Si è sempre associato il gioco degli scacchi ad una rappresentazione simbolica di una guerra strategica, una attività tipicamente machiavellica.
Ma io li ho sempre considerati come una sorta di ragionamento esasperato, di lucida follia, che può portare ad un black out mentale.
Il ragionamento estremamente razionale, portato alle estreme conseguenze, ti può a volte trascinare in un loop astratto dove il pensiero rischia di perdersi, e così la ragione.
Per questo si parla di ossessione, e di conseguenza, è facile comprendere perché la letteratura spesso si avventura lungo il cammino cercando di seguirne il filo, fino a sfiorare e in certi casi, raggiungere la follia.
Seguire il proprio ragionamento e quello del proprio avversario cercando di anticiparne le mosse, in un rincorrersi di aspettative e conoscenza di se stessi e dell’altro, è tipico di un certo tipo di psicoanalisi, e dunque ha a che fare in senso lato, anche con la pazzia.
Tra le migliaia di libri che trattano l’argomento, alcuni possono presentare sfaccettature interessanti che ovviamente invito ad approfondire. “La difesa di Lužin” di Vladimir Nabokov ad esempio, spiega in qualche misura quanto ho descritto. L’autore, appassionato giocatore degli scacchi, ammette che nel corso dei suoi vent’anni d’esilio ha dedicato un’enorme quantità di tempo alla composizione di problemi scacchistici, al punto che si rammarica che negli anni più prolifici della sua vita, lo studio maniacale del gioco e delle sue infinite potenzialità mentali, abbia preso così tanto tempo da fargli trascurare altre esperienze, che rimpiange di non poter ormai più fare. La vita del protagonista del romanzo, Lužin, era fatta di pedine da muovere sulla scacchiera; di strategie nuove da creare ogni volta, di partite da vincere, di avversari da battere. Fuori dalla scacchiera, nulla ha senso per Lužin, e nulla davvero esiste. La resa dei conti di questa “malattia” si riassumente nella convinzione che porta il protagonista del racconto a convincersi che una perversa combinazione di mosse sia stata ordita dalla vita contro di lui e che debba escogitare una difesa valida per non soccombervi.
Samuel Beckett, nel suo romanzo “Murphy” sceglie di far ruotare tutta questa ossessione intorno al protagonista che, verso la fine del romanzo, gioca un’epica partita a scacchi con il signor Endon. Murphy inizia a lavorare come infermiere in un ospedale psichiatrico e scopre che la pazzia dei pazienti è un’attraente alternativa all’esistenza cosciente. Attraverso le potenzialità artistiche e metaforiche degli scacchi, cerca senza riuscirci di riprodurre il gioco simmetrico e ciclico del suo rivale, nella stessa misura in cui è incapace di lasciarsi andare a manifestazioni che non siano speculari a quelle del suo malato avversario.
Il legame tra un’innata propensione al gioco degli scacchi e l’incompetenza sociale, sia determinata da una qualche forma di malattia mentale o meno, è così stretto nel nostro quadro immaginifico da diventare un tratto caratteristico che va a incastrarsi nella descrizione di un carattere timido e schivo. Senza voler approfondire troppo l’argomento,negli anni Settanta del secolo scorso era diventato di moda credere che lo schizofrenico nella sua follia sia in un certo senso più vicino alla verità di noi tutti, nella nostra cosiddetta sanità.
“La novella degli scacchi” di Stefan Zweig non è come nei casi precedenti un romanzo, ma un racconto che l’autore scrisse nel 1941, pochi mesi prima di suicidarsi, nel pieno della seconda guerra mondiale e ovviamente dell’incubo nazista. In questo caso,la componente angosciosa è largamente presente, come una sorta di marchio indelebile. Tema centrale del racconto sono ovviamente gli scacchi, mondo a cui l’autore si appassionò negli anni in cui visse a Petropolis. Gli scacchi erano per Zweig l’unica vera distrazione dal lavoro. La trama di partenza è semplice. A bordo di una nave da crociera il dott. B. e il signor Czentovič, giocano una drammatica partita a scacchi, come nel capolavoro di Ingmar Bergman, Il Settimo sigillo. Intorno alla scacchiera si sfidano due persone profondamente diverse. Il dottor B. è dotto, elegante, rappresentante della cultura del vecchio mondo, colta e raffinata, di quell’età d’oro di matrice Ottocentesca, a un passo dal definitivo tramonto. L’altro, invece, nonostante sia il campione mondiale in carica, è un uomo rozzo, arrogante e profondamente venale, espressione di quel mondo che si sta sfrontatamente affermando.Non si tratta di una semplice partita ma di una vera e propria resa dei conti con la vita. Una sfida fra due uomini diversi ma uniti dal mistero e da due esistenze avvolte in una enigmatica nebbia.
Con rare eccezioni, i personaggi delle storie citate vivono in funzione del loro mestiere e sembrano vedere il mondo attraverso il filtro di una scacchiera, avendo di fronte personaggi fortemente alienati dal mondo, vivi e capaci quasi esclusivamente quando si tratta di giocare. In tutti i casi è presente un forte dualismo, una contrapposizione appassionata tra scacchisti che si considerano l’uno la nemesi dell’altro. La presenza di un acerrimo rivale è quasi obbligata, e nel caso degli scacchi è curioso notare come a questo violento dualismo si accompagni un’evidente vena sociologica.
In fondo, il giocatore di scacchi è libero di scegliere ad ogni mossa varie possibilità. Ma ogni mossa comporterà una serie di conseguenze ineluttabili. La necessità di compiere un certo tipo di mossa, determinerà il risultato finale, facendo si che questo non sia il risultato del caso, ma di una decisione consapevole e ragionata. Un confronto tra libertà e destino, fra conoscenza e impulso. Tra ragione e follia.
Note sull’autore_
Borislav Mancini è nato a Kiev nel 1964 dove il padre Pietro, ingegnere, lavorava per una multinazionale italiana. La madre Alina Solovyova appartiene ad una famiglia altolocata della capitale ucraina.
Trasferitosi in italia da ragazzo, ha compiuto gli studi superiori a Roma prima, e Udine successivamente dove si è Laureato in Lingue e letteratura extraeuropea presso l’università di Udine. Appassionato di scacchi sin da bambino, è stato nella TOP 100 del Live rating mondiale.
Un tempo si diceva di noi italiani “popolo di poeti, santi e navigatori” ma, di questa gradevole descrizione, pare non esserne rimasta traccia nel nuovo mondo, essendo stata sostituita, da molto tempo ormai, dalle parole d’ordine che ci etichettano senza possibilità di replica: pizza, spaghetti, mandolino e… mafia!
Richard Nixon, particolarmente noto per il suo essere integerrimo, onesto, trasparente e ligio alle regole, ebbe a dire “gli italiani, tutti conniventi con la mafia, non puoi trovarne uno che sia onesto”. Certo, detto da lui è un po’ come sentirsi dare del mafioso da Totò Riina, che non sai se ridere o piangere.
Bob Marley (personaggio molto meno ambiguo del precedente, ma altrettanto universalmente noto) dal canto suo ebbe a dire, scivolato il discorso sulla credibilità dei giornali: “È vero che tutti gli italiani mangiano pizza e sono mafiosi? Perché è questo che scrivono i giornali”.
Analizzando la considerazione che gli Americani hanno dell’italoamericano medio (in particolare) e dell’italiano più in generale, ne viene fuori un ritratto disastroso, un elenco infinito di stereotipi, di miopia che non permette di vedere la propria immagine e i propri difetti allo specchio, in un coacervo di preconcetti, più dannosi che inutili.
E così i “poeti santi navigatori” diventano, nella visione a stelle e strisce, una banda di pseudo mafiosi, corrotti e corruttori, dalle scarse capacità professionali, dalla bassa statura intellettuale e dall’ancor più bassa statura morale, caciaroni e disordinati, più propensi all’impiego dipendente – meglio se statale – che non all’imprenditoria privata, al lavoro fatto di furbi e truffaldini espedienti e alla vita al di sopra delle proprie possibilità.
Che meraviglia! Questo è quello che negli USA dicono e pensano di noi.
Certo, dicono anche che, almeno storicamente, abbiamo espresso grandi geni e artisti, che siamo ottimi cuochi, che costruiamo belle macchine (de gustibus…) e che di moda ne sappiamo una più del diavolo, anche quando quest’ultimo veste Prada, ma solo in patria. Una volta giunti negli States, pare che si subisca una metamorfosi regressiva impossibile da evitare, nonostante, per linea di massima, siamo comunque apprezzati sul posto di lavoro (ipocrisia?).
L’italoamericano medio diventa, nell’immaginario collettivo, il cittadino di serie B, di classe bassa e di bassa cultura, il pizzaiolo, il poliziotto corrotto, il vigile del fuoco imboscato, il mammone rissoso e spaccone, il gigolò semi analfabeta, palestrato e pieno di brillantina che, per avere un’alternativa, al pari di portoricani e afroamericani, è costretto ad arruolarsi nell’esercito o a lavorare per il mafioso della zona.
Un ritratto ampiamente negativo, ribadito nei tanti, troppi, reality show e telefilm che, oltre oceano, deridono quella fetta della loro stessa popolazione, che ha come marchio d’infamia le origini italiane. Un esempio di estremizzazione dell’immaginario collettivo è l’ennesimo programma donatoci dalla televisione spazzatura, quel Jersey Shore che, mi auguro, non sia più in palinsesto, a tal punto offensivo nei confronti degli italiani d’esportazione e talmente dozzinale nell’uso dei preconcetti, da aver scatenato più volte la furiosa reazione di UNICO National, l’associazione degli italoamericani del New Jersey.
Che poi sia (lo scontro fra classi ed etnie) affidato a programmi di bassissima lega, che vanno in onda sui peggiori e secondari canali televisivi, la dice lunga sul livello culturale della diatriba.
Ma sia chiaro che, la televisione, come qualsiasi altro media generalista, non ha responsabilità dirette, al di fuori delle sue legittime scelte di marketing (parliamo di TV commerciale). Essa offre solo ciò che il pubblico richiede ed è disposto a guardare. La colpa, se di colpa vogliamo parlare, è di chi annichilisce la propria psiche e imbavaglia il proprio intelletto per dedicarsi a tale pattume mediatico.
Il fatto che i migliori scienziati operanti negli States siano italiani, passa in secondo piano, diventa irrilevante in un discorso denigratorio che si muove per schemi e per slogan. Per l’americano medio, quello che voleva rendere ancora grande l’America e chiudere le frontiere, tutto passa in secondo piano, in questo relativismo concettuale: a dispetto di mille prove a discarico, l’italiano resta, sempre e comunque, colui che ha esportato la mafia.
Touché!
Purtroppo la forma mentis in questione non è solo americana, ma è un male comune, fatto di becero e inutile campanilismo, che spesso sfocia in un altrettanto inutile razzismo, condito dall’ignoranza degli altrui usi e costumi e da una pretesa di superiorità del tutto immotivata. A titolo di esempio, è utile ricordare che, in alcuni Paesi del centro/est Europa, per bollare come tonto (nel senso di poco sveglio) qualcuno, spesso gli si dà dell’italiano.
Esattamente allo stesso modo in cui noi italiani usiamo l’appellativo “zingaro”, seppur veicolando ben altro significato di pari ignoranza.
Molto più facile parlare male dello straniero e del diverso, ingigantirne i tic, alimentare le leggende metropolitane che lo riguardano, piuttosto che provare a capire le diversità e farne tesoro, allargando la mente e gli orizzonti, perché se è vero che a tutti possiamo insegnare qualcosa, è altrettanto vero che da tutti, ribaltando la questione, abbiamo qualcosa da imparare. Ciò che è diverso va combattuto in quanto anormale turbativa della nostra omeostasi culturale, della nostra normalità il cui contrario è la diversità più denigratoria, qualunque cosa voglia significare essere normali.
Noi stessi non siamo immuni al nefasto atteggiamento e, dimentichi delle nostre peculiarità comportamentali, in patria e fuori, pretendiamo di essere gli unici depositari della cultura e della giustizia, oltre che della civiltà stessa, nel resto del mondo, pretendendo di chiudere a doppia mandata quelle frontiere che, quando fu il nostro turno d’andar per il mondo, pretendemmo aperte. E così, anche in Italia, si ragiona per compartimenti stagni. Lo spacciatore è sempre marocchino, lo stupratore è sempre rumeno, albanese o nigeriana la prostituta, giusto per citare alcuni esempi diffusi (un sempre pretenzioso e assoluto, che non trova conforto nei dati e nelle statistiche annuali del Viminale), come se infangare le altre etnie, gli altri popoli ci rendesse degni di rispetto. Come se, denigrando gli stranieri, potessimo finalmente sentirci un popolo (cosa che mai siamo stati e, forse, mai saremo).
Come se, in senso generale, buttare il fango addosso agli altri, ci rendesse automaticamente e senza sforzo più puliti e brillanti!
Due pesi e due misure, a celar la xenofobia di fondo che imbratta il ragionamento e che ci porta a chiedere a gran voce l’espulsione immediata dal Paese, dello spacciatore africano, arrestato con otto grammi di hashish, ma che non ci ha spinti a chiedere lo stesso provvedimento per i Riina, i Provenzano, i Mutolo, gli Schiavone, gli Zagaria e tutto il resto della feccia mafiosa!
Tutto il mondo è paese, certo, e ovunque ci sarà sempre chi parla male degli altri, degli stranieri, dei diversi, di coloro che non sono da considerare normali, secondo standard del tutto soggettivi. Perché, in fin dei conti, siamo tutti stranieri, se visti dal di fuori dei nostri confini. Ciò dipende solo dal punto di osservazione. Troppo difficile vedere, capire e risolvere i propri comportamenti sbagliati e le proprie pessime abitudini. Troppo complicato far tesoro delle differenze tra popoli, arricchendosi d’esperienza e di conoscenze nuove, scoprendo realmente i nostri interlocutori, liberandoci così, dalle sterili generalizzazioni e di quel nugolo di muffose convinzioni stereotipate.
Molto meglio, più facile e veloce, indolore quasi, additare gli altri, generalizzando e sparando nel mucchio, a volte solo per partito preso e per appartenenza politica. O religiosa.
Cambia il paese, ma le cattive abitudini no, quelle restano e si moltiplicano. Come la gramigna!
La pessima abitudine di notare le cose sbagliate solo se fatte da altri stenta a morire e, anzi, gode di ottima salute se non, addirittura, di vita eterna. E così, quella serie di sciocchezze e stereotipi che noi usiamo nei confronti degli stranieri, residenti o meno in Italia, per sentirci migliori e mascherare le nostre umane miserie, altrove (soprattutto oltreoceano) resta identica.
Cambia solo il bersaglio, il destinatario dell’insulto: questa volta, nel mirino ci siamo noi italiani!
Noi che, in patria, ci sentiamo depositari della cultura, dell’arte, di tutto ciò che è bello e sano, padri fondatori della civiltà moderna, profondi conoscitori della vita e del mondo intero (senza magari aver mai viaggiato) come se il resto del mondo fosse una nostra provincia, come se gli orologi della storia fossero rimasti fermi all’impero romano o al rinascimento. Noi che pretendiamo di essere migliori degli altri, di saperne una più di loro e che, di ognuno di loro, essere più furbi. Salvo poi vivere in una stagnazione economica secolare che, da sola, la dice lunga sulla nostra evoluzione e sul nostro essere perennemente il fanalino di coda europeo nelle innovazioni e nell’integrazione tra Paesi.
Noi italiani abbiamo tanto da dire, altrettanto da fare e grazie al quale farci volere bene. Ma ciò non accadrà se, noi per primi, non usciamo dal gorgo degli stereotipi, dei meriti ingigantiti e delle colpe delegate.
Denigrare gli altri per sembrare migliori noi stessi. Il concetto resta uguale, da qualunque angolazione lo si guardi. Cambia la lingua come la bandiera, ma questo atteggiamento distruttivo resta solo un dito puntato contro il nulla, quale che sia il colore della sua pelle.
Nota sull’autore_
Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano. Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.
Un farabutto esistere.
di Carlo Marrone_
A Ischia, dove passo diversi mesi l’anno, naturalmente quelli che vanno dalla primavera all’autunno, c’è un piccolo ristorante che denuncia la propria particolarità già nel nome, “Cozze Anonime”, e che apre un solo giorno la settimana.
Anzi, non tutte le settimane: solo tre su quattro e solo nei mesi estivi e primaverili, quelli in cui vivo la stagione pure io.
A Marzo apre solo il tempo di far prendere aria ai locali rimasti chiusi di inverno, togliere la muffa ma, se è ispirato, e non è affatto detto che ciò accada, il proprietario decide di dar da mangiare a che ne faccia richiesta.
Non posso mettere una foto che lo mostri, perché il titolare me lo proibisce tassativamente.
Perfino a me, che sono ormai da anni il suo cliente preferito.
Non è una cosa irrilevante, perché si tratta del ristorante, dicono, più richiesto al mondo.
Mi spiego meglio: io, come cittadino onorario (quale mi sento) di questo piccolo paesino che si affaccia sul golfo di Napoli, valgo come uno zircone in una cesta di diamanti. Eppure, in questo ristorante, io arrivo senza prenotare mentre i proprietari degli Yatch che ormeggiano nel pontile di fronte, attendono mesi per ottenere la prenotazione, e spesso devono chiamare ad inizio primavera per assicurarsela.
Questo privilegio dipende dal fatto che ormai dieci anni fa, salvai il cane del proprietario del ristorante, che era caduto in acqua mentre abbaiava ad una barca che stava facendo manovra, rischiando di restare schiacciato tra banchina e scafo.
Il giorno dopo quel salvataggio, mentre ero al bar a prendermi il mio abituale caffè mattutino seduto al solito tavolino con vista sul mare, forse informato dell’evento della sera precedente, il titolare del ristorante venne a ringraziarmi.
Mi ero guadagnato l’eterna riconoscenza del titolare de “la cozza anonima”.
Luigi, è un uomo di circa 65 anni, pienotto, con la faccia butterata ed un sorriso indecifrabile. Mi ricorda Charles Bukowski . Non è quello che si dice un bell’uomo eppure, e non so come sia possibile, ha più fascino di molti altri che magari sono oggettivamente considerati belli.
La bellezza non ha misure o regole ferree, non è vero che sia oggettiva.
Il giorno in cui scrissi questo racconto, mi trovavo dunque seduto al ristorante, nel tavolo all’angolo che ormai era diventato quasi di mia esclusiva pertinenza, e stavo aspettando mi portassero il piatto che secondo me non ha eguali al mondo.
Una carbonara di mare con cozze, capesante, guanciale, ricotta salata e gamberi. Se venisse replicato da qualunque altro cuoco al mondo, sono sicuro che risulterebbe immangiabile.
Mentre mi gustavo il piatto, con un ottimo bicchiere di vino bianco freddo, naturalmente un Mamertino di Milazzo DOC, notai che l’uomo nel tavolino di fronte a me, veniva trattato con grande rispetto e un signore anziano gli stava facendo firmare una foto.
L’uomo, anziano anche lui, doveva essere stato una celebrità ma, onestamente, non riuscii subito a riconoscerlo.
Aveva i capelli lunghi e bianchi ed una barba dello stesso colore malcurata, anch’essa lunga.
Provai a guardare di sfuggita la foto sulla quale stava scrivendo la sua firma, risalente a quando era giovane. Poteva essere stata una rockstar, forse un chitarrista di una band inglese del periodo hippy, anche perchè nella foto che stava firmando, alle sue spalle, si notavano delle tribune di uno stadio.
La foto era così originale, anzi unica, da rimandarmi indietro con la memoria al punto di farmi ricordare il nome dell’uomo: Ezio Vendrame, giocatore di calcio negli anni 70, talento e indisciplina da vendere, uno dei primi dissacratori del sistema, un visionario.
Mentre visualizzavo le figurine che avevo collezionato e che lo ritraevano, non mi ero accorto che lo stavo fissando e, prima che potessi trovare qualcosa da dirgli, di solito sono banalità, si rivolse a me anticipandomi con un “noi due ci conosciamo forse? È stato un calciatore pure lei? “
No, gli risposi, ho giocato anche io a pallone ma come dilettante, ora più che altro mi piace scrivere. Scrivere di storie di uomini che possono aver lasciato un segno del loro passaggio. Possiamo bere un bicchiere insieme?
