COMUNITÀ SIGNIFICATO: Gruppo di persone unite da rapporti e vincoli tali da formare un corpo organico; corpo morale.
ETIMOLOGIA: dal latino commùnitas ‘società, partecipazione’, derivato di commùnis ‘che compie il suo incarico insieme’, derivato di munus ‘obbligo’, ma anche ‘dono’, col prefisso cum-.
Dal che si potrebbe dire che il termine “comunità virtuali” suona come un ossimoro.
La virtualità (virtuale: potenziale, che non esiste in atto; possibile; simulato) di fatto annulla nel concreto ogni possibilità di comunità reale, laddove per reale possiamo pensare a tangibile, persistente, che accomuna, ma non attorno ad una piattaforma o ad un “contenitore” di vari ed eventuali interessi comuni (in realtà molto eterogenei all’interno di ogni “comunità virtuale”), ma che crea e mantiene viva una comunione tra individui tutt’altro che “virtuali”.
Di fatto tutti verifichiamo che le “comunità virtuali” (continuiamo pure ad utilizzare questo termine), sono piuttosto variegate, non di rado conflittuali, mutevoli per contenuti se non anche per contenitore. Questo almeno se ci riferiamo ai cosiddetti social, perché di comunità virtuali che ruotano attorno a singoli specifici temi o interessi, se ne trovano quante se ne vuole, ma in questo caso abbiamo solo l’utilizzo del “mezzo virtuale”, che ha sostituito mezzi più arcaici e certamente meno diffusivi del “pre-web”.
Credo poi si possa anche affermare che le comunità virtuali, abbiano una caratteristica basilare che è quella dell’egocentrismo inteso come visione e proposta di sé e l’egocentrismo, pur senza voler dare al termine un valore negativo in assoluto, è certamente una componente basilare e pregnante dell’individualismo. Potremmo arrivare a dire che le comunità virtuali, i “social”, sono contenitori che per lo più presentato delle singole individualità o al massimo mettono in contatto individualità, che trovano interessi comuni (fugaci o relativamente duraturi) pur continuando a rimanere tali.
Si badi bene, non voglio affermare che sia tutto negativo, che nulla di buono o fattivo o concreto possa nascere, non sarebbe onesto e neppure nella realtà dei fatti, ma solo spingere ad una riflessione e alla distinzione fondamentale: fare parte di una comunità è altra cosa.
Di fatto la Comunità – con la C maiuscola appunto – presuppone singoli e singole individualità che si spendono per un’idea se non per un bene comune, al punto che l’individualità propria passa in secondo piano e, in taluni casi, gli appartenenti a determinate Comunità, sono facilmente riconoscibili come tali pur nelle loro singolarità (diversamente ci sarebbe plagio e massificazione). La Comunità assiste, aiuta, protegge, si fa carico, proprio per via della com-unione. Certo lo stesso non si può dire dei Social… al di là del dilagare dei cosiddetti “odiatori”, nessuno credo si aspetta di venir soccorso in un momento di crisi da Linkedin piuttosto che da TikTok, se non nel vano post di condivisione e per un attimo far puntare like e commenti su di sé (torna l’egocentrismo individualista), terminati – dopo brevissimo tempo – i quali, si ricade nell’oblio di una vita vissuta fuori da una qualsiasi Comunità concreta, come può essere molto semplicemente la Famiglia stessa.
Il vivere in una Comunità è spesso faticoso, è un “combattimento”, perché si tratta anche di un confronto e di dare “all’identità personale, la ragione primaria per cui le si cerca.” (di nuovo Bauman). Cresciamo e maturiamo nel confronto, confronto che non sempre significa “azione di forza”, più spesso significa introspezione, revisione di sé, accogliere le idee dell’altro nel bilanciare se non modificare le proprie.
Non è che questo non possa accedere in senso assoluto in una comunità virtuale, ma in genere accade a chi è già predisposto all’ascolto e possiede altre positive virtù dell’animo. Per lo più, come già o scritto, si vedono transitare virtuali presenze individuali dotate di granitiche certezze, di “capacità di engagement”, dispensatrici di saggi consigli che per altro hanno un preciso fine (se non è quello del venderci qualcosa): la sfuggente chimera del successo. Chi non dispensa, è invece alla ricerca del proprio “momento di gloria” (personale o professionale) tenendosi appeso a quel pezzo di banda wi-fi che grazie a Dio esiste e ci è data in dote. Salvo poi sparire gli uni e gli altri, quando la Comunità (vita?) reale – quale che sia e quali che siano gli accadimenti fausti o infausti – chiama, esige, si fa presente.
Insomma continuiamo a chiamarle “comunità virtuali” ma non confondiamo il virtuale con il reale.
Note sull’Autore_
Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti. Appassionato di Design e Fotografia.
Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.
Un tempo si diceva di noi italiani “popolo di poeti, santi e navigatori” ma, di questa gradevole descrizione, pare non esserne rimasta traccia nel nuovo mondo, essendo stata sostituita, da molto tempo ormai, dalle parole d’ordine che ci etichettano senza possibilità di replica: pizza, spaghetti, mandolino e… mafia!
Richard Nixon, particolarmente noto per il suo essere integerrimo, onesto, trasparente e ligio alle regole, ebbe a dire “gli italiani, tutti conniventi con la mafia, non puoi trovarne uno che sia onesto”. Certo, detto da lui è un po’ come sentirsi dare del mafioso da Totò Riina, che non sai se ridere o piangere.
Bob Marley (personaggio molto meno ambiguo del precedente, ma altrettanto universalmente noto) dal canto suo ebbe a dire, scivolato il discorso sulla credibilità dei giornali: “È vero che tutti gli italiani mangiano pizza e sono mafiosi? Perché è questo che scrivono i giornali”.
Analizzando la considerazione che gli Americani hanno dell’italoamericano medio (in particolare) e dell’italiano più in generale, ne viene fuori un ritratto disastroso, un elenco infinito di stereotipi, di miopia che non permette di vedere la propria immagine e i propri difetti allo specchio, in un coacervo di preconcetti, più dannosi che inutili.
E così i “poeti santi navigatori” diventano, nella visione a stelle e strisce, una banda di pseudo mafiosi, corrotti e corruttori, dalle scarse capacità professionali, dalla bassa statura intellettuale e dall’ancor più bassa statura morale, caciaroni e disordinati, più propensi all’impiego dipendente – meglio se statale – che non all’imprenditoria privata, al lavoro fatto di furbi e truffaldini espedienti e alla vita al di sopra delle proprie possibilità.
Che meraviglia! Questo è quello che negli USA dicono e pensano di noi.
Certo, dicono anche che, almeno storicamente, abbiamo espresso grandi geni e artisti, che siamo ottimi cuochi, che costruiamo belle macchine (de gustibus…) e che di moda ne sappiamo una più del diavolo, anche quando quest’ultimo veste Prada, ma solo in patria. Una volta giunti negli States, pare che si subisca una metamorfosi regressiva impossibile da evitare, nonostante, per linea di massima, siamo comunque apprezzati sul posto di lavoro (ipocrisia?).
L’italoamericano medio diventa, nell’immaginario collettivo, il cittadino di serie B, di classe bassa e di bassa cultura, il pizzaiolo, il poliziotto corrotto, il vigile del fuoco imboscato, il mammone rissoso e spaccone, il gigolò semi analfabeta, palestrato e pieno di brillantina che, per avere un’alternativa, al pari di portoricani e afroamericani, è costretto ad arruolarsi nell’esercito o a lavorare per il mafioso della zona.
Un ritratto ampiamente negativo, ribadito nei tanti, troppi, reality show e telefilm che, oltre oceano, deridono quella fetta della loro stessa popolazione, che ha come marchio d’infamia le origini italiane. Un esempio di estremizzazione dell’immaginario collettivo è l’ennesimo programma donatoci dalla televisione spazzatura, quel Jersey Shore che, mi auguro, non sia più in palinsesto, a tal punto offensivo nei confronti degli italiani d’esportazione e talmente dozzinale nell’uso dei preconcetti, da aver scatenato più volte la furiosa reazione di UNICO National, l’associazione degli italoamericani del New Jersey.
Che poi sia (lo scontro fra classi ed etnie) affidato a programmi di bassissima lega, che vanno in onda sui peggiori e secondari canali televisivi, la dice lunga sul livello culturale della diatriba.
Ma sia chiaro che, la televisione, come qualsiasi altro media generalista, non ha responsabilità dirette, al di fuori delle sue legittime scelte di marketing (parliamo di TV commerciale). Essa offre solo ciò che il pubblico richiede ed è disposto a guardare. La colpa, se di colpa vogliamo parlare, è di chi annichilisce la propria psiche e imbavaglia il proprio intelletto per dedicarsi a tale pattume mediatico.
Il fatto che i migliori scienziati operanti negli States siano italiani, passa in secondo piano, diventa irrilevante in un discorso denigratorio che si muove per schemi e per slogan. Per l’americano medio, quello che voleva rendere ancora grande l’America e chiudere le frontiere, tutto passa in secondo piano, in questo relativismo concettuale: a dispetto di mille prove a discarico, l’italiano resta, sempre e comunque, colui che ha esportato la mafia.
Touché!
Purtroppo la forma mentis in questione non è solo americana, ma è un male comune, fatto di becero e inutile campanilismo, che spesso sfocia in un altrettanto inutile razzismo, condito dall’ignoranza degli altrui usi e costumi e da una pretesa di superiorità del tutto immotivata. A titolo di esempio, è utile ricordare che, in alcuni Paesi del centro/est Europa, per bollare come tonto (nel senso di poco sveglio) qualcuno, spesso gli si dà dell’italiano.
Esattamente allo stesso modo in cui noi italiani usiamo l’appellativo “zingaro”, seppur veicolando ben altro significato di pari ignoranza.
Molto più facile parlare male dello straniero e del diverso, ingigantirne i tic, alimentare le leggende metropolitane che lo riguardano, piuttosto che provare a capire le diversità e farne tesoro, allargando la mente e gli orizzonti, perché se è vero che a tutti possiamo insegnare qualcosa, è altrettanto vero che da tutti, ribaltando la questione, abbiamo qualcosa da imparare. Ciò che è diverso va combattuto in quanto anormale turbativa della nostra omeostasi culturale, della nostra normalità il cui contrario è la diversità più denigratoria, qualunque cosa voglia significare essere normali.
Noi stessi non siamo immuni al nefasto atteggiamento e, dimentichi delle nostre peculiarità comportamentali, in patria e fuori, pretendiamo di essere gli unici depositari della cultura e della giustizia, oltre che della civiltà stessa, nel resto del mondo, pretendendo di chiudere a doppia mandata quelle frontiere che, quando fu il nostro turno d’andar per il mondo, pretendemmo aperte. E così, anche in Italia, si ragiona per compartimenti stagni. Lo spacciatore è sempre marocchino, lo stupratore è sempre rumeno, albanese o nigeriana la prostituta, giusto per citare alcuni esempi diffusi (un sempre pretenzioso e assoluto, che non trova conforto nei dati e nelle statistiche annuali del Viminale), come se infangare le altre etnie, gli altri popoli ci rendesse degni di rispetto. Come se, denigrando gli stranieri, potessimo finalmente sentirci un popolo (cosa che mai siamo stati e, forse, mai saremo).
Come se, in senso generale, buttare il fango addosso agli altri, ci rendesse automaticamente e senza sforzo più puliti e brillanti!
