La nobiltà del compromesso.

di Christian Lezzi

Chi ama i treni, usa definire il percorso di vita come un metaforico binario, una strada ferrata caratterizzata da rettilinei, curve, salite, discese… e scambi, soprattutto. Quegli scambi da intendere come il momento in cui si opera una scelta e che ci tiene incollati al ragionamento, all’esito statisticamente probabile, alla memoria e all’esperienza. Ma anche alla pancia, all’istinto, al lampo e all’intuizione.

L’essenza del concetto non cambia se, al posto di binari, volessimo parlare di nodi, paragonando la vita a una fluente chioma scompigliata dal vento, da esso sbattuta, avviluppata, agitata come fosse viva, annodata. Nodi da sciogliere, da dipanare per venirne a capo, comprendere il verso, il senso, la direzione delle cose. Perché la questione non riguarda solo i capelli del famoso adagio. Anche la vita stessa si aggroviglia in infiniti nodi (metaforicamente parlando, in questo caso) che, presto o tardi, al pettine della resa dei conti, ci arrivano.

E possono far male, proprio come una tirata di capelli.

Ma qual è il nesso tra i nodi, gli scambi ferroviari, il buonsenso e il compromesso?

I transalpini lo definiscono bonsens, ma la piccola differenza linguistica non cambia la sostanza. Parlo dell’essenza del concetto che definisce, anche con l’accento francese e con le parole del dizionario Treccani, la capacità naturale e istintiva di giudicare rettamente, soprattutto in vista delle necessità pratiche. Quella capacità, quindi, di disperdere le nebbie e dissipare i dubbi, di analizzare, distillando il senso delle cose, per comprendere il da farsi, senza azzardi eccessivi o troppa ristagnante speculazione. E’ il buonsenso che suggerisce di raggiungere la corretta preparazione, prima di affrontare qualsivoglia sfida, sia essa di natura sportiva o d’affari. E perché no? anche d’amore. E’ sempre lui, il buonsenso, a dirci che è fondamentale imparare a giocare a calcio, prima di scendere in campo per una partita ufficiale, passando ore a preparare il fisico e la strategia, l’interazione con la palla e coi compagni, con il pubblico e con l’arbitro.

Non è una cosa che s’improvvisa e, quello calcistico, è solo un esempio al quale potremmo affiancarne a centinaia. Per fortuna del lettore, proprio il buonsenso mi suggerisce di arrivare al dunque, senza ulteriori preamboli.

E il dunque si palesa, muta forma e scenario, vira la rotta bruscamente, allontanandosi dai manti erbosi per giungere, quasi planando sulle ali del filo logico, sul terreno d’altro gioco, ben più scivoloso e complesso, ch’è quello della creazione di un’impresa. Perché proprio come non si veste la maglia di una squadra di serie A, scendendo in campo da titolare, privi della preparazione adeguata, senza l’allenamento sufficiente a sostenere il ritmo e a fare bene, allo stesso identico modo non si vestono i panni dell’imprenditore, senza prima essersi preparati, facendo proprio quell’ecosistema di competenze e di assetto mentale, che costituiscono il bagaglio minimo e indispensabile a legittimare l’azione.

E’ come quando vai per mare. O per cielo. Mai metteresti in acqua una barca se, il bacino che la ospiterà, non ti fornisse una quantità d’acqua minima e sufficiente a tenerla a galla e mai salteresti da un aereo senza saper usare un paracadute, ignorando la gestione delle correnti e i principi aerodinamici di base. Allo stesso modo, non si crea un’azienda senza le condizioni minime per poter partire, muovendosi casualmente, come uno sprovveduto automobilista che si avventura lungo un percorso che non conosce, con la macchina in riserva e qualche spia rossa accesa, a caso, sul quadro strumenti. O senza la ruota di scorta, giusto per rincarar la dose.

Perché l’imprenditoria, come lo sport professionistico, come qualsiasi altra attività dello scibile umano, non s’improvvisa. Non s’improvvisano i trofei, le coppe, le medaglie, come non si improvvisa un fatturato in crescita, uno sviluppo internazionale, la leadership di mercato o la exit di successo. Ci sono delle condizioni minime da rispettare, in entrambi i casi, che s’insegua una palla o l’ingresso in borsa.