Il Campione mi avvicino una sedia come ad invitarmi, e io mi sedetti al suo tavolo.
Nella località dove mi trovavo, c’era un hotel frequentato da personaggi noti, attori, sportivi, anche politici molto importanti, spesso.
La mattina di quella giornata avevo avuto l’occasione di parlare con un regista famoso ed una attrice altrettanto nota, entrambi ospiti del festival del cinema che si teneva li ogni anno, ma sedermi vicino a Vendrame, per me era di gran lunga il momento più emozionante della giornata.
Ezio Vendrame era unico. Personalmente lo ritengo, insieme a Paolo Sollier, per la politica, e naturalmente Gianfranco Zigoni, considerato anch’egli un anomalia nel sistema calcistico dell’epoca, tra i pochi giocatori che per meriti non esclusivamente sportivi, hanno il diritto di restare nella storia di questo sport.
Anche Gigi Meroni, che andava in giro con una gallina, e la cui tragica morte forse lo ha aiutato ad entrare nel mito, non aveva lo stesso carisma e spessore di Vendrame.
La cultura sportiva, in Italia, e anche in alcune redazioni, manca completamente. Intendo dire la cultura vera, quella che al di là della disciplina sportiva specifica, riesce a raccontare storie di uomini che non sono passate inosservate e che anzi spesso vengono tramandate.
Superate le domande formali sul tempo e sullo stato di salute, cosa peraltro ipocrita e di cortesia, perché all’apparenza i suoi 73 anni non erano molto ben portati, gli chiesi se fosse vero l’episodio di quando giocava nel Vicenza e si rivolse ad un gruppo di tifosi rimproverando loro di osannare una persona che si limitava a giocare a calcio.
“ beh..oggi una dichiarazione del genere, nella superficialità ideologica che dilaga, verrebbe messa in risalto e avrebbe un sacco di consensi ma allora eravamo in un periodo quasi di guerra civile, con gli operai fuori dalle fabbriche e le Brigate Rosse che facevano propaganda all’interno delle stesse, ed io onestamente credo che la mia uscita in fondo era anche un po’ banale e qualunquista…! “
Erano gli anni Settanta, i primi, e personaggi così non ce n’ erano molti nel calcio: capelloni magari sì, estroversi pure, ma spregiudicati e spontanei anticonformisti no, non molti davvero.
“Del calcio non mi fregava nulla neanche allora: le pressioni, l’ansia del risultato, le restrizioni alla vita privata, tutta roba che mi faceva schifo. Allora in campo mi inventavo qualcos’altro: era il mio modo per ripagare tutta quella gente che, chissà perché, mi veniva a guardare giocare”.
Un suo modo di sbeffeggiare quello che in fondo era il suo lavoro, era racchiuso in un gesto irriverente. A volte quando aveva il pallone tra i piedi, in una azione in cui la sua squadra stava attaccando, si fermava all’improvviso, saliva con entrambi i piedi sulla palla, e con la mano sopra la fronte a mo’ di vedetta, scrutava l’orizzonte.
“Era un modo per far capire che oltre al calcio, che era già allora era preso troppo sul serio, c’era dell’altro. Bisognava guardare oltre….“
Ma forse questo gesto era anche il suo trucco per esorcizzare qualcosa: una sorta di tensione interiore, una profonda sofferenza nell’ affrontare le domande della vita.
Ritiratosi a fine carriera in una frazione vicino al suo paese, Casarsa della Delizia, dove è sepolto Pier Paolo Pasolini, Vendrame rilasciò un giorno una intervistà a Gianni Minà, proprio sulla tomba del Regista e Poeta bolognese.
“ Minà voleva scusarsi di avermi fatto fare 250 km per una intervista che reputavo ignobile e mi propose di rimborsarmi la benzina. Ma io gli chiesi di raggiungermi al mio paese, Casarsa, al cimitero, dove gli avrei raccontato storie ed aneddoti. Gli dissi, “vieni che ti presento il mio compaesano più vivo di tutti, peccato che sia morto…”
Un altro poeta, e cantautore, Piero Ciampi, suo grande amico, ha rappresentato il suo legame con la scrittura e la poesia.
“A Piero devo tutto. Quello che so l’ho imparato da lui. La sua morte mi ha sconvolto, al punto che decisi di smettere di giocare e dedicarmi a coltivare l’anima “
Diventa egli stesso poeta, pubblica raccolte di versi, soprattutto ricordi.
“Il calcio è una cosa volgarissima, rispetto alla poesia “ mi dice prima di sorseggiare un po’ del vino che stiamo condividendo.
“E da un bel po’ che sto male. Vorrei non pensarci, ma mi viene difficile non farlo. Me ne sto a casa, penso, rifletto, ogni tanto mi torna la voglia di scrivere, ma non sempre lo faccio. Esco poco ormai, fuori sono aumentate a dismisura le persone insopportabili. Il 23 dicembre mi barrico in casa e scrivo i miei versi. Riemergo all’Epifania perchè il peso delle Feste mi è insopportabile “.
“Se mi mandi in tribuna, godo” e “Una vita in fuorigioco” sono due dei suoi libri, che in fondo possono essere considerati una summa della sua vita.
“ .. si, ma ne ho scritti anche altri, erano un copia incolla di ricordi, ma che funzionava”.
Un elenco di racconti e verità, doping, partite truccate, sesso.
“Durante un Padova- Udinese mi offrirono sette milioni per giocare male, senza sapere quante volte avevo fatto schifo gratis…durante quella partita segnai direttamente dal calcio d’angolo e mi soffiai il naso con la bandierina posizionata sul corner ” ride, ricordando l’episodio.
Usa un linguaggio vietato ai minori che oggi sarebbe quanto meno, politicamente scorretto, come si (ab)usa dire.
«Ma sono le parole del calcio: i giocatori sono ragazzi, spesso ignoranti e maleducati, e non sono leccati e precisini come li vedete in tv. Non facciamo gli ipocriti».
Una istigazione all’autoerotismo…
“ Ragazzi, buttate nel cesso le vostre playstation e rinchiudetevi nei bagni con un giornaletto giusto in bella vista. Quando uscite, innamoratevi di una bella figliola: il sesso fai da te è bello, ma quello con una coetanea è meglio ..”
Comprensibile che la comunità rumoreggi, che parroci e curati non gradiscano.
La ricca e benpensante provincia del Nordest, non sopporta che i propri figli amino un beat, un reperto archeologico del Sessantotto.
Per sopravvivere e pagarsi l’affitto “ la proprietà è un furto ” mi dice, riprendendo uno slogan tanto caro negli anni ‘70, allena i giovani della Sanvitese.
“ il padre di un ragazzo che allenavo, mise un assegno in bianco in mano al presidente della Sanvitese: metti tu la cifra, basta che licenzi quel matto. “
Proposta respinta.
“Boniperti disse che con la sua testa avrei giocato in nazionale , ma io in nazionale ci gioco da sempre, perché da sempre io faccio quello che voglio, senza permettere a nessuno di poter vivere la mia vita ..io, discepolo di me stesso, arrogante, presuntuoso, vanitoso, asociale, masochista, egoista, e dunque libero ”.
La vita di Vendrame è fatta di amori maledetti, sofferti, passionali. Erotismo crudo a volte crudele. Paura della morte e della vecchiaia. Una tendenza a mettersi in discussione insopprimibile, anche se dolorosa, feroce.
Perché lo ha fatto? Perché non si è accontentato di tenere per sé tutto questo?
“Perché sento di vivere in un mondo in cui faccio fatica a stare, e forse scrivere è anche un modo per sentirmi meno isolato”
Parole, pensieri, poesie di un settantacinquenne che ha vissuto, e non certo soltanto di calcio: l’unico grande protagonista della sua storia tenuto al di fuori, emarginato, come una parentesi insignificante dentro un racconto di cose più serie.
“Qui a Casarsa si sono dimenticati di Pasolini, si figuri se potevano ricordarsi di me… ”.
Una testimonianza straordinaria, dalla viva voce di un campione degli anni epici: avevo persino la testa che mi girava, e non credo che dipendesse solo dal vino.
Lo ringraziai e lo abbracciai.
Avevo un appuntamento per il quale ero già in ritardo, e dovevo andarmene con una certa fretta.
Imboccata l’uscita, mi girai per guardarlo un ultimo istante.
Non c’era.
Non c’era nemmeno la foto autografata sul tavolino; la foto con cui avevo condiviso il mio bicchiere di vino in una fantasiosa chiacchierata che, a guardar bene, non aveva avuto alcun bisogno di essere reale.
Ho conosciuto Ezio Vendrame tuffandomi nei racconti appassionati di tutti i cronisti che lo hanno ricordato negli anni successivi alla sua carriera.
Le risposte qui sopra risalgono ai video e alle interviste da lui rilasciate negli anni, e che ho potuto recuperare attraverso il web.
Il mio bicchiere di Mamertino, però, l’avevo bevuto da solo, come solo avevo camminato lungo il mare per arrivare al ristorante dove sedevo e scrivevo questo pezzo.
Di quel ristorante in cui si mangiano cozze e ricotta, la porta è ormai murata da decenni, da prima che io nascessi.
Perché chi scrive in continuazione lo fa per sfuggire alla solitudine, pur non riuscendo a fare a meno di essa.
Carlo Marrone è stato un professionista del content marketing di una piattaforma di vendita inbound che aiuta le aziende ad attrarre visitatori, convertire lead ed è specializzato in closing. In precedenza, Marrone ha lavorato come direttore marketing per una startup di software tech. E’ esperto di Business Administration e Scrittura Creativa. Nato a Vicenza, dove ha passato la sua gioventù, si è trasferito a Milano dove ha vissuto e lavorato fino al 2010. Oggi vive tra Ischia, Napoli e, raramente, Milano.
Appassionato di football, ama scrivere soprattutto di persone e delle loro storie.
C’è una serie, abbastanza recente e ancora disponibile su Netflix, che pur nel suo “fantascientifico” o supposto tale soggetto, propone degli spunti di riflessione tutt’altro che banali.
La prima suggestione, la prima domanda che potrebbe salire alla mente, durante o alla fine della visone di questa 1a stagione – io non so se ne vorrei una 2a tanto la 1a potrebbe considerarsi “finita”, anche se con scenari completamente aperti – è quella che scaturisce di fronte al ritorno di persone scomparse: un dono dal Cielo o un evento potenzialmente capace di distruggere la nostra vita e il nostro “equilibrio”?
Non si tratta di uno scenario da “Il ritorno dei morti viventi” o da “L’invasione degli ultra-corpi” (film cult del 1956), anche se alcuni elementi potrebbero dirsi comuni, ma del veder prendere o ri-prendere vita, persone, individui, esseri, in tutto e per tutto umani, con i loro pensieri, emozioni e apparentemente motivazioni. Non necessariamente dei morti resuscitati, ma anche “cloni” coesistenti con i loro “originali” – talvolta persino la “versione migliore” del proprio originale – che prendono a convivere nella stessa piccola comunità, costretta a vivere in un disabitato paesino finlandese, bloccato dall’eruzione di un enorme vulcano, le cui ceneri rendono grigio il vivere dalla terra al cielo.
È interessante scoprire la reale profonda motivazione che giustifica, muove, queste genesi: conflitti, sentimenti, paure, speranze, rimpianti, angosce, segreti, amori infranti o sospesi, sono questi in realtà il seme piantato in una fantascientifica – verosimilmente aliena – roccia vulcanica, dalle cui profondità come da un utero, queste figure emergono e iniziano a vivere e convivere con il mondo esterno. Immaginiamo, i nostri sogni o anche i nostri incubi, quando, credo non di rado, rincontriamo persone non necessariamente decedute, ma perse nella storia e nel tempo, a noi legate per un qualsivoglia motivo e trasferiamo questi sogni, queste persone, nella concreta realtà del giorno dopo, al nostro risveglio. Scenari e situazioni, consolatorie a volte, di ritrovata gioia anche, ma tal altre, cariche di angosce, di ritrovati conflitti, di introspezioni dolorose… Figure che ritornano.
Quanti avvenimenti, persone, situazioni, abbiamo rinchiuso nel nostro passato per poi “buttar via la chiave”? Abbiamo chiuso quel sottoscala, quell’abbaino della nostra memoria, quel luogo rimasto oscuro e freddo, come le viscere del vulcano della “fiction”, scegliendo coscientemente di non ritornarvi per nessuna ragione. Non è che tutto ciò sia sbagliato, talvolta è necessario, è questione di legittima difesa, la necessità di voltare pagina, ma è pur sempre un sorta di realtà sospesa, un binario morto che abbiamo deciso e voluto attivando quello scambio, per restare noi sui binari che procedono verso quell’orizzonte che si spera più sereno.
Tutto questo in una serie televisiva, su uno di canali più in voga, sotto le mentite spoglie di una serie fanta-thriller dagli scenari inverosimili (per noi forse) ma assolutamente realistici? Beh si, può essere, può essere quando c’è un certo spessore di trama, sceneggiatura e regia (anche se Finlandese ;-), perché no?
A questo punto non vi dirò il titolo della serie, il senso non era una “promo”, ne tanto meno – Dio me ne scampi e liberi – “spoilerare” come usa dire, è solo un invito a riflettere sulle vostre, nostre vite, semmai dovesse capitare quanto fantascientificamente raccontato.
Il senso ultimo è tutto nel titolo di questo articolo.
Per il resto avete abbastanza spunti per andare a cercare la serie da cui sono partito per il mio sproloquio (io me la sono già vista tutta)…
Poi magari ne riparleremo.
Note sull’Autore
Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti. Appassionato di Design e Fotografia.
Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.
C’è una Sardegna lontana dal suono delle onde, dalle trasparenze smeraldo e dalle rocce che sanno di salsedine. E’ una Sardegna da tutti definita aspra e selvaggia che da sempre si è sottratta alla conquista e all’omologazione.“ Barbaria”, così la battezzarono i romani capaci di conquistare e piegare il mondo, ma non il cuore della Sardegna ed i suoi abitanti protetti dall’ombra del Gennargentu e forti come le sue rocce, che li costrinsero a porre un avamposto, un “ limes”, Forum Traiani ( l’ attuale Fordongianus in provincia di Oristano) ai margini di quella regione per contenere la loro indole indipendente.
Anche Gregorio Magno spese molte delle sue energie per estirpare il paganesimo da quelle terre, ma a niente valsero i suoi sforzi. La conversione al cristianesimo e la conseguente romanizzazione si compirono secoli più tardi in maniera semplice e naturale quando la Barbagia accolse le genti che dalle coste cercarono rifugio nell’entroterra per sfuggire alle invasioni provenienti dal mare.
Ne i pisani, ne gli spagnoli o gli aragonesi e neanche il governo sabaudo riuscirono a durare nell’isola un tempo sufficiente per esercitare la propria autorità innovatrice tra le “genti barbare” di Sardegna. L’isolamento, la cultura pastorale, l’ambiente fisico ed il clima hanno resistito allo scorrere della storia come racchiusi dentro ad uno scrigno del tempo che ha protetto le tradizioni ma soprattutto, il carattere di una popolazione antica forte e speciale che esprimeva attraverso la “balentia” il massimo della potenzialità dell’uomo suggellata tra le righe di un codice non scritto, il Codice Barbaricino.
La natura dei sardi è nota per i suoi silenzi, per le poche parole. E se lungo le coste la voce più potente è quella del maestrale capace di innervosire ed incupire il mare, nel cuore della Sardegna il silenzio ha una voce differente. Il vento deve attraversare muri di rocce e foreste di lecci, l’acqua striscia e salta nel sottobosco e tra le gole. Qui le “parole” hanno il loro peso, anche se silenziose ed apparentemente leggere come i fiocchi di neve che lentamente in inverno, ricoprono il suolo.
La chiamano omertà, la definiscono un’ ancestrale forma di difesa e ribellione al mondo interno ed esterno che contraddistingue l’indole dei barbaricini facendo pensare che abbiano poca voglia di aprirsi, di raccontarsi, di raccontare. Per capire che questo pensiero è privo di fondamento bisogna visitare uno dei borghi più belli e particolari, camminare lentamente tra i vicoli antichi, stare in silenzio, aprire gli occhi, osservare ed ascoltare al contempo ciò che le immagini vogliono comunicare.
E’ noto che “anche i muri hanno orecchie” ma ad Orgosolo si può dire invece che “i muri parlano” ed urlano a gran voce la storia, le sofferenze e gli ideali di un popolo.
Eco lontano , figlio delle pitture rupestri, la tradizione dell’arte muraria attraversa la storia dell’umanità come forma di decorazione, narrazione o indottrinamento sia sacro che profano, in ambito pubblico e privato. L’arte dei murales così come oggi la conosciamo quale forma di denuncia sociale, si sviluppa in Messico dopo la grande rivoluzione del 1910. Immagini rappresentanti lotte sociali, particolari della storia popolare e sentimenti nazionalisti presero forma attraverso la pittura di grandi muri esterni di edifici destinati al popolo.
Proprio nella manifestazione di dissenso, di ribellione ed al contempo nell’unione popolare Orgosolo vede nascere il suoi primi murales . Nel 1969 la tenacia della popolazione lotta e vince contro la realizzazione di un poligono di tiro nel territorio comunale di Pratobello, tradizionalmente asservito al pascolo. Si narra che nei muri del paese comparvero dei manifesti che esortavano i pastori ad abbandonare i pascoli.
Nello stesso anno un gruppo anarchico denominato ‘Gruppo Diòniso’ creò un murale di chiara matrice politica ed un murale tipo ‘reclame’.
Dal quel momento venne rotto il silenzio e dal 1975 in poi grazie ad un insegnate d’arte Francesco del Casino, i muri degli edifici del paese iniziarono a parlare.. un sussurro lieve, un urlo potente ma sempre in una “lingua universale” quella dell’immagine e del colore, talvolta accompagnata da qualche nota che attinge alle tecniche narrative del fumetto , talvolta totalmente priva di “parola”. Tratto nitido e segno inconfutabile assumono ruolo divulgativo, creando un contesto figurativo immediatamente comprensibile anche a distanza, un messaggio essenziale che può essere colto in maniera chiara a prescindere dall’età e dal livello di istruzione, poiché è sufficiente il solo atto di guardare le figure.
Così Orgosolo narra se stessa, lo fa senza timore lasciando che il colore si arrampichi sui muri, prenda forma, catturi l’attenzione dei passanti e consegni il suo messaggio in una forma semplice che attraversa lo sguardo e giunge al cuore.
Il fermento intellettuale degli anni ‘60 e ’70 favorì il nascere e svilupparsi dei murales collettivi che illustrano tutt’oggi con dovizia di particolari le lotte di potere, la vita contadina e pastorale, alternando tematiche socio-politiche alla rappresentazione di simboli tipici appartenenti alla quotidianità. Quotidianità che trova spazio tra i “vicoli della narrazione” dolce ed affabile della vita di donne e uomini impegnati nei loro lavori, nel loro vivere sereno e familiare.. Uomini e donne senza nome e senza gloria che a quella storia, alla storia di Orgosolo e della Sardegna appartengono perché in essa hanno vissuto, l’hanno alimentata e, consapevoli o meno sono stati e, ne sono tutt’ora il motore.
Orgosolo adagiata nel verde dei suoi boschi si offre a se stessa ed al mondo come un grande museo sotto il cielo. Parla ed accompagna se stessa verso il futuro mantenendo nitidi i “tatuaggi e le cicatrici sulla sua pelle” su tutti i suoi muri, protetti ed al contempo, mostrati con semplicità, genuinità ed orgoglio.
Anche se campidanese e non barbaricina sento che quelle immagini, che quella storia mi appartiene. E’ quella della Sardegna intera e dell’Italia, forse cambia solo il tono dei colori, ma i tratti ci accomunano.
Maria Patrizia Soru è una Guida Turistica Archeologica. Appassionata di Storia e letteratura della Sardegna, è alla continua ricerca di immagini e parole capaci di raccontarne il passato, il presente ed il futuro.
Disclaimer: tutte le immagini presenti in questo articolo sono tratte dal web
Sobborghi di Bangkok, un pomeriggio d’estate come tanti, un pomeriggio come tutti, per chi in quei posti c’è nato e lotta per non morirci.
Una casupola della periferia degradata, pareti scrostate e macchiate di tristezza. All’interno penombra, odore stantio di riso bollito e curry, di sudore e lacrime, di fame e miseria, che ti si attacca addosso come il caldo e l’umidità, come gli insetti sempre presenti, come la paura che, come le mosche e le zanzare, vola nell’aria.
Una donna accoglie un turista occidentale e lo fa accomodare in casa, con l’ospitalità e il sorriso di chi non attendeva altro, di chi è prossimo a concludere un interessante affare. E’ grasso, l’uomo, affannato e sudato, l’umidità lo fiacca e gli insetti gli danno il tormento ma, nonostante ciò, sorride anche lui, di un sorriso malsano, che non lascia presagire nulla di buono.
Ha gli occhi da satiro l’uomo, mentre la sua mente vola già verso quel paradiso di lussuria che sognava da tempo, un sogno che mai aveva trovato il coraggio di realizzare. Fino a questo momento, fino a questo viaggio.
Socchiude gli occhi l’uomo e, come un predatore che fiuta la preda, già pregusta il piacere che riceverà tra pochi minuti, in cambio di qualche misero dollaro. Ma non sarà la donna a soddisfare le sue voglie, i suoi desideri, le sue perversioni, ogni nascosta e indicibile fantasia. Lei si limita a prendere i soldi pattuiti e offre un tè freddo all’uomo, mentre entrambi attendono che, la vera protagonista faccia la sua comparsa sullo squallido palcoscenico, concedendosi al suo pubblico.
No, non sarà la padrona di casa a essere picchiata e abusata, non questa volta, non più. E’ troppo vecchia e non soddisfa i gusti dell’uomo, che è lì per qualcosa di particolare, di finalmente diverso, che dalle sue parti è vietato, condannato non solo dalla legge, ma anche dalla comune morale.
E’ un occidentale l’uomo, lui viene dall’Europa. E nella civile Europa, certe cose non si fanno!
Una porta si schiude, con un lieve cigolio ed eccola, la protagonista dell’imminente amplesso.
Si chiama Janjira e il suo nome significa Luna. Entra nel piccolo e maleodorante locale dalla porta laterale che conduce alla piccola camera da letto. E’ nuda, ha gli occhi rigati dal pianto, lividi sulla pelle e graffi e morsi, come se qualcuno avesse provato a farla sua, lottando per piegare un rimasuglio di volontà, già messo a dura prova dagli stenti della sua miserabile vita. Dona un sorriso di circostanza al cliente, fa buon viso a cattivo gioco, proprio come le ha insegnato la donna. Perché lo sa, ormai lo ha imparato, che se vorrà mangiare, quella sera, dovrà fare tutto quello che l’occidentale le ordinerà di fare. Tutto!
Ha solo nove anni la piccola Janjira… ma già non ricorda più, di quand’era solo una bambina serena!
Una storia amara, seppur di fantasia, ma verosimile, che ricorda brutalmente tante altre storie reali, che di tanto in tanto fanno capolino nella cronaca internazionale e ci giungono da mondi lontani. Una storia inventata, com’è inventato il personaggio diJanjira, mentre non sono inventate le centinaia di migliaia di bambini che, ormai, non hanno più il diritto di essere tali, nel mondo. Un artifizio letterario utile a introdurre il discorso e portare l’attenzione su quello che viene definito, con un termine generico e generalizzato, quasi a volerlo derubricare, spogliare di parte delle responsabilità, “turismo sessuale”. Un termine quasi innocuo, del quale, magari, sorridere maliziosamente, con il quale si tende a indicare quel fenomeno, in continuo aumento, che vede individui adulti – solitamente di sesso maschile – scegliere, per le proprie vacanze, quelle mete esotiche o dell’est europeo che, accanto alle bellezze paesaggistiche o artistiche del posto, offrono piacere sessuale mercenario, facilmente reperibile e a prezzo modico, almeno in relazione agli standard di spesa occidentali.
L’Organizzazione Mondiale del Turismo (OMT) lo definisce “viaggio organizzato da operatori del settore turistico, o da esterni che usano le proprie strutture e reti, con l’intento primario di far intraprendere al turista una relazione sessuale a sfondo commerciale con i residenti del luogo di destinazione”. Di cosa si tratti è ben chiaro, fin troppo evidente e se ne distinguono almeno due forme primarie: Quello promosso da Paesi in cui la prostituzione è legalmente un lavoro, costituendo così una risorsa economica trasparente e quello praticato in Paesi poveri, o in via di sviluppo, dove determinati comportamenti sessuali non hanno alcuna regolamentazione, sfruttati da organizzazioni illecite o pseudo legali che, forti della dilagante corruzione tra le forze dell’ordine e facendo leva sulla miseria e sull’ignoranza di un popolo allo stremo, rendono schiavi i bambini o i giovanissimi, maschi e femmine, non solo uomini e donne.
Evidenti le differenze tra i due casi. Il primo è un sistema legale (almeno stando all’ordinamento legale di quei Paesi) basato sulla consapevolezza delle parti, sul consenso, sul mutuo accordo e, nei limiti del possibile (per lo meno si spera) sull’altrettanto mutuo rispetto. Una prostituzione regolamentata, esercitata in locali privati o aree circoscritte e designate allo scopo. E’ il caso di Olanda, Svizzera, Germania, Belgio, Slovacchia (dove, all’ingresso di alcuni locali che offrono questo servizio, è esposto in bella evidenza un cuore rosso), solo per fare qualche esempio, ma dove è comunque aspramente punito lo sfruttamento della prostituzione in strada e al di fuori della legge.
Decisamente diverso il secondo caso, fatto di sfruttamento nel senso più cupo della parola, di violenza e riduzione in schiavitù, basato su un carente sistema sociale e culturale, alimentato dalla dilagante corruzione tipica dei paesi “poveri” e che, viste le preferenze più in voga, tocca principalmente i giovanissimi.
Le mete classiche del turismo sessuale illegale sono Cina, Brasile, Repubblica Dominicana, Colombia, Thailandia, India, Cambogia, ai quali, di recente, si sono aggiunti alcuni paesi dell’est europeo e l’Africa. Ma l’elenco è lungo e non si ferma a questi Paesi. Maschi e femmine, comunque bambini o giovanissimi, ridotti in schiavitù e obbligati a vendersi anche dalla propria famiglia che vede semplicemente, in questa pratica, un mezzo per sbarcare il lunario. Un modo come un altro, come se il figlio non fosse il loro, come se quello non fosse un bambino.
A volte l’unico. Perché dietro questo tipo di schiavitù c’è sempre la miseria e il denominatore comune resta la fame.
E’ una storia turpe, quella del turismo sessuale, fatta di uomini benestanti, socialmente produttivi, rispettati e rispettabili in patria che, in quei pochi giorni di vacanza, si trasformano, tirando fuori il peggio di se stessi e delle loro depravazioni e vanno a cercare quello che, nel paese d’origine, è difficilmente reperibile, o che viene considerato esecrabile e legalmente perseguibile. E per soddisfare queste voglie, violano l’infanzia, la dignità, l’integrità fisica di persone che normalmente vivono ai margini della società e che non hanno scelto di fare questo per vivere. Non lo hanno chiesto loro di essere il giocattolo di una notte ed essere trattati da oggetti in cambio di una ciotola di riso. E’ un quadro comune e sconcertante, rintracciabile in tutti quei Paesi in cui la dignità, il rispetto, la salute e la vita di un bambino sono solo merce di scambio, qualcosa che giova al tornaconto dei singoli adulti e, alla lunga, all’economia nazionale.
Tutte le conseguenze sono secondarie, fanno parte del mestiere.
In Italia, la questione del turismo pedo-sessuale è regolata dalla legge n. 269 del 1998(Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù), aggiornata poi dalla legge n. 38 del 2006(Disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo Internet). La normativa italiana in merito, è considerata molto avanzata, essendo stata la prima a prevedere il principio di extraterritorialità e per questo tradotta in diverse lingue. Proprio in virtù della giurisprudenza extraterritoriale, l’italiano protagonista di questo aberrante tipo di turismo, è perseguibile nel paese ove sono accaduti i fatti, su denuncia delle vittime e poi, d’ufficio, in Italia.
Un viaggio a sfondo pedo-sessuale, per questi individui dall’ordinaria apparenza, con una buona cultura, tendenzialmente benestanti e, in media, d’età compresa tra i 20 e i 40 anni (fascia che si è abbassata, negli ultimi anni), per il 90% uomini, significa poter finalmente scatenare perversioni e fantasie, concedendosi il lusso di sensazioni fuori dall’ordinario che, prima di allora, albergavano solo nei loro sogni più deviati. Il tutto condito dall’inebriante impunibilità tipica di alcuni paesi, nei quali basta una tasca piena di dollari per aggirare le leggi e le sanzioni, cullati dall’anonimato e ben lontani dalle condanne morali.
Un viaggio di liberazione dell’Io malato, dal rischio calcolato e dal basso costo. Tanto poi, il vero costo, lo pagano le vittime. E quello, di certo, non può essere definito basso.
Parliamo di soggetti animati da desideri che, spesso, sono in linea con precise forme psicopatologiche, catalogate dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, che li definisce pedofili in piena regola, nella piena corrispondenza con il criterio dell’Egodistonia, quel disturbo della personalità che caratterizza i soggetti incapaci di provare disagio nel realizzare le proprie perversioni, pur riconoscendole come devianze. Ne consegue il rischio, in verità molto concreto e statisticamente rilevante, di reiterazione futura del criminoso operato. Una volta rotto il blocco mentale ed effettuata quindi l’esperienza “liberatoria”, i soggetti in questione tendono a ripetere l’esperienza arrivando, in preda all’escalation comportamentale, ad abusare anche dei propri figli.
Il turismo sessuale, quando non si svolge tra adulti consenzienti e secondo la legge, rappresenta l’ultima frontiera della perversione illecita e rende, certi Paesi, un paradiso dove tutto è concesso, dove basta pagare (e nemmeno tanto) per soddisfare qualsivoglia prurito. Una piaga non indifferente per tutto il mondo, soprattutto in virtù della violenza, dello sfruttamento e della riduzione in schiavitù di cui abbiamo già parlato che, statisticamente, vede protagonisti gli italiani (primi in classifica, con ben 80.000 viaggiatori annuali, seguiti da francesi, tedeschi, inglesi, cinesi e giapponesi).
Solo se consenziente, il sesso può assumere quella connotazione di piacere ludico e ricreativo, anche all’interno di un viaggio organizzato, ideato allo scopo o meno, anche se dietro quel piacere c’è una contropartita in denaro, perché rispetta la dignità e la libertà altrui, senza ledere diritti inviolabili e naturali come quelli dell’infanzia o dell’essere umano.
Sostituiamo quindi, una volta per tutte, il termine “turista sessuale” con quello più adeguato di “turista pedofilo”.
Occorre separare nettamente le due definizioni, mettendo da una parte i casi di prostituzione consenziente, legale e con persone adulte, dall’altra la finalità sessuale violenta, rivolta ai minori, ovvero quelle pratiche ripugnanti, soddisfatte ai danni di chi non ne ha colpa e ancor meno interesse ma che, suo malgrado, concorre per necessità a tenere in piedi questo marcio business, questo affare che prolifera sotto gli occhi, l’indifferenza e il silenzio complice di buona parte del mondo. E occorre parlarne, con le giuste parole e senza paura.
Così come Giovanni Falcone ebbe a dire che “di mafia si deve parlare”, Teorema sostenuto e dimostrato da Roberto Saviano, è il caso che tutti noi, anche della pedofilia (nostrana o itinerante) iniziamo a parlarne, senza paura e senza inutili giri di parole, senza se e senza ma, senza giustificazioni e senza attenuanti, perché l’infanzia torni a essere un diritto inalienabile, non una concessione da applicare nei soli giorni feriali.
Nota sull’ Autore
Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano. Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.
E infine ritornammo a… prendere il caffè al banco del bar! Non me ne voglia il Sommo Poeta, di cui ricorrono quest’anno i settecento anni dalla morte, se abuso dei suoi sublimi versi, snaturandoli e riconducendoli allo scopo, ma m’era d’uopo per l’introduzione di un concetto, che dal caffè muove i suoi passi, ma che reca con sé ben altro aroma, quello fetido della mediocrità e dei punti di vista superficiali.
Il caffè, dicevamo. Quasi un rituale, una tradizione in quella tazzina, che mancava a molti, dato il particolare momento storico che stiamo vivendo e che, a seguito dei vari lockdown, più o meno rigidi, ha partecipato a rendere ancor meno gradevole la situazione “pandemica” e il suo ingombrante riflesso sull’ordinario quotidiano di tutti noi. Perché in quel caffè, non c’è solo la caffeina che dovrebbe tenerci svegli, il gusto, il profumo, ma un universo mondo di socializzazione, interazione, umana convivenza, scambi e battute, momenti di vicinanza occasionale anche tra chi, normalmente, vicino non è.
E chiacchiere, quelle da bar, che con la superficialità più spensierata, trattano argomenti di vitale importanza, talmente pesanti e profondi che nemmeno un simposio basterebbe a esaurire.
Nelle chiacchiere da bar, che intervallano Mancini a Draghi (magari anche confondendone i ruoli), ci trovi di quelle perle di geopolitica e di economia internazionale che ti sogneresti altrove. Lectio Magistralis su ogni ambito, anche il più complesso e ostico dello scibile umano. E complottismo, tanto complottismo, che quello, insieme alla controinformazione e al caffè, al bar non manca mai.
Non che fosse inedita, essendo giunta già altre volte al mio incolpevole orecchio, ma la perla di questa mattina riveste, di fatto, una particolare e rilevante importanza, lapidaria come solo la più becera superficialità sa essere, atta solo a infiammare gli animi, a farci sentire artificiosamente uniti perché attaccati dall’alto, vittime di un complotto sistemico, dei poteri forti, di qualche più o meno credibile para-governo transnazionale, contro il quale fare quadrato, sentirci popolo, magari cantando dal balcone. E quale migliore occasione per unirsi, se non quella di avere un nemico comune, sia esso rappresentato dai migranti e dai profughi, o da un virus di cui ben poco si sa, ma ben troppo si dice.
Diceva questa mattina, ai suoi attenti ascoltatori, il solito beninformato avventore – quello che ne sa sempre una più del diavolo e di Gesù Cristo messi insieme, che le notizie le apprende prima degli altri, perché sua zia è la cugina del parrucchiere dell’amica del cuore della Meloni – che Loro (nei complotti i cattivi si chiamano sempre “Loro”, evidente retaggio di una sindrome paranoica più o meno latente), ci vogliono ignoranti e disoccupati, per poterci controllare meglio.
Probabilmente, mentre l’uomo asseriva cotanta bestialità, nel mondo, un pensatore esalava l’ultimo mortale sospiro, fulminato da qualche raro e inspiegabile colpo apoplettico.
Perché, tutto sommato, può anche essere lecito, dato il contesto ludico e goliardico, ergersi ad allenatori di qualsivoglia sport (io avrei fatto così) o a Premier politici (io avrei fatto cosà), commentando male quelle notizie che si sono comprese ancora peggio. O a cedere alla velleità di sostituirsi ai giudici, senza nemmeno aver studiato gli elementi processuali e le motivazioni della sentenza. Così, per sentito dire, provando a interpretare un titolo o poco più, magari buttando distrattamente un occhio ai post di facebook. Ma il ragionamento, signore e signori, il ragionamento, quello è altro dall’informazione dozzinale e non può permettersi il lusso di essere altrettanto. E’ un percorso interiore che porta all’elaborazione del mondo circostante, per arrivare a edificare quella che, almeno in apparenza, è la propria personale e soggettiva idea. E il proprio assetto mentale, non può essere così poco importante da relegarne la cura alla fretta, alla superficialità e alle chiacchiere da bar.
Loro ci vogliono ignoranti e disoccupati, perché così siamo più controllabili.
Analizziamola insieme, questa “perla” di saggezza, partorita tra un bianco e un amaro:
Loro ci vogliono ignoranti…
Ammetto che questa parte rechi con sé una quota di verità, essendo incontrovertibile che, un popolo ignorante, sia più controllabile. Ma è l’angolazione con cui si guarda la questione, a essere sbagliata. E’ fondamentale in primis operare un distinguo tra ignoranza e incapacità di pensare e, in secondo luogo, prender atto e coscienza che, l’ignoranza di oggi, non è quella di cent’anni fa. Oggi, complice un sistema scolastico raso al suolo e destrutturato ai minimi storici, mera ombra di se stesso, siamo ignoranti e incapaci di un pensiero complesso, ma con un diploma o con una laurea appesi al muro e con tanta speranza da custodire nel cuore, talmente tanta che nemmeno nei Promessi Sposi. Perché sono quei titoli di studio, incapaci ormai di fare la differenza sul mercato, a riempirci la pancia e a renderci più tranquilli, più docili, più sereni, con la coscienza a posto (sono disoccupato, ma ho studiato, che altro potevo fare?) e con l’illusione di poter disporre liberamente del pensiero indipendente.
E ci si adagia in questa convinzione, in questa deleteria speranza che tutto uccide (perché tutto muore, a furia d’aspettare) avvolti dalla copertina di Linus che ci vuole precari a tempo indeterminato, indottrinati improduttivi a carico di genitori che, sempre più anziani, sono i reperti fossili di un’opulenza che fu e di una stagnazione secolare che occlude l’orizzonte futuro, ammantati da un’illusoria speranza sempre più nebulosa, una certezza sempre più lontana che intanto ci mette tranquilli, c’induce all’attesa, ci fa aspettare, lasciandoci seduti, zitti e buoni, che tanto, presto o tardi, il nostro momento verrà.
E addio rivoluzione, come avrebbe sentenziato il buon Peppone!
Questa ignoranza specifica (non quella assoluta di cent’anni fa, che almeno ci lasciava l’arguzia) è dovuta alla barbarica semplificazione del linguaggio, operazione nefasta che, a sua volta, banalizza il pensiero, tarpandone le ali e castrandone l’estensione. Stiamo allontanando la Filosofia dalla scuola (nei licei s’insegna solo la sua storia e se ne insegna sempre meno), stiamo rendendo più veloce, superficiale e meno profondo il pensiero, la capacità di creare connessioni
Che poi, a furia di semplificare, si sfocia nel banale e nell’inconcludente.
Ma non dobbiamo cedere all’errore di pensare che le parole servano solo ad esprimere il pensiero. La questione è ancora più profonda e ribalta il punto di vista: noi pensiamo limitatamente alle parole che possediamo, quindi, come c’insegna il Pof. Umberto Galimberti, le parole sono la forma, non il vettore, del pensiero, l’elemento collante strutturale, la materia che conferisce concretezza all’astratto. E una scuola che riduce la filosofia al mero insegnamento della sua storia, che riduce tutto al più inutile nozionismo mnemonico, di certo non aiuta. Non possiamo pensare a qualcosa, in termini completi e trasmissibili a terzi, senza averne in mente la definizione linguistica. Il filosofo Martin Heidegger ha scritto che “dove la parola manca, manca il pensiero” e ci basti pensare alla differenza culturale tra Greci e Latini, a ciò che hanno rispettivamente realizzato ai loro tempi e al relativo lascito a beneficio dell’umanità, per avere il polso della questione.
Non a caso, i primi, avevano 80.000 vocaboli, contro gli appena 4.000 dei secondi. E tutto il resto è storia.
Ma se, almeno in parte, dobbiamo riconoscere un minimo senso logico, alla prima parte della frase, seppur la questione fosse analizzata dal punto di vista sbagliato, presi in esame tutti i distinguo appena espressi e argomentati, la seconda parte è paradossale:
… e disoccupati!
Ed è qui che casca definitivamente l’asino (con tutto il rispetto per l’intelligente ma bistrattata bestiola) perché l’errore è così evidente, talmente lampante che avrebbe stupito persino il signore di La Palisse. Un errore che disconosce le ragioni storiche di molte sommosse popolari, in cui masse intere si sono sollevate contro la tirannide per fame, per la mancanza di denaro e di aspettative lavorative, per la disperazione di non poter sfamare i propri figli, di non riuscire a vestirli o a curarli, proprio a causa della povertà che è figlia, erede naturale, della disoccupazione. Una situazione in cui la speranza implode (e per fortuna) lasciando montare la rabbia della rivolta, perché la speranza è l’ultima a morire, ma prima o poi muore!