Due pesi e due misure, a celar la xenofobia di fondo che imbratta il ragionamento e che ci porta a chiedere a gran voce l’espulsione immediata dal Paese, dello spacciatore africano, arrestato con otto grammi di hashish, ma che non ci ha spinti a chiedere lo stesso provvedimento per i Riina, i Provenzano, i Mutolo, gli Schiavone, gli Zagaria e tutto il resto della feccia mafiosa!
Tutto il mondo è paese, certo, e ovunque ci sarà sempre chi parla male degli altri, degli stranieri, dei diversi, di coloro che non sono da considerare normali, secondo standard del tutto soggettivi. Perché, in fin dei conti, siamo tutti stranieri, se visti dal di fuori dei nostri confini. Ciò dipende solo dal punto di osservazione. Troppo difficile vedere, capire e risolvere i propri comportamenti sbagliati e le proprie pessime abitudini. Troppo complicato far tesoro delle differenze tra popoli, arricchendosi d’esperienza e di conoscenze nuove, scoprendo realmente i nostri interlocutori, liberandoci così, dalle sterili generalizzazioni e di quel nugolo di muffose convinzioni stereotipate.
Molto meglio, più facile e veloce, indolore quasi, additare gli altri, generalizzando e sparando nel mucchio, a volte solo per partito preso e per appartenenza politica. O religiosa.
Cambia il paese, ma le cattive abitudini no, quelle restano e si moltiplicano. Come la gramigna!
La pessima abitudine di notare le cose sbagliate solo se fatte da altri stenta a morire e, anzi, gode di ottima salute se non, addirittura, di vita eterna. E così, quella serie di sciocchezze e stereotipi che noi usiamo nei confronti degli stranieri, residenti o meno in Italia, per sentirci migliori e mascherare le nostre umane miserie, altrove (soprattutto oltreoceano) resta identica.
Cambia solo il bersaglio, il destinatario dell’insulto: questa volta, nel mirino ci siamo noi italiani!
Noi che, in patria, ci sentiamo depositari della cultura, dell’arte, di tutto ciò che è bello e sano, padri fondatori della civiltà moderna, profondi conoscitori della vita e del mondo intero (senza magari aver mai viaggiato) come se il resto del mondo fosse una nostra provincia, come se gli orologi della storia fossero rimasti fermi all’impero romano o al rinascimento. Noi che pretendiamo di essere migliori degli altri, di saperne una più di loro e che, di ognuno di loro, essere più furbi. Salvo poi vivere in una stagnazione economica secolare che, da sola, la dice lunga sulla nostra evoluzione e sul nostro essere perennemente il fanalino di coda europeo nelle innovazioni e nell’integrazione tra Paesi.
Noi italiani abbiamo tanto da dire, altrettanto da fare e grazie al quale farci volere bene. Ma ciò non accadrà se, noi per primi, non usciamo dal gorgo degli stereotipi, dei meriti ingigantiti e delle colpe delegate.
Denigrare gli altri per sembrare migliori noi stessi. Il concetto resta uguale, da qualunque angolazione lo si guardi. Cambia la lingua come la bandiera, ma questo atteggiamento distruttivo resta solo un dito puntato contro il nulla, quale che sia il colore della sua pelle.
Nota sull’autore_
Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano. Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.
Un farabutto esistere.
di Carlo Marrone_
A Ischia, dove passo diversi mesi l’anno, naturalmente quelli che vanno dalla primavera all’autunno, c’è un piccolo ristorante che denuncia la propria particolarità già nel nome, “Cozze Anonime”, e che apre un solo giorno la settimana.
Anzi, non tutte le settimane: solo tre su quattro e solo nei mesi estivi e primaverili, quelli in cui vivo la stagione pure io.
A Marzo apre solo il tempo di far prendere aria ai locali rimasti chiusi di inverno, togliere la muffa ma, se è ispirato, e non è affatto detto che ciò accada, il proprietario decide di dar da mangiare a che ne faccia richiesta.
Non posso mettere una foto che lo mostri, perché il titolare me lo proibisce tassativamente.
Perfino a me, che sono ormai da anni il suo cliente preferito.
Non è una cosa irrilevante, perché si tratta del ristorante, dicono, più richiesto al mondo.
Mi spiego meglio: io, come cittadino onorario (quale mi sento) di questo piccolo paesino che si affaccia sul golfo di Napoli, valgo come uno zircone in una cesta di diamanti. Eppure, in questo ristorante, io arrivo senza prenotare mentre i proprietari degli Yatch che ormeggiano nel pontile di fronte, attendono mesi per ottenere la prenotazione, e spesso devono chiamare ad inizio primavera per assicurarsela.
Questo privilegio dipende dal fatto che ormai dieci anni fa, salvai il cane del proprietario del ristorante, che era caduto in acqua mentre abbaiava ad una barca che stava facendo manovra, rischiando di restare schiacciato tra banchina e scafo.
Il giorno dopo quel salvataggio, mentre ero al bar a prendermi il mio abituale caffè mattutino seduto al solito tavolino con vista sul mare, forse informato dell’evento della sera precedente, il titolare del ristorante venne a ringraziarmi.
Mi ero guadagnato l’eterna riconoscenza del titolare de “la cozza anonima”.
Luigi, è un uomo di circa 65 anni, pienotto, con la faccia butterata ed un sorriso indecifrabile. Mi ricorda Charles Bukowski . Non è quello che si dice un bell’uomo eppure, e non so come sia possibile, ha più fascino di molti altri che magari sono oggettivamente considerati belli.
La bellezza non ha misure o regole ferree, non è vero che sia oggettiva.
Il giorno in cui scrissi questo racconto, mi trovavo dunque seduto al ristorante, nel tavolo all’angolo che ormai era diventato quasi di mia esclusiva pertinenza, e stavo aspettando mi portassero il piatto che secondo me non ha eguali al mondo.
Una carbonara di mare con cozze, capesante, guanciale, ricotta salata e gamberi. Se venisse replicato da qualunque altro cuoco al mondo, sono sicuro che risulterebbe immangiabile.
Mentre mi gustavo il piatto, con un ottimo bicchiere di vino bianco freddo, naturalmente un Mamertino di Milazzo DOC, notai che l’uomo nel tavolino di fronte a me, veniva trattato con grande rispetto e un signore anziano gli stava facendo firmare una foto.
L’uomo, anziano anche lui, doveva essere stato una celebrità ma, onestamente, non riuscii subito a riconoscerlo.
Aveva i capelli lunghi e bianchi ed una barba dello stesso colore malcurata, anch’essa lunga.
Provai a guardare di sfuggita la foto sulla quale stava scrivendo la sua firma, risalente a quando era giovane. Poteva essere stata una rockstar, forse un chitarrista di una band inglese del periodo hippy, anche perchè nella foto che stava firmando, alle sue spalle, si notavano delle tribune di uno stadio.
La foto era così originale, anzi unica, da rimandarmi indietro con la memoria al punto di farmi ricordare il nome dell’uomo: Ezio Vendrame, giocatore di calcio negli anni 70, talento e indisciplina da vendere, uno dei primi dissacratori del sistema, un visionario.
Mentre visualizzavo le figurine che avevo collezionato e che lo ritraevano, non mi ero accorto che lo stavo fissando e, prima che potessi trovare qualcosa da dirgli, di solito sono banalità, si rivolse a me anticipandomi con un “noi due ci conosciamo forse? È stato un calciatore pure lei? “
No, gli risposi, ho giocato anche io a pallone ma come dilettante, ora più che altro mi piace scrivere. Scrivere di storie di uomini che possono aver lasciato un segno del loro passaggio. Possiamo bere un bicchiere insieme?
Il Campione mi avvicino una sedia come ad invitarmi, e io mi sedetti al suo tavolo.
Nella località dove mi trovavo, c’era un hotel frequentato da personaggi noti, attori, sportivi, anche politici molto importanti, spesso.
La mattina di quella giornata avevo avuto l’occasione di parlare con un regista famoso ed una attrice altrettanto nota, entrambi ospiti del festival del cinema che si teneva li ogni anno, ma sedermi vicino a Vendrame, per me era di gran lunga il momento più emozionante della giornata.
Ezio Vendrame era unico. Personalmente lo ritengo, insieme a Paolo Sollier, per la politica, e naturalmente Gianfranco Zigoni, considerato anch’egli un anomalia nel sistema calcistico dell’epoca, tra i pochi giocatori che per meriti non esclusivamente sportivi, hanno il diritto di restare nella storia di questo sport.
Anche Gigi Meroni, che andava in giro con una gallina, e la cui tragica morte forse lo ha aiutato ad entrare nel mito, non aveva lo stesso carisma e spessore di Vendrame.
La cultura sportiva, in Italia, e anche in alcune redazioni, manca completamente. Intendo dire la cultura vera, quella che al di là della disciplina sportiva specifica, riesce a raccontare storie di uomini che non sono passate inosservate e che anzi spesso vengono tramandate.
Superate le domande formali sul tempo e sullo stato di salute, cosa peraltro ipocrita e di cortesia, perché all’apparenza i suoi 73 anni non erano molto ben portati, gli chiesi se fosse vero l’episodio di quando giocava nel Vicenza e si rivolse ad un gruppo di tifosi rimproverando loro di osannare una persona che si limitava a giocare a calcio.
“ beh..oggi una dichiarazione del genere, nella superficialità ideologica che dilaga, verrebbe messa in risalto e avrebbe un sacco di consensi ma allora eravamo in un periodo quasi di guerra civile, con gli operai fuori dalle fabbriche e le Brigate Rosse che facevano propaganda all’interno delle stesse, ed io onestamente credo che la mia uscita in fondo era anche un po’ banale e qualunquista…! “
Erano gli anni Settanta, i primi, e personaggi così non ce n’ erano molti nel calcio: capelloni magari sì, estroversi pure, ma spregiudicati e spontanei anticonformisti no, non molti davvero.
“Del calcio non mi fregava nulla neanche allora: le pressioni, l’ansia del risultato, le restrizioni alla vita privata, tutta roba che mi faceva schifo. Allora in campo mi inventavo qualcos’altro: era il mio modo per ripagare tutta quella gente che, chissà perché, mi veniva a guardare giocare”.
Un suo modo di sbeffeggiare quello che in fondo era il suo lavoro, era racchiuso in un gesto irriverente. A volte quando aveva il pallone tra i piedi, in una azione in cui la sua squadra stava attaccando, si fermava all’improvviso, saliva con entrambi i piedi sulla palla, e con la mano sopra la fronte a mo’ di vedetta, scrutava l’orizzonte.
“Era un modo per far capire che oltre al calcio, che era già allora era preso troppo sul serio, c’era dell’altro. Bisognava guardare oltre….“
Ma forse questo gesto era anche il suo trucco per esorcizzare qualcosa: una sorta di tensione interiore, una profonda sofferenza nell’ affrontare le domande della vita.
Ritiratosi a fine carriera in una frazione vicino al suo paese, Casarsa della Delizia, dove è sepolto Pier Paolo Pasolini, Vendrame rilasciò un giorno una intervistà a Gianni Minà, proprio sulla tomba del Regista e Poeta bolognese.
“ Minà voleva scusarsi di avermi fatto fare 250 km per una intervista che reputavo ignobile e mi propose di rimborsarmi la benzina. Ma io gli chiesi di raggiungermi al mio paese, Casarsa, al cimitero, dove gli avrei raccontato storie ed aneddoti. Gli dissi, “vieni che ti presento il mio compaesano più vivo di tutti, peccato che sia morto…”
Un altro poeta, e cantautore, Piero Ciampi, suo grande amico, ha rappresentato il suo legame con la scrittura e la poesia.