Ciò non significa attendere passivamente la perfezione, arrovellandosi in annosi calcoli, ma inseguire e creare attivamente quelle condizioni di partenza, per far sì che la nostra creatura abbia di che navigare, una rotta lungo la quale andare, qualcuno che la sappia pilotare e il carburante, almeno sufficiente a raggiungere la prossima tappa, il prossimo step, non necessariamente la meta.

Senza suicide improvvisazioni, perché il fallimento, nel mondo reale, costa denaro, risorse, sudore e sangue, vita e vite.

Il momento giusto per partire non è adesso, non necessariamente e non per forza, come spesso leggiamo o sentiamo dire, molto superficialmente. Non ci si sveglia al mattino per andare in giro, senza sapere dove andare e come andarci, per lo meno se si vuole dare un senso alla giornata. Il momento giusto, quale che sia l’attività da svolgere, è sempre e solo quello in cui possiamo disporre degli elementi minimi, necessari a permetterne la nascita, almeno quella. Non quelli massimi, non la perfezione (mi ripeto volentieri), ma quelli minimi, appena sufficienti a prendere l’onda, senza farsi troppo male. A restare a galla o ad atterrare senza schianto.

Che per improvvisare, si deve essere dei fuoriclasse con due Spalle così! Con o senza S.

E invece, spesse volte, passiamo le giornate a documentarci, a studiare, a snocciolare le caratteristiche di cose futili, secondarie, non necessarie o ancor meno imminenti, del prossimo cellulare o dell’abbonamento alla Pay-per-view, ad esempio, perché non vorremmo mai comprare un oggetto non aderente alle nostre necessità. No, certe cose non si affidano all’imprudenza, dice il buonsenso, ma ci permettiamo il lusso di arrangiare una ragion d’essere professionale. Ancora troppi formatori, per superficialità e semplicismo, ci inculcano il pericoloso concetto secondo il quale, per fare qualcosa, ci si deve buttare, si deve improvvisare e imparare, strada facendo, dai propri errori, cosa che difficilmente possiamo permetterci, per via del timing tiranno (il tempo d’incubazione necessario a rendere profittevole un business) e delle risorse risicate – due motivi che portano spesso al crollo senza appello – confondendo sadicamente l’improvvisazione con l’approssimazione e con la (presunta) arte dell’arrangiarsi.

Ci dovrà pur essere una giusta via di mezzo, tra l’immobilità del perfezionista e l’incoscienza kamikaze dell’improvvisatore all’arrembaggio (che spesso alimenta le statistiche delle imprese cadute nei primi anni di vita), tra l’eterno attendista calcolatore e quello che chiude gli occhi e salta, senza nemmeno aver calcolato il punto d’atterraggio, azzardando il lancio del cuore oltre l’ostacolo, senza sapere cosa ci sia di là dello stesso (parafrasando i versi di Lauren St. John).

Ed è qui che entra in gioco il bistrattato compromesso, vilipeso anche quando, come in questo caso è ammantato di nobile utilità, perché posto al servizio del successo di tutti noi.

E’ il compromesso che ci permette di stabilire delle priorità, il livello logico e la fase in cui ci troviamo, se quella delle strategie o quella della loro discesa in campo. Ed è sempre il compromesso a farci mediare tra ragione ed emozione, tra mente e corpo, come abilmente spiegato dal neurologo portoghese Antonio Damasio che, nel suo eccellente libro intitolato “L’errore di Cartesio”, dimostra come le emozioni siano, in realtà, dimensioni cognitive.

Credo nelle idee che diventano azioni, ha scritto il poeta americano Ezra Pound e un’idea di base ci deve necessariamente essere (idea intesa come progetto articolato e cogitato), proprio come in un’azione si deve necessariamente sfociare, perché l’idea senza azione è sterile filosofia, mentre l’azione senza idea è pericoloso masochismo. Per dare un corpo alla mente e una mente al corpo, un’azione all’idea e viceversa.

Perché noi umani, in fin dei conti e in barba al vetusto concetto del “cogito ergo sum” (Cartesio, sempre lui), non siamo esseri pensanti che si emozionano, ma esseri emotivi che pensano.

Esiste senz’altro questa via di mezzo ed è proprio la fusione tra compromesso e buonsenso, in una sorta di nuovo sistema, capace di mediare le parti, le istanze, le aspettative e i bisogni, di sciogliere i nodi intesi come dubbi e perplessità, che ci aiuta a capire come osare un rischio almeno in parte calcolato, prevedendo la via di fuga e il piano B.

Un sistema utile a non finire come la mosca contro il vetro, per non relegarci al ruolo di aspiranti startupper perpetuamente inconcludenti, per non ricominciar sempre da zero, arrancando faticosamente fino al prossimo progetto, fino alla prossima battuta d’arresto, al prossimo tracollo e all’ennesima delusione.

Christian Lezzi




Il pozzo di Sciascia

(di Cristiana Caserta)

  • Perché Sciascia non ha avuto il successo popolare di altri scrittori siciliani?

L’ho chiesto a un mio amico, grecista, di grande cultura, conoscitore profondo di cose siciliane.

  • Era antipatico”.

Mi dice. Con il segno di diniego tipico dei siciliani: un movimento della testa non da sinistra a destra e ritorno, ma dal basso all’alto. Appena accennato.

C’è del vero. Ci vuole impegno per leggere Sciascia, seguirne la sintassi, fare i collegamenti, attendere le spiegazioni – di chi si parla? Chi sono i personaggi? – o andarsele a cercare. Di più: nessun personaggio mangia o si mostra interessato all’arte culinaria isolana, alle ‘fimmine’, ai paesaggi e insomma alla Sicilia orgia di colori e sapori che seduce i non siciliani (chè noi ne abbiamo pieni gli occhi e la bocca e ce ne ricordiamo con nostalgia solo quando siamo in altre meno variopinte e insipide latitudini). Raramente filosofeggiano – ed è paradossale che di Sciascia si ricordi fin troppo spesso l’apologo di uomini, mezz’uomini, ominicchi e quaquaraquà – molto spesso addirittura lavorano. Con scrupolo.

© Ferdinando Scianna

Insomma, antipatica come scrittura.

Neanche c’è spazio per autoassoluzioni, divagazioni, abbellimenti.

E una parola che non dipinge: scolpisce.

Ogni parola, come un colpo di scalpello o di martello, leva uno strato di materia e ci avvicina alla verità che c’è nelle cose: solleva, districa, taglia..   “al punto che non c’è nessun vuoto, e nessun elemento superfluo, per cui il soggetto consegue la massima espressività nel minimo spazio possibile” (cito dalla conversazione con l’Anonimo).

Questa essenzialità tagliente e ‘in levare’ non è meno siciliana dell’opulenza del mettere e stratificare. Certi paesaggi della Sicilia occidentale sono così: linee orizzontali, quadri bicromatici: sabbia e cielo; sale e vento; colonne e pietre, bianco e azzurro.

Sciascia ha letto molto Verga e si sente. Ma Verga si straniava per vedere la Sicilia con gli occhi dei suoi personaggi marinai e contadini, lui che era colto e borghese e a lungo aveva vissuto a Milano; Sciascia usa lo straniamento per girare intorno al suo oggetto, come uno scultore alla sua statua, vederlo da tutte le possibili angolazioni. E così la Sicilia la allontana e la avvicina; la scherma e la rivela, la nasconde nelle pieghe delle cose e la trova nel fondo delle persone.

Palermo, 1971. © Henri Cartier-Bresson

Fra le cose più belle di Sciascia, secondo me, ci sono i saggi romanzati, o i romanzi in forma saggistica: La scomparsa di Majorana, La strega e il capitano, L’affaire Moro.

Il lettore de La scomparsa di Majorana sa che poche pagine possono richiedere molto tempo di lettura: ognuna è densa, concentrata; perché la vicenda del fisico che scompare, avendo avvisato che sarebbe scomparso ma poi anche di non tenere conto di quell’avviso, può cambiare a secondo del punto di osservazione.

Così lo scrittore inizia a dipanare la matassa dapprima mettendosi in posizione molto periferica rispetto ad essa: dal punto di vista del cittadino che subisce la giustizia

“Il cittadino che nulla ha mai fatto contro le leggi né da altri ha subito dei torti per cui invocarle; il cittadino che vive come se la polizia soltanto esistesse per degli atti amministrativi come il rilascio del passaporto o del portodarme (per la caccia), se i casi della vita improvvisamente lo portano ad avervi a che fare, ad averne bisogno per quel che istituzionalmente è, un senso di sgomento lo prende, di impazienza, di furore in cui la convinzione si radica che la sicurezza pubblica, per quel tanto che se ne gode, più poggia sulla poca e sporadica tendenza a delinquere degli uomini che sull’impegno, l’efficienza e l’acume di essa polizia.”(corsivi miei)

E interessante notare l’armatura sintattica, annegata nel proliferare di frasi su frasi ma ben visibile: il cittadino che (non conosce) … se (vuole conoscere) …. (si sgomenta).

È la stessa dell’incipit di una novella di Verga, La roba.

“Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria:  ‐ Qui di chi è?  ‐ sentiva rispondersi: ‐ Di Mazzarò”.

© Ferdinando Scianna

Qui è il viandante sgomento che a distese interminabili di terre a destra e a sinistra corrisponda un solo nome di proprietario. L’occhio straniato del viandante rispetto alla religione dell’accumulo diventa in Sciascia l’occhio del cittadino rispetto alla giustizia da reclamare: la verità è una terra straniera.

Ma lo straniamento è un bene, cambiare prospettiva è un bene: il cittadino può trovarsi improvvisamente – perché un parente sparisce – nella posizione di chi vuol conoscere la verità. Quella verità non è più soltanto un adempimento burocratico: è ora un’esigenza personale, un tassello mancante al senso di un affetto, di una famiglia, di una biografia.

Sciascia recupera – nell’epoca degli sperimentalismi, delle neoavanguardie, della provocazione – uno strumento logoro e screditato: la Ragione illuminista e settecentesca. Con la quale si inoltra nel mistero passo dopo passo, come un viandante; o meglio, come un archivista. Districandosi fra le scartoffie, i dispacci, le lettere di trasmissione, i fascicoli aperti chiusi siglati e riaperti. Sciascia è maestro nel trarre ogni informazione possibile da un tratto di penna, un inchiostro, una firma. L’arido linguaggio di un funzionario dischiude i suoi significati all’intelligenza affilata dello scrittore, si rivela al suo sguardo limpido.

Tagliando la carne, ecco l’osso, la verità dall’interno: dalla mente del personaggio, di Majorana.

“La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità.“ (ndr, dal “Giorno della civetta“)

Esistono studi sulla tardività – Lo stile tardo, di Edward Said  –  cioè su quel cambiamento che si verifica nella produzione di poeti, pittori, musicisti nell’ultima fase della loro vita artistica: a volte è un manierismo, a volte un aggravarsi ossessivo di problemi, a volte un’ira disperata; dovrebbero esisterne anche sulla precocità del genio.

Essa si presenta in Majorana, secondo Sciascia, come acuta coscienza di un destino, una vocazione. Assecondarla è morire. La vita del fisico è quindi in un gioco di fughe e di nascondimenti: da sé stesso, dallo scienziato che egli è senza averlo scelto, senza amarlo, senza volerlo essere. E quindi la scelta di scomparire, come fisico; forse per riapparire in altro luogo, anonimo, senza il fardello di un compito e di un destino.

Il pensiero della morte, che tutto corra verso la morte, Sciascia lo vede anche nello sguardo stanco di Moro, anche prima del rapimento. Eppure, questa stanchezza non lo esime dal tentare con pazienza di allontanare da sé quella morte, prendendo tempo, parlando, scrivendo, in attesa di essere trovato.

Concludiamo con questa immagine dello scrivere per ingannare o ritardare la morte; del cercarla per non trovarla, del non temerla per non esserne colto di sorpresa.

Ferdinando Scianna, Leonardo Sciascia. Racalmuto, 1964 © Ferdinando Scianna

Trucchi levantini che sanno di sale e odorano di salsedine.

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https://independent.academia.edu/CristianaCaserta




Il cielo è sempre più blu

Intervista a “Rob”, Roberto Paolo Pirani

di Marina Ruberto

Ci siamo conosciuti su Linkedin. Complice la nostra comune passione per Boris (se non lo conoscete, peggio per voi. Noi addicted stiamo aspettando la reunion).

Poi ci siamo messi a chiacchierare di cose più serie. E ho scoperto che “Rob”, Roberto Paolo Pirani, è un Fighter della sostenibilità. Un drago delle soluzioni tagliate su misura per le smart cities. Un super eroe dell’anti-spreco più ancora che del riciclo. Un portatore sano di economia circolare.

Così ho deciso di intervistarlo (previa telefonata di un’ora e tre quarti).

Primo perché dice cose buone e giuste. Poi perché le fa e, infine, perché così, magari, vi evito qualche “post matrioska”, di quelli che scrive lui: un post nel post nel post. Personalmente non sono mai arrivata all’ultima bambolina.

Cominciamo in leggerezza… che mi dici di Boris? Perché ti piace tanto?

Boris è l’Italia. Quella vera. Chi ha scritto Boris ha previsto praticamente tutto. Il monologo della Locura ci ricorda da più di 10 anni che “serve qualche cazzo di futuro…” e che gli equilibri politici possono dipendere (per dire) da un Senatore.

Il monologo della locura (Boris, la serie)

Al Regista René Ferretti viene fatto notare dal delegato di rete: “sai anche girare… ma ti manca la protezione politica”.

“E dai dai dai (pure a cazzo di cane se occorre), che si porta a casa la giornata!”. Risponde Ferretti. Anche se molte scene che gira sono povere e mono espressive, perché gli sceneggiatori non hanno voglia di lavorare e gli attori sono dei cani.

Boris è una critica mirata ai compromessi che impediscono di fare le cose come andrebbero fatte in Italia, ma facendo sorridere e, di conseguenza, pensare.

Nel 2009-2010 abitavo in una specie di residence, e un mio vicino che di mestiere sonorizzava cartoni animati è arrivato con una pen drive con le prime due serie complete. “Le DEVI vedere” mi fa. “Fidati”. (Nota: Ciao Sean, e grazie ancora!).

Credo che a molti della piccola massoneria di seguaci di Boris sia accaduto questo strano passaparola. Con ogni probabilità è la cosa migliore mai passata in televisione in Italia, insieme ai Mondiali di Spagna 1982. Ho rottamato il televisore nel 2009 e con queste affermazioni (intendiamoci) non voglio offendere nessuno, ma solo ribadire che chi ha scritto Boris è un Genio. Come Corrado Guzzanti che, non a caso, è parte della banda.

Veniamo a noi/te/. Quand’è nato il Rob paladino della sostenibilità? 

Non so di preciso da cosa dipenda, ma da che ho memoria sono sempre stato così. Si può parlare di inclinazione, credo. A 9 anni mi guardavo attorno e mi chiedevo perché Natale dovesse essere così consumista. Detesto gli sprechi. Il me bambino novenne non capiva perché gli altri non notassero una così palese mancanza di razionalità. Poi negli ultimi 30 anni “ambientalista” è stata considerata una parolaccia. Meglio che essere un esponente del Petrolitico, secondo me.

Nel mio piccolo, poche idee in compenso fisse, sono di parte. Parte minoritaria quanto si vuole, almeno in Italia. In altri Paesi UE pare proprio che non sia così.

L’unica volta in vita mia che mi sono sentito in maggioranza è stato quando abbiamo vinto i referendum 2011; è durata pochi giorni, poi abbiamo subito realizzato che al Parlamento (regolarmente eletto, per carità), della volontà popolare, non importa una beata mazza.

In ogni caso, dal momento che in Italia il Club di Roma non è stato preso sul serio per tempo, è troppo tardi per lamentarsi. Ognuno si impegni in qualcosa, o siamo fritti (cit Boris: “non è ironico”).

Mi dicevi che sei stato un attivista di Greenpeace. Raccontaci la “mission impossible” più spettacolare/eclatante a cui hai partecipato, dai!…Quella di cui vai più fiero.

Credo che nascere a Ravenna abbia contribuito alla mia formazione, anche per reazione ad uno status quo molto “business as usual”.

Ho deciso di aderire spontaneamente a qualche azione: legname insanguinato dalla Liberia, soia OGM… tutta roba che non doveva arrivare in Italia perché illegale, ma che arrivava lo stesso al Porto di Ravenna. Ho dato un piccolo contributo “attivo” tra il 2000 e il 2008. Poi c’è una età per tutte le cose…

Comunque colgo l’occasione per precisare che da quelle vicende sono stato assolto! Secondo gli Inquirenti fu (solo) “Esercizio arbitrario delle proprie ragioni”.

Durante l’azione più eclatante non sono servito (perché non facevo il climber). Il blocco della centrale di Porto Tolle, nel 2006, non fece notizia sui giornali italiani, ma all’estero sì. Per chi volesse…

In “discussione” era il “carbone pulito” della centrale (c’è un mucchio di gente che dovrebbe chiedere scusa, e magari, ritirarsi a vita privata. E invece fa come se niente fosse accaduto).

L’azione diretta non violenta è sempre stata meglio del pessimismo del pensiero. E conservo un bel ricordo di chi, al Porto di Ravenna, ci definiva “prepotenti gentili”. Di fatto ammettendo che avevamo ragione su diritti umani, commercio illegale, taglio a raso di foreste primarie, eccetera. Cosette su cui oggila EU intera, con un ritardo di decenni, è costretta ad interrogarsi per salvare il salvabile.

Come mai ti sei trasferito da Ravenna a Bassano Romano? Una scelta green anche questa o altro?

Ci sono diversi motivi. Anche per fare quello che volevo fare, a Ravenna sarei stato limitato. Dopo un anno su e giù dal Lazio quasi tutti i fine settimana, o si trasferiva la mia compagna o mi trasferivo io. Ecco, tutto qui. Sta di fatto che il mio socio, Paolo Garelli (che è siciliano di origine), l’ho conosciuto a Roma grazie ad amici comuni. È uno di quei non-casi che, col senno di poi, ti fa capire che hai fatto la scelta giusta.

Dopo aver cambiato alcuni Comuni sempre a nord di Roma, oggi risiedo al confine fra Roma e Viterbo. A Bassano Romano, appunto. Non essendo un albero, ho potuto scegliere (luoghi magnifici, sia detto per inciso). A circa un km da casa mia, hanno girato la scena della festa de La Dolce Vita di Fellini, i 15 minuti centrali del film. E anche una scena di Boris (il film), in cui si straparla del “microclima dell’Argentario…”

Parlaci di quando il lavoro “ti ha scelto”. È una frase che mi ha colpita, perché anche a me è successa più o meno la stessa cosa

Quando per anni fai un lavoro tecnico specifico, ma una parte del tuo cervello pensa altro, nel tempo libero studi altro, vedi troppe cose che non ti convincono… poi o ti dedichi alla tua inclinazione o, credo, vivi molto male. Io mi ritengo fortunato perché amo il mio lavoro. Non c’è un corso di Laurea che insegni a dimensionare i servizi applicando l’intera normativa vigente. S’impara un po’ dai Maestri (ne ho avuti) e un po’ ci si mette del proprio. In ogni caso un diploma da Geometra mi ha dato le basi della disciplina necessaria per.

Nei tuoi post su Linkedin parli spesso di “economia collaborativa”.

Ci spieghi qual è la tua visione e il significato dell’espressione?

In realtà sono concetti già codificati in ambito EU, anche se in Italia non se ne parla. Più o meno come quando, 15 anni fa, l’economia circolare era sottovalutata. Per chi ha voglia di entrare nel merito, ci sono due articoli sull’economia collaborativa nel mio feed.

Parte prima, maggio 2020:

Parte seconda, ottobre 2020:

In sintesi, mettere a sistema diverse competenze, significa lavorare nel miglior modo possibile. Se ci pensiamo, per costruire un edificio in classe A (o superiore) non servono solo le competenze per realizzarlo, ma prima serve un Geologo che impedisca di buttare soldi su un terreno inadatto ad ospitare quell’edificio.

Cosa pensi sarà necessario fare nei prossimi dieci/vent’anni per assicurare un futuro al pianeta?

Ci sono talmente tante cose da fare che personalmente consiglio di ascoltare gli Scienziati. IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’agenzia Onu per il cambiamento climatico, ha vinto un Nobel per la pace nel 2007, e non per sbaglio.

O perlomeno, come illustra in modo brillante una recente trasmissione di Sky “Impact”, il 97% degli Scienziati del mondo spiega che il cambiamento climatico è di origine antropica.

Cioè: colpa nostra e a noi umani riparare i danni.

Rob, parlaci della tua rivoluzione culturale a misura di smart city. Cos’è “WormApp” e a chi è diretta?

È una piattaforma operativa sia fisica che tecnologica in cui vengono “messe a sistema” molte competenze e diverse professionalità. È stata pensata per soddisfare qualsiasi esigenza (anche di orari) nei luoghi più complessi a livello urbanistico: centri storici e adiacenze, luoghi turistici, quartieri con ridotta o ridottissima viabilità di accesso. Dove gli spazi non ci sono e non si possono inventare.

Con l’utilizzo della piattaforma si riducono i costi (calcolati un terzo in meno rispetto ai più noti e non sempre applicabili servizi domiciliari) e si favorisce il passaggio alla mobilità elettrica, pedonale e a due ruote. La città diviene a misura di bambino, non a misura di auto. Un luogo piacevole e ordinato dove incontrarsi, nonché l’occasione per erogare molti servizi di interesse pubblico o di business per il cosiddetto “ultimo miglio” (il percorso della merce da un centro logistico alla sua destinazione finale, n.d.r).

In sintesi WormApp vuole far uscire le città dalla paralisi dovuta ad un approccio caotico rimasto al 1999. Le leggi della fisica (leggasi “impenetrabilità dei corpi”) non sono aggirabili. O si razionalizzano e ottimizzano i servizi e i passaggi dei mezzi, o le città NON     saranno mai “intelligenti”. Nel video illustriamo come si gestiscono molteplici servizi grazie all’interazione tra pubblico e privato. Un nuovo approccio in cui i diritti sono bilanciati dai doveri, e viceversa. Guardatelo: è più facile.

In pratica…?

In pratica con WormApp, a 1/2 minuti a piedi da casa, si trovano moltissimi servizi che normalmente non sarebbero garantiti, se non paralizzando la circolazione. Pensiamo ad un corriere che parcheggia sul marciapiede perché non ha alternative (a rischio multa…).

Si ottimizzano gli spazi nelle città tramite postazioni identificate sia in modo digitale che fisico, dove i servizi vengono erogati nelle 24 ore.

Insomma: molto di quanto è necessario compiere per aumentare la qualità della vita nelle città. Luoghi turistici compresi.

Dietro c’è moltissimo lavoro utile e diverse tecnologie su cui non sto a dilungarmi qui.

So che l’Italia è piena di estimatori delle cabine telefoniche, dei tecnigrafi, o (per citare il grande Lucio Dalla) dei Linotipisti. Lavori e attrezzature anacronistiche che non tornano perché non possono tornare: il mondo è cambiato con la rivoluzione digitale. I dati possono essere gestiti dal pubblico per interesse pubblico, o essere ammonticchiati in piramidi con in cima Zuckerberg e pochissimi altri. Tocca scegliere.

Dov’è utilizzata, WormApp, per ora?

Oggi WormApp (direttamente o indirettamente) è applicata in 7 Regioni italiane. Ma, per ora, ne è compresa e utilizzata solo la punta dell’iceberg: i servizi di igiene ambientale.

La sfida in cui siamo impegnati dal 6 ottobre 2020 (da quando WormApp è un brevetto europeo) è applicare l’intero iceberg.

Molte cose si muovono, siamo abituati a parlare solo di risultati, non di auspici.

Vorrà dire che ci risentiremo per scoprire come è andato il primo vero anno.

La nuova società è stata costituita 3 giorni prima del lockdown nazionale: il 5 marzo 2020.

Voglio ricordare che WormApp è disponibile e applicabile anche in “emergenza”. Ad esempio, durante un lockdown, per ricevere la spesa o conferire materiali differenziati: attività che la Legge considera incomprimibili (e cioè da garantire a tutti) all’interno delle città.

Capito tutto, Rob. Ti ringrazio del tuo tempo. E Boris ringrazia per lo spottone. Ora che fai?

Vado a scartoffiare parecchio. Ma incombenze positive, per fortuna…

Ci diamo un cinque virtuale e ci salutiamo.

Roberto Pirani

www.wormapp.it

Per tutta la chiacchierata ho canticchiato fra me la canzone di Rino Gaetano.

Gente come Rob autorizza a pensare che il cielo possa diventare davvero sempre più blu.




Nomadland e l’emozione di tornare al cinema

Frances McDