Ita … ops!

L’immagine della bandiera italiana si presenta sempre con il verde sulla sinistra e il rosso a destra.
(Così 👉 🇮🇹) .

Questa regola ha delle eccezioni: se la bandiera italiana è raffigurata su un veicolo, o velivolo, essa deve essere mostrata con il verde sempre ‘in avanti’ rispetto al movimento: questo per simboleggiare l’insegna che “sventola” nel vento generato dal moto.
Il comandante BITTA ha notato il tricolore sul timone di coda degli aerei ITA (ex Alitalia) il quale, mentre sul lato sinistro è raffigurato nel senso corretto (foto in alto), sul lato destro appare a COLORI INVERTITI 🤦‍♂️! (foto in basso).
Infatti, nella parte anteriore del timone non dovrebbe comparire il verde (e non il rosso), come fosse il pennone da cui ‘garrisce’ il tricolore?” 🤔

Cieli sereni
PG




Sono solo dettagli




Think Global, act Local: è il momento del marketing territoriale.


di Francesca Bux

Sempre più spesso si sente parlare di “glocalizzazione”, intendendo una globalizzazione che invece di ignorare, sovrastare o addirittura eliminare le potenzialità offerte dal territorio, le esalta e utilizza per entrarci più consapevolmente, concentrandosi su una dimensione di business fatta di usi e costumi locali.

Ma come può essere identificata questa tendenza?

Think Global, act Local” è il motto coniato nei poliedrici anni ’80 da Akio Morita, cofondatore e presidente della Sony, che meglio rappresenta questa diversa idea di globalizzazione. Così dicendo, si vuol far capire come la tendenza sia quella di andare verso un abbandono della standardizzazione dei mercati, a favore di una vera e propria tutela delle realtà locali, mettendo in luce sfaccettature e caratteristiche.

Tutto il mondo è paese, insomma.

Al giorno d’oggi, svariate multinazionali stanno adottando questo modo di fare affari.

Pensiamo ad esempio a Netflix.

Con un pubblico davvero estremamente variegato, la multiculturalità rappresenta un valore aggiunto da sfruttare, che offre così anche la possibilità di cavalcare i trend su scala internazionale. 

Ed ecco quindi venir fuori successi come la “Casa de Papel”, serie TV spagnola che ha tenuto con il fiato sospeso milioni di persone in tutto il mondo, il nostro “Suburra”, uno dei simboli delle produzioni Made in Italy o ancora il campione di incassi britannico “Black Mirror”.

Un altro esempio sicuramente sotto gli occhi di tutti è dato dalla catena di fast food più famosa al mondo. 

Mc Donald’s fa della collaborazione con le realtà locali, con le associazioni e con i cittadini dei territori in cui è presente uno dei punti cardine della sua politica aziendale.

Basti pensare alle nuove ricette per panini firmati Giallozafferano, con ingredienti DOP e IGP che seguono la stagionalità dei prodotti, così da garantire anche la qualità dell’offerta e una continua promozione del territorio.

Volgendo lo sguardo all’estero, l’azienda aveva fatto la stessa cosa nel 2016 per il mercato indiano, quando lanciò il Chicken Maharaja Mac, un maxi burger a base di pollo, pensato apposta per andare incontro alle esigenze della tradizione locale, che impone di astenersi dalla carne di vitello.

Passando dal mercato di massa a quello del lusso, un gigante del settore come Louis Vuitton, sebbene abbia una salda posizione di leadership nel mercato del lusso in Cina e pur essendo presente nel Paese orientale con 47 negozi in 29 diverse città, si è trovato a dover adeguare la propria strategia a seguito della politica anticorruzione avviata dal presidente Xi Jinping, oltre che per la tendenza dei clienti del lusso di allontanarsi dalla ostentazione massiva di loghi.

Questo si è concretizzato con la riduzione della promozione di prodotti caratterizzati dal celeberrimo monogramma LV e l’introduzione di una linea “vintage”, creata specificatamente per quel mercato, utilizzando in un primo momento come brand ambassador, la celebre attrice e cantante pop cinese Fan Bingbing.

Successivamente, per smorzare la percezione che questa testimonial potesse impersonificare l’idea di un prodotto mass-market, venne scritturata Liu Wen, modella cinese di haute-couture, ma con residenza a New York, per una campagna di adv atta a promuovere la collezione Foulard d’Artistes.

Ultimo aspetto da considerare riguarda il fatto di come la glocalization venga tendenzialmente associata a un modello di business che mira soprattutto alla fidelizzazione del cliente. 

Il prodotto viene inteso nella sua totalità, comprendendo così anche i servizi di assistenza e manutenzione post-vendita: questo certifica un guadagno duraturo al produttore e spesso costituisce anche la parte più remunerativa dell’intero introito aziendale.


Francesca Bux

Classe 1984.

Veneta dal sangue pugliese, intraprendente, riservata e creativa.

Attenta nei confronti delle nuove tendenze della comunicazione, con un occhio di riguardo per le campagne pubblicitarie di impatto sociale, innovative e fuori dagli schemi.

Lettrice eclettica, viaggiatrice anche solitaria, dipendente dalla musica e dalle espressioni d’arte come la fotografia, la pittura e la moda.

Amante delle rappresentazioni teatrali, tradizionali e indipendenti.

Non ho un mio blog, ma amo scrivere in quello degli altri.




Aquawareness

Il Nuoto come strumento di consapevolezza.

(versione integrale ed arricchita di nuovi contenuti multimediali di un articolo già pubblicato su www.ocean4future.org in due parti nel marzo 2022)

Le prime percezioni del nostro esistere avvengono ad occhi chiusi, immersi nel liquido amniotico. La materia fluida ci fornisce la prima interfaccia con il mondo, il primo contatto con la dimensione del sensibile, la prima esperienza del limite, attraverso cui si sviluppa l’embrione della nostra futura identità. In essa cominciamo a disegnare i nostri confini con l’esterno e insieme a percepire dall’interno la nostra corporeità. E ritrovare la traccia di quelle primordiali esperienze significa ritrovare il proprio primo orizzonte di esseri viventi, la nostra prima e vera madre lingua. Significa ritrovare il nostro corpo alle prese con sensazioni nuove ed insieme antiche, con libertà di movimento strane e al tempo stesso familiari, stranamente familiari e tuttavia dimenticate.

Nella mitologia indiana, Nārāyaṇa è la divinità che meglio di tutte rappresenta, a livello cosmico, il passaggio cruciale dalla potenzialità della quiete indifferenziata prenatale alla prima scintilla di coscienza individuale.

Nella notte cosmica, Nārāyaṇa dormiva in beata spensieratezza, galleggiando sulle acque primordiali. E mentre dormiva dal suo ombelico spuntò un loto, la prima forma di vita e prima scintilla di consapevolezza, staccatasi dalla matrice universale(Mircea Eliade, Trattato di Storia delle Religioni, Bollati Boringhieri, ed. 2008)

Nārāyana tiene nella mano sinistra un gambo di loto che scaturisce dal suo ombelico e sul fiore di cui è intronizzato Brahma. Rilievo Cham, Vietnam (c.700 d.C.)

Nārāyaṇa è, per gli induisti, una delle molteplici manifestazioni di Visnu: colui che presiede la notte cosmica così come Shiva è il signore dell’universo manifesto. Simboleggia lo stato di latenza che precede l’inizio di ogni era, e che inevitabilmente ne seguirà la fine. 

“Nei tempi antichi chiamavano le acque con il nome Nārā e poiché le acque erano sempre la mia ayana, la mia casa, ecco perché mi chiamavano Nārāyaṇa: (che è a casa nell’acqua). O migliore dei rinati, io sono Nārāyaṇa, l’origine di tutte le cose, l’eterno, l’immutabile”. (dal Manusmṛti, II-III sec. a.C.)

A casa nell’acqua”. Interessante notare come, per la tradizione Indiana, l’acqua venga considerata l’elemento primigenio, il substrato originario: l’energia potenziale ancora inespressa, dal quale proviene ogni forma, e che precede qualsiasi evento percepibile; mentre nella Cina taoista, più o meno nello stesso periodo o poco dopo, l’acqua è percepita come modello di comportamento perfetto e sublime espressione di un mondo già fenomenico.

Non vi è al mondo nulla di più debole e cedevole dell’acqua, ma nello stesso tempo non vi è nulla che la superi nel vincere il forte e il rigido. Essa è indomabile perché a tutto adattantesi” (Tao Te King, secondo libro, par. LXXVIII. A cura di Julius Evola, 1922)

Ritrovarsi nel Nārāyana dal quale si è avuto origine è, da millenni, il compito delle innumerevoli tecniche psico-fisico-meditative messe a punto, specie in oriente, per poter riconoscere e percepire come propria “dimora”, oltre il limite del nostro corpo, anche tutto ciò che ci circonda.

Lo Yoga indiano e il Tai-chi cinese sono probabilmente le vie più praticate e conosciute per “tornare a casa” ma ne esistono innumerevoli altre, sperimentate o sperimentali; sorte dal nulla o lentamente adattate alle circostanze di tempo, cultura e luogo;  In oriente così come in occidente però, l’immensa letteratura fiorita sull’argomento, sorprendentemente, non fa quasi mai riferimento a quella che dovrebbe essere considerata la via maestra, quella suggerita dall’origine e dal nome stesso di Nārāyaṇa, “colui che è a casa nell’acqua”: il nuoto. Anzi, il Nuoto, con la N maiuscola. Quello che pratica l’uomo virtuoso, inteso nel senso definito dal Tao te King: colui che comprende e si adatta al modello di comportamento supremo, quello dell’acqua.

La mancanza di accenni al Nuoto come “via dell’acqua” nella storia della letteratura specializzata è difficilmente comprensibile. Si pensi, ad esempio, ai cultori del Tai-chi che immaginano di effettuare in acqua i propri movimenti per cercare di renderli più fluidi: non sarebbe molto più semplice ed efficace, allora, “saltare un passaggio” – e immergersi realmente? Vero è che esistono già da tempo anche le versioni “bagnate” dello Yoga (Woga/Water Yoga) e del Tai chi (Ai chi/ Aquatic Tai Chi): ma anche queste discipline, pur essendo valide sotto taluni aspetti, rimangono viziate da un presupposto iniziale molto restrittivo non sono “acquatiche native”, ma adattamenti – più o meno felici – all’ambiente liquido di ordinarie e consuete pratiche terrestri. In quanto tali, le posizioni di equilibrio vengono impostate dal praticante con un approccio fisico e mentale ancora tipicamente terrestre: ricerca di appigli od appoggi rigidi e limitati, utilizzo di strumenti didattici artificiali, sostegno di altre persone per “superare” il problema della cedevolezza dell’acqua (invece, proprio questa caratteristica costituisce l’occasione d’oro da cogliere e sfruttare appieno per “cambiare dimensione”). Il tutto, vissuto ancora sotto l’incombente condizionamento psicofisico della verticale gravitazionale: una vera e propria spada di Damocle, alla quale, in condizioni ordinarie, è impossibile sottrarsi.

Manca ancora, a coloro che in acqua si comportano da terrestri, l’abbandono completo, la fiducia in Archimede e nella sua legge idrostatica. Manca evidentemente la fiducia nell’acqua. O meglio… nelle capacità di relazione tra il proprio corpo e l’ambiente circostante.

È un tipo di fiducia che si raggiunge esclusivamente dopo una profonda completa conoscenza, diretta e strettamente personale, del proprio intorno.

Come scrive il Maestro Zen Daishin Besio:

Il nuotatore e il non-nuotatore sono divisi solo da una dimensione esperienziale. Il primo è partito, necessariamente, dai presupposti del secondo. Il quale, a sua volta, dispone di tutte le potenzialità per trasformarsi nel primo

Dimensione esperienziale. Non (solamente) intellettuale, quindi. E assolutamente diretta, non delegabile: se l’acqua è uguale per tutti, ogni essere umano è un unicum. Ha una sua forma propria ed è il risultato di una storia a sé. Conseguentemente lo è anche il suo rapporto con l’elemento liquido. Intimo, insostituibile e indicibile.

Per dirla con un altro Maestro (di Nuoto, stavolta), Domenico Maiello, l’acquaticità consiste nell’ “educare all’acqua e con l’acqua”. “All’acqua“, per conoscerla. “Con l’acqua“, per conoscersi. Una definizione, questa, folgorante ed epigrafica; per arrivare a fidarsi ciecamente dell’acqua non esistono scorciatoie: bisogna (ri)conoscerla, bagnarsi, immergersi. E galleggiare, affondare, riemergere, scivolare, ruotare, tuffarsi, fare delle capriole, adagiarsi sul fondo: insomma bisogna ritornare a giocare felicemente nell’acqua e con l’acqua, cercando di carpirne, a poco a poco, i (trasparenti) segreti.

Dimenticando e destrutturando, stavolta, le abilità motorie complesse spesso a torto considerate acquisite come le tecniche di nuotata (apprese talvolta troppo velocemente o solo meccanicamente, senza concedersi il tempo di percepire né l’acqua né il corpo); tralasciando le tabelle di allenamento, le calorie da bruciare, il numero delle vasche da percorrere; mettendo via, almeno per un po’, tutti quegli inutili orpelli che inquinano e disturbano il rapporto esclusivo tra noi e il fluido (divenuti oramai innumerevoli: dalle pinne ai galleggianti, alle custodie impermeabili degli smartphone, passando per le radiocuffie,  gli smartwatch e le varie applicazioni fitness. Se possibile, lasciando anche gli occhialini e le cuffie sul bordo vasca). Spogliandoci di tutti gli accessori, ma rimanendo ben vigili, attivando al meglio la nostra consapevolezza. Eccola, la parola chiave è tornata: consapevolezza. Duplice: in acqua, e dell’acqua. Conoscenza dell’acqua attraverso il proprio corpo – e conoscenza del proprio corpo attraverso l’acqua. Ecco definite le due materie fondamentali della nostra scuola nuoto ideale. Due processi cognitivi tra loro interconnessi al punto tale da sintetizzarsi in uno solo, di tipo relazionale. Il proprio, intimo, insostituibile, indicibile rapporto con l’acqua.

Dopo esserci finalmente liberati di ogni accessorio o programma, entrando in acqua proviamo innanzitutto a…non fare nulla! Cerchiamo innanzi tutto di rimanere fisicamente passivi mentre il fluido agisce sul nostro corpo. La passività costituisce il primo e più importante passo nel processo di conoscenza dell’acqua. Equivale all’ascolto dell’altro nei rapporti umani.

Raising (9 secondi)
Levitation (9 secondi)
Bouncing balls (16 secondi)

Negli esercizi presentati è la spinta idrostatica che agisce “come Archimede comanda”, per riportare a galla le nuotatrici che sono state filmate. Quasi certamente, tutti coloro che hanno una certa dimestichezza con le attività natatorie, avranno vissuto le stesse esperienze soprattutto in età infantile; ma è estremamente probabile che, presi dalla foga del gioco o da un obiettivo agonistico più seducente, ne abbiano dimenticato i preziosi insegnamenti. Almeno a livello cosciente: lo dimostrano, ad esempio, gli innumerevoli bagnanti-ancora-terrestri che si producono in azioni propulsive goffe e assolutamente superflue, sia con le gambe sia con le braccia, per cercare di “rimanere fermi sul posto” in acqua alta…

Bad runner (15 secondi)
Bad biker (6 secondi)
Vertical kicking (18 secondi)

…laddove basterebbe galleggiare staticamente, senza agitarsi:

Suspension lift (12 secondi)

le posizioni sono potenzialmente infinite; e molte di queste sono anche estremamente confortevoli….

Periscope (15 secondi))
Outrigger and ball (10 secondi)
Static & simmetric (5 secondi)
The fin (5 secondi)
Asana (5 secondi)
Sofa relax (14 secondi)
Double outrigger (5 secondi)

Ai bagnanti-ancora-terrestri a è mancato, nei momenti cruciali dell’apprendimento nel corso delle loro prime esperienze acquatiche, il giusto atteggiamento mentale.

O meglio… la giusta presenza mentale. Potremmo definire questo termine-chiave come un vero e proprio comune denominatore tra il Nuoto e la meditazione. Applicando una corretta presenza mentale, ogni ingresso in acqua può trasformarsi in una validissima occasione per aumentare il proprio grado di consapevolezza, trasformando il bagno in una vera e propria forma di meditazione galleggiante. Una consapevolezza a doppia valenza: in acqua e dell’acqua. l'”Aquawareness“.

È bene chiarire immediatamente che la presenza mentale, come forma di meditazione, NON ha assolutamente nulla a che fare con gli stati di assorbimento, estatici o mistici, al di là dell’ordinario e del vissuto quotidiano. Anzi. Tutto il contrario, la pratica richiede come requisito di base la massima lucidità sensopercettiva. Nulla di trascendente, quindi, e nulla che non sia del tutto trasparente.

Semplificando, la presenza mentale può essere bipartita nelle due fasi ricettiva (chiamata fase della pura attenzione) ed attiva (denominata fase della chiara visione)

Nella fase ricettiva si tratta “semplicemente” di rimanere estremamente attenti e concentrati durante le esperienze vissute e osservate al fine di acquisire la chiara e sicura consapevolezza di ciò che realmente avviene fuori di noi e in noi quando c’è interazione tra noi e il nostro intorno.

Per facilitare la pura attenzione, al principiante si raccomanda sempre di ridurre l’esperienza al livello più elementare ed essenziale possibile. Riprendiamo, in proposito, l’esempio descritto nei video dei “rimbalzi”:

Per bambini e adolescenti (e qualche adulto) sarebbe più che naturale trasformare l’esperienza in un gioco “a chi ne fa di più” con tanto di squadre, classifiche, e sfottò; possiamo facilmente immaginare i partecipanti impegnati creativamente per trovare strategie, regole, trucchi e sotterfugi idonei per vincere le sfide, con i compagni, gli avversari… e soprattutto, con loro stessi.

Certamente, in situazioni ludico-competitive, si guadagnerebbe molto in termini di puro divertimento… però quasi sicuramente, a causa della focalizzazione dell’interesse dei partecipanti verso l’obiettivo della “vittoria” e dello spostamento delle loro risorse di pensiero verso l’area dell’ingegno organizzativo si perderebbero di vista almeno tre/quattro elementi di osservazione, o di pura attenzione:

  • La posizione raccolta “a uovo”, con le gambe abbracciate, assicura l’impossibilità di compiere dei gesti propulsivi   di qualsiasi genere; conseguentemente:
  • La risalita è determinata solo dalla spinta dell’acqua:
  • Il corpo tende sempre a ruotare per mantenere la parte più leggera (i polmoni) verso l’alto. Non si riaffiora naturalmente con i piedi, ma con la schiena e la testa.

Soprattutto:

  • Con i polmoni pieni d’aria, a parità di forma (ma non di volume…) l’acqua riporta velocemente i corpi a galla, con i polmoni svuotati molto meno, quando non li lascia direttamente sul fondo.
  •  
Stitching down (23 secondi)

Queste registrazioni obiettive, proprio come in ogni esperimento scientifico che si rispetti, non dovrebbero mai essere alterate da valutazioni qualitative o dai pregiudizi emotivi ed intellettuali, o dalle aspettative prestazionali, che spesso (e più o meno consapevolmente) ci portiamo dietro e che distolgono l’attenzione dai fatti in sé che dovremmo considerare “nudi e crudi”.