“A Piero devo tutto. Quello che so l’ho imparato da lui. La sua morte mi ha sconvolto, al punto che decisi di smettere di giocare e dedicarmi a coltivare l’anima “
Diventa egli stesso poeta, pubblica raccolte di versi, soprattutto ricordi.
“Il calcio è una cosa volgarissima, rispetto alla poesia “ mi dice prima di sorseggiare un po’ del vino che stiamo condividendo.
“E da un bel po’ che sto male. Vorrei non pensarci, ma mi viene difficile non farlo. Me ne sto a casa, penso, rifletto, ogni tanto mi torna la voglia di scrivere, ma non sempre lo faccio. Esco poco ormai, fuori sono aumentate a dismisura le persone insopportabili. Il 23 dicembre mi barrico in casa e scrivo i miei versi. Riemergo all’Epifania perchè il peso delle Feste mi è insopportabile “.
“Se mi mandi in tribuna, godo” e “Una vita in fuorigioco” sono due dei suoi libri, che in fondo possono essere considerati una summa della sua vita.
“ .. si, ma ne ho scritti anche altri, erano un copia incolla di ricordi, ma che funzionava”.
Un elenco di racconti e verità, doping, partite truccate, sesso.
“Durante un Padova- Udinese mi offrirono sette milioni per giocare male, senza sapere quante volte avevo fatto schifo gratis…durante quella partita segnai direttamente dal calcio d’angolo e mi soffiai il naso con la bandierina posizionata sul corner ” ride, ricordando l’episodio.
Usa un linguaggio vietato ai minori che oggi sarebbe quanto meno, politicamente scorretto, come si (ab)usa dire.
«Ma sono le parole del calcio: i giocatori sono ragazzi, spesso ignoranti e maleducati, e non sono leccati e precisini come li vedete in tv. Non facciamo gli ipocriti».
Una istigazione all’autoerotismo…
“ Ragazzi, buttate nel cesso le vostre playstation e rinchiudetevi nei bagni con un giornaletto giusto in bella vista. Quando uscite, innamoratevi di una bella figliola: il sesso fai da te è bello, ma quello con una coetanea è meglio ..”
Comprensibile che la comunità rumoreggi, che parroci e curati non gradiscano.
La ricca e benpensante provincia del Nordest, non sopporta che i propri figli amino un beat, un reperto archeologico del Sessantotto.
Per sopravvivere e pagarsi l’affitto “ la proprietà è un furto ” mi dice, riprendendo uno slogan tanto caro negli anni ‘70, allena i giovani della Sanvitese.
“ il padre di un ragazzo che allenavo, mise un assegno in bianco in mano al presidente della Sanvitese: metti tu la cifra, basta che licenzi quel matto. “
Proposta respinta.
“Boniperti disse che con la sua testa avrei giocato in nazionale , ma io in nazionale ci gioco da sempre, perché da sempre io faccio quello che voglio, senza permettere a nessuno di poter vivere la mia vita ..io, discepolo di me stesso, arrogante, presuntuoso, vanitoso, asociale, masochista, egoista, e dunque libero ”.
La vita di Vendrame è fatta di amori maledetti, sofferti, passionali. Erotismo crudo a volte crudele. Paura della morte e della vecchiaia. Una tendenza a mettersi in discussione insopprimibile, anche se dolorosa, feroce.
Perché lo ha fatto? Perché non si è accontentato di tenere per sé tutto questo?
“Perché sento di vivere in un mondo in cui faccio fatica a stare, e forse scrivere è anche un modo per sentirmi meno isolato”
Parole, pensieri, poesie di un settantacinquenne che ha vissuto, e non certo soltanto di calcio: l’unico grande protagonista della sua storia tenuto al di fuori, emarginato, come una parentesi insignificante dentro un racconto di cose più serie.
“Qui a Casarsa si sono dimenticati di Pasolini, si figuri se potevano ricordarsi di me… ”.
Una testimonianza straordinaria, dalla viva voce di un campione degli anni epici: avevo persino la testa che mi girava, e non credo che dipendesse solo dal vino.
Lo ringraziai e lo abbracciai.
Avevo un appuntamento per il quale ero già in ritardo, e dovevo andarmene con una certa fretta.
Imboccata l’uscita, mi girai per guardarlo un ultimo istante.
Non c’era.
Non c’era nemmeno la foto autografata sul tavolino; la foto con cui avevo condiviso il mio bicchiere di vino in una fantasiosa chiacchierata che, a guardar bene, non aveva avuto alcun bisogno di essere reale.
Ho conosciuto Ezio Vendrame tuffandomi nei racconti appassionati di tutti i cronisti che lo hanno ricordato negli anni successivi alla sua carriera.
Le risposte qui sopra risalgono ai video e alle interviste da lui rilasciate negli anni, e che ho potuto recuperare attraverso il web.
Il mio bicchiere di Mamertino, però, l’avevo bevuto da solo, come solo avevo camminato lungo il mare per arrivare al ristorante dove sedevo e scrivevo questo pezzo.
Di quel ristorante in cui si mangiano cozze e ricotta, la porta è ormai murata da decenni, da prima che io nascessi.
Perché chi scrive in continuazione lo fa per sfuggire alla solitudine, pur non riuscendo a fare a meno di essa.
Carlo Marrone è stato un professionista del content marketing di una piattaforma di vendita inbound che aiuta le aziende ad attrarre visitatori, convertire lead ed è specializzato in closing. In precedenza, Marrone ha lavorato come direttore marketing per una startup di software tech. E’ esperto di Business Administration e Scrittura Creativa. Nato a Vicenza, dove ha passato la sua gioventù, si è trasferito a Milano dove ha vissuto e lavorato fino al 2010. Oggi vive tra Ischia, Napoli e, raramente, Milano.
Appassionato di football, ama scrivere soprattutto di persone e delle loro storie.
E infine ritornammo a… prendere il caffè al banco del bar! Non me ne voglia il Sommo Poeta, di cui ricorrono quest’anno i settecento anni dalla morte, se abuso dei suoi sublimi versi, snaturandoli e riconducendoli allo scopo, ma m’era d’uopo per l’introduzione di un concetto, che dal caffè muove i suoi passi, ma che reca con sé ben altro aroma, quello fetido della mediocrità e dei punti di vista superficiali.
Il caffè, dicevamo. Quasi un rituale, una tradizione in quella tazzina, che mancava a molti, dato il particolare momento storico che stiamo vivendo e che, a seguito dei vari lockdown, più o meno rigidi, ha partecipato a rendere ancor meno gradevole la situazione “pandemica” e il suo ingombrante riflesso sull’ordinario quotidiano di tutti noi. Perché in quel caffè, non c’è solo la caffeina che dovrebbe tenerci svegli, il gusto, il profumo, ma un universo mondo di socializzazione, interazione, umana convivenza, scambi e battute, momenti di vicinanza occasionale anche tra chi, normalmente, vicino non è.
E chiacchiere, quelle da bar, che con la superficialità più spensierata, trattano argomenti di vitale importanza, talmente pesanti e profondi che nemmeno un simposio basterebbe a esaurire.
Nelle chiacchiere da bar, che intervallano Mancini a Draghi (magari anche confondendone i ruoli), ci trovi di quelle perle di geopolitica e di economia internazionale che ti sogneresti altrove. Lectio Magistralis su ogni ambito, anche il più complesso e ostico dello scibile umano. E complottismo, tanto complottismo, che quello, insieme alla controinformazione e al caffè, al bar non manca mai.
Non che fosse inedita, essendo giunta già altre volte al mio incolpevole orecchio, ma la perla di questa mattina riveste, di fatto, una particolare e rilevante importanza, lapidaria come solo la più becera superficialità sa essere, atta solo a infiammare gli animi, a farci sentire artificiosamente uniti perché attaccati dall’alto, vittime di un complotto sistemico, dei poteri forti, di qualche più o meno credibile para-governo transnazionale, contro il quale fare quadrato, sentirci popolo, magari cantando dal balcone. E quale migliore occasione per unirsi, se non quella di avere un nemico comune, sia esso rappresentato dai migranti e dai profughi, o da un virus di cui ben poco si sa, ma ben troppo si dice.
Diceva questa mattina, ai suoi attenti ascoltatori, il solito beninformato avventore – quello che ne sa sempre una più del diavolo e di Gesù Cristo messi insieme, che le notizie le apprende prima degli altri, perché sua zia è la cugina del parrucchiere dell’amica del cuore della Meloni – che Loro (nei complotti i cattivi si chiamano sempre “Loro”, evidente retaggio di una sindrome paranoica più o meno latente), ci vogliono ignoranti e disoccupati, per poterci controllare meglio.
Probabilmente, mentre l’uomo asseriva cotanta bestialità, nel mondo, un pensatore esalava l’ultimo mortale sospiro, fulminato da qualche raro e inspiegabile colpo apoplettico.
Perché, tutto sommato, può anche essere lecito, dato il contesto ludico e goliardico, ergersi ad allenatori di qualsivoglia sport (io avrei fatto così) o a Premier politici (io avrei fatto cosà), commentando male quelle notizie che si sono comprese ancora peggio. O a cedere alla velleità di sostituirsi ai giudici, senza nemmeno aver studiato gli elementi processuali e le motivazioni della sentenza. Così, per sentito dire, provando a interpretare un titolo o poco più, magari buttando distrattamente un occhio ai post di facebook. Ma il ragionamento, signore e signori, il ragionamento, quello è altro dall’informazione dozzinale e non può permettersi il lusso di essere altrettanto. E’ un percorso interiore che porta all’elaborazione del mondo circostante, per arrivare a edificare quella che, almeno in apparenza, è la propria personale e soggettiva idea. E il proprio assetto mentale, non può essere così poco importante da relegarne la cura alla fretta, alla superficialità e alle chiacchiere da bar.
Loro ci vogliono ignoranti e disoccupati, perché così siamo più controllabili.
Analizziamola insieme, questa “perla” di saggezza, partorita tra un bianco e un amaro:
Loro ci vogliono ignoranti…
Ammetto che questa parte rechi con sé una quota di verità, essendo incontrovertibile che, un popolo ignorante, sia più controllabile. Ma è l’angolazione con cui si guarda la questione, a essere sbagliata. E’ fondamentale in primis operare un distinguo tra ignoranza e incapacità di pensare e, in secondo luogo, prender atto e coscienza che, l’ignoranza di oggi, non è quella di cent’anni fa. Oggi, complice un sistema scolastico raso al suolo e destrutturato ai minimi storici, mera ombra di se stesso, siamo ignoranti e incapaci di un pensiero complesso, ma con un diploma o con una laurea appesi al muro e con tanta speranza da custodire nel cuore, talmente tanta che nemmeno nei Promessi Sposi. Perché sono quei titoli di studio, incapaci ormai di fare la differenza sul mercato, a riempirci la pancia e a renderci più tranquilli, più docili, più sereni, con la coscienza a posto (sono disoccupato, ma ho studiato, che altro potevo fare?) e con l’illusione di poter disporre liberamente del pensiero indipendente.
