui parleremo), sono brani di vita. Piccole storie, di fatto. Introspettive o meno, sempre lì si torna: alla narrazione”

Quanto è vero il detto “Non puoi scrivere se non leggi”?

“Molto. Io leggevo sempre. Dovunque. Sotto la scrivania dello studio di papà. Sul divano rosso del salotto di Merlino. A letto, sotto le lenzuola, fino a notte fonda. Mia madre mi rimproverava che non dormivo abbastanza.

Qualcuno ha sostenuto (e non ricordo mai chi) che bisognerebbe scrivere una riga per ogni libro letto. Una volta era quasi la mia proporzione. Ora non più, purtroppo.

Eppure, ci dicevi, che hai fatto studi scientifici. Potevi prendere un’altra strada del tutto diversa, potevi essere altrove.

“Vero. Ho fatto il liceo Scientifico. Perdendomi del tutto il greco, ahimè. Però poi ho frequentato l’Istituto Europeo di Design, dove una grande copy dei tempi puntò il dito su di me, [ancora lo ricordo, quel giorno]: “tu devi scrivere”. Mi sentii prima una formica, poi una leonessa.  Così, mentre facevo colloqui per entrare in agenzia di pubblicità, lavoravo in una piccola casa editrice a pagamento. Leggevo i libri altrui e li commentavo. Oppure li raddrizzavo, a seconda. Più o meno quello che fa una editor.”

La gavetta, quello che oggi chiamano “stage”, o lavoro a costo zero.

“Ci rimasi qualche mese. Mi offrirono anche uno stipendio. Ma ero vittima del sacro fuoco della pubblicità.  Quando mi chiamarono in J.W.Thompson, non ci pensai un secondo.”

Una delle più importanti agenzie di comunicazione del Mondo, che oggi si chiama WPP. Un salto al centro della “Comunicazione con la C maiuscola”.

“Esatto, è lì che sono diventata una copywriter. Una gavetta ben pagata, direi. Non come succede oggi. Dopo una decina d’anni e varie agenzie (l’ultima la Mc Cann Erickson), ho scoperto che mi stava tutto stretto. Ricordo che dopo un aperitivo con un grande dell’ADV di allora (luminoso e generoso essere accogliente; lo ringrazierò per l’eternità) mi convinsi a mettermi alla prova. Free lance. Cane sciolto.  Anche adesso. Mai rientrata se non parzialmente, in agenzia. A contratto. Ho avuto anche ruoli di supervisione che mi hanno arricchita professionalmente e umanamente, ma non mi sono mai fermata. Magari è una patologia, chi lo sa. “

È bello veder crescere i nuovi talenti. Poter insegnare loro qualcosa, vederli diventare professionisti…

“È bello, sì. Un giovane copy, musicista, compose un brano per me: “Waltz for Guru”. Già: i miei mi chiamavano così. Che scemi.

Insegnai anche due anni in Accademia di Comunicazione. Scrittura creativa. Non era ancora di moda, allora. Me ne andai perché gli studenti mi venivano a chiedere cose di cui non volevo prendermi la responsabilità. Troppo. Troppo.”

Una motivazione che meriterebbe approfondimenti, ma sulla quale glissiamo. Poi dopo la parentesi dell’insegnamento…?

“Ho sempre affiancato varie attività. Accanto al quotidiano lavoro di copywriting, ho ricominciato a scrivere con parole mie. Un manuale scherzoso, dei racconti brevi… Ho vinto anche qualche premio, del tutto inutile in qualunque termine.

I premi letterari sono ben fatti e ben organizzati quando li vinci. Quando non li vinci sono mal fatti, male organizzati, inutili, insopportabili.

Devi essere inserita, accreditata dove conta, e fare Public Relations. Io non ho mai conosciuto nessuno. Non ho mai avuto il piacere di confrontarmi con altri autori. I premi che ho vinto o a cui ho partecipato, si sono rivelati inutili proprio dal punto di vista delle relazioni. Tranne in un caso che riguarda comunque la sfera dell’amicizia e non del lavoro. L’editoria è un mondo a parte. Forse andrebbe riformato, come la scuola.

Ad ogni modo, tra qualche mese pubblicherò un libro di racconti “a tema” con una casa editrice che ha una vision molto diversa dalle altre. Promuove il concetto di “rete” tra gli autori, e tra autori e associazioni. Direi che somiglia più a un “social tematico” che non a una casa editrice. Mi piace come impostazione, ma per il momento non ho ancora partecipato alle attività. Il tempo è tiranno”.

L’impressione è che tu scriva per puro piacere personale, una sorta di soddisfazione fine a sè stessa. Scrivere per rileggerti come se ti specchiassi nello stagno in una sorta di contemplazione.

È come se volessi metterti in contatto con te stessa, e la scrittura ti permettesse di relazionarti all’altra te. E comprenderla meglio.

“Ah sì?… Mi sembra una spiegazione quasi stucchevole. Sicuramente scontata. Non metto in dubbio che ci sia una componente di narcisismo nello scrivere, ma come dicevo poc’anzi, per me è più vicino all’incapacità di fare altro. A una sorta di dipendenza che può essere galvanizzante, liberatoria oppure doverosa e noiosissima. Ma che non ho mai messo in discussione.

Quanto alla relazione con le tante me stessa (perché due sole, scusa eh?) sarà sempre complicata. Come per quasi tutti gli esseri pensanti. Tenere il diario dei miei labirinti interiori, non mi ha mai indicato l’uscita. Magari a qualcuno sì, ma a me no.

Sembra una vita a capitoli, la prima da copywriter, la seconda da scrittrice..

“Mica è finita qui. Qualche anno fa ho incontrato una terza anima: quella di redattrice/biografa. E per un’agenzia editoriale, ho scritto le bio(e l’ambiente storico) di alcuni filosofi. I volumi si vendevano insieme al Corriere della sera, nella collana Grandangolo. Mi pagavano mezzo euro per un lavoro pazzesco da topo da biblioteca. Oramai avevo fatto amicizia con la bibliotecaria di una sperduta propaggine di cultura in pieno far west milanese: il Giambellino. Dopo un anno e mezzo di fame e durissimo lavoro, sono tornata al “profit”.

Ce n’è anche una quarta, scommetto…

“Claro. Del tutto casualmente (sul “caso”, torneremo dopo), è capitato che degli amici mi presentassero un giovane cantautore italo/svizzero che aveva bisogno dei testi per il suo sito. Ma da cosa nasce cosa e abbiamo cominciato a scrivere alcune canzoni. Insieme. Durante telefonate/fiume che mi hanno insegnato il mestiere più divertente della terra: quello di song writer. Parole e musica: le due cose che amo di più. A cui mi sono applicata più a lungo e che devono danzare insieme, in una canzone. Sembrerebbe la quadratura del cerchio, no?

Si dice “se non sei online non esisti “. Quanto sei presente sui social, e quanto per tua scelta piuttosto che per “esigenze professionali”?

“Naturalmente non poteva mancarmi un’esperienza di scrittura su alcuni blog.

Poi, lo scorso anno, in pieno lockdown, come quasi tutti, ho cominciato a pubblicare i miei post su Linkedin. Non avrei mai detto che la cosa mi sarebbe piaciuta. E che commentare, leggere, interagire con tante altre persone, avrebbe potuto diventare quasi un lavoro. Eppure è andata così. Ho fatto amicizia con diverse persone con cui mi sento abbastanza regolarmente anche fuori dalla piattaforma.”

Sembra un’esperienza formativa, nonché costruttiva, anche in funzione lavoro.

“Direi una sorta di allenamento al confronto, allo scambio. Che può fermarsi alla piattaforma, o tramutarsi in progettualità o addirittura concretizzarsi in collaborazione. Come sempre, dipende da tante varianti. Professionali e umane.”

La domanda, come si dice, sorge spontanea. Sembrerebbe ormai matura una scelta professionale che si avvicini al giornalismo; sicuramente non mancano le basi e le capacità di raccontare in maniera coinvolgente. Il talento è chiaro, inconfutabile.

“La vita è fatta di circostanze concomitanti. Qualcuno le chiama fortuna, altri  caso, karma o  Universo. Sta di fatto che a un certo punto è arrivato Fuori. La tua è una domanda corretta, perché da quando ho cominciato a scrivere sul magazine è emersa una sorprendente passione per la ricerca, l’intervista e l’indagine; tutte attività che ho svolto marginalmente nelle altre “vite professionali” e che penso dovrebbero convergere in quella di una giornalista. Ovviamente non potrò fregiarmi di un titolo, iniziando un percorso di abilitazione adesso. Ma diciamo che potrebbe essere un’altra strada da percorrere liberamente. Un altro modo di scrivere. Il settimo, mi pare. E il 7 è un numero pieno di significati.”