Quando parliamo di “meditazione basata sulla presenza mentale”, non intendiamo allora nulla di difficile né di misterioso. Parliamo invece di un livello di consapevolezza raggiungibile, in acqua, anche dai bambini in età scolare. Anche i piccoli allievi, se ben guidati da un bravo istruttore che, avendo cura di mantenere sempre attiva la loro presenza mentale, trasformi ogni loro esperienza  acquatica nella forma di un gioco divertente, potranno essere in grado di passare tranquillamente senza difficoltà da un’attenzione vaga iniziale (“guarda, Jacopo e Matteo stanno giocano a “palla che rimbalza!”), a quella più dettagliata (“ma non si muovono per nulla, eppure tornano sempre su”) e poi, richiamando le situazioni analoghe, si confronteranno con il proprio vissuto (“ci ho provato anche io, funziona”), generando dapprima il pensiero associativo (“se trattengo il respiro torno su più velocemente”)  e infine, sfruttando opportunamente le dinamiche di gruppo, anche quello astratto: vale a dire  la generalizzazione dell’esperienza. (“se si trattiene il respiro si galleggia molto meglio, vale per tutti”)

Questa forma di educazione acquatica, basata sulle risposte dell’individuo alle situazioni-stimolo ambientali, è tra l’altro perfettamente aderente alle teorie di Jean Piaget (1896-1980), un vero pioniere della psicologia dell’età evolutiva: Per Piaget, losviluppo cognitivo del bambinoderiva principalmente dall’interazione con la realtà circostante, grazie alla quale si verifica una trasformazione in termini di acquisizione di informazioni utili alla conoscenza pratica. E in acqua, la necessità di interagire continuamente con l’ambiente circostante diventa necessariamente “il” presupposto, una scelta obbligata. Sotto questo aspetto, un approccio consapevole nei confronti dell’ambiente acquatico può favorire sensibilmente, anche a livello più generale, l’educazione e l’affinamento della persona in crescita.

Nelle clip precedenti, abbiamo osservato l’azione dell’acqua sul corpo umano quando quest’ultimo nel corso delle varie esperienze cerca, nei limiti del possibile, di mantenere la stessa forma sotto l’azione dell’acqua, a prescindere dalla forma deliberatamente scelta come quella di partenza. Rimanendo il più possibile “inerti” a guisa di oggetti – più o meno galleggianti – è molto più semplice osservare, per poi riuscire a distinguere e separare, gli effetti delle azioni dell’acqua da quelle delle nostre attività, siano esse determinate e consapevoli, automatizzate oppure del tutto inavvertite.

Lo stesso livello di pura attenzione che riserviamo alle osservazioni relative ai comportamenti del nostro corpo come risposta alle azioni dell’acqua, andrebbe riservato anche allo studio dei comportamenti del fluido come risposta alle nostre azioni volontarie e mirate. Anche in questi casi, la facilità di ricavare informazioni corrette ed obiettive è direttamente proporzionale alla semplicità delle attività motorie “di stimolo”

Si pensi alle esperienze sulle “frenate” durante gli scivolamenti:

Integral braking (5 secondi)

In questo caso l’obiettivo della nuotatrice era quello di valutare l’efficacia della frenata durante lo scivolamento (lo “stop” andava ottenuto modificando improvvisamente e liberamente la propria forma corporea) e non certo quello di andare il più lontano possibile dal bordo vasca (che spesso rimane, purtroppo, l’unico esercizio richiesto nelle versioni prona e supina dalla stragrande maggioranza degli istruttori di nuoto tradizionali, durante le cosiddette fasi di ambientamento).

La nostra nuotatrice è giunta a quella efficace soluzione frenante dopo aver sperimentato moltissime altre possibilità alternative: ad esempio, allargando solo una gamba, o anche semplicemente piegandola; oppure allontanando le braccia distese o piegate dal tronco; testando infinite altre soluzioni simmetriche o asimmetriche, sempre prendendo scrupolosa nota delle risposte dell’ambiente fluido. Ad esempio, avrà scoperto che se durante lo scivolamento veloce allontana solamente un braccio dal tronco, oltre al rallentamento ottiene anche un cambio di direzione; ma avrà anche capito anche che quest’ultimo effetto si può essere facilmente attenuare o del tutto annullare non solo con il gesto simmetrico dell’altro braccio, ma anche da altre opportune azioni antagoniste quali, ad esempio, un piegamento del capo.

La pura attenzione, quindi, comprende il campo di osservazione analitica ed obiettiva dei comportamenti che si instaurano nella relazione di base tra l’acqua e il corpo umano, prendendo atto dell’interscambiabilità dei ruoli attivi e passivi che si assumono a seconda delle circostanze. 

Però – non ci stancheremo mai di ripeterlo – questo termine rimane valido ed appropriato solamente se lo spirito, e l’atteggiamento mentale, con il quale si affronta ogni esperienza rimane quello tipico di un laboratorio scientifico, dove l’esperienza viene studiata solo per quella che è, senza interferenze di ricordi passati o di progetti di costruzione futuri. E neanche senza subire l’influsso di precedenti condizionamenti, pregiudizi o aspettative; con la massima apertura mentale, avendo cura di non precludersi nessuna esperienza (a priori) e non scartando alcun risultato (a posteriori); e soprattutto senza mai farsi vincere dalla tentazione di attribuire valutazioni qualitative ai risultati, del tipo: “questa è la soluzione MIGLIORE”. (…migliore per quale scopo, poi…?)

Nelle scuole nuoto “tradizionali”, quelle che hanno per obiettivo costruzione di un performer ad ogni passaggio didattico si tende ad insegnare agli allievi subito e solamente la soluzione “giusta” nell’ottica della sola prospettiva agonistica, per ottenere il massimo rendimento dell’atleta nel più breve tempo possibile… facendogli perdere però per strada, anzi per le corsie, infinite occasioni di approfondimento della propria cultura dell’acqua. Trasformando così il corso di nuoto in un addestramento formale (dove si propongono sostanzialmente dei modelli pronti da copiare) in luogo di una vera occasione di educazione acquatica (dove ogni momento di passività, pausa o attività, ad esempio una semplice bracciata, o un mezzo avvitamento, è il risultato di scelte precise ed autonome del praticante, ripescate consapevolmente dalla propria riserva di esperienze.

Scelte, è finalmente giunto il momento di definire il termine, che dovrebbero essere determinate esclusivamente dalla Chiara Visione del nuotatore.

La Chiara Visione è l’aspetto proattivo della Presenza Mentale, che segue necessariamente quello della pura attenzione e si manifesta nel nuotatore “meditante” solo in presenza della volontà lucida e consapevole di intraprendere l’azione più appropriata per raggiungere un preciso e determinato scopo, qualsiasi esso sia.

Come, ad esempio, quella di immergersi fondo mediante la sola espirazione senza aiutarsi con gesti propulsivi:

Starfish #1 (25 secondi)

Oppure, a partire da uno stato di galleggiamento statico verticale, alterare il proprio equilibrio provocando dei basculaggi volontari con il solo movimento del capo:

Rispetto alle analoghe esperienze vissute “in regime” di pura attenzione, all’occhio poco allenato di un osservatore esterno potrebbero non rivelarsi grosse differenze formali: si galleggia o si affonda fisicamente , ed apparentemente, nello stesso modo; la differenza risiede, infatti, tutta nell’atteggiamento mentale del nuotatore che durante la fase della pura attenzione sta ancora cercando di capire cosa accade a sé e al suo intorno in determinate condizioni; nell’altra adotta deliberatamente il comportamento più idoneo alle circostanze scegliendolo lucidamente all’interno del patrimonio di esperienze già vissute.

Nelle clip seguenti, le nuotatrici in galleggiamento cercano di indurre rotazioni e basculaggi del proprio corpo con i movimenti del capo. C’è chi si trova ancora nella fase pura attenzione e chi, invece, esercita la propria chiara visione…sapreste riconoscerle?

Head drives #1 (12 secondi)
Spinning and tilting #1
Spinning and tilting #2
La parola “Aquawareness” resa con gli ideogrammi cinesi Shuǐ e Wù (“Acqua” e “Comprendere”)

La ricerca della consapevolezza, basata sulle fasi della “pura attenzione” (osservazione oggettiva dei fenomeni senza interferenze) e della “chiara visione” (azione intrapresa lucidamente sulla base del proprio patrimonio di osservazioni), da attuarsi in ogni gesto quotidiano, è alla base della Meditazione Buddhista Vipaśyanā. E’, questo, un termine sanscrito che sostanzialmente è traducibile con: “vedere le cose come realmente sono”, oppure “meditazione di visione profonda”. Il termine inglese più comunemente usato per tradurre Vipaśyanā è “insight meditation”, termine non troppo centrato e comunque un po’ fuorviante per noi occidentali un po’ scettici, cresciuti con Archimede, Galileo e Newton. Non ci dovrebbe servire l’intuizione (traduzione diffusa di insight, “visione dentro”) per osservare, e registrare senza pregiudizi o aspettative, ciò che si manifesta in maniera palese. I cinque sensi sono ampiamente sufficienti: basta focalizzare l’attenzione sull’esperienza, rimanere obiettivi, prendere nota, e ricordarsela per le occasioni future.

Al di là del termine, la Vipaśyanā viene considerata il “cuore della meditazione buddhista” e nelle scritture canoniche di quella tradizione, il “discorso sui fondamenti della Presenza mentale” (Satipaṭṭhāna Sutta) del Buddha viene riportato per ben due volte, a dimostrazione dell’importanza fondamentale che gli è stata attribuita.  Thích Nhất Hạnh ([ tʰik ɲɜt hɐʲŋ ]), (1926-22) il celebre monaco, poeta e scrittore vietnamita scomparso recentemente, basava il suo insegnamento sulla pratica della consapevolezza applicata in ogni momento o attività della giornata, al fine di far riconoscere ogni istante della propria esistenza come un vero e proprio “miracolo ordinario e quotidiano” e non l’ennesimo opaco elemento di una grigia sequela di occasioni e di tempo sprecato:

Thích Nhất Hạnh (1926-2022), da internet

Thích Nhất Hạnh (1926-2022), da internet

“Il miracolo non è quello di camminare sulle acque, ma di camminare sulla terra verde nel momento presente e d’apprezzare la bellezza e la pace che sono disponibili ora.” (Thích Nhất Hạnh, “Carpe Diem”)

“La mattina quando vi alzate, fate un sorriso al vostro cuore, al vostro stomaco, ai vostri polmoni, al vostro fegato. (“La mattina quando vi alzate, fate un sorriso al vostro …”) Dopo tutto, molto dipende da loro.” (Thích Nhất Hạnh, “Corpo Umano”)

“Come possiamo godere dei nostri passi se la nostra attenzione è rivolta a tutto quel chiacchiericcio mentale? È importantediventare consapevoli di cosa sentiamo, non solo di cosa pensiamo. Quando tocchiamo il terreno con il piede dovremmo riuscire a sentire il piede che entra in contatto con esso. Quando lo facciamo possiamo provare un’enorme gioia nel semplice fatto di poter camminare.” (Thích Nhất Hạnh, “Il Dono del Silenzio”)

Assolutamente vero. La presenza mentale è applicabile in ogni situazione quotidiana senza limitazioni di sorta, in ogni condizione di luogo, tempo o spazio. Finché c’è vita, può esserci consapevolezza.

Ma In acqua, la consapevolezza è maggiormente a portata di mano, anzi… di ogni parte del corpo.

Perché? Perché l’insieme uomo-acqua, anche sotto questo punto di vista, costituisce il sistema ideale per raggiungerla. Proprio come quando, in un momento imprecisabile della nostra esistenza, nel liquido amniotico scoccò la prima scintilla di coscienza e di differenziazione tra noi e il mondo, ancora oggi l’acqua, con le sue interazioni avvolgenti, immediate, inevitabili e puntuali ci costringe alla continua percezione di un “esterno” a noi perfettamente complementare.

Lao-Tsu aveva ragione: L’acqua, oltre ad essere stato il primo, è davvero il nostro “intorno” ideale; ci sostiene morbidamente adattandosi perfettamente a qualsiasi nostra forma, senza perdere mai il contatto con ogni centimetro della nostra epidermide.

La sensazione tattile del piede che si appoggia sul terreno descritta da Thích Nhất Hạnh, in acqua è estendibile, nello stesso istante, a qualsiasi parte del corpo; e a differenza di quanto succede nella dimensione terrestre dove le reazioni ambientali – per nostra disattenzione o distrazione  –  possono talvolta apparire schermate fino a sfumare del tutto,  in acqua l’ “intorno” non ci dà mai tregua: risponde puntualmente a tutte le nostre minime sollecitazioni con effetti macroscopici, siano esse volontarie sia involontarie.

Riguardo queste ultime, la reazione/segnalazione immediata ed evidente del sistema sia negli stati di equilibrio statico sia nelle situazioni dinamiche è ancora più importante, perché ci costringe a prendere coscienza di ogni minima alterazione della forma e/o del volume del nostro corpo.

Nella vita quotidiana quando si rimane in piedi, oppure seduti o sdraiati; e anche camminando o correndo spesso si mantengono posture o atteggiamenti sbilanciati o semplicemente asimmetrici, anche per periodi di tempo abbastanza lunghi. Quasi sempre manca la consapevolezza di tutto ciò, almeno fino a quando lo stesso corpo decide di segnalarci la situazione facendo insorgere fastidi o dolori muscolari qui e là. Ma il terreno, l’asfalto, il pavimento, la sedia o il letto in tali casi sembrano rimanere imperturbabili rispetto alle nostre azioni; non ci comunicano direttamente nulla in proposito.

In acqua è diverso: trasparente in tutti i sensi, il fluido non ci nasconde nulla e allo stesso tempo non ci permette di barare, anzi: amplifica e rende evidenti gli effetti di ogni nostra azione, anche la più leggera… ad ogni variazione, anche impercettibile, del respiro corrisponde infatti un diverso assetto di galleggiamento e un diverso equilibrio. Osserviamo come il semplice ritmo inspirazione/espirazione provochi un evidente “effetto culla” con le ginocchia della nuotatrice che emergono e si immergono ritmicamente.

Lulling float (20 secondi)

Così, ad ogni alterazione, anche minima, della forma corporea corrisponde sempre una diversa idrostatica o idrodinamica. La reazione dell’acqua è sempre inevitabile ed inesorabile, impossibile distrarsi o allontanarsi troppo col pensiero. In acqua bisogna continuamente fare i conti, istante dopo istante, con il presente. In immersione, Il “Qui e Ora” dello Zen diventa naturalmente “la condizione di laboratorio”.

Non è il caso di elencare qui tutti i nobilissimi scopi finali della meditazione nelle millenarie tradizioni religiose, spirituali o psicologiche, soprattutto orientali.

Ma ci permettiamo di accennare ai benefici della meditazione quotidiana che sono oramai accertati, ed accettati come validi anche in occidente: riduzione delle emozioni negative, incremento di quelle positive come la compassione e l’autocontrollo, incremento della capacità di raggiungere gli obiettivi.  Riduzione dello stress, dell’ansia, dell’insonnia, della solitudine e degli stati depressivi.

Tra questi, vogliamo sottolineare ancora quello appena citato: la riconduzione gentile della coscienza al momento-presente. Per chi è abituato ad ingolfarsi di ricordi del passato o di progetti futuri elaborati mentre il presente gli scorre davanti, è un vero toccasana purificatore.  Trascorrere la maggior parte del tempo “nella propria testa” porta ad elaborare una eccessiva quantità di pensieri che appannano la percezione diretta immediata della realtà esterna.

Eckart Tolle, autore del best-seller “Now! Il potere del presente” sostiene che “Pensare è compulsivo. Non ci si può fermare, o così sembra. Crea anche dipendenza. Non ci si ferma fino a che la sofferenza generata dal continuo rumore mentale non diventa insopportabile

La citazione è volutamente provocatoria. Non si mette certo in dubbio la necessità di pensare: è un bisogno assoluto, come respirare, bere o nutrirsi. Ma è sempre meglio evitare le indigestioni…in questo senso, la presenza mentale acquatica aiuta non poco a disintossicarsi.

E poi…e poi c’è un effetto corollario, tutt’altro che trascurabile.

Con la presenza mentale applicata alle esperienze in acqua, si impara a nuotare “davvero”. Solo con questo approccio si raggiunge il livello del Nuoto (sì, quello con N maiuscola), quello proprio dei nuotatori. Ma chi è il “nuotatore”? Non è (solo) il bagnante estivo; non è neanche (solamente) il regolare frequentatore delle piscine, uno di quelli che svolgono diligentemente il programma di allenamento redatto dall’allenatore o dal personal trainer; potrebbe non esserlo nemmeno un atleta di livello olimpico, se quest’ultimo si comporta (esclusivamente) come una macchina ideata per scopi agonistici. L’autentico nuotatore non si misura necessariamente né con il tempo trascorso né con lo spazio percorso in acqua. Non ama servirsi di “aiuti” come pinne, guanti, galleggianti, tavolette, tubi perché non sopporta fastidiose mediazioni con l’ambiente e preferisce di gran lunga impiegare, in maniera sempre più sensibile, parti del proprio corpo per ottenere gli stessi effetti; non è un esecutore di gesti prestabiliti da altri e di norma non segue alcuna scheda o tabella. Non “rappresenta” le tecniche di nuotata ma le reinventa e le adatta ad ogni bracciata secondo le proprie esigenze, circostanze o condizioni. In azione, lo si trova sempre più impegnato ad affinare il proprio livello di acquaticità, che interessato ad aumentare le prestazioni. Cerca sempre la via del minimo sforzo, senza far rumore mentre nuota. Risponde alle situazioni critiche sempre nella maniera più adeguata, esercitando tutte le libertà di movimento del corpo, per garantire in ogni condizione il più alto grado di sicurezza non solo a sé, ma anche ai suoi eventuali compagni d’acqua meno progrediti.

Incontriamo spesso in piscina tanti magnifici atleti, ma imbattersi in un nuotatore “vero” non è così frequente.

Chuang-Tsu in un suo celebre racconto, ne ha magistralmente descritto uno, di età avanzata: un vecchio che alle domande di Confucio, sorpreso dalle sue abilità natatorie rispose così: So come calarmi in un vortice discendente e come uscirne da uno ascendente. Seguo la via dell’acqua e non faccio nulla per oppormi ad essa. La sua natura è la mia natura

Senza dubbio dovevano essere Nuotatori “veri” anche quelli citati da Virgilio nell’Eneide: “Rari Nantes in Gurgite Vasto”, i sopravvissuti al naufragio della flotta di Enea. E allora, non ci resta che tornare presto a nuotare, stavolta consapevolmente. Perché, in tanti e troppi casi la distanza che separa il Nuotatore dal terrestre, purtroppo combacia perfettamente con quella che separa la vita e la morte… e perché la sopravvivenza in acqua, al di là di ogni sofisma, è lo scopo ultimo e l’essenza stessa del Nuoto.  

“Primum vivere, deinde philosophari”, dicevano gli antichi romani.

(Apollonio di Giovanni (1415-1465), “Rari Nantes in Gurgite Vasto”, miniatura. Firenze, Biblioteca Ricciardiana) (da internet)

Un pesce andò da un pesce-regina e gli domandò: “Sento sempre parlare del mare, ma cos’è questo mare? Dov’è?” E il pesce-regina rispose: “Tu vivi, ti sposti e trascorri la tua esistenza nel mare. Il mare è dentro di te e fuori di te.Tu vieni dal mare, sei fatto di mare e finirai nel mare. Il mare ti circonda come il tuo proprio essere”. (antica storia Indù)

www.aquawareness.eu




PATRIAE UNITATI e CIVIUM LIBERTATI

L’Altare della Patria

Ogni 2 giugno il Presidente della Repubblica, rende omaggio all’ALTARE DELLA PATRIA con la deposizione di una corona d’alloro.
L’ Altare della Patria, inaugurato il 4 giugno 1911, raccoglie, nelle sue sculture, la storia dell’unità d’Italia e i simboli della Repubblica.
Eccone alcuni:

2 gruppi scultorei in bronzo dorato rappresentano i valori degli italiani: PENSIERO e AZIONE.

4 statue in marmo botticino che simboleggiano i valori morali degli italiani e i principi ideali che rendono salda la nazione: FORZA, CONCORDIA, DIRITTO e SACRIFICIO.

14 bassorilievi di CITTÀ NOBILI italiane posti alla base della statua di Vittorio Emanuele II. Si tratta di capitali delle antiche monarchie italiane preunitarie e delle repubbliche marinare, perciò non necessariamente delle più importanti d’Italia
Queste città, considerate “madri” della Patria sono TORINO, VENEZIA, PALERMO, MANTOVA, URBINO, NAPOLI, GENOVA, MILANO, BOLOGNA, RAVENNA, PISA, AMALFI, FERRARA e FIRENZE.

16 statue nel fregio sopra il grande portico personificano le REGIONI italiane. Ogni statua si trova in corrispondenza di una colonna.

2 quadrighe: visibili da tutta Roma, simboleggiano l’UNITÀ e la LIBERTÀ.

2 iscrizioni latine poste sui frontoni dei sottostanti propilei, richiamano i due concetti cardine che informano l’intero monumento: LIBERTÀ DEI CITTADINI (“Civium Libertati”) e UNITÀ DELLA PATRIA (“Patriae Unitati”).

2 fontane dei maggiori mari italiani: a sinistra il MARE ADRIATICO e a destra il MAR TIRRENO.

Cieli sereni 🇮🇹
PG




Non è mai una persona sola a morire. Ad ogni sparo, moriamo tutti, un pò.

David D’Amore_China su Carta

di Redazione Fuori

Gli Stati Uniti hanno il non invidiabile primato, tra i Paesi occidentali, di morti per arma da fuoco. 

Nel 2020 si è raggiunto il numero più elevato di vittime, 578, il che significa più di una al giorno.

La crescita, rispetto agli anni precedenti, è stata esponenziale [Negli Stati Uniti circolano circa 380 milioni di armi a fronte di una popolazione di 319 milioni di abitanti].

Sono dati di cui i politici statunitensi sono al corrente, ovviamente, eppure puntualmente ad ogni strage di innocenti come quella dei giorni scorsi, si riaccende il dibattito sull’uso indiscriminato delle armi, accessibili praticamente a chiunque.

Dibattito che, come era facile prevedere, non riesce mai a fare passi in avanti, nonostante la situazione ed i numeri siano drammatici.

Biden, così come aveva fatto Obama prima di lui, e un po’ meno aveva fatto Trump, si è presentato davanti alla nazione per reclamare una limitazione del commercio e detenzione delle armi.

Dichiarazione scontata, diremmo formale, che ha ottenuto meno risonanza ed efficacia di quella del coach dei Golden State Warriors, Steve Kerr, che durante la conferenza stampa antecedente una partita ha denunciato in maniera chiare ed inequivocabile le ragioni per le quali oggi, come ieri, la legge per la riduzione dell’uso delle armi da fuoco, sia ferma a causa di interessi economici e politici.

Quali sono in effetti i motivi? 

La Costituzione americana, le sentenze della magistratura, e soprattutto il peso delle lobby sono i fattori che fino a oggi hanno sbarrato la strada a ogni tentativo di «disarmo».

Il secondo emendamento della Costituzione americana consente ai privati cittadini di possedere armi. “Essendo necessaria alla sicurezza di uno stato libero una ben organizzata milizia”, recita testualmente la legge, “il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto”.

Una roccaforte inespugnabile  dunque, protetta da una legge fondamentale che funge da pietra angolare della Costituzione americana, e che scaturisce dalle guerre di indipendenza contro britannici e spagnoli.

Qualsiasi tentativo di intervenire su questa, che più che una legge è una filosofia propria dei cittadini americani, è risultato vano.

Nel 2008, una sentenza della Suprema Corte ha ribadito la piena legittimità del secondo emendamento, dichiarando illegittima una legge di uno Stato membro, che cercava di limitare il possesso e l’uso delle armi.

Nel 1994 Bill Clinton approvò una legge (poi abolita nel 2004) che proibiva il commercio di armi da guerra per uso privato, ma l’anno successivo i democratici persero le elezioni di Midterm anche a causa di questa iniziativa, che ostacolava l’azione delle potentissime Lobby favorevoli alle armi.

Nel 2012, dopo la strage di Sandy Hook (26 morti) Barack Obama tornò a chiedere una limitazione ma la proposta non passò.

( Il massacro di Sandy Hook però segnò un precedente di storica rilevanza: per la prima volta una fabbrica di armi accettò di risarcire le vittime della sparatoria , versando 73 milioni di dollari alle 9 famiglie che le avevano fatto causa).

E oggi? Alla luce della ennesima strage di innocenti bambini , quante possibilità ci sono che una riforma della legge vada in porto? 

I numeri sembrano non dare speranze.

Il Senato, dove i democratici possono contare sul 50% dei voti, resta un ostacolo insormontabile.

Per modificare una legge serve almeno il 60% dei voti e dunque il 10% dei repubblicani, storicamente contrari all’abolizione, dovrebbero votare contro il loro stesso partito. 

Scenario impossibile perché un peso determinante nel settore del commercio delle armi è esercitato dalla NRA, la lobby dei produttori, che finanzia e supporta molti senatori e politici repubblicani.


https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2022/05/25/strage-in-una-scuola-elementare-a-uvalda-in-texas-21-morti-_e20dd8bf-8a99-407b-aba2-05d97e240ae2.html




La vocazione di Orest [Dmytro Kozatskiy]

Foto di Dmytro Kozatskiy

di Redazione Fuori Online.

Il soldato-fotografo Dmytro Kozatskiy, che si fa chiamare “Orest” , è stato catturato dai russi e ha usato il suo profilo Twitter per congedarsi dal mondo.

“E’ fatta.Grazie di tutto dal rifugio di Azovstal. Luogo della mia vita, e della mia morte”.

A questo link tutte le foto che ha chiesto a chiunque di poter condividere.

https://drive.google.com/drive/mobile/folders/1efz3M_yHIJG6EYB57J9Di8V85MJco51I?usp=sharing




Watch up!

Luoghi geometrici…non comuni!




Magna Rita

la colossale statua di Santa Rita da Cascia a Santa Cruz, Brasile

Nelle vicinanze della città di Santa Cruz, in BRASILE, nello Stato del Rio Grande do Norte, si trova una colossale statua di Santa Rita da Cascia.
È la statua religiosa cattolica più grande al mondo! Si noti, nella figura, il confronto con altre due famosissime statue: il Cristo Redentore del Corcovado a Rio e la Statua della Libertà a New York.

La città di Santa Cruz organizza ogni 22 maggio, una grande festa dedicata alla Santa e alla quale, mediamente, partecipano non meno di 60.000 persone provenienti da ogni angolo del Brasile.

Viene ricordato che il fondatore della città di Santa Cruz sarebbe stato un oriundo italiano devotissimo a Santa Rita da Cascia approdato in questo territorio nel 1825.

Santa Rita è la Patrona di CASCIA e co-patrona di NAPOLI, della famiglia, delle donne sposate infelicemente e dei casi disperati e apparentemente impossibili.

In ITALIA Santa Rita è festeggiata in diverse località: in Calabria a ROMBIOLO (VV), in Campania ad AVELLINO, in Lombardia a CONSIGLIO DI RUMO (CO), in Piemonte a TORINO, in Puglia a CONVERSANO (BA), in Sardegna a PATTADA (SS), in Sicilia a CASTELVETRANO (TP) e in Toscana a SESTO FIORENTINO (FI).

CURIOSITÀ
Santa Rita da Cascia risulta la Santa più invocata sui social network per ottenere una guarigione miracolosa dal Covid-19.




La Valigia.

di Valeria Frascatore_

Guardo la valigia. 

Non sono mai stata brava a organizzare gli spazi. I pieni e i vuoti, soprattutto. Amo le cose fatte alla rinfusa. 

Ci sto dentro, nel groviglio: occuparmi della matassa dei pensieri è il mio catalogo di viaggio da spulciare.

Consapevolezza di un andare che resti e restituisca il senso dello spostamento dal proprio baricentro.

Intendo provarci.

Sperimentare. 

Parto, sì. Perché il pensiero ha bisogno di estensione verso la chiarezza, come il passo si allunga naturalmente in direzione di spazi ampi. E sgombri.

Libertà da ingombri. Dicono sia un obiettivo eleggibile per chi vuole scrivere una storia che non obbedisca a logiche precostituite.

Non riesco a pensarmi confinata in un’idea lineare: cammino a zig-zag per il mondo e vivo di equilibrismi appesi a un filo di voce.

Il megafono lo lascio agli specialisti del rumore. Preferisco che sia un serrato bisbiglio a preannunciare il mio arrivo.

Quante volte, sull’orlo del baratro, gridare e ridere a precipizio mi ha salvato la vita, permettendomi di silenziare il frastuono delle allusioni insensate.

Ho imparato ad amarlo, il silenzio. Riempiendolo di tremiti e di vibrazioni che mi arrivano forti, quando mi capitano sfioramenti di pelle. Di quelli che producono energie indefinibili con il metro umano.

Io spezzo i discorsi con le mani quando non riesco a prendere a morsi la durezza della vita, interrompo la catena dell’ovvio e mi perdo alla ricerca di curiosi indizi, disseminati tra gli scomparti.

Sto mezza aperta e mezza chiusa, abbarbicata a una cerniera rotta da cui sbucano sbuffi e saluti. 

Il bagaglio è ancora lì. Sbilenco, più di sempre.

Ostaggio di chiaroscuri, nel livido ombreggiare di una tenda scossa dal vento che ne camuffa le pieghe: pronta  per affrontare il cammino io non lo sono stata mai. 

Ma arriva un momento in cui rispondere a un’esigenza diventa imperativo categorico, è vera e propria terapia per l’anima. Aria buona per rinfocolare il cervello.

Coltivo il desiderio di capi leggeri, di indossare morbidamente le inquietudini. Me le lascio scivolare addosso senza imporre alcuna destinazione: seta per il cuore, velluto per la mente, broccato per il corpo. 

Rotola dal comodino una biglia di vetro colorato. Si strazia su e giù per il pavimento, inciampando in me e nella mia indecisione. È alla deriva, in un mare di destinazioni possibili.

Ne osservo il moto convulso e ascolto il fruscio che genera il suo sfregamento sul parquet. Mi imbambolo mentre pesco dai cassetti e frugo alla ricerca di frammenti, di ricordi da trascinare via.

Mi chino a raccogliere la biglia e la faccio ruotare sul palmo della mano: il rumore è diverso. Sono cambiati i pensieri. Io non sono più io.

Mi frugo nelle tasche piene di ipotesi ardite: so che sarò altro da me, al rientro. Un percorso mi aspetta mentre rifletto su come aspettarlo.

Non temo il vicolo cieco, lungo il quale si cammina a passo d’uomo: mi fa più paura l’autostrada della bestialità dalla vista perfetta, tripla chance di corsia dove se non sorpassi e vai a velocità costante, rischi di bruciare il motore o di rimanere asfaltato.

Penso che se dovesse ospitarmi un treno, lo spingerò via dal binario morto, se sarà un aereo volerà anche con un’ala sola e a piedi camminerò con una scarpa sì e una no: un viaggio viaggia da sé, anche così. 

Non serve pianificare, serve volere fortemente uno slittamento di asticella in alto. Una lieve traslazione di parabola verso un esito dai contorni più definiti.

Ho deciso che i tabù sono fatti per essere infranti e anche noi siamo fatti per disintegrarci tra amori folli e legami ruvidi, figli di bagagli semi disfatti.

Stropicciati, ci sparpagliamo nell’aria quando il vento vuole disperderci e ci ricomponiamo magicamente come puzzle perfetti quando, placato il suo impeto, finalmente la natura si riposa. 

Nella mia valigia ho chiuso il disagio della fissità di uno schema, un’educazione fredda e rigida come il marmo di questo pavimento che, ormai, ondeggia sotto i miei piedi portandomi dritta al mare, tra flutti e spruzzi da cui ho capito che è inutile ripararsi.

Mi mancherà tutto di questi luoghi, mi mancherà chi mi ha fatto compagnia abitandoli con me, mi mancherà la me che li ha vissuti col desiderio di renderli animati e parlanti. I luoghi siamo noi, permeati di luce e di emozioni vive e vere, che li attraversiamo rendendoli indimenticabili per la mente e per l’anima.

Sto fissando la valigia. La guardo prendere forma e plasmarsi, rinnovata nel turgore. Il tessuto è finalmente teso, senza grinze e pieghe: tutto ha una collocazione e anche i pieni fanno pace coi vuoti.

Ho scoperto che non ho un biglietto. Ho solo un invito a raggiungere il molo. E un disegno. Raffigura una imbarcazione a vela, candida come il cielo, quando si addensa di nuvole che precedono la tempesta. Ha un timone di legno, imponente e lucido. Dicono che la barca sia affidata a una donna esperta ma volubile che non ama i tentennamenti. Chi decide di salpare non ha modo di cambiare idea. Si affida. Come, a volte, capita anche nella vita.

Mi sono affidata tanto nella vita. Ho assecondato, ho accontentato ed elargito senza mai tenere niente per me. Il mio cuore lo sa e ha pagato più volte dazio per questo.

Ora basta. Ora c’è una nave che salpa. E io ho la valigia giusta per questo viaggio. E sono la donna giusta per affrontarlo con la consapevolezza della fruttuosità e dell’arricchimento che da tale esperienza mi deriverà.

Porto con me un taccuino, una penna e il mio pc. Poche cose che significano tanto, tutto per me.

Parto per un viaggio lungo come il mio bisogno di ritrovarmi, dentro e fuori.

Ne parlerò, ne scriverò, lo racconterò senza filtri.

E so che sarà bellissimo.


Valeria Frascatore_

Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.