E ci si adagia in questa convinzione, in questa deleteria speranza che tutto uccide (perché tutto muore, a furia d’aspettare) avvolti dalla copertina di Linus che ci vuole precari a tempo indeterminato, indottrinati improduttivi a carico di genitori che, sempre più anziani, sono i reperti fossili di un’opulenza che fu e di una stagnazione secolare che occlude l’orizzonte futuro, ammantati da un’illusoria speranza sempre più nebulosa, una certezza sempre più lontana che intanto ci mette tranquilli, c’induce all’attesa, ci fa aspettare, lasciandoci seduti, zitti e buoni, che tanto, presto o tardi, il nostro momento verrà.
E addio rivoluzione, come avrebbe sentenziato il buon Peppone!
Questa ignoranza specifica (non quella assoluta di cent’anni fa, che almeno ci lasciava l’arguzia) è dovuta alla barbarica semplificazione del linguaggio, operazione nefasta che, a sua volta, banalizza il pensiero, tarpandone le ali e castrandone l’estensione. Stiamo allontanando la Filosofia dalla scuola (nei licei s’insegna solo la sua storia e se ne insegna sempre meno), stiamo rendendo più veloce, superficiale e meno profondo il pensiero, la capacità di creare connessioni
Che poi, a furia di semplificare, si sfocia nel banale e nell’inconcludente.
Ma non dobbiamo cedere all’errore di pensare che le parole servano solo ad esprimere il pensiero. La questione è ancora più profonda e ribalta il punto di vista: noi pensiamo limitatamente alle parole che possediamo, quindi, come c’insegna il Pof. Umberto Galimberti, le parole sono la forma, non il vettore, del pensiero, l’elemento collante strutturale, la materia che conferisce concretezza all’astratto. E una scuola che riduce la filosofia al mero insegnamento della sua storia, che riduce tutto al più inutile nozionismo mnemonico, di certo non aiuta. Non possiamo pensare a qualcosa, in termini completi e trasmissibili a terzi, senza averne in mente la definizione linguistica. Il filosofo Martin Heidegger ha scritto che “dove la parola manca, manca il pensiero” e ci basti pensare alla differenza culturale tra Greci e Latini, a ciò che hanno rispettivamente realizzato ai loro tempi e al relativo lascito a beneficio dell’umanità, per avere il polso della questione.
Non a caso, i primi, avevano 80.000 vocaboli, contro gli appena 4.000 dei secondi. E tutto il resto è storia.
Ma se, almeno in parte, dobbiamo riconoscere un minimo senso logico, alla prima parte della frase, seppur la questione fosse analizzata dal punto di vista sbagliato, presi in esame tutti i distinguo appena espressi e argomentati, la seconda parte è paradossale:
… e disoccupati!
Ed è qui che casca definitivamente l’asino (con tutto il rispetto per l’intelligente ma bistrattata bestiola) perché l’errore è così evidente, talmente lampante che avrebbe stupito persino il signore di La Palisse. Un errore che disconosce le ragioni storiche di molte sommosse popolari, in cui masse intere si sono sollevate contro la tirannide per fame, per la mancanza di denaro e di aspettative lavorative, per la disperazione di non poter sfamare i propri figli, di non riuscire a vestirli o a curarli, proprio a causa della povertà che è figlia, erede naturale, della disoccupazione. Una situazione in cui la speranza implode (e per fortuna) lasciando montare la rabbia della rivolta, perché la speranza è l’ultima a morire, ma prima o poi muore!
Proprio all’opposto di chi, sazio e titolato, smette di fare e se ne sta comodo a sperare e ad aspettare un domani migliore. E addio rivoluzione (Bis)!
Diventa quindi evidente come sia proprio il contrario di quanto asserito dall’illuminato avventore del bar, a indurre il controllo sulle masse, sulla folla, sul popolo sovrano, che la sovranità ormai non ricorda nemmeno più cosa sia e come sia fatta, perché non ha le parole sufficienti a poterla descrivere.
Un popolo con la pancia piena, quello sì che è controllabile, proprio come una fiera nella gabbia del domatore di circense memoria, sedata e sazia, perché non sia aggressiva e intrattenga il pubblico con movenze da gattone dall’apparenza feroce. Una laurea vuota che ti lascia dentro ben poco, se non la speranza (sempre lei) un lavoro di basso livello, al quale corrisponde un titolo d’impatto sul biglietto da visita (siamo ormai tutti dottori e manager di qualcosa) e un magro stipendio in busta paga, a fine mese, che ci faccia sopravvivere ma non vivere davvero, permettendoci di pagare il mutuo quarantennale, le rate della macchina, quelle della Super Mega Smart TV o dello smartphone all’ultimo raglio della moda – e perché no? – anche quelle per le ultime vacanze. Che tanto, ormai, si sopravvive a rate!
E’ saziandolo, che si controlla il popolo, non affamandolo ed esasperandolo. Un cane sazio non morde, al contrario di quello che, per effetto della fame o della paura, diventa aggressivo. Allo stesso modo, una persona con una parvenza di vita normale da tener lungi dal rischio, non scende in piazza e non muove rivoluzione. Perché, in fin dei conti, l’essere umano ha una sola immensa paura, più spaventosa di tutte le altre, anche di quella di morire o di parlare in pubblico. Ed è quella di perdere lo status quo, ciò che si rappresenta e ciò che si ha, il bilocale in periferia che finirai di pagare quando sarai in pensione (se ci arrivi alla pensione), una macchinetta mediocre che già cade a pezzi e una vacanza che, in condizioni normali, a malapena avresti considerato una gitarella.
Evviva la mediocrità che tutto appiattisce e ogni cosa scolora.
E’ così che si controlla un popolo, sedotto e sedato da un titolo di studio, talmente ridotto ai minimi termini da essere alla portata di tutti e da un lavoro, dalla speranza a entrambi correlata, insieme al minimo indispensabile (che siano quei quattro soldi lavorati o elargiti a vario titolo dallo Stato) per sopravvivere e trascinare una vita che – erroneamente – consideriamo dignitosa.
Dovesse mai scoppiare una rivoluzione, con tanto di tumulti e disordini e ribaltamento dei poteri, magari qualcuno ce lo porta pure via lo status quo, insieme a quel televisore da 80 pollici. E dove le guardiamo le partite di calcio che non ci fanno pensare ai problemi? E le 4 edizioni del telegiornale con cui ci riempiamo la testa ogni giorno? E i Talk Show che c’inculcano il pensiero unico o le serie Netflix fagocitate a turni di dodici episodi per volta che, di ogni rimanenza di pensiero critico, fanno sistematica tabula rasa?
Immaginiamo di spegnerla, o di non averla più, quella TV, di riaccendere la mente e di rimanere soli con i nostri pensieri, come auspicava Schopenhauer. Proviamo a riprenderci la capacità di pensare e di agire, per essere meno controllabili e ancor meno attendisti in preda alla speranza, riprendendoci noi stessi e fuggendo dagli stereotipi che tanto cattivo gioco fanno alla nostra intelligenza.
Chi ama i treni, usa definire il percorso di vita come un metaforico binario, una strada ferrata caratterizzata da rettilinei, curve, salite, discese… e scambi, soprattutto. Quegli scambi da intendere come il momento in cui si opera una scelta e che ci tiene incollati al ragionamento, all’esito statisticamente probabile, alla memoria e all’esperienza. Ma anche alla pancia, all’istinto, al lampo e all’intuizione.
L’essenza del concetto non cambia se, al posto di binari, volessimo parlare di nodi, paragonando la vita a una fluente chioma scompigliata dal vento, da esso sbattuta, avviluppata, agitata come fosse viva, annodata. Nodi da sciogliere, da dipanare per venirne a capo, comprendere il verso, il senso, la direzione delle cose. Perché la questione non riguarda solo i capelli del famoso adagio. Anche la vita stessa si aggroviglia in infiniti nodi (metaforicamente parlando, in questo caso) che, presto o tardi, al pettine della resa dei conti, ci arrivano.
E possono far male, proprio come una tirata di capelli.
Ma qual è il nesso tra i nodi, gli scambi ferroviari, il buonsenso e il compromesso?
I transalpini lo definiscono bonsens, ma la piccola differenza linguistica non cambia la sostanza. Parlo dell’essenza del concetto che definisce, anche con l’accento francese e con le parole del dizionario Treccani, la capacità naturale e istintiva di giudicare rettamente, soprattutto in vista delle necessità pratiche. Quella capacità, quindi, di disperdere le nebbie e dissipare i dubbi, di analizzare, distillando il senso delle cose, per comprendere il da farsi, senza azzardi eccessivi o troppa ristagnante speculazione. E’ il buonsenso che suggerisce di raggiungere la corretta preparazione, prima di affrontare qualsivoglia sfida, sia essa di natura sportiva o d’affari. E perché no? anche d’amore. E’ sempre lui, il buonsenso, a dirci che è fondamentale imparare a giocare a calcio, prima di scendere in campo per una partita ufficiale, passando ore a preparare il fisico e la strategia, l’interazione con la palla e coi compagni, con il pubblico e con l’arbitro.
Non è una cosa che s’improvvisa e, quello calcistico, è solo un esempio al quale potremmo affiancarne a centinaia. Per fortuna del lettore, proprio il buonsenso mi suggerisce di arrivare al dunque, senza ulteriori preamboli.
E il dunque si palesa, muta forma e scenario, vira la rotta bruscamente, allontanandosi dai manti erbosi per giungere, quasi planando sulle ali del filo logico, sul terreno d’altro gioco, ben più scivoloso e complesso, ch’è quello della creazione di un’impresa. Perché proprio come non si veste la maglia di una squadra di serie A, scendendo in campo da titolare, privi della preparazione adeguata, senza l’allenamento sufficiente a sostenere il ritmo e a fare bene, allo stesso identico modo non si vestono i panni dell’imprenditore, senza prima essersi preparati, facendo proprio quell’ecosistema di competenze e di assetto mentale, che costituiscono il bagaglio minimo e indispensabile a legittimare l’azione.
E’ come quando vai per mare. O per cielo. Mai metteresti in acqua una barca se, il bacino che la ospiterà, non ti fornisse una quantità d’acqua minima e sufficiente a tenerla a galla e mai salteresti da un aereo senza saper usare un paracadute, ignorando la gestione delle correnti e i principi aerodinamici di base. Allo stesso modo, non si crea un’azienda senza le condizioni minime per poter partire, muovendosi casualmente, come uno sprovveduto automobilista che si avventura lungo un percorso che non conosce, con la macchina in riserva e qualche spia rossa accesa, a caso, sul quadro strumenti. O senza la ruota di scorta, giusto per rincarar la dose.
Perché l’imprenditoria, come lo sport professionistico, come qualsiasi altra attività dello scibile umano, non s’improvvisa. Non s’improvvisano i trofei, le coppe, le medaglie, come non si improvvisa un fatturato in crescita, uno sviluppo internazionale, la leadership di mercato o la exit di successo. Ci sono delle condizioni minime da rispettare, in entrambi i casi, che s’insegua una palla o l’ingresso in borsa.
Ciò non significa attendere passivamente la perfezione, arrovellandosi in annosi calcoli, ma inseguire e creare attivamente quelle condizioni di partenza, per far sì che la nostra creatura abbia di che navigare, una rotta lungo la quale andare, qualcuno che la sappia pilotare e il carburante, almeno sufficiente a raggiungere la prossima tappa, il prossimo step, non necessariamente la meta.
Senza suicide improvvisazioni, perché il fallimento, nel mondo reale, costa denaro, risorse, sudore e sangue, vita e vite.
Il momento giusto per partire non è adesso, non necessariamente e non per forza, come spesso leggiamo o sentiamo dire, molto superficialmente. Non ci si sveglia al mattino per andare in giro, senza sapere dove andare e come andarci, per lo meno se si vuole dare un senso alla giornata. Il momento giusto, quale che sia l’attività da svolgere, è sempre e solo quello in cui possiamo disporre degli elementi minimi, necessari a permetterne la nascita, almeno quella. Non quelli massimi, non la perfezione (mi ripeto volentieri), ma quelli minimi, appena sufficienti a prendere l’onda, senza farsi troppo male. A restare a galla o ad atterrare senza schianto.
Che per improvvisare, si deve essere dei fuoriclasse con due Spalle così! Con o senza S.
E invece, spesse volte, passiamo le giornate a documentarci, a studiare, a snocciolare le caratteristiche di cose futili, secondarie, non necessarie o ancor meno imminenti, del prossimo cellulare o dell’abbonamento alla Pay-per-view, ad esempio, perché non vorremmo mai comprare un oggetto non aderente alle nostre necessità. No, certe cose non si affidano all’imprudenza, dice il buonsenso, ma ci permettiamo il lusso di arrangiare una ragion d’essere professionale. Ancora troppi formatori, per superficialità e semplicismo, ci inculcano il pericoloso concetto secondo il quale, per fare qualcosa, ci si deve buttare, si deve improvvisare e imparare, strada facendo, dai propri errori, cosa che difficilmente possiamo permetterci, per via del timing tiranno (il tempo d’incubazione necessario a rendere profittevole un business) e delle risorse risicate – due motivi che portano spesso al crollo senza appello – confondendo sadicamente l’improvvisazione con l’approssimazione e con la (presunta) arte dell’arrangiarsi.
Ci dovrà pur essere una giusta via di mezzo, tra l’immobilità del perfezionista e l’incoscienza kamikaze dell’improvvisatore all’arrembaggio (che spesso alimenta le statistiche delle imprese cadute nei primi anni di vita), tra l’eterno attendista calcolatore e quello che chiude gli occhi e salta, senza nemmeno aver calcolato il punto d’atterraggio, azzardando il lancio del cuore oltre l’ostacolo, senza sapere cosa ci sia di là dello stesso (parafrasando i versi di Lauren St. John).
Ed è qui che entra in gioco il bistrattato compromesso, vilipeso anche quando, come in questo caso è ammantato di nobile utilità, perché posto al servizio del successo di tutti noi.
E’ il compromesso che ci permette di stabilire delle priorità, il livello logico e la fase in cui ci troviamo, se quella delle strategie o quella della loro discesa in campo. Ed è sempre il compromesso a farci mediare tra ragione ed emozione, tra mente e corpo, come abilmente spiegato dal neurologo portoghese Antonio Damasio che, nel suo eccellente libro intitolato “L’errore di Cartesio”, dimostra come le emozioni siano, in realtà, dimensioni cognitive.
Credo nelle idee che diventano azioni, ha scritto il poeta americano Ezra Pound e un’idea di base ci deve necessariamente essere (idea intesa come progetto articolato e cogitato), proprio come in un’azione si deve necessariamente sfociare, perché l’idea senza azione è sterile filosofia, mentre l’azione senza idea è pericoloso masochismo. Per dare un corpo alla mente e una mente al corpo, un’azione all’idea e viceversa.
Perché noi umani, in fin dei conti e in barba al vetusto concetto del “cogito ergo sum” (Cartesio, sempre lui), non siamo esseri pensanti che si emozionano, ma esseri emotivi che pensano.
Esiste senz’altro questa via di mezzo ed è proprio la fusione tra compromesso e buonsenso, in una sorta di nuovo sistema, capace di mediare le parti, le istanze, le aspettative e i bisogni, di sciogliere i nodi intesi come dubbi e perplessità, che ci aiuta a capire come osare un rischio almeno in parte calcolato, prevedendo la via di fuga e il piano B.
Un sistema utile a non finire come la mosca contro il vetro, per non relegarci al ruolo di aspiranti startupper perpetuamente inconcludenti, per non ricominciar sempre da zero, arrancando faticosamente fino al prossimo progetto, fino alla prossima battuta d’arresto, al prossimo tracollo e all’ennesima delusione.
“Perché Sciascia non ha avuto il successo popolare di altri scrittori siciliani?“
L’ho chiesto a un mio amico, grecista, di grande cultura, conoscitore profondo di cose siciliane.
“Era antipatico”.
Mi dice. Con il segno di diniego tipico dei siciliani: un movimento della testa non da sinistra a destra e ritorno, ma dal basso all’alto. Appena accennato.
C’è del vero. Ci vuole impegno per leggere Sciascia, seguirne la sintassi, fare i collegamenti, attendere le spiegazioni – di chi si parla? Chi sono i personaggi? – o andarsele a cercare. Di più: nessun personaggio mangia o si mostra interessato all’arte culinaria isolana, alle ‘fimmine’, ai paesaggi e insomma alla Sicilia orgia di colori e sapori che seduce i non siciliani (chè noi ne abbiamo pieni gli occhi e la bocca e ce ne ricordiamo con nostalgia solo quando siamo in altre meno variopinte e insipide latitudini). Raramente filosofeggiano – ed è paradossale che di Sciascia si ricordi fin troppo spesso l’apologo di uomini, mezz’uomini, ominicchi e quaquaraquà – molto spesso addirittura lavorano. Con scrupolo.
Insomma, antipatica come scrittura.
Neanche c’è spazio per autoassoluzioni, divagazioni, abbellimenti.
E una parola che non dipinge: scolpisce.
Ogni parola, come un colpo di scalpello o di martello, leva uno strato di materia e ci avvicina alla verità che c’è nelle cose: solleva, districa, taglia.. “al punto che non c’è nessun vuoto, e nessun elemento superfluo, per cui il soggetto consegue la massima espressività nel minimo spazio possibile” (cito dalla conversazione con l’Anonimo).
Questa essenzialità tagliente e ‘in levare’ non è meno siciliana dell’opulenza del mettere e stratificare. Certi paesaggi della Sicilia occidentale sono così: linee orizzontali, quadri bicromatici: sabbia e cielo; sale e vento; colonne e pietre, bianco e azzurro.
Sciascia ha letto molto Verga e si sente. Ma Verga si straniava per vedere la Sicilia con gli occhi dei suoi personaggi marinai e contadini, lui che era colto e borghese e a lungo aveva vissuto a Milano; Sciascia usa lo straniamento per girare intorno al suo oggetto, come uno scultore alla sua statua, vederlo da tutte le possibili angolazioni. E così la Sicilia la allontana e la avvicina; la scherma e la rivela, la nasconde nelle pieghe delle cose e la trova nel fondo delle persone.
Fra le cose più belle di Sciascia, secondo me, ci sono i saggi romanzati, o i romanzi in forma saggistica: La scomparsa di Majorana, La strega e il capitano, L’affaire Moro.
Il lettore de La scomparsa di Majorana sa che poche pagine possono richiedere molto tempo di lettura: ognuna è densa, concentrata; perché la vicenda del fisico che scompare, avendo avvisato che sarebbe scomparso ma poi anche di non tenere conto di quell’avviso, può cambiare a secondo del punto di osservazione.
Così lo scrittore inizia a dipanare la matassa dapprima mettendosi in posizione molto periferica rispetto ad essa: dal punto di vista del cittadino che subisce la giustizia
“Il cittadino che nulla ha mai fatto contro le leggi né da altri ha subito dei torti per cui invocarle; il cittadino che vive come se la polizia soltanto esistesse per degli atti amministrativi come il rilascio del passaporto o del portodarme (per la caccia), se i casi della vita improvvisamente lo portano ad avervi a che fare, ad averne bisogno per quel che istituzionalmente è, un senso di sgomento lo prende, di impazienza, di furore in cui la convinzione si radica che la sicurezza pubblica, per quel tanto che se ne gode, più poggia sulla poca e sporadica tendenza a delinquere degli uomini che sull’impegno, l’efficienza e l’acume di essa polizia.”(corsivi miei)
E interessante notare l’armatura sintattica, annegata nel proliferare di frasi su frasi ma ben visibile: il cittadino che (non conosce) … se (vuole conoscere) …. (si sgomenta).
È la stessa dell’incipit di una novella di Verga, La roba.
“Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: ‐ Qui di chi è? ‐ sentiva rispondersi: ‐ Di Mazzarò”.
Qui è il viandante sgomento che a distese interminabili di terre a destra e a sinistra corrisponda un solo nome di proprietario. L’occhio straniato del viandante rispetto alla religione dell’accumulo diventa in Sciascia l’occhio del cittadino rispetto alla giustizia da reclamare: la verità è una terra straniera.
Ma lo straniamento è un bene, cambiare prospettiva è un bene: il cittadino può trovarsi improvvisamente – perché un parente sparisce – nella posizione di chi vuol conoscere la verità. Quella verità non è più soltanto un adempimento burocratico: è ora un’esigenza personale, un tassello mancante al senso di un affetto, di una famiglia, di una biografia.
Sciascia recupera – nell’epoca degli sperimentalismi, delle neoavanguardie, della provocazione – uno strumento logoro e screditato: la Ragione illuminista e settecentesca. Con la quale si inoltra nel mistero passo dopo passo, come un viandante; o meglio, come un archivista. Districandosi fra le scartoffie, i dispacci, le lettere di trasmissione, i fascicoli aperti chiusi siglati e riaperti. Sciascia è maestro nel trarre ogni informazione possibile da un tratto di penna, un inchiostro, una firma. L’arido linguaggio di un funzionario dischiude i suoi significati all’intelligenza affilata dello scrittore, si rivela al suo sguardo limpido.
Tagliando la carne, ecco l’osso, la verità dall’interno: dalla mente del personaggio, di Majorana.
“La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità.“ (ndr, dal “Giorno della civetta“)
Esistono studi sulla tardività – Lo stile tardo, di Edward Said – cioè su quel cambiamento che si verifica nella produzione di poeti, pittori, musicisti nell’ultima fase della loro vita artistica: a volte è un manierismo, a volte un aggravarsi ossessivo di problemi, a volte un’ira disperata; dovrebbero esisterne anche sulla precocità del genio.
Essa si presenta in Majorana, secondo Sciascia, come acuta coscienza di un destino, una vocazione. Assecondarla è morire. La vita del fisico è quindi in un gioco di fughe e di nascondimenti: da sé stesso, dallo scienziato che egli è senza averlo scelto, senza amarlo, senza volerlo essere. E quindi la scelta di scomparire, come fisico; forse per riapparire in altro luogo, anonimo, senza il fardello di un compito e di un destino.
Il pensiero della morte, che tutto corra verso la morte, Sciascia lo vede anche nello sguardo stanco di Moro, anche prima del rapimento. Eppure, questa stanchezza non lo esime dal tentare con pazienza di allontanare da sé quella morte, prendendo tempo, parlando, scrivendo, in attesa di essere trovato.
Concludiamo con questa immagine dello scrivere per ingannare o ritardare la morte; del cercarla per non trovarla, del non temerla per non esserne colto di sorpresa.
Trucchi levantini che sanno di sale e odorano di salsedine.
Ci siamo conosciuti su Linkedin. Complice la nostra comune passione per Boris (se non lo conoscete, peggio per voi. Noi addicted stiamo aspettando la reunion).