Una vita piena di esperienze e soddisfazioni professionali. Cosa ti manca di più oggi?

“Raramente mi guardo indietro. La nostalgia non è uno stato d’animo che provo frequentemente. Ma questo tempo infinito e doloroso, ha sparigliato molte carte.

Così spesso mi capita di pensare al divano rosso; quello dove, da ragazzina, mi allungavo per ore a leggere. Divorata dai libri. Posseduta dalle storie. Senz’altro desiderio che quello di lasciarmi portare via dalle parole altrui.  E percorrere strade lontane. Diverse. Ma con i miei colori.

Ecco.”




Ciò che il male divide, il cuore unisce.

intervista a Fabiola Maria Bertinotti

1.La premessa.

Incontrai Fabiola Maria quando era ancora direttore della Comunicazione per The Walt Disney Company Italia, durante la premiere del film AVENGERS a Roma. Era il 2012, un secolo fa.

Durante una riunione plenaria con tutti i responsabili dell’evento, presso la sede dell’Agenzia per la quale allora lavoravo e che aveva in carico l’organizzazione dell’Evento, eravamo più di una ventina di persone, rimasi colpito dalla determinazione e apparente durezza di questa manager che teneva agilmente testa a fior di professionisti e colleghi.

Questa immagine mi è rimasta impressa e l’ho sempre associata a Fabiola Maria, ogni qual volta ci siamo poi incrociati a Milano quando mi recavo per riunioni di lavoro in Disney.

Poi l’ho persa di vista.

Ad inizio lockdown, mentre costretto dalle chiusure cercavo come tutti di ricostruire la mia rete di contatti, ebbi occasione di chiederle il collegamento su Linkedin.

2. Ora inizia un’altra storia.

Una vita da manager, con una carriera che l’ha portata ai vertici della direzione di The Walt Disney Company quale membro del Board of Directors responsabile della Comunicazione aziendale e della Responsabilità sociale. Poi imprenditrice, con una sua agenzia di consulenza, la FAB Communications.

Una mamma, con un figlio che vive con distrofia muscolare.

Una donna eccezionale, di una sensibilità e generosità rara. Una visione del futuro piena di speranza e di fede.

Quando Fabiola Maria ha contratto il Covid19, ha deciso di rinchiudersi e di scrivere un libro su questa esperienza.

Ma di questo parleremo dopo, ora vorrei concentrarmi sulla forte spiritualità di una donna che ha saputo rivedere la sua vita, in una nuova ottica.

Sono stata una donna molto emancipata, vivevo una vita che si snodava tra Milano, Roma, Londra, Los Angeles. Sono rimasta sempre fedele ai miei valori, ma mi piaceva la vita internazionale e non ne conosco di altro tipo: sono nata in Italia, ma professionalmente sono anglo-americana”

Che sappia maneggiare il mezzo linguistico è fuor di dubbio, Fabiola Maria ha una capacità dialettica e sa usare le parole giuste per esprimere concetti che, anche se complessi, riescono sempre a raggiungerti in maniera fluida ed efficace.

Eppure, mettere a nudo se stessi con le parole è l’inizio di un’avventura completamente diversa, a volte anche molto intima e privata. Ciò che è capace di raccontare Fabiola Maria potrebbe riempire una conversazione di ore, eppure sembrano minuti per quanto ti rapiscono e coinvolgono.

Fabiola Maria è una donna creativa oltre che interiormente molto libera, seppur professionalmente cresciuta a una scuola di management strutturato che promuove la nozione del think big e out of the box accanto a quella del rigore nella pianificazione e nell’esecuzione di alta qualità. Nella sua sfera privata, quando la vita la mette a dura prova, Fabiola Maria decide di non seguire un copione o delle strategie verbali consolidate, ma mette in luce quei punti scoperti del vivere che ci prendono alla sprovvista.

“Quando andavo a trovare le mie amiche che avevano partorito mi trovavo in una situazione di imbarazzo estremo. E non era da me, che sono molto razionale. C’era un richiamo alla maternità, eppure non ne prendevo atto, anzi a volte ero infastidita che le mie amiche parlassero solo di bambini.

Da un disinteresse, ad un’esperienza di maternità che deve aver attraversato anche momenti difficili.

È stata la volontà di avere un figlio, e che ho cercato in maniera viscerale. Ogni genitore desidera i propri figli con grande intensità, ma chi non può concepirlo naturalmente lo cerca con ancora più veemenza. Io sono andata quasi fin sotto l’Everest per trovare mio figlio, lo abbiamo adottato in Nepal.

Scoprire che mio figlio adottivo avesse una distrofia muscolare è stato angosciante ed è una croce che portiamo tuttora.

Cosa hai scoperto di te stando dentro un imprevisto così grande? 

A dire il vero è stato il momento più alto della mia vita e posso dirlo anche a nome di mio marito. È stato un periodo di massima gioia, ma anche di massimo dolore. Non vivo tutti i giorni col sorriso sulle labbra.  Ci sono dei momenti in cui mi sento abbandonata a me stessa, va detto per onestà. Quando ci fu comunicata la diagnosi su nostro figlio, mi fu subito detto di non fare ricerche su Internet ma fu la prima cosa che feci.

E poi, data la mia formazione, mi sono precipitata negli Stati Uniti per capire se ci fossero orizzonti più promettenti. Lì, nel tempo, sono diventata un’attivista nel campo nazionale e internazionale per le malattie neuromuscolari con una specificità sulla distrofia di cui soffre mio figlio, la FSHD (facio-scapolo-omerale)

 Ho fatto dei corsi di formazione a livello europeo, ma non era nei miei progetti. All’origine io volevo diventare solo una mamma, non un’esperta in questo campo sul confine tra l’ambito etico-sociale e quello medico-scientifico. E invece sono diventata un “patient advocate”, ossia un paziente esperto che rappresenta il mondo dei pazienti e coopera con altri fondamentali stakeholder come medici, scienziati, comitati etici, organizzazioni e infrastrutture internazionali come il TREAT-NMD, Fondazione TELETHON, EURORDIS, TACT. Grazie ad una maggiore sensibilità verso coloro che vivono con una malattia rara, suffragata anche da logiche di produttività e efficacia ai fini sociali e della ricerca scientifica, la figura del “paziente esperto” è diventata, infatti, un fattore di fondamentale importanza per intraprendere decisioni legate al processo di sviluppo di nuovi farmaci e al miglioramento della qualità di vita delle persone.

Una seconda “carriera”, stavolta inaspettata e fuori da ogni programma che, passo dopo passo, con entusiasmo, ha portato Fabiola Maria ad essere nominata da UILDM donna paladina dei pazienti neuromuscolari nel giorno della Festa della Donna 2021 con la qualifica di “Io Difendo”, espressione efficace per esplicitare il significato di Advocate.

Nonostante questa grande ferita, tu sorridi sempre. Un sorriso disarmante e autentico. A cosa ti sei aggrappata per conservarlo?

Una Fede solidissima. Anche se non sempre è stato così, lo dico senza problemi. Sono sempre stata una persona molto profonda e sensibile. Da piccola ero profondamente religiosa, ho frequentato il Collegio della Guastalla e l’Università Cattolica, e mi sono sposata in chiesa, quindi la mia formazione è cristiana. Però poi c’è stato un lungo periodo di vuoto. Di recente c’è stato un ritorno al legame con la Chiesa, che è stato infuocato e legato a Santa Gemma Galgani. La Fede nel Signore è capace di lenire ogni dolore e dà la forza di andare avanti quando senti a volte di non farcela.

Il dolore si può comunicare? Può essere condiviso?

Io cerco di comunicarlo molto poco, perché non voglio scaricarlo sugli altri. Sulla mia famiglia preferisco riversare la mia vitalità. Sono un’ottimista e credo che anche questo sia fondato sul desiderio di portare un po’ della mia buona volontà.

La famiglia, la preghiera, è il perno intorno al quale ruota tutto.