Proprio all’opposto di chi, sazio e titolato, smette di fare e se ne sta comodo a sperare e ad aspettare un domani migliore. E addio rivoluzione (Bis)!
Diventa quindi evidente come sia proprio il contrario di quanto asserito dall’illuminato avventore del bar, a indurre il controllo sulle masse, sulla folla, sul popolo sovrano, che la sovranità ormai non ricorda nemmeno più cosa sia e come sia fatta, perché non ha le parole sufficienti a poterla descrivere.
Un popolo con la pancia piena, quello sì che è controllabile, proprio come una fiera nella gabbia del domatore di circense memoria, sedata e sazia, perché non sia aggressiva e intrattenga il pubblico con movenze da gattone dall’apparenza feroce. Una laurea vuota che ti lascia dentro ben poco, se non la speranza (sempre lei) un lavoro di basso livello, al quale corrisponde un titolo d’impatto sul biglietto da visita (siamo ormai tutti dottori e manager di qualcosa) e un magro stipendio in busta paga, a fine mese, che ci faccia sopravvivere ma non vivere davvero, permettendoci di pagare il mutuo quarantennale, le rate della macchina, quelle della Super Mega Smart TV o dello smartphone all’ultimo raglio della moda – e perché no? – anche quelle per le ultime vacanze. Che tanto, ormai, si sopravvive a rate!
E’ saziandolo, che si controlla il popolo, non affamandolo ed esasperandolo. Un cane sazio non morde, al contrario di quello che, per effetto della fame o della paura, diventa aggressivo. Allo stesso modo, una persona con una parvenza di vita normale da tener lungi dal rischio, non scende in piazza e non muove rivoluzione. Perché, in fin dei conti, l’essere umano ha una sola immensa paura, più spaventosa di tutte le altre, anche di quella di morire o di parlare in pubblico. Ed è quella di perdere lo status quo, ciò che si rappresenta e ciò che si ha, il bilocale in periferia che finirai di pagare quando sarai in pensione (se ci arrivi alla pensione), una macchinetta mediocre che già cade a pezzi e una vacanza che, in condizioni normali, a malapena avresti considerato una gitarella.
Evviva la mediocrità che tutto appiattisce e ogni cosa scolora.
E’ così che si controlla un popolo, sedotto e sedato da un titolo di studio, talmente ridotto ai minimi termini da essere alla portata di tutti e da un lavoro, dalla speranza a entrambi correlata, insieme al minimo indispensabile (che siano quei quattro soldi lavorati o elargiti a vario titolo dallo Stato) per sopravvivere e trascinare una vita che – erroneamente – consideriamo dignitosa.
Dovesse mai scoppiare una rivoluzione, con tanto di tumulti e disordini e ribaltamento dei poteri, magari qualcuno ce lo porta pure via lo status quo, insieme a quel televisore da 80 pollici. E dove le guardiamo le partite di calcio che non ci fanno pensare ai problemi? E le 4 edizioni del telegiornale con cui ci riempiamo la testa ogni giorno? E i Talk Show che c’inculcano il pensiero unico o le serie Netflix fagocitate a turni di dodici episodi per volta che, di ogni rimanenza di pensiero critico, fanno sistematica tabula rasa?
Immaginiamo di spegnerla, o di non averla più, quella TV, di riaccendere la mente e di rimanere soli con i nostri pensieri, come auspicava Schopenhauer. Proviamo a riprenderci la capacità di pensare e di agire, per essere meno controllabili e ancor meno attendisti in preda alla speranza, riprendendoci noi stessi e fuggendo dagli stereotipi che tanto cattivo gioco fanno alla nostra intelligenza.
L’Antica Via della Seta, e la sua via sorella, la Via della Seta Marittima, furono dei crocevia per commercio, scienza e religione. Entrambe servirono come ponti tra Oriente ed Occidente, e in ultimo, furono essenziali per creare il mondo così come lo conosciamo oggi. Prodotti esotici come sete, spezie e the trovarono la loro via dalla Cina e dall’India fino in Europa.
Grazie ad esse, sorsero civiltà ed imperi, prosperarono città che diventarono “case lontano da casa” per diplomatici, mercanti, imprenditori, missionari, viandanti e contrabbandieri.
Tra i vari prodotti commercializzati lungo le Vie, il the ebbe un ruolo speciale: infatti, entrò come prodotto di consumo in società molto differenti. L’aumento della richiesta di the portò quindi alla creazione di un’apposita rotta commerciale, la Via Marittima del The.
All’estremità Orientale di questa nuova rotta, si trovava una città con una lunga tradizione manifatturiera ed imprenditoriale, una città che un giorno sarebbe diventata, grazie alla sua posizione geografica, uno dei più importanti hub commerciali del mondo, ed uno dei porti per containers più trafficati.
Questa città si trova nel Nord-Est della provincia dello Zhejiang, nella parte sud della Baia di Hangzhou, proprio di fronte a Shanghai; la città, il cui nome significa “Onde Calme” e oggi conosciuta come Ningbo.
Studi archeologici hanno trovato resti di una città nella zona datati 4800 a.c., resti classificati come appartenenti alla cosidetta Civiltà Hemudu.
Ma fu solo dalla Dinastia Tang che la “Città delle Onde Serene” incominciò ad avere una sua importanza. A quel tempo la città di Ningbo si chiamava Mingzhou e nel 738 d.C il suo porto fu ufficialmente costruito .
Durante la Dinastia Song venne costituita la prima comunità di stranieri. Mercanti arabi si insediarono nella città.
Date le politiche di apertura della Dinastia Song, questi mercanti arabi furono accolti anche se rimanerono sempre molto legati alla propria piccola comunità e non si integrarono troppo con gli abitanti locali.
Sempre durante la dinastia Song, la città , allora conosciuta come Siming, divenne uno dei porti più indaffarati della Cina; questo portò il governo imperiale ad istituire uno degli “Uffici per Navi Mercantili”; ossia uffici adibiti a compiti doganali di controllo e tassazione. Questo tipo di uffici vennero aperti solo nei porti più importanti, quelli cioè che ricevevano navi dall’estero.
La città di Ningbo (Siming), divenne quindi uno dei più importanti centri di scambio della Cina, ed una delle città più fiorenti. L’aumento del benessere, conseguenza degli intensi scambi commerciali, ebbe effetti sulla mentalità della popolazione locale rispetto al modo di condurre affari.
Quello che negli anni ‘90 sarebbe diventato famoso come il Modello Zhejiang (il modello di business basato su stretti rapporti interpersonali) si sviluppò anche a Ningbo. La Gilda dei Mercanti di Ningbo divenò talmente potente da creare una rete di banche private per prestiti che si allargò oltre i confini della città stessa, arrivando perfino a Shanghai.
Si dice, infatti, che sia stata proprio la Gilda di Ningbo a mettere le basi per il futuro sviluppo finanziario di Shanghai.
Durante la Dinastia Qing, subito dopo la Prima Guerra dell’Oppio (1842), il porto di Ningbo fu uno di quelli “forzatamente” aperti agli imperi stranieri attraverso il successivo Trattato di Nanchino.
Ciò portò un nuovo periodo di espansione economica in quanto, missionari, mercanti e nuove delegazioni diplomatiche provenienti da Giappone, Portogallo ed Inghilterra si stabilirono qui.
Queste nuove comunità di stranieri, da un lato portarono alla costruzione di edifici in stile europeo (palazzi e chiese ancora presenti e che diventeranno una caratteristica della città), dall’altro anche tutta una serie di incidenti che sfoceranno in vere e proprie battaglie e che porteranno disastri per Ningbo ed un suo declino.
La Storia però, sorriderà di nuovo alla città, dandole una nuova opportunità per ritrovare la sua importanza a livello mondiale.
Questa nuova opportunità per Ningbo arriverà nel 1984, quando fu scelta per far parte del secondo gruppo di citta’ che avrebbero ospitato una “Zona Economica Speciale”, ossia delle zone aperte al libero mercato, in cui gli affari vengono condotti in uno speciale regime di tassazione, volto ad incentivare la creazione di imprese, facilitare l’import-export ed attrarre investimenti esteri e tecnologia.
Queste Zone vennero create durante la leadership di Deng Xiaoping (Il Piccolo Timoniere) in modo da favorire la transizione dell’economia cinese verso un sistema di mercato, esse saranno uno dei motori dello straordinario sviluppo cinese dagli anni ‘80.
Da quell’anno, Ningbo ha continuato a svilupparsi e prosperare. Adesso è la sede di: un parco industriale, due porti franchi e tre zone economiche speciali.
Il porto di Ningbo-Zhoushan è il quarto porto per containers al mondo, e nel 2019 il PIL fu di quasi 1.2 trilioni di yuan (153 migliaia di miliardi), diventatando così uno dei porti principali per l’iniziativa One Belt-One Road.
Oggi la città è una metropoli sviluppata, ed è stata recentemente promossa al livello 1.5 secondo la scala usata in Cina per definire lo sviluppo dei centri urbani.
Ningbo è anche una città multiculturale, dove grattacieli moderni si mescolano ai palazzi costruiti dagli europei.
inoltre è sede del primo campus universitario straniero in Cina (l’Università di Nottingham) ed è anche sede della più antica biblioteca privata della Cina Meridionale. Ningbo ha anche legami con l’Italia, è gemellata con Firenze ed ospita dal 2006 una replica del David di Michelangelo, raggiunta più tardi anche da una statua del Sommo Poeta, Dante Alighieri.
note sull’autore dell’articolo:
Mattia Marchetti Aloisio 马天龙 vive in Cina a Ningbo, Zhejiang da molti anni, ed è specializzato in Brand Identity | Archetype Branding | Customer Care | Social Media Manager.
Certo da tanto tempo, ma francamente non potrei dirlo con certezza.
So che una volta eravamo in tanti, e ce n’erano di veri, di leoni intendo, in un serraglio.
Erano un omaggio al re di stirpe scozzese, governatore di Firenze.