Poi ci siamo messi a chiacchierare di cose più serie. E ho scoperto che “Rob”, Roberto Paolo Pirani, è un Fighter della sostenibilità. Un drago delle soluzioni tagliate su misura per le smart cities. Un super eroe dell’anti-spreco più ancora che del riciclo. Un portatore sano di economia circolare.
Così ho deciso di intervistarlo (previa telefonata di un’ora e tre quarti).
Primo perché dice cose buone e giuste. Poi perché le fa e, infine, perché così, magari, vi evito qualche “post matrioska”, di quelli che scrive lui: un post nel post nel post. Personalmente non sono mai arrivata all’ultima bambolina.
Cominciamo in leggerezza… che mi dici di Boris? Perché ti piace tanto?
Boris è l’Italia. Quella vera. Chi ha scritto Boris ha previsto praticamente tutto. Il monologo della Locura ci ricorda da più di 10 anni che “serve qualche cazzo di futuro…” e che gli equilibri politici possono dipendere (per dire) da un Senatore.
Al Regista René Ferretti viene fatto notare dal delegato di rete: “sai anche girare… ma ti manca la protezione politica”.
“E dai dai dai (pure a cazzo di cane se occorre), che si porta a casa la giornata!”. Risponde Ferretti. Anche se molte scene che gira sono povere e mono espressive, perché gli sceneggiatori non hanno voglia di lavorare e gli attori sono dei cani.
Boris è una critica mirata ai compromessi che impediscono di fare le cose come andrebbero fatte in Italia, ma facendo sorridere e, di conseguenza, pensare.
Nel 2009-2010 abitavo in una specie di residence, e un mio vicino che di mestiere sonorizzava cartoni animati è arrivato con una pen drive con le prime due serie complete. “Le DEVI vedere” mi fa. “Fidati”. (Nota: Ciao Sean, e grazie ancora!).
Credo che a molti della piccola massoneria di seguaci di Boris sia accaduto questo strano passaparola. Con ogni probabilità è la cosa migliore mai passata in televisione in Italia, insieme ai Mondiali di Spagna 1982. Ho rottamato il televisore nel 2009 e con queste affermazioni (intendiamoci) non voglio offendere nessuno, ma solo ribadire che chi ha scritto Boris è un Genio. Come Corrado Guzzanti che, non a caso, è parte della banda.
Veniamo a noi/te/. Quand’è nato il Rob paladino della sostenibilità?
Non so di preciso da cosa dipenda, ma da che ho memoria sono sempre stato così. Si può parlare di inclinazione, credo. A 9 anni mi guardavo attorno e mi chiedevo perché Natale dovesse essere così consumista. Detesto gli sprechi. Il me bambino novenne non capiva perché gli altri non notassero una così palese mancanza di razionalità. Poi negli ultimi 30 anni “ambientalista” è stata considerata una parolaccia. Meglio che essere un esponente del Petrolitico, secondo me.
Nel mio piccolo, poche idee in compenso fisse, sono di parte. Parte minoritaria quanto si vuole, almeno in Italia. In altri Paesi UE pare proprio che non sia così.
L’unica volta in vita mia che mi sono sentito in maggioranza è stato quando abbiamo vinto i referendum 2011; è durata pochi giorni, poi abbiamo subito realizzato che al Parlamento (regolarmente eletto, per carità), della volontà popolare, non importa una beata mazza.
In ogni caso, dal momento che in Italia il Club di Roma non è stato preso sul serio per tempo, è troppo tardi per lamentarsi. Ognuno si impegni in qualcosa, o siamo fritti (cit Boris: “non è ironico”).
Mi dicevi che sei stato un attivista di Greenpeace. Raccontaci la “mission impossible” più spettacolare/eclatante a cui hai partecipato, dai!…Quella di cui vai più fiero.
Credo che nascere a Ravenna abbia contribuito alla mia formazione, anche per reazione ad uno status quo molto “business as usual”.
Ho deciso di aderire spontaneamente a qualche azione: legname insanguinato dalla Liberia, soia OGM… tutta roba che non doveva arrivare in Italia perché illegale, ma che arrivava lo stesso al Porto di Ravenna. Ho dato un piccolo contributo “attivo” tra il 2000 e il 2008. Poi c’è una età per tutte le cose…
Comunque colgo l’occasione per precisare che da quelle vicende sono stato assolto! Secondo gli Inquirenti fu (solo) “Esercizio arbitrario delle proprie ragioni”.
Durante l’azione più eclatante non sono servito (perché non facevo il climber). Il blocco della centrale di Porto Tolle, nel 2006, non fece notizia sui giornali italiani, ma all’estero sì. Per chi volesse…
In “discussione” era il “carbone pulito” della centrale (c’è un mucchio di gente che dovrebbe chiedere scusa, e magari, ritirarsi a vita privata. E invece fa come se niente fosse accaduto).
L’azione diretta non violenta è sempre stata meglio del pessimismo del pensiero. E conservo un bel ricordo di chi, al Porto di Ravenna, ci definiva “prepotenti gentili”. Di fatto ammettendo che avevamo ragione su diritti umani, commercio illegale, taglio a raso di foreste primarie, eccetera. Cosette su cui oggila EU intera, con un ritardo di decenni, è costretta ad interrogarsi per salvare il salvabile.
Come mai ti sei trasferito da Ravenna a Bassano Romano? Una scelta green anche questa o altro?
Ci sono diversi motivi. Anche per fare quello che volevo fare, a Ravenna sarei stato limitato. Dopo un anno su e giù dal Lazio quasi tutti i fine settimana, o si trasferiva la mia compagna o mi trasferivo io. Ecco, tutto qui. Sta di fatto che il mio socio, Paolo Garelli (che è siciliano di origine), l’ho conosciuto a Roma grazie ad amici comuni. È uno di quei non-casi che, col senno di poi, ti fa capire che hai fatto la scelta giusta.
Dopo aver cambiato alcuni Comuni sempre a nord di Roma, oggi risiedo al confine fra Roma e Viterbo. A Bassano Romano, appunto. Non essendo un albero, ho potuto scegliere (luoghi magnifici, sia detto per inciso). A circa un km da casa mia, hanno girato la scena della festa de La Dolce Vita di Fellini, i 15 minuti centrali del film. E anche una scena di Boris (il film), in cui si straparla del “microclima dell’Argentario…”
Parlaci di quando il lavoro “ti ha scelto”. È una frase che mi ha colpita, perché anche a me è successa più o meno la stessa cosa.
Quando per anni fai un lavoro tecnico specifico, ma una parte del tuo cervello pensa altro, nel tempo libero studi altro, vedi troppe cose che non ti convincono… poi o ti dedichi alla tua inclinazione o, credo, vivi molto male. Io mi ritengo fortunato perché amo il mio lavoro. Non c’è un corso di Laurea che insegni a dimensionare i servizi applicando l’intera normativa vigente. S’impara un po’ dai Maestri (ne ho avuti) e un po’ ci si mette del proprio. In ogni caso un diploma da Geometra mi ha dato le basi della disciplina necessaria per.
Ci spieghi qual è la tua visione e il significato dell’espressione?
In realtà sono concetti già codificati in ambito EU, anche se in Italia non se ne parla. Più o meno come quando, 15 anni fa, l’economia circolare era sottovalutata. Per chi ha voglia di entrare nel merito, ci sono due articoli sull’economia collaborativa nel mio feed.
In sintesi, mettere a sistema diverse competenze, significa lavorare nel miglior modo possibile. Se ci pensiamo, per costruire un edificio in classe A (o superiore) non servono solo le competenze per realizzarlo, ma prima serve un Geologo che impedisca di buttare soldi su un terreno inadatto ad ospitare quell’edificio.
Cosa pensi sarà necessario fare nei prossimi dieci/vent’anni per assicurare un futuro al pianeta?
Ci sono talmente tante cose da fare che personalmente consiglio di ascoltare gli Scienziati. IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’agenzia Onu per il cambiamento climatico, ha vinto un Nobel per la pace nel 2007, e non per sbaglio.
O perlomeno, come illustra in modo brillante una recente trasmissione di Sky “Impact”, il 97% degli Scienziati del mondo spiega che il cambiamento climatico è di origine antropica.
Cioè: colpa nostra e a noi umani riparare i danni.
Rob, parlaci della tua rivoluzione culturale a misura di smart city. Cos’è “WormApp” e a chi è diretta?
È una piattaforma operativa sia fisica che tecnologica in cui vengono “messe a sistema” molte competenze e diverse professionalità. È stata pensata per soddisfare qualsiasi esigenza (anche di orari) nei luoghi più complessi a livello urbanistico: centri storici e adiacenze, luoghi turistici, quartieri con ridotta o ridottissima viabilità di accesso. Dove gli spazi non ci sono e non si possono inventare.
Con l’utilizzo della piattaforma si riducono i costi (calcolati un terzo in meno rispetto ai più noti e non sempre applicabili servizi domiciliari) e si favorisce il passaggio alla mobilità elettrica, pedonale e a due ruote. La città diviene a misura di bambino, non a misura di auto. Un luogo piacevole e ordinato dove incontrarsi, nonché l’occasione per erogare molti servizi di interesse pubblico o di business per il cosiddetto “ultimo miglio” (il percorso della merce da un centro logistico alla sua destinazione finale, n.d.r).
In sintesi WormApp vuole far uscire le città dalla paralisi dovuta ad un approccio caotico rimasto al 1999. Le leggi della fisica (leggasi “impenetrabilità dei corpi”) non sono aggirabili. O si razionalizzano e ottimizzano i servizi e i passaggi dei mezzi, o le città NON saranno mai “intelligenti”. Nel video illustriamo come si gestiscono molteplici servizi grazie all’interazione tra pubblico e privato. Un nuovo approccio in cui i diritti sono bilanciati dai doveri, e viceversa. Guardatelo: è più facile.
In pratica…?
In pratica con WormApp, a 1/2 minuti a piedi da casa, si trovano moltissimi servizi che normalmente non sarebbero garantiti, se non paralizzando la circolazione. Pensiamo ad un corriere che parcheggia sul marciapiede perché non ha alternative (a rischio multa…).
Si ottimizzano gli spazi nelle città tramite postazioni identificate sia in modo digitale che fisico, dove i servizi vengono erogati nelle 24 ore.
Insomma: molto di quanto è necessario compiere per aumentare la qualità della vita nelle città. Luoghi turistici compresi.
Dietro c’è moltissimo lavoro utile e diverse tecnologie su cui non sto a dilungarmi qui.
So che l’Italia è piena di estimatori delle cabine telefoniche, dei tecnigrafi, o (per citare il grande Lucio Dalla) dei Linotipisti. Lavori e attrezzature anacronistiche che non tornano perché non possono tornare: il mondo è cambiato con la rivoluzione digitale. I dati possono essere gestiti dal pubblico per interesse pubblico, o essere ammonticchiati in piramidi con in cima Zuckerberg e pochissimi altri. Tocca scegliere.
Dov’è utilizzata, WormApp, per ora?
Oggi WormApp (direttamente o indirettamente) è applicata in 7 Regioni italiane. Ma, per ora, ne è compresa e utilizzata solo la punta dell’iceberg: i servizi di igiene ambientale.
La sfida in cui siamo impegnati dal 6 ottobre 2020 (da quando WormApp è un brevetto europeo) è applicare l’intero iceberg.
Molte cose si muovono, siamo abituati a parlare solo di risultati, non di auspici.
Vorrà dire che ci risentiremo per scoprire come è andato il primo vero anno.
La nuova società è stata costituita 3 giorni prima del lockdown nazionale: il 5 marzo 2020.
Voglio ricordare che WormApp è disponibile e applicabile anche in “emergenza”. Ad esempio, durante un lockdown, per ricevere la spesa o conferire materiali differenziati: attività che la Legge considera incomprimibili (e cioè da garantire a tutti) all’interno delle città.
Capito tutto, Rob. Ti ringrazio del tuo tempo. E Boris ringrazia per lo spottone. Ora che fai?
Vado a scartoffiare parecchio. Ma incombenze positive, per fortuna…
Il pedigree di Nomadland è presto detto: Chloè Zhao trionfa con il suo film ovunque abbia avuto, in questo anno a luci spente, uno schermo per presentarlo. Passa alla storia come la prima regista asiatica premiata agli Oscar e la seconda vincitrice per la miglior regia in tutta la storia del cinema. E questo già ci dice molto del nostro tempo. Sceglie come interprete principale una donna over 60 e, insieme, calcano il red carpet più famoso del mondo praticamente make up free. Che strano definirla una scelta coraggiosa, ma di fatto sono due antidive che si presentano alla prima occasione sociale dopo la pandemia e, in mezzo a una parata di star, chiedono al loro contenuto di parlare per loro.
Empire, Nebraska, 2011. In seguito alla chiusura della fabbrica cittadina per la crisi economica, la città industriale di Empire viene completamente cancellata dalle cartine americane. Una dei suoi abitanti, Fern, già vedova da qualche anno e inoccupata dopo vari tentativi occupazionali senza successo, carica il suo furgone e parte alla ricerca di incarichi stagionali e di una nuova vita alternativa al “sistema” che per lei non ha funzionato. Tappa dopo tappa, Fern si ritrova parte di una comunità di nomadi, orfani di quel sogno americano che con la crisi del 2006 si è portato via tutto, soldi, sogni e salute, randagi in costante movimento in cerca di una via diversa dal mero materialismo: c’è un reduce del Vietnam che soffre di sindrome da stress post traumatico e ha trovato nella sua solitudine una soluzione pacifica per allontanarsi dai centri urbani e dal rumore della società organizzata, ci sono persone che attraverso il loro “viaggio terapeutico” stanno faticosamente cercando di affrontare un grave lutto, c’è chi non ha più niente, e con niente ha scelto di continuare a vivere. C’è una donna che racconta la storia di un collega e amico che, dopo aver passato un’intera vita dietro alla scrivania, arrivato a un passo dalla sognata pensione, si è ammalato e se n’è andato, sprecando in ufficio i suoi anni migliori, senza avere il tempo e l’occasione di “incassare” la sua libertà, mai arrivato premio per aver servito il sistema una vita intera.
Queste e altre storie Fern incontra sulla strada, la storia di un’altra America, invisibile, drammatica, ma affrontata da Nomadland con una incorruttibile dignità.
Il minimalismo degli oggetti ridotti all’essenziale, fra utensili e ricordi, che i nomadi portano con sé si accompagna al senso di immensità reso dalle inquadrature spaziose di paesaggi sconfinati: come dire, legarsi a niente per avere tutto. Una fotografia poetica insieme al gioco di opposizione tra primi piani e campi lunghissimi, sono il regalo di Chloè Zhao allo spettatore della sala cinematografica, che mette in relazione queste contraddizioni di contenuto e di forma per inondarci di bellezza.
Questa è la scelta stilistica della regista che decide di non soffermarsi, al contrario del libro di Jessica Bruder da cui è tratto il film e di come forse avrebbe fatto Ken Loach al suo posto, sulla scomoda inchiesta del fallimento del sistema capitalistico americano, del precariato e della povertà assoluta in cui versano milioni di “invisibili”. Questo manca un po’ in Nomadland, un approfondimento sulle cause del fallimento, sull’assenza dello Stato nella difesa ai più deboli, sulla tutela dei diritti dei lavoratori schiacciati dal profitto delle “big corporations”.
Eppure Nomadland è nutrimento per la vista e per l’udito, con la colonna sonora firmata da Ludovico Einaudi, di certo un buon inizio per ri-abituarci a spegnere la tv, abbandonare il divano di casa e condividere una visione pubblica su grande schermo.
Nomadland è anche in streaming su Disney+, ma credo faccia bene a tutti tornare al cinema.
A proposito, la Cineteca di Bologna festeggia la riapertura delle sale con un abbraccio particolare a tutto il suo pubblico, usando lo stesso font di Woody Allen.
Luglio 2020. Pomeriggio. Mi trovo nei pressi di Bollate (Mi); per la precisione tra Novate Milanese e Cormano. Non che la zona sia granché, ma vogliamo visitare l’ex Parco della Balossa (dialettale che, da queste parti, ha più o meno il significato di birichina, bricconcella), ora accorpato al Parco Nord.
Ad uso preminentemente agricolo, in realtà, è una piccola distesa di campi piuttosto piatta e bruttarella. E poi c’è il sole a picco, fa caldo. La cosa più affascinante è che non c’è nessuno tranne le cicale che fanno casino senza obbligo di mascherina.
A un certo punto, però, compare lui: “quel” cartello, secondo il quale Ernest Hemingway avrebbe trascorso lietamente un po’ di tempo proprio qui, in questi campi.
Non me lo lascio sfuggire, e con una sorta di stupore tra il divertito e il reverenziale, lo immortalo sul fido smartphone.
La domanda sorge spontanea: oltre che appartarsi con le giovani donne, che ci faceva il grandissimo scrittore americano in ‘sto posto dimenticato da Dio, nel 1918?
Il 21 luglio del 2020, Ernest Hemingway avrebbe compiuto 121 anni.
Su di lui, qualche anno fa, è uscita una nuova biografia dal titolo “Hemingway’s Brain” di Andrew Farah. L’autore, psichiatra dell’Università High Point del North Carolina, ipotizza che lo scrittore fosse affetto da encefalopatia cronica traumatica: una patologia che può colpire chi ha riportato danni cerebrali dovuti a traumi al capo. Ed Hemingway, di traumi durante la guerra e in diversi incidenti d’auto, ne subì parecchi.
Ecco perché, alla fine dei suoi giorni, si lamentava spesso di non riuscire più a scrivere a causa di un cronico, divorante mal di testa. Nel 1961 si fece ricoverare e gli fu praticato persino l’elettroshock che, forse, gli provocò una grave forma di afasia. Uno scrittore che non riesce né a scrivere, né a parlare (e quindi a dettare) ha dei grossi problemi. Anche da qui, probabilmente, la decisione di togliersi la vita. Cosa che fece il 2 luglio del 1961, quando si sparò in bocca con un fucile.
Degna fine di un personaggio da film.
Per tutta la sua vita Hemingway, Premio Nobel per la Letteratura nel 1954, vagabondò in cerca (non è mai “solo” così. Ma in qualche modo devo chiudere la frase) di emozioni forti.
Giramondo, cacciatore, reporter, soldato, bevitore accanito e arcinoto donnaiolo.
Partecipò alla guerra civile spagnola, fu volontario in Italia durante la Prima Guerra Mondiale, viaggiò, si sposò quattro volte ed ebbe tre figli. Non si fece mancare niente, insomma; nemmeno il diabete, la cirrosi, l’insonnia e la depressione, che iniziò a manifestarsi circa 4 anni prima della sua morte.
Fu anche (merito da poco, lo riconosco) uno dei miei primissimi amori letterari adulti, iniziato con Il vecchio e il mare, divorato sul divano rosso della casa dei miei.
Senza avere la pretesa di ripercorrere la complessa e avventurosa vita dello scrittore, mi è venuta la curiosità di ricostruirne un breve periodo, che forse potrebbe far luce sul contenuto misterioso del cartello. Perché dai!… Sarebbe praticamente uno scoop.
Così mi fiondo su tutto quel che trovo: vecchie biografie di vecchi Oscar Mondadori (dettagliatissime, va detto) e nuovi, fortunati frammenti in web.
E scopro che, cronista al Kansas City Star, quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, il giovane “Ernie” (diciannovenne) si presentò volontario per combattere in Europa.
(Pare fosse un trend tra cronisti e scrittori americani del tempo).
Per un difetto alla vista, venne escluso dai reparti combattenti, arruolato nei servizi d’ambulanza e destinato al fronte italiano.
La prima tappa fu Milano, dove si fermò alcuni giorni, per prestare opera di soccorso e pattugliamento. Poi, spedito nella zona del basso Piave, venne ferito alla gamba e curato prima sul posto, poi all’ospedale della Croce Rossa americana, a Milano. Dove rimane per circa tre mesi.
Ma questa è la seconda parte della storia.
La prima è antecedente al Piave.
Il 7 giugno 1918 a Castellazzo di Bollate, vicino a Milano, ebbe luogo un incidente di cui si trovano alcune tracce sul web: una terribile esplosione avvenuta nella fabbrica di munizioni Sutter & Thévenot, una delle più grandi fabbriche d’armi del paese. Tra i 1300 operai, quasi tutte donne, ci furono 59 vittime e oltre 300 feriti. Le cause dell’esplosione non furono mai chiarite e anzi, fino al centenario dell’incidente, sull’episodio cadde una cortina di silenzio. Oggi la tragedia viene finalmente annoverata tra gli anniversari d’interesse nazionale dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Tra i soccorritori della Croce Rossa Internazionale accorsa sul luogo dell’esplosione, c’era Hemingway, tenentino americano al suo primo incarico.
Di quell’episodio lo scrittore narrò in seguito in Piccola storia naturale: i morti, uno dei suoi Quarantanove racconti.
Ce l’ho! E leggo una storia cruda e straziante, dove Ernest confessa di aver visto per la prima volta vittime donne. Morte, bruciate, smembrate. Dev’essere stato un gran brutto ricordo, se decise di scriverne così; una terribile esperienza di cui, però, probabilmente salvò qualcosa.
Castellazzo di Bollate è nei pressi dell’ex parco della Balossa, appunto.
Dove si trova il nostro cartello.
Se vogliamo dargli retta (e dopo tutto perché no?) Ernie trovò il modo di sfuggire dall’inferno, con una giovane donna del posto. Chissà se un’operaia della fabbrica rimasta illesa, una ragazza del paese o un’infermiera.
In tutti i casi è bello pensare che, in mezzo al dolore, alla morte e allo strazio, questo ragazzo che non aveva mai visto niente di simile prima, abbia avuto una via di fuga. E che la sua generosa opera di soccorso abbia trovato una ricompensa.
Fugace quanto si vuole. Ma Altro dall’orrore.
Ha cominciato presto, ad avere una vita letteraria, Ernie.
Forse per questo non poté che scriverne.
Dopo questa prima missione, come dicevamo poc’anzi, Hemingway venne ferito dalle schegge di un proiettile di mortaio nella zona del basso Piave e ricoverato in un ospedale di Milano, dove oggi c’è una targa a lui dedicata, in via Armorari.
E insomma, anche in ospedale, nonostante sia stato più volte operato rischiando di perdere la gamba, trovò il modo di passare piacevolmente il tempo. E sulla terrazza, dove c’erano sedie di vimini e venivano serviti alcolici, conobbe Agnes Von Kurowski, un’infermiera americana di origini tedesche.
Pare fosse molto bella, Agnes (“Aggie”): assai corteggiata e di qualche anno più grande dello scrittore. Ma anche Ernie non scherzava; giovane, attraente ufficiale dalla lingua sciolta. E tra i due scoppiò l’ammoore.
Lui le fece addirittura una proposta di matrimonio. Lei, sulle prime l’accettò, ma più tardi, fece marcia indietro e ritirò la promessa con una lettera che Ernest ricevette quand’era già tornato in America.
Che sia stato un amore platonico o profano, non è dato sapere.
Ernie, comunque, trasfigurò Agnes in Catherine Barkley, il personaggio femminile di Addio alle armi, pubblicato in America nel 1929 e in Italia solo nel 1945.
Il contenuto, infatti, che narra anche della disfatta di Caporetto, non piacque un granché alle Forse Armate della dittatura fascista.
Ed Ernest, che sul Toronto Star aveva fatto uno spassoso ritrattino di Mussolini, (descrivendolo mentre “leggeva” un dizionario capovolto), non sembrò dispiacersene.
Impegnato com’era, in ben altre avventure. Umane, professionali e letterarie.
Peccato solo che abbia pagato a caro prezzo la sua intensa sete di vita.
Fino al punto da decidere di spegnerla con le sue stesse mani.
Incontrai Fabiola Maria quando era ancora direttore della Comunicazione per The Walt Disney Company Italia, durante la premiere del film AVENGERS a Roma. Era il 2012, un secolo fa.
Durante una riunione plenaria con tutti i responsabili dell’evento, presso la sede dell’Agenzia per la quale allora lavoravo e che aveva in carico l’organizzazione dell’Evento, eravamo più di una ventina di persone, rimasi colpito dalla determinazione e apparente durezza di questa manager che teneva agilmente testa a fior di professionisti e colleghi.
Questa immagine mi è rimasta impressa e l’ho sempre associata a Fabiola Maria, ogni qual volta ci siamo poi incrociati a Milano quando mi recavo per riunioni di lavoro in Disney.
Poi l’ho persa di vista.
Ad inizio lockdown, mentre costretto dalle chiusure cercavo come tutti di ricostruire la mia rete di contatti, ebbi occasione di chiederle il collegamento su Linkedin.
2. Ora inizia un’altra storia.
Una vita da manager, con una carriera che l’ha portata ai vertici della direzione di The Walt Disney Company quale membro del Board of Directors responsabile della Comunicazione aziendale e della Responsabilità sociale. Poi imprenditrice, con una sua agenzia di consulenza, la FAB Communications.
Una mamma, con un figlio che vive con distrofia muscolare.
Una donna eccezionale, di una sensibilità e generosità rara. Una visione del futuro piena di speranza e di fede.
Quando Fabiola Maria ha contratto il Covid19, ha deciso di rinchiudersi e di scrivere un libro su questa esperienza.
Ma di questo parleremo dopo, ora vorrei concentrarmi sulla forte spiritualità di una donna che ha saputo rivedere la sua vita, in una nuova ottica.
“Sono stata una donna molto emancipata, vivevo una vita che si snodava tra Milano, Roma, Londra, Los Angeles. Sono rimasta sempre fedele ai miei valori, ma mi piaceva la vita internazionale e non ne conosco di altro tipo: sono nata in Italia, ma professionalmente sono anglo-americana”
Che sappia maneggiare il mezzo linguistico è fuor di dubbio, Fabiola Maria ha una capacità dialettica e sa usare le parole giuste per esprimere concetti che, anche se complessi, riescono sempre a raggiungerti in maniera fluida ed efficace.
Eppure, mettere a nudo se stessi con le parole è l’inizio di un’avventura completamente diversa, a volte anche molto intima e privata. Ciò che è capace di raccontare Fabiola Maria potrebbe riempire una conversazione di ore, eppure sembrano minuti per quanto ti rapiscono e coinvolgono.
Fabiola Maria è una donna creativa oltre che interiormente molto libera, seppur professionalmente cresciuta a una scuola di management strutturato che promuove la nozione del think big e out of the box accanto a quella del rigore nella pianificazione e nell’esecuzione di alta qualità. Nella sua sfera privata, quando la vita la mette a dura prova, Fabiola Maria decide di non seguire un copione o delle strategie verbali consolidate, ma mette in luce quei punti scoperti del vivere che ci prendono alla sprovvista.
“Quando andavo a trovare le mie amiche che avevano partorito mi trovavo in una situazione di imbarazzo estremo. E non era da me, che sono molto razionale. C’era un richiamo alla maternità, eppure non ne prendevo atto, anzi a volte ero infastidita che le mie amiche parlassero solo di bambini.
Da un disinteresse, ad un’esperienza di maternità che deve aver attraversato anche momenti difficili.
È stata la volontà di avere un figlio, e che ho cercato in maniera viscerale. Ogni genitore desidera i propri figli con grande intensità, ma chi non può concepirlo naturalmente lo cerca con ancora più veemenza. Io sono andata quasi fin sotto l’Everest per trovare mio figlio, lo abbiamo adottato in Nepal.
Scoprire che mio figlio adottivo avesse una distrofia muscolare è stato angosciante ed è una croce che portiamo tuttora.
Cosa hai scoperto di te stando dentro un imprevisto così grande?
A dire il vero è stato il momento più alto della mia vita e posso dirlo anche a nome di mio marito. È stato un periodo di massima gioia, ma anche di massimo dolore. Non vivo tutti i giorni col sorriso sulle labbra. Ci sono dei momenti in cui mi sento abbandonata a me stessa, va detto per onestà. Quando ci fu comunicata la diagnosi su nostro figlio, mi fu subito detto di non fare ricerche su Internet ma fu la prima cosa che feci.
E poi, data la mia formazione, mi sono precipitata negli Stati Uniti per capire se ci fossero orizzonti più promettenti. Lì, nel tempo, sono diventata un’attivista nel campo nazionale e internazionale per le malattie neuromuscolari con una specificità sulla distrofia di cui soffre mio figlio, la FSHD (facio-scapolo-omerale)
Ho fatto dei corsi di formazione a livello europeo, ma non era nei miei progetti. All’origine io volevo diventare solo una mamma, non un’esperta in questo campo sul confine tra l’ambito etico-sociale e quello medico-scientifico. E invece sono diventata un “patient advocate”, ossia un paziente esperto che rappresenta il mondo dei pazienti e coopera con altri fondamentali stakeholder come medici, scienziati, comitati etici, organizzazioni e infrastrutture internazionali come il TREAT-NMD, Fondazione TELETHON, EURORDIS, TACT. Grazie ad una maggiore sensibilità verso coloro che vivono con una malattia rara, suffragata anche da logiche di produttività e efficacia ai fini sociali e della ricerca scientifica, la figura del “paziente esperto” è diventata, infatti, un fattore di fondamentale importanza per intraprendere decisioni legate al processo di sviluppo di nuovi farmaci e al miglioramento della qualità di vita delle persone.
Una seconda “carriera”, stavolta inaspettata e fuori da ogni programma che, passo dopo passo, con entusiasmo, ha portato Fabiola Maria ad essere nominata da UILDM donna paladina dei pazienti neuromuscolari nel giorno della Festa della Donna 2021 con la qualifica di “Io Difendo”, espressione efficace per esplicitare il significato di Advocate.
Nonostante questa grande ferita, tu sorridi sempre. Un sorriso disarmante e autentico. A cosa ti sei aggrappata per conservarlo?
Una Fede solidissima. Anche se non sempre è stato così, lo dico senza problemi. Sono sempre stata una persona molto profonda e sensibile. Da piccola ero profondamente religiosa, ho frequentato il Collegio della Guastalla e l’Università Cattolica, e mi sono sposata in chiesa, quindi la mia formazione è cristiana. Però poi c’è stato un lungo periodo di vuoto. Di recente c’è stato un ritorno al legame con la Chiesa, che è stato infuocato e legato a Santa Gemma Galgani. La Fede nel Signore è capace di lenire ogni dolore e dà la forza di andare avanti quando senti a volte di non farcela.
Il dolore si può comunicare? Può essere condiviso?
Io cerco di comunicarlo molto poco, perché non voglio scaricarlo sugli altri. Sulla mia famiglia preferisco riversare la mia vitalità. Sono un’ottimista e credo che anche questo sia fondato sul desiderio di portare un po’ della mia buona volontà.
La famiglia, la preghiera, è il perno intorno al quale ruota tutto.
La nostra famiglia persegue un obiettivo di guarigione, io prego tutti i giornie insieme a me prega gente viva e defunta, secondo il dogma della Comunione dei Santi. Non smetterò mai di bussare alla porta del Cielo, proprio perché il Signore ce l’ha detto per primo.
SEGREGATA è il libro che hai scritto quando è cominciata la guarigione dal Covid-19, che ti ha colpita proprio quando la pandemia stava per scatenarsi nel nostro Paese.
Mi sono messa a letto il 7 di marzo 2020, due giorni prima che la Lombardia venisse dichiarata zona rossa. Erano i giorni appena prima che l’Italia intera entrasse in lockdown. Mi sono isolata subito perché la malattia di mio figlio lo qualifica nella categoria “ad alto rischio”. Avevo soprattutto una paura: il terrore che io potessi procurare una malattia mortale a mio figlio. In quei giorni di silenzio e solitudine, ogni volta che percepivo il passaggio di mio figlio sulla sedia a rotelle al di là della porta della mia stanza, provavo una grande commozione, perché non potevo varcare quella soglia. Per 40 giorni ho sentito la mancanza di toccarlo e abbracciarlo.
È stata una separazione dura ma feconda, da cui sei uscita con alcune certezze.
Quella che io ho vissuto è poi diventata l’esperienza drammatica di tante famiglie italiane e nel mondo. Perciò tutto questo va oltre la mia esperienza personale. Ed è stato un confronto, con le parole, diverso da quello che ho fatto per tanti anni, vale a dire la scrittura a livello professionale. È stata la prima volta che scrivevo di me. Ero sola nella mia camera, anzi eravamo io, il muro e la finestra. La cosa bella che ho provato è che a un certo punto mi sono resa conto che le mie dita andavano da sole: era il mio cuore a dettare liberamente cosa scrivere. Ecco perché la tagline del libro è “Ciò che il male divide, il Cuore unisce”.
Il libro non è solo una testimonianza fine a se stessa ma è un inno alla positività e uno strumento di bene: infatti il ricavato della vendita è andato e andrà in beneficenza.
Io sono stata segregata “solo” 40 giorni, ma c’è chi resta segregato per una vita intera. Sono i giovani che hanno una distrofia muscolare e che meritano l’opportunità di avviare una loro vita indipendente. Esiste un bellissimo progetto della Presidenza della UILDM – Unione italiana lotta alla distrofia muscolare proprio su questa tematica e ho quindi deciso di devolvere i proventi del libro a questo fine, come per dar celebrare la vita e la libertà, alla faccia del covid!
Siamo di fronte a un piccolo gioiello editoriale, autoprodotto, che ha incassato ad oggi oltre 15 mila euro.
SEGREGATA, con la prefazione firmata dal grande Vincenzo Mollica, ha avuto il supporto della Fondazione Cariplo, che ha concesso il patrocinio e fornito un primo contributo economico al progetto avviandone lo start-up, e della Fondazione della comunità di Monza e Brianza, che ha contribuito a strutturare il fondo speciale che ha accolto le donazioni e seguito la parte di rendicontazione puntuale. Il volume è stato scaricabile in formato ebook dalla piattaforma di crowdfunding ForFunding e, da Natale 2020, è disponibile in versione cartacea.
Per acquisti (spedizione gratuita), scrivere direttamente alla Presidente Gabriella Rossi uildm@uildmmonza.it