La nostra famiglia persegue un obiettivo di guarigione, io prego tutti i giorni e insieme a me prega gente viva e defunta, secondo il dogma della Comunione dei Santi. Non smetterò mai di bussare alla porta del Cielo, proprio perché il Signore ce l’ha detto per primo.

SEGREGATA è il libro che hai scritto quando è cominciata la guarigione dal Covid-19, che ti ha colpita proprio quando la pandemia stava per scatenarsi nel nostro Paese.

Mi sono messa a letto il 7 di marzo 2020, due giorni prima che la Lombardia venisse dichiarata zona rossa. Erano i giorni appena prima che l’Italia intera entrasse in lockdown.  Mi sono isolata subito perché la malattia di mio figlio lo qualifica nella categoria “ad alto rischio”.  Avevo soprattutto una paura: il terrore che io potessi procurare una malattia mortale a mio figlio. In quei giorni di silenzio e solitudine, ogni volta che percepivo il passaggio di mio figlio sulla sedia a rotelle al di là della porta della mia stanza, provavo una grande commozione, perché non potevo varcare quella soglia. Per 40 giorni ho sentito la mancanza di toccarlo e abbracciarlo.

È stata una separazione dura ma feconda, da cui sei uscita con alcune certezze.

Quella che io ho vissuto è poi diventata l’esperienza drammatica di tante famiglie italiane e nel mondo. Perciò tutto questo va oltre la mia esperienza personale. Ed è stato un confronto, con le parole, diverso da quello che ho fatto per tanti anni, vale a dire la scrittura a livello professionale. È stata la prima volta che scrivevo di me. Ero sola nella mia camera, anzi eravamo io, il muro e la finestra. La cosa bella che ho provato è che a un certo punto mi sono resa conto che le mie dita andavano da sole: era il mio cuore a dettare liberamente cosa scrivere. Ecco perché la tagline del libro è “Ciò che il male divide, il Cuore unisce”.

Il libro non è solo una testimonianza fine a se stessa ma è un inno alla positività e uno strumento di bene: infatti il ricavato della vendita è andato e andrà in beneficenza.

Io sono stata segregata “solo” 40 giorni, ma c’è chi resta segregato per una vita intera. Sono i giovani che hanno una distrofia muscolare e che meritano l’opportunità di avviare una loro vita indipendente. Esiste un bellissimo progetto della Presidenza della UILDM – Unione italiana lotta alla distrofia muscolare proprio su questa tematica e ho quindi deciso di devolvere i proventi del libro a questo fine, come per dar celebrare la vita e la libertà, alla faccia del covid!  

3. Il libro.

Siamo di fronte a un piccolo gioiello editoriale, autoprodotto, che ha incassato ad oggi oltre 15 mila euro.

SEGREGATA, con la prefazione firmata dal grande Vincenzo Mollica, ha avuto il supporto della Fondazione Cariplo, che ha concesso il patrocinio e fornito un primo contributo economico al progetto avviandone lo start-up, e della Fondazione della comunità di Monza e Brianza, che ha contribuito a strutturare il fondo speciale che ha accolto le donazioni e seguito la parte di rendicontazione puntuale. Il volume è stato scaricabile in formato ebook dalla piattaforma di crowdfunding ForFunding e, da Natale 2020, è disponibile in versione cartacea.

Per acquisti (spedizione gratuita), scrivere direttamente alla Presidente Gabriella Rossi uildm@uildmmonza.it

https://www.fab-communications.com/comunicazione-il-cuore-unisce/segregata-coronavirus/
“Segregata”, il libro di Fabiola Maria Bertinotti



Di pietra e metallo.

Le colline del Montefeltro

(di Marina Ruberto)

Il Montefeltro è un fazzoletto d’Italia diviso tra Marche, Emilia Romagna e Toscana.  Con quella piccola perla di Urbino per capitale, è costituito in tutto da circa un migliaio di chilometri quadrati di borghi, borghetti, colline di velluto, rocche Malatestiane e Montefeltrine (che continuano a guardarsi in cagnesco), vallate e boschi, boschi, boschi. In una macchia di colori che, vista dall’alto, sembra una tavolozza da cui Piero della Francesca ha rubato a mani basse.

Perché in una terra così poco estesa si siano succeduti tanti visionari, sognatori, letterati e artisti, non è dato sapere. È uno di quei misteri italiani che il mondo ci invidia e che è stupendo visitare in tutte le stagioni. Per esempio nell’estate del 2020.

Senza andare troppo lontano (nel Rinascimento vinceremmo facile solo citando la corte urbinate di Federico da Montefeltro e del colto fratello Ottaviano), si può scoprire che del Montefeltro si sono innamorati un sacco di artisti, letterati e sognatori nostri contemporanei.

Cominciando da Tonino Guerra, poeta, scrittore, pittore e straordinario sceneggiatore romagnolo che, negli ultimi 25 anni della sua vita, si rifugiò in quel di Pennabilli.  Famose sono le sue installazioni e mostre permanenti, che prendono il nome de I Luoghi dell’anima. Con il mio compagno visitiamo, invece, il Parco dei Luoghi minimi, sul Monte Aquilone; dove animali fantastici si mimetizzano nella vegetazione del bosco, tanto grandi quanto aerei. Rinoceronte, tartaruga, elefante e giraffa (a grandezza naturale) sono stati realizzati intrecciando fil di ferro dal ‘Gruppo del Ferro’ di Pennabilli.

Anche il piemontese Umberto Eco, nel 1978, prese casa in Montefeltro, a Monte Cerignone. Una casa abbandonata da trent’anni che, per qualche motivo, lo rapì. Quando la moglie gli chiese perché voleva proprio quella e proprio lì, le rispose: “Voglio nelle notti di tempesta percorrere questi corridoi oscuri con una torcia in mano, sentendo nel cuore uno sterminato sentimento di potenza”. Magia, poesia. Eco cercò anche un fantasma (“perché una casa così senza fantasma non ha senso”). Chissà se lo trovò.

Persino il Dalai Lama, in persona e in ispirito, si dev’essere preso una cotta per questi luoghi perché, dopo aver visitato Pennabilli nel 1994, ci tornò nel 2005 per inaugurare una campana tibetana (la campana di Lhasa) sul colle che domina la splendida vallata sottostante.

La campana di Lhasa

Ma la storia di passioni intrecciate che mi interessa raccontare un po’ più per esteso, è quella del borgo storico del castello di Pietrarubbia (Petra Rubra) a cui si accede dal paese e di cui è la parte più antica. Arroccato su uno sperone di pietra alle pendici meridionali del Monte Carpegna, il borgo risale forse all’anno 1000. Numerose fonti citano un documento, datato 962 d.C., con il quale l’Imperatore Ottone avrebbe concesso in feudo a Ulderico di Carpegna il borgo; ma la tradizione popolare ne anticipa le origini addirittura al V° secolo d.C.

Ci arriviamo non senza sbagliare strada. E ci troviamo di fronte a un piccolo gioiello (la cui torre diroccata è semi-nascosta dalla vegetazione) e al suo alacre nume tutelare: il signor Anacleto Gambarara; dal 2017 unico residente del posto, frequentato dai turisti solo nella bella stagione. 

Torre diroccata

Visionario, musicista e sognatore, Anacleto è un convinto assertore del ritorno del Montefeltro al suo passato di grandezza culturale, naturalistica, gastronomica e architettonica. Per questo, muovendo mari, monti e volontà, quest’anno è riuscito a organizzare il primo Festival del Montefeltro a Pietrarubbia. Musica, Teatro, eventi e performance hanno animato il minuscolo paese in luglio e agosto.

Ma il suo precursore più illustre si palesò nel 1976, quando la passata grande storia di Petra Rubra sembrava destinata all’oblio e le sue pietre rosse di metalli, ad essere divorate dalla natura vorace del posto.

Tutto questo se Arnaldo Pomodoro (proveniente da Morciano di Romagna) non se ne fosse innamorato e non avesse deciso di comprare e ristrutturare una casa. Spendendo successivamente il suo nome per sensibilizzare il Comune e le autorità, ed avviare un’opera più generale di recupero dell’antica località.

Nella chiesa di San Silvestro, oggi recuperata grazie a lui, ci sono l’altare marmoreo e il grande sole bronzeo (con al centro una croce) realizzati dall’artista. Sarà il contesto, il silenzio, le mura romaniche della chiesetta, ma è una vista mozzafiato.

n Silvestro

Tuttavia, l’idea davvero esplosiva (che voleva riallacciarsi all’antichissima tradizione siderurgica e metallurgica del paese) fu quella dell’estate 1990, quando Pomodoro, con la collaborazione della Regione Marche e il Fondo Sociale Europeo, aprì il Centro di Trattamento Artistico dei Metalli: il T.A.M. Non è una delle attività più note dell’artista. E, francamente, me ne domando il motivo.

L’obiettivo primario del Centro era quello di fornire un’approfondita formazione e specializzazione tecnica e culturale a giovani operatori delle arti dei metalli (oro, piombo, stagno, acciaio, ferro, ottone, rame, bronzo…), unendo due ambiti che, di solito, restano distinti: quello tecnico-artistico e quello storico-teorico.
Nel 2007, il Centro è stato dichiarato Polo formativo Regionale di Eccellenza delle Marche.

Dal T.A.M, di fatto una scuola, sono usciti orafi, decoratori, progettisti, stilisti dello spettacolo e molti scultori.

Per anni la direzione artistica del Centro è stata curata personalmente dallo stesso Pomodoro (che l’ha presieduto fino alla chiusura) e dall’equipe del suo studio milanese. Successivamente dagli scultori Eliseo Mattiacci e Nunzio Di Stefano. Le lezioni sono sempre state tenute da specialisti qualificati e artisti di caratura internazionale.

Il T.A.M è stata purtroppo chiuso nel 2019, ma il signor Anacleto ci comunica che le opere dei migliori allievi si possono visitare in una mostra permanente.  Saputo ciò, attendiamo l’arrivo di suo figlio: detentore delle chiavi del Palazzo gentilizio in cui sono raccolte. 

Quando il ragazzo spunta da chissà dove, veniamo affidati alle sue cure e al suo sapere (buona parte di quello che scrivo, lo scopriamo da lui).  Ed ecco che ci si apre un altro mondo di sorprendente bellezza che il giovane ingegnere prestato all’arte, ci spalanca con una sorta di carbonaro entusiasmo. Quasi stupito che qualcuno condivida le sue passioni.

Rimaniamo di stucco. Oltre ad alcuni pezzi del Maestro Pomodoro, ci troviamo di fronte a sculture, gioielli, lavori di design che non sembrano certo opere di studenti, ma di Artisti fatti e finiti.

Il giovane ci racconta anche qualcosa degli autori. Alcuni dei quali hanno acquisito una certa notorietà. Ma purtroppo non ne tratteniamo i nomi, e più tardi, non troviamo nulla nemmeno in rete.

Quando usciamo dal Palazzo, un po’ rimbambiti sia dalla sovrabbondanza d’informazioni che dalla bellezza inattesa delle opere, torniamo sotto la benevola ala del signor Anacleto.

Quella sera c’è musica a Petra Rubra. “Un gruppo brasiliano da paura” ci avverte un simpatico elettricista dello staff già al lavoro.

C’è La locanda delle storie in cui poter mangiare (e addirittura dormire) e poi lo spettacolo. Ma abbiamo ancora metalli preziosi negli occhi. Pietra rossa e panorami/tavolozza.

Qualsiasi altra cosa, oltre al silenzio, oggi sarebbe troppo.   




Il ritorno dell’Audio

Intervista a Valentina Serafin

Quante persone ascoltano la radio in Italia? Quante sono le emittenti nel nostro paese? Con quali strumenti si fruisce maggiormente del mezzo radiofonico?

Secondo i dati ricavati in Rete, sono 35 milioni gli italiani che mediamente ascoltano la radio.

Le emittenti nel nostro paese sono circa un migliaio in totale, ma concretamente quelle che vengono ascoltate sono più o meno 300. Le altre hanno quindi un impatto poco rilevante: o perché non sono attive, o perché non ascoltate.

Di queste 300 radio, quelle che hanno una dimensione d’impresa rilevante sono circa la metà, questo soprattutto è dovuto all’impossibilità del mercato a sostenere un numero così alto di player.

Nonostante questa forte riduzione, l’Italia vanta comunque il primato europeo di numero di emittenti, in rapporto alla popolazione.

Se si vanno ad analizzare le fasce di popolazione, la radio viene ascoltata principalmente dagli adulti. I giovani, specie nella fascia 10/20 anni, preferiscono fruire della musica attraverso altre piattaforme on demand (ad esempio Spotify o Youtube).

Negli ultimi tre mesi c’è stata l’esplosione di Clubhouse che ha riportato la voce al centro, ma sembra che la curva sia drasticamente in discesa, soprattutto perché non si riesce a trovare il modo di monetizzare questa piattaforma.

In questa realtà decisamente rilevante, quanto è importante il mestiere dello Speaker radio?

Iniziamo col dire che il mestiere dello speaker, è un vero e proprio lavoro, che richiede a certi livelli una professionalità altissima.

Preparazione, molto studio e tanti sacrifici.

Non è cosi scontato riuscire ad emergere in questo settore. Non si diventa professionisti improvvisandosi e nemmeno avendo una bella voce.

Sono caratteristiche importanti ma vanno sviluppate.

“ Il lavoro dello speaker, come molti altri, inizia spesso la mattina presto su di un treno affollato, una metropolitana oppure una macchina per raggiungere il posto di lavoro “ ci spiega Valentina Serafin, una delle figure emergenti di questo settoreche può essere lo studio di registrazione, l’emittente radiofonica , una sala-conventionoppure l’ufficio di un cliente. ”.

Valentina Serafin

Nell’immaginario collettivo uno speaker fa una vita agiata e comunque piena di notorietà e lusso.

“Spesso per guadagnare uno stipendio medio, bisogna speakerare svariate righe di un anello di doppiaggio, oppure decine e decine di spot promozionali, di documentaridi vario genere o lunghi discorsi e letture in eventi pubblici e privati”.

Molti speaker radiofonici hanno fatto il salto in tv. Forse è questo il momento in cui si passa da voce nota a viso noto. E quindi alla celebrità?

“Sono tanti gli speaker radio che sono diventati conduttori tv: Nicola Savino, Alessandro Cattelan, Luciana Littizzetto, Amadeus, Gerry Scotti, lo stesso Fiorello. Quando erano in radio nessuno li riconosceva per strada. Dunque direi che la risposta è si, passando al video si diventa noti.

Hai citato nomi notissimi, ci sono tuoi colleghi meno conosciuti che hanno intrapreso questo cammino?

Ce ne sono moltissimi altri , soprattutto della nuova generazione. Non faccio nomi per evitare di far torto a qualcuno che mi scorderei sicuramente.”

Facciamone uno solo allora.

Oggi Diletta Leotta, che era la voce di 105 Take Away, è la conduttrice numero uno del pacchetto sportivo di Dazn. “

Io credo che la preparazione di uno speaker radiofonico richieda molta più preparazione di un collega in video, perché quest’ultimo può far ricorso alla mimica e alla gestualità che in radio non possono venirti in aiuto.

E’ vero, e non solo. Spesso il nostro lavoro si porta a casa nel proprio studio personale (home-studio), ricavato in un piccolo angolo di casa. Una preparazione attenta e meticolosa degli argomenti, che vanno studiati e approfonditi.

Un po’ come quando si andava a scuola..

Esatto. Io ho fatto il Liceo Classico e ho studiato Latino e Greco che peraltro ricordo perfettamente. Il metodo di studio e l’approccio a quelle materie mi sono molto utili quando mi preparo per un lavoro.

Vuoi dire che bisogna essere laureati per fare lo speaker (risata)?

Esistono scuole specifiche per diventare speaker, ad esempio quelle di dizione che ho frequentato a Roma, o anche corsi di teatro che ti permettono di impostare la voce, ed entrambi mi sono stati utili e fanno parte del mio bagaglio professionale. Naturalmente chi ha del talento, può emergere lo stesso, ma io sono del parere che solo il talento non basta.

Un professionismo in continua evoluzione?

Il mercato cambia continuamente, gli speaker si improvvisano ogni giorno, basta andare su ClubHouse e si trovano moderatori di ogni tipo. Non basta aprire un microfono e parlare. Bisogna conoscere i tempi, e saper far parlare anche gli ospiti o gli altri interlocutori.

E dunque?

Studiare, studiare, studiare. Comprendere i cambiamenti, aggiornarsi e non sentirsi mai arrivati.

Quindi la prossima volta che ascolterete una voce in tv, in radio, in uno spot televisivo, oppure ad una convention, ricordatevi che dietro quella voce e quella persona, quel professionista, si nasconde un uomo oppure una donna come Valentina Serafin.

Una Professionista, con la P maiuscola.

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Il Cigno Nero

Il cigno nero, raro animale acquatico dalle forme molto eleganti è un paradigma che ci riguarda tutti, come singole persone e come collettività.

E’ la definizione dell’improbabile che spesso governa e confonde, in qualche modo, le nostre vite. Un imprevisto, il caso, un qualcosa che non era proprio all’orizzonte, che cambia in modo radicale la nostra esistenza, in quanto si tratta di un avvenimento che non eravamo preparati ad accogliere.

Cambio scena

La prima volta che ho incontrato, casualmente (questa parola tornerà spesso) Roberta, mi hanno colpito due cose di Lei. Sorrideva sempre, e guardava dritto negli occhi. Non in maniera aggressiva, ma certamente riusciva, non volendo, a metterti a disagio, perché era come sentirsi disarmati di fronte a lei.

Era passata per fare uno shooting sul suo progetto “Smiles Are Viral” , delle shopper di cotone e juta , ecosostenibili, prodotte da una cooperativa di ragazzi Senegalesi, con un enorme smile stampato sui due lati .

Il prodotto che ne usciva fuori non era banale: dentro c’è tutto. Solidarietà, ecosostenibilità, personalità, sorrisi, amore.

Un melting pot di culture, credenze, esperienze di vita.

Le Borse che ridono, come le chiamo io, escono dai confini dell’oggetto di uso quotidiano, e diventano qualcosa che ti accompagna nella tua quotidianità, fino quasi a perdere lo scopo per le quali vengono usate.

Un esempio? Vengono vendute dentro le buste del pane!

“Non è un caso che tutti i fenomeni della vita umana siano dominati dalla ricerca del pane quotidiano” mi dice Roberta “e il suo profumo è il più antico legame con le nostre origini. Aprire una busta del pane e sentirne l’odore ti rimanda al nostro mondo più intimo, alla nostra infanzia, a qualcosa di rassicurante. Io voglio che le mie borse siano questo”

Una coperta di Linus, un portafortuna, qualcosa da abbracciare e che ha un Anima.

Roberta mi ha incuriosito così e, parlando, mi ha raccontato della Spagna, dei suoi anni di danza classica, e della sua vita che ha “ripulito” partendo da se stessa, con momenti intensi di meditazione e yoga.

Il Veganismo che oggi è parte della sua filosofia  (abbiamo scherzato su questo)  è il Karma che sconta per i lavori del nonno e del padre, che trattavano carni e pelli.

“Ripulirsi dentro” è una necessità che ad un certo punto della vita diventa essenziale. Mi alzo ogni mattina alle 5.30 e faccio due ore di Yoga e meditazione, e questa è diventata una esigenza, non un abitudine, dalla quale non posso prescindere “

Adotti qualche tecnica particolare?

“Assorbo ed indirizzo l’energia vitale attraverso il controllo ritmico del respiro. Quando raggiungo questo controllo, non sempre, riesco a rendere la mia mente stabile, forte e tranquilla”

Stai parlando di Yoga quindi?

“In particolare questo è il Pranayama, una tecnica specifica del respiro attraverso la quale si ottengono molti benefici, anche fisici, se combinati con una disciplina yoga.  Io in particolare pratico l’Ashtanga Yoga, che si basa sulla coordinazione del respiro e il movimento, dunque assumendo posizioni diverse, le Asana”

E’ una disciplina o uno “state of mind”?

“Entrambe le cose. Fisicamente mi ha aiutato aver praticato 17 anni di Danza Classica, ma lo yoga è tanto altro. È oltre “

C’è un fil rouge tra il tuo progetto “Smiles are Viral”, il tuo veganismo, e lo Yoga? Io non faticherei a trovarlo.

“Non saprei, forse è casuale, o forse no. Direi che è più un qualcosa che non era proprio all’orizzonte, che ha cambiato in parte la mia esistenza, in quanto si tratta di un avvenimento che non ero preparata ad accogliere

In che senso?

“Io vivevo tra l’Italia e la Spagna dove ho studiato per diversi anni, ed una volta rientrata a Roma poco prima del lockdwn, sono rimasta bloccata. E’ successo a molti, lo so, ma il progetto delle borse è partito quando mi sono ritrovata qui. Se fossi stata ancora in Spagna, non lo so, forse avrei fatto l’insegnate di Yoga”

Un progetto che sembra casuale ma che in realtà ha dietro molti contenuti.

“Il progetto delle borse lo considero come un figlio, e lo curo con la massima attenzione, dunque forse è nato casualmente, ma è molto della mia vita, oggi”

Una attività imprenditoriale, come la vendita di borse in questo caso, ha sempre un obiettivo economico, che in qualche modo “contamina” la purezza di un Progetto.

“La monetizzazione non è il mio obiettivo primario per Smiles Are Viral. Prima c’è la solidarietà, la realizzazione di qualcosa che possa essere utile e coinvolgere. All’interno delle mie borse ci sono etichette disegnate da bambini che non vengono buttate, ma usate come segnalibri”.

Più che un progetto di impresa, dunque, possiamo parlare di una Visione?

“Si, prima ho detto “figlio”, ma anche “Visione” ha un senso. “

Oppure un sogno?

“I sogni sono desideri, come diceva una canzone, e il mio desiderio è tornare a vivere in Spagna, ed essere serena con me stessa, e dunque con il mondo”.

E’ il momento di salutarci, perché inizia la sessione fotografica delle “Borse che ridono”. Dobbiamo farlo con un colpo di gomito, come vuole il galateo di quest’ultimo anno

“ Ma quale gomito, abbracciamoci forte e vogliamoci tanto bene” mi dice sorridendo Roberta “quando ti sorride il cuore, tutto il resto viene contagiato, e non puoi fermarlo”.

Let’s Get infected” mi grida da lontano!!

E ci illumina con il suo sorriso. Il mio. Il tuo. Il mio, Il suo, I nostri.

Grazie Roberta, di cuore!

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Maddalena

In un recente articolo del nostro magazine (“Poco da gasarsi”, di Marina Ruberto) abbiamo evidenziato – ammettiamolo, anche molto a malincuore – una certa evidente e generale povertà di contenuti nella proposta musicale giovanile italiana.

Subito dopo la pubblicazione, però, abbiamo scoperto per caso Maddalena e potremmo ricrederci…così l’abbiamo raggiunta per un’intervista.

Ciao Maddalena, innanzitutto complimenti: ci è capitato di vedere/ascoltare il video della tua canzone “Anxiety is A Modern Cliché” e, dal punto di vista musicale, è davvero un bel brano. Piace al primo ascolto, Il refrain ti entra subito in testa. Anche il video è molto ben confezionato, dalle atmosfere raffinate e coerenti con il testo della canzone, a partire dal titolo. Titolo che ovviamente, ci incuriosisce non poco, soprattutto tenendo conto del fatto che hai solo vent’anni o poco più.

“Anxiety is a Modern Cliché” di Maddalena – video ufficiale

Grazie, partiamo dal video: mi fa particolarmente piacere il fatto che lo abbiate apprezzato. Per me è fondamentale associare le immagini alla musica e viceversa. Le diverse espressioni artistiche devono poter comunicare tra loro…e per me sarà così certamente anche in futuro. Il video è artigianale, realizzato da un gruppo di amici – tutti giovani – con un budget davvero irrisorio. Ma ci abbiamo messo tanto entusiasmo e, soprattutto di questi tempi, è stato davvero bello lavorare e interagire con altre persone.

Ribadisco i complimenti, alla luce di quanto mi dici, ancor più convinti: il risultato è di ottimo livello. Non sembra affatto un prodotto “amatoriale”..

Con la passione, il prodotto amatoriale può riuscire più d’impatto rispetto agli standard professionali, talora freddini. Come la torta della nonna, spesso più buona di quella della pasticceria…

Vent’anni… di che tipo di ansia ci parli, ci racconti, anzi, ci canti? Quella “classica” degli ex adolescenti che si affacciano alla vita e non sanno ancora cosa faranno da grandi, quella legata alla paura di perdere la magia della culla “…tranquillo, siam qui noi” (per citare “gli anni” degli 883)? O c’è qualcos’altro che noi, ben al di fuori della tua generazione, non riusciamo proprio a percepire?

Riguardo l’ansia…senz’altro esiste una componente individuale, che è specifica per ciascuno di noi, e attiene all’intimo vissuto di ogni individuo; e di questa ovviamente e per pudore e rispetto, non mi sognerei mai di parlare; ma certamente esiste anche un’ansia generazionale…di quella sì che si può parlare, quella si può e si deve affrontare; e vorrei condividere questo sforzo con gli altri, per tentare di superarla. Riconoscendola, riconoscendoci e comunicando tra noi, grazie anche a linguaggi, segni e comportamenti comuni. E anche con le canzoni.   

L’ansia della mia generazione, la generazione “Z”, è connotata dalla solitudine e dal rapporto quasi esclusivo, alienante con gli schermi degli smartphones e dei pc. Personalmente mi reputo fortunata, credo di essere una persona socievole, ma ho sentito la necessità di aprire uno spazio di condivisione anonima sul mio profilo instagram proprio per poter far esprimere” liberamente delle proprie ansie chi ne ha bisogno, e non ne riesce a parlare vis-a-vis con nessuno.. E stanno uscendo delle cose pazzesche. Per molti è liberatorio. Li capisco, anche se per me la terapia migliore rimane comunque la musica. E la condivisione.

Però…però, la frase del tuo brano “i miei amici prendono i miei pensieri e li trasformano in problemi seri” è una frase rivelatrice: dal punto di vista di una ventenne, l’ansia della quale parli è allora in gran parte autoprodotta, ingigantita? Riuscite quindi a prendere le misure alle vostre paure, rapportandole alla vostra generazione? Oppure già vi state facendo carico di tutti i problemi del mondo, passati presenti e futuri, avendo già realizzato che le generazioni a voi precedenti hanno semplicemente aggravato i problemi invece di risolverli? E che quindi ve la dovrete cavare da soli?

Beh, sì, effettivamente in ognuno di noi c’è uno spazio di rispetto che non dovrebbe, ma – spesso per affetto – viene invaso; a me capita proprio con gli amici che, abituati al mio carattere estroverso, mi esortano a tirar fuori anche quello che proprio non esiste. In questo senso sì, talvolta si esagera un po’…ma sempre meglio così che non comunicare/condividere affatto.

L’immagine – anche visiva – che proponi, di indubbia classe, è lontana anni luce da quella mainstream: non si ritrovano le minime tracce di aggressività, ma la tua sicurezza emerge forse ancor di più, proprio perché non sembri aver timore di rendere pubbliche le tue fragilità. E i tuoi vezzi: di sicuro ti piacciono anelli ed orecchini, molto presenti nel video. Li hai disegnati tu?

Sono molto contenta che tu l’abbia notato. Se ti riferisci ad un certo rap, alla trap, pur nel rispetto di ogni tipo di espressione artistica, davvero mi sento molto lontana da quei linguaggi. Siamo bombardati da contenuti aggressivi che forse non ci fanno male, ma certamente non ci elevano. Si può affrontare tutto con una giusta dose di leggerezza. Ed ironia. Qualcuno mi ha detto: “figo, tu “poppizzi” l’ansia” (geniale! ndr). Ecco, davvero si può parlare di tutto, ma la volgarità e la violenza no, non le voglio accogliere nei miei testi e nella mia modalità di scrittura.

Riguardo invece i monili, mi sono presentata nel video esattamente come sono nella realtà: vestiti semplici e anelli, bracciali, orecchini—-sono creazioni che mi piacciono molto, disegnate da altri miei amici e per questo li indosso ancor più volentieri.

Dei contenuti di indubbio spessore ne abbiamo già parlato e una sola canzone certamente non basta a delineare un’artista, ma ti senti già una cantautrice? Abbiamo letto da qualche parte che ti piace Rino Gaetano…

Rino? Lo amo follemente. Sono cresciuta a pane e cantautori italiani. Anche perché l’italiano è la lingua più bella del mondo e sono orgogliosa delle mie radici. Pur se canto anche in inglese…

Appunto l’inglese: tornando alla tua canzone, non saprei dirti il perché, ma il sound mi riporta al brit-pop primi ’80. O forse ancor più a Battiato, con gli incisi in inglese. E per l’indubbia l’ironia che si coglie tra i solchi. C’è anche lui tra i tuoi artisti di riferimento? E chi ti piace, tra colleghe e i colleghi? Con chi divideresti volentieri il palco?

Si. Battiato è per me il Maestro (con la M maiuscola). Ha portato l’elettronica in Italia, e ha avuto il coraggio di proporre qualcosa di diverso, ma in maniera autentica e originale. E’ proprio lui l’esempio perfetto di come si possa essere autenticamente originali. E non paraculi. Tra i contemporanei, il sogno inconfessabile e irraggiungibile, anzi già confessato, è Billie Eilish; tra quelli pseudorealizzabili: risposta secca, c’è Asaf Avidan, un artista israeliano.. penso che le nostre voci possano davvero “matchare” molto bene e penso proprio di martellarlo di mail fino all’esasperazione, allo sfinimento, per poter realizzare qualcosa insieme.

Ammettiamo di non conoscerlo affatto ma rimediamo immediatamente: qui il link alla sua splendida “One Day”, e qui la prossima sua data all’Auditorium PdM.

Maddalena, in attesa di condividere il palco con Asaf, cosa pensi di fare per promuovere maggiormente la tua canzone, in attesa che finisca il prima possibile questo orrendo periodo di pandemia? Hai un canale Youtube, utilizzi i social?  

Non ti nascondo che è non è facile!…un passo alla volta; siamo solo all’inizio di un percorso. Molta rassegna stampa, (e grazie a Valentina, la mia agente); c’è la distribuzione Universal…d’altra parte bisogna aver pazienza: il video è appena uscito, e, più che dai social, inaspettatamente sto ottenendo delle belle soddisfazioni dalle radio. Sono molto contenta, il mondo della radio mi piace moltissimo.

Per finire, cosa bolle in pentola? Stai già scrivendo altre canzoni?

Si, sto scrivendo nuove canzoni, naturalmente un singolo per volta – non è più tempo di album – Naturalmente, vi terrò aggiornati.

Grazie Maddalena, ci contiamo davvero!

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La natura del futuro

(Un racconto di Federico Fossi)

Appena la vidi, attraverso la finestra di vetro rettangolare che separava il corridoio dalla sua stanza, rimasi impietrito. La prima cosa che mi colpì furono i suoi occhi bravi, due stagni frizzanti di colore verde oliva.

Il naso esemplare, la bocca socchiusa in un sorriso ingegnoso, si dimenava sulla grande poltrona di stoffa chiara, segno che i pensieri spinosi avevano ceduto il passo al gioco. Non si accorse di me.

Mentre due rigagnoli di lacrime silenziose cominciavano a scivolare sul mio volto mi resi conto dell’estensione delle sue gambe, delle sue braccia, delicate e vibranti come giovani rami, elastici e armoniosi. I capelli, corti, si scomponevano e ricomponevano delicatamente in uno sfavillio biondo intenso del color del miele. Non avrei mai potuto vedere creatura più straordinaria di lei.

Non potevo conoscere con precisione la sua età, ma mi resi istantaneamente conto che erano troppi gli anni passati lontano da lei, almeno cinque, forse sei. Questa poteva essere la sua età.

Non posso dirti quanto tempo sono rimasto a contemplare quell’incanto smisurato. Ricordo solo che ad un tratto, quasi come per riprendere fiato, ho voltato il capo alla mia sinistra. Il dottor Alfa, che fino a quell’istante si era tenuto rispettosamente in disparte mi fece un cenno di comprensione con il capo e mi invitò a seguirlo nel suo ufficio. Mi incamminai stentatamente dietro di lui continuando a guardare verso la finestra rettangolare, sempre più piccola.

Non è facile spiegarti come mi sentivo in quel momento, era come se tutte le cellule del mio corpo stessero reclamando un diritto, quello del legame più forte, il diritto della natura. Il dottor Alfa mi fece accomodare e, dopo aver avvicinato la sua poltrona alla mia, si sedette a sua volta davanti a me.

“Come si sente?” mi domandò con tono rassicurante.

Non sapevo cosa dire, forse non avevo voglia di parlare con lui. Era un estraneo. Dopo qualche istante di pausa mi feci forza, deglutii a fatica, e cosciente del fatto che quell’uomo era lì per aiutarmi risposi: “… mi sento… è il giorno più importante della mia vita, cosa devo fare dottore?”

“ecco – mi porse un foglio di carta – riempia questo modulo adesso”

Burocrazia. Pensavo che da queste parti ne se fossero ormai liberati. Riempii il modulo con i dettagli personali richiesti, la data, e lo firmai. Era una semplice registrazione della mia visita, mi spiegò il dottor Alfa. “si, si… certo, capisco” risposi consegnando il modulo. In quel momento mi accorsi che ero nervoso e che anche io adesso, proprio come Lei, non riuscivo a stare fermo con le gambe, le mani, le braccia, i piedi, gli occhi.

“Posso offrirle un bicchiere d’acqua?”

“Grazie, si… si, grazie mille” risposi. Mentre bevevo il dottore si accomodò davanti al suo computer e digitò qualcosa sulla tastiera. Poi si alzò e tornò a sedersi davanti a me. “Si sente pronto per entrare?” mi domandò. 

“Sono pronto, andiamo.” dissi.

Seguii nuovamente il dottore nella semioscurità del corridoio. Non feci neanche in tempo a posare nuovamente gli occhi su di Lei che il dottor Alfa aveva già aperto la porta “prego, torno a prenderla fra venti minuti, vedrà che andrà tutto bene”, mi sorrise.

Entrai, sentii la porta che delicatamente veniva chiusa dietro di me. La bimba si irrigidì e mi guardò dritta negli occhi.

“Ciao piccola mia…”

“… sono… babbo”.

Alla Clinica 8, sulle alture di Bergmann, era possibile incontrare chi viveva in una dimensione alternativa.

Lei era mia figlia. Non era mai nata, ma era viva davanti a me. Ora.

(illustrazione dell’Autore)

Federico Fossi

(Sono nato a Roma nel 1969. Appena in tempo per vedere lo sbarco sulla Luna e Woodstock. Lavoro nella comunicazione per un’Agenzia delle Nazioni Unite e nel tempo libero mi piace disegnare, dipingere, e a volte anche scrivere)




I Nodi di Giusi

(di Marina Ruberto)

Ho conosciuto Giusi Loisi ormai parecchi anni fa, in un’agenzia con cui collaboravo come free lance.

Era una giovane account arrivata da non molto dalla sua terra natale: la Puglia.

La portava con sé nell’espressione aperta, nei colori della parlata, nel sorriso sincero e negli occhi un po’ selvatici, dal taglio asiatico. “Da husky”, le dicevo.

Barese normanna: bionda, occhi azzurri.

Una bella ragazza allegra e divertente, che un venerdì, a fine giornata, tirò fuori un’intera valigia di abiti che le aveva disegnato la madre, per deliziare i colleghi con un ironico defilé, tra mille risate e commenti da casting.

Io l’avevo appena conosciuta e, da brava milanese tra il cinico e il diffidente, pensai che era troppo di tutto. Che una simile spontaneità e fiducia, non potevano essere autentiche.

Pensai: “ci fa”.

Poi, però, rapidamente, dovetti ricredermi. Diventammo amiche e lei mi aprì la porta della sua seconda vita: quella d’artista.

E allora compresi i legami. Anzi: i nodi.

Qualche anno fa, Giusi si è trasferita a Torino e, da allora, vive lì con il marito Francesco e il figlioletto Andrea.

Ma Milano le è rimasta nel cuore. Più amici qui che là. Tanti ricordi. Torna di tanto in tanto (ma, pandemia permettendo, tornerà proprio) per fare mostre e incontrare la “sua” città nel modo che preferisce: elettrizzante, stimolante, …e introspettivo. 

A distanza di tre/quattro anni dall’ultima volta che ci siamo viste “live”, ci ritroviamo davanti allo schermo di un computer. Felici di vederci, anche se avremmo preferito la modalità precedente.

Dimmi Giusi, il primo nodo non si scorda mai… Come ti è venuto in mente di cimentarti in quella che, forse, all’inizio parve una follia anche a te?

Ricordo perfettamente quella sera in cui mi prese il desiderio di quel gesto un po’ folle. Sentivo di aver  bisogno di “legare” una parte di me, con un’altra che pareva sfuggire.  Così feci la prima cosa che mi venne in mente: bucai la tela che avevo dipinto poche ore prima con un punteruolo e, nei fori, feci passare una corda grossa, intrecciandola fino a creare un nodo.  Credo sia stato il tentativo di legare il mio mondo terreno a quello spirituale.

Andiamo a caccia di significati, dai. Raccontaci la poetica delle annodanze con parole tue. So che non ami troppo i blabla. Magari ci facciamo aiutare da alcune definizioni che Manuela Gandini ha scritto di loro. Così sembriamo anche persone serie.

Annodanze. Il termine è un mix fra la drammaticità del nodo e la leggerezza delle danze. I nodi, il più delle volte non sono scomposti, ma ordinati come fiocchi di neve, sferici come ricci di mare o minacciosi come virus. Hanno fattezze organiche e sono tridimensionali. Come un’ossessione o un groviglio emozionale che riaffiora quadro dopo quadro, le Annodanze sono pensieri sottaciuti, materiali del subconscio, che prendono forma e si impongono al mondo con impeccabile pulizia formale.”

Manuela Gandini

Mi ritrovo in quello che ha scritto Manuela. Ha colto in pieno i miei “grovigli” e il tentativo di ordinarli in qualcosa di materiale. Che ha un inizio, una fine e un aspetto piacevole, compiuto. Molte delle persone che si avvicinano alla mia arte si riconoscono negli intrecci e nelle inquietudini delle Annodanze. Le stesse, in altre persone, scatenano sensazioni positive di allegria ed apertura.  A ognuno il suo nodo, insomma.  

Quando ti ho conosciuta abitavi nel “buco locale” di via Orti, ricordi? Era delizioso, ma quello che lo rendeva unico, era la presenza dell’enorme “donna riccio” che occupava quasi tutto lo spazio disponibile.

Raccontaci la tua ispirazione, prima e oltre le Annodanze.

In quel periodo stavo lavorando con materiali organici “morti” (foglie, aghi di pino, gusci di ricci di mare) a cui  intendevo dare una “seconda chance”.

La donna riccio, in particolare, è il risultato di un’esperienza, una ricerca introspettiva che si è tradotta nella rappresentazione della mia dualità. Un io “diviso” tra  spine dell’anima e forme del corpo.

Torniamo alle Annodanze, la parte della produzione artistica su cui hai lavorato di più. Hai fatto performance in giro per Milano (a cui ho anche assistito) dove costruivi un nodo in diretta. Negli occhi degli ospiti c’è sempre stata molta partecipazione e curiosità. Cosa c’è di diverso nel lavoro fatto in solitudine e quello eseguito davanti a un pubblico? Ti arricchisce la presenza altrui? Ti carica?

Il lavoro in pubblico è più istintivo ed emozionante, rispetto a quello in solitudine. La presenza delle persone, le voci, il brusio mi aiutano ad  estraniarmi e a entrare in una sorta di trance.

E’ quasi come se il lavoro, il mio nodo, si facesse da solo…seguendo dei percorsi “guidati”. So che può sembrare strano ma “gli altri”, non mi distraggono affatto. Anzi: mi rilassano. Quando sono sola, devo trovare dei mezzi alternativi per concentrarmi. Quasi sempre la musica.

E’ stato qualcuno a suggerirti questa modalità?

Ho fatto la prima performance durante il concerto di un’amica ed è venuta benissimo perché era la sua musica a portarmi. Sinceramente non ricordo chi delle due abbia pensato per prima a quest’unione di espressioni. A volte, le cose migliori nascono così spontaneamente da non avere un solo ideatore.

Dicci qualcosa dei materiali che utilizzi. Come si è evoluta, nel tempo, la tua ricerca?

Non uso pennelli ma corde, cordoni, fili, lane per creare le forme che sono degli stati dell’anima.

Il punteruolo che buca la tela e la corda che l’attraversa mi portano ogni volta in una dimensione che non riesco a spiegare, è un viaggio sempre diverso.

Le annodanze sono sempre diverse, nelle forme e nei colori, come i mondi e i legami che rappresentano.

Veniamo all’oggi e alla tua ultima mostra al Grand Hotel Courmayeur Mont Blanc. Mi raccontavi che ci sono addirittura ben 52 tuoi quadri.