Non so cosa sia la rabbia, l’ho vista forse in faccia a gente che duellava in piazza, oppure si ribellava al potere.
Non so cosa sia la gioia.
Probabilmente l’ho vista nelle espressioni di centinaia di persone che si riempiono il cuore della bellezza di questa piazza, unica al mondo. Le sue forme, la sua architettura, le sue statue. Lo stesso David, accanto a me.
Magari la gioia è quell’espressione che percepisco nei loro occhi.
Ho visto milioni di persone passeggiare, con interesse, con meraviglia, con indifferenza.
Ma non ho mai visto una cosa simile a ciò che mi è stato piantato di fronte: un albero secco, con dei tubi incastrati tra i rami avvizziti.
Non ho ben capito cosa sia la disperazione, l’ho vista poche volte, ma questo albero così rinsecchito, senza foglie, morto, mi colpisce.
Nel profondo.
Non mi spiego il perché.
L’albero mi ha fatto provare una nuova sensazione, una differente sfumatura di dolore: quella che ho visto in faccia alle centinaia di persone che hanno manifestato in piazza, recentemente.
Magari sono rimasti senza lavoro, senza fiducia… o senza speranza.
Questo l’ho capito, di gente in piazza (a parte quella che manifestava) ce n’è davvero di meno. Non so cosa sia successo, ma quest’abete, che troneggia di fronte a me con la sua maestosa afflizione, è come se racchiudesse il dolore che aleggia tutt’attorno.
Sono solo un leone, ma ho pensato che è davvero facile creare cose belle che si lascino ammirare; molto più difficile colpire allo stomaco, alle viscere, con un qualcosa che bello non è affatto.
Vuoi vedere che questo abete avvizzito è più coraggioso del David?”
L’albero di Penone è un’installazione voluta dal Comune di Firenze per rappresentare la metafora del Paradiso Dantesco, cioè “L’albero che vive de la cima/e frutta sempre e mai non perde foglia” (vv. 29/30, Canto XVIII, Paradiso, Divina Commedia).
“L’Abete in Piazza della Signoria – dice Penone – indica lo sviluppo del pensiero che è simile alla spirale di crescita del vegetale”.
Potrei continuare citando mille auliche elucubrazioni; sta di fatto che l’installazione è davvero (consentitemi), brutta e antiestetica, e per questo estremamente coraggiosa.
L’arte contemporanea di Penone non può fare altrimenti, in una piazza esteticamente perfetta, che porre un elemento “disturbante”.
E quest’albero, con i suoi tubi, lo è davvero.
Implacabile, non lascia nulla alla fantasia, al sentimento. È secco, diretto, ed affonda nel più profondo del nostro Io, scuotendolo e risvegliandolo dal torpore indotto dall’armonia rinascimentale di Firenze.
Questa profonda “rottura” del disegno architettonico non è mai stata più visceralmente contemporanea. La bellezza anestetizza, la bellezza è giusta (secondo numerose filosofie estetiche), ma ora non possiamo permetterci svaghi, né celebrazioni del bello.
I leader del 2021 dovranno affrontare il futuro con precisione chirurgica e visione etica, senza concedersi confortanti rassicurazioni.
“L’arte non è uno specchio su cui riflettere il mondo, ma un martello con cui scolpirlo”. (Bertold Brecht)
“Perché Sciascia non ha avuto il successo popolare di altri scrittori siciliani?“
L’ho chiesto a un mio amico, grecista, di grande cultura, conoscitore profondo di cose siciliane.
“Era antipatico”.
Mi dice. Con il segno di diniego tipico dei siciliani: un movimento della testa non da sinistra a destra e ritorno, ma dal basso all’alto. Appena accennato.
C’è del vero. Ci vuole impegno per leggere Sciascia, seguirne la sintassi, fare i collegamenti, attendere le spiegazioni – di chi si parla? Chi sono i personaggi? – o andarsele a cercare. Di più: nessun personaggio mangia o si mostra interessato all’arte culinaria isolana, alle ‘fimmine’, ai paesaggi e insomma alla Sicilia orgia di colori e sapori che seduce i non siciliani (chè noi ne abbiamo pieni gli occhi e la bocca e ce ne ricordiamo con nostalgia solo quando siamo in altre meno variopinte e insipide latitudini). Raramente filosofeggiano – ed è paradossale che di Sciascia si ricordi fin troppo spesso l’apologo di uomini, mezz’uomini, ominicchi e quaquaraquà – molto spesso addirittura lavorano. Con scrupolo.
Insomma, antipatica come scrittura.
Neanche c’è spazio per autoassoluzioni, divagazioni, abbellimenti.
E una parola che non dipinge: scolpisce.
Ogni parola, come un colpo di scalpello o di martello, leva uno strato di materia e ci avvicina alla verità che c’è nelle cose: solleva, districa, taglia.. “al punto che non c’è nessun vuoto, e nessun elemento superfluo, per cui il soggetto consegue la massima espressività nel minimo spazio possibile” (cito dalla conversazione con l’Anonimo).
Questa essenzialità tagliente e ‘in levare’ non è meno siciliana dell’opulenza del mettere e stratificare. Certi paesaggi della Sicilia occidentale sono così: linee orizzontali, quadri bicromatici: sabbia e cielo; sale e vento; colonne e pietre, bianco e azzurro.
Sciascia ha letto molto Verga e si sente. Ma Verga si straniava per vedere la Sicilia con gli occhi dei suoi personaggi marinai e contadini, lui che era colto e borghese e a lungo aveva vissuto a Milano; Sciascia usa lo straniamento per girare intorno al suo oggetto, come uno scultore alla sua statua, vederlo da tutte le possibili angolazioni. E così la Sicilia la allontana e la avvicina; la scherma e la rivela, la nasconde nelle pieghe delle cose e la trova nel fondo delle persone.
Fra le cose più belle di Sciascia, secondo me, ci sono i saggi romanzati, o i romanzi in forma saggistica: La scomparsa di Majorana, La strega e il capitano, L’affaire Moro.
Il lettore de La scomparsa di Majorana sa che poche pagine possono richiedere molto tempo di lettura: ognuna è densa, concentrata; perché la vicenda del fisico che scompare, avendo avvisato che sarebbe scomparso ma poi anche di non tenere conto di quell’avviso, può cambiare a secondo del punto di osservazione.
Così lo scrittore inizia a dipanare la matassa dapprima mettendosi in posizione molto periferica rispetto ad essa: dal punto di vista del cittadino che subisce la giustizia
“Il cittadino che nulla ha mai fatto contro le leggi né da altri ha subito dei torti per cui invocarle; il cittadino che vive come se la polizia soltanto esistesse per degli atti amministrativi come il rilascio del passaporto o del portodarme (per la caccia), se i casi della vita improvvisamente lo portano ad avervi a che fare, ad averne bisogno per quel che istituzionalmente è, un senso di sgomento lo prende, di impazienza, di furore in cui la convinzione si radica che la sicurezza pubblica, per quel tanto che se ne gode, più poggia sulla poca e sporadica tendenza a delinquere degli uomini che sull’impegno, l’efficienza e l’acume di essa polizia.”(corsivi miei)
E interessante notare l’armatura sintattica, annegata nel proliferare di frasi su frasi ma ben visibile: il cittadino che (non conosce) … se (vuole conoscere) …. (si sgomenta).
È la stessa dell’incipit di una novella di Verga, La roba.
“Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: ‐ Qui di chi è? ‐ sentiva rispondersi: ‐ Di Mazzarò”.
Qui è il viandante sgomento che a distese interminabili di terre a destra e a sinistra corrisponda un solo nome di proprietario. L’occhio straniato del viandante rispetto alla religione dell’accumulo diventa in Sciascia l’occhio del cittadino rispetto alla giustizia da reclamare: la verità è una terra straniera.
Ma lo straniamento è un bene, cambiare prospettiva è un bene: il cittadino può trovarsi improvvisamente – perché un parente sparisce – nella posizione di chi vuol conoscere la verità. Quella verità non è più soltanto un adempimento burocratico: è ora un’esigenza personale, un tassello mancante al senso di un affetto, di una famiglia, di una biografia.
Sciascia recupera – nell’epoca degli sperimentalismi, delle neoavanguardie, della provocazione – uno strumento logoro e screditato: la Ragione illuminista e settecentesca. Con la quale si inoltra nel mistero passo dopo passo, come un viandante; o meglio, come un archivista. Districandosi fra le scartoffie, i dispacci, le lettere di trasmissione, i fascicoli aperti chiusi siglati e riaperti. Sciascia è maestro nel trarre ogni informazione possibile da un tratto di penna, un inchiostro, una firma. L’arido linguaggio di un funzionario dischiude i suoi significati all’intelligenza affilata dello scrittore, si rivela al suo sguardo limpido.
Tagliando la carne, ecco l’osso, la verità dall’interno: dalla mente del personaggio, di Majorana.
“La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità.“ (ndr, dal “Giorno della civetta“)
Esistono studi sulla tardività – Lo stile tardo, di Edward Said – cioè su quel cambiamento che si verifica nella produzione di poeti, pittori, musicisti nell’ultima fase della loro vita artistica: a volte è un manierismo, a volte un aggravarsi ossessivo di problemi, a volte un’ira disperata; dovrebbero esisterne anche sulla precocità del genio.
Essa si presenta in Majorana, secondo Sciascia, come acuta coscienza di un destino, una vocazione. Assecondarla è morire. La vita del fisico è quindi in un gioco di fughe e di nascondimenti: da sé stesso, dallo scienziato che egli è senza averlo scelto, senza amarlo, senza volerlo essere. E quindi la scelta di scomparire, come fisico; forse per riapparire in altro luogo, anonimo, senza il fardello di un compito e di un destino.
Il pensiero della morte, che tutto corra verso la morte, Sciascia lo vede anche nello sguardo stanco di Moro, anche prima del rapimento. Eppure, questa stanchezza non lo esime dal tentare con pazienza di allontanare da sé quella morte, prendendo tempo, parlando, scrivendo, in attesa di essere trovato.
Concludiamo con questa immagine dello scrivere per ingannare o ritardare la morte; del cercarla per non trovarla, del non temerla per non esserne colto di sorpresa.
Trucchi levantini che sanno di sale e odorano di salsedine.