Come hai conciliato la tua vita di madre, di moglie e di account, con la necessità di “sfornare” una produzione così importante? Certo, la pandemia non ti avrà facilitata… 

Invece forse è stata proprio l’impossibilità di uscire, a rendermi le cose più facili. La casa è diventata anche il mio atelier. Ho lavorato di giorno, ma soprattutto di notte, per diversi mesi. Immersa in una frenesia creativa che mi ha stimolata moltissimo. Non avendo il tempo di pensare o sperimentare, creavo e basta. Forse per questo sono venuti fuori tanti nuovi lavori i cui risultati hanno stupito persino me.

Nel frattempo non ho smesso di dedicarmi alla mia famiglia e alla mia cucina, che tu conosci molto bene e senza la quale, credo che mi mancherebbe qualcosa.

Qualche chilo sicuramente…

Quindi, per finire, potremo vedere le Annodanze ancora fino al 30 settembre a Courmayeur, giusto?

Certo! I quadri sono sparsi per tutto l’hotel. E’ come fare una specie di tour all’interno di una splendida location, ai piedi del Monte Bianco.

Val la pena di fare un viaggetto.

Verrai con Paolo, vero?…

L’intervista può finire qui. Noi due abbiamo un sacco di cose da raccontarci, ma salutiamo i lettori dando loro appuntamento sul tuo sito  www.giusiloisi.it e sul profilo Instagram  www.instagram.com/giusi_loisi/ là dove i nodi si annodano con frequenza.




Poco da gasarsi

(di Marina Ruberto)

Anni fa, in Italia, la musica era ribelle.

I giovani se lo sentivano cantare da Eugenio Finardi e si gasavano.

Oggi, a Sanremo i “Ciovani” hanno gioito per la vittoria dei Måneskin: band rock di duri e puri la cui esponente femminile, durante la premiazione, ha riempito di parolacce i conduttori, rei di aver chiesto al gruppo un’altra esibizione.

Per carità.

In linea con l’immagine grintosa e il look dei quattro che, però, (per non incorrere nel reato di “già visto”) potevano fare a meno di sciogliersi in lacrime di commozione sul palco. Cosa che, invece, hanno puntualmente fatto.

Quanto al testo di Zitti e buoni, bah.

Sembra che la ribellione consista nell’affermare di essere diversi (da chi? Ah: da “loro”. Loro chi? La gente che non sa di cosa parla, gli uomini in macchina che non scalano le rapide, gli spacciatori che non aprivano la porta…) nonché “fuori di testa”.

Måneskin – ZITTI E BUONI (YouTube)

Bene.

A parte l’episodio abbastanza isolato, per lo più, oggi i “Ciovani” ascoltano Rap.

A chi fosse interessato, segnalo un articolo su alcuni dei suoi esponenti. Ma ce ne sono molti altri.

Io, che giovane non sono, mi limito ad osservare che i testi vertono (salvo eccezioni) su sesso, droga, nonsense e, a volte, persino violenza.

A caso, dal brano Lento di BoroBoro:

Giro por la calle e sono attento/Lei sopra di me lo muove lento/Steso dentro al letto, giuro che la spengo/E dopo faccio
Ra-pa-pam-pam
Ra-pa-pam-pam
Ra-pa-pam-pam”

E via così.

Ma l’ultima frontiera (che data ormai qualche anno) della musica Ciovane è il Trap. A chi fosse interessato e amante delle distorsioni vocali dell’Auto-Tuner, segnalo un altro articolo:

https://ripetizioni.skuola.net/blog/10-cantanti-della-musica-trap-italiana/

Ancora più che nel rap, qui si parla spesso di autoreferenzialità varie.

Sfera Ebbasta, uno dei portabandiera del genere, da tanto è diventato famoso, ha fatto pure un film che s’intitola (appunto) Famoso ed è un documentario sulla sua ascesa ai vertici delle classifiche europee.

Il testo della canzone omonima, recita:

Ora che sono famoso voglion farsi la foto/ fissano la collana, fissano l’orologio/

da piccolo guardavo /le scarpe in quel negozio/ mo’ tutte quelle che voglio/ le metto solo un giorno/ Non mi facevano entrare manco a pagare/ mò mi devono pagare per farmi entrare…”

Tutto chiaro?

Oltre a Rap&Trap ci sono le nicchie impegnate, naturalmente. Non proprio originali, a parer mio.  Tutti un po’ figli di Francesco DeGregori, ma lontani i chilometri.

C’è l’acclamato e  ben prodotto Mahmood (ospite a Sanremo), dal timbro vocale interessante e le melodie finto/arabeggianti, che continua a firmare successi. Quest’anno ha co-firmato la canzone seconda classificata, Chiamami col mio nome dall hype “ignorante”, appiccicosissimo e tutto sommato gradevole.

Bello l’official video della canzone, in cui il duo Fedez- Michielin canta dai palchi di una serie di teatri vuoti o chiusi per sempre durante la pandemia.

C’è Willie Pejote, a Sanremo pure lui con un brano come sempre ben scritto e divertente. Ci sono le giovani promesse che rimangono tali e infine c’è Ultimo, secondo all’edizione 2019, che pare riempia gli stadi con le sue canzoni pop/hip hop/altro.

Gli Ultimi saranno i primi. Già.

http://www.marinaruberto.eu/




Renzo Nissim: tra de Pisis, Lucio Battisti, Renzo Arbore e la Scuola Romana.

Renzo Nissim, Cupola di Santa Maria del Fiore, 1991. Olio su tavola.

Chiunque si interessi anche superficialmente di pittura, conosce certamente il nome di Filippo de Pisis, nome d’arte di Luigi Tibertelli (1896 – 1956). Ma anche i conoscitori più appassionati difficilmente sanno che Renzo Nissim (1907 – 1997) può considerarsi con cognizione di causa il suo ultimo, e talvolta degno, epigono. Anche nell’ecletticità: il ferrarese Filippo, laureato in lettere, è stato scrittore, poeta, critico d’arte e pittore; Il fiorentino Renzo, avvocato, musicista, giornalista radiofonico e televisivo, conduttore, commediografo….e pittore.

Nissim, per sua stessa ammissione, considerava De Pisis come il principale Maestro di riferimento: certo, cercando di distanziarsi dal suo stile (…non sempre ci è riuscito) ma, pur con risultati altalenanti, l’impronta del grande ferrarese è evidente.

Renzo Nissim, Cupola di San Pietro in Vaticano, 1992. Olio su tavola.

I due si erano anche conosciuti personalmente, quando Renzo acquistò delle opere direttamente dal Maestro: episodio raccontato dallo stesso Nissim nella sua interessante, divertente e consigliabilissima autobiografia “In cerca del domani: un’avventura autobiografica”, nella quale si narrano le peripezie di un giovane avvocato fiorentino, radiato dall’albo a seguito delle leggi razziali e costretto ad emigrare negli Stati Uniti, dove venne a contatto con molti artisti per poi diventare un commentatore radiofonico per varie emittenti, tra le quali “Voice of America”. Tornato in Italia alla fine dei ’50, proseguì in patria la sua carriera radiofonica e di musicista, oltre che come autore e conduttore di programmi musicali.

Renzo Nissim, Fori, 1993. Olio su tela.

Riguardo questo aspetto, tanto per far capire meglio il personaggio, vi proponiamo un siparietto televisivo del 1969. Il programma era “Speciale per voi”, condotto da Renzo Arbore. Renzo Nissim, schietto “comme d’habitude”, non le manda a dire, proprio “in faccia”, nientemeno che a… Lucio Battisti! In quell’occasione, ferocemente criticato per la sua voce.. 😉

Ma qui ci interessa soprattutto il Renzo Nissim pittore. Oltre a De Pisis, facile rintracciare anche l’influenza di Orfeo Tamburi (nella sua prima fase romana), Scipione e Mafai. Insomma, della Scuola Romana.

Renzo Nissim, Basilica della Salute, 1992. Olio su tavola.

Non tutta la produzione di Nissim può considerarsi memorabile; ma le vedute dei primi ’90 (quando l’autore era già oltre gli 80 anni) sono certamente meritevoli di una certa attenzione; e soprattutto tra le opere di questo periodo abbiamo scelto quelle da pubblicare, insieme a quelle degli “esordi” …da ultracinquantenne!

Renzo Nissim, San Pietro in Vaticano, 1993. Olio su tela.
Renzo Nissim, Bacino di San Marco, 1992. Olio su tavola.

Renzo Nissim, Cupola di Santa Maria del Fiore, tecnica mista su carta, 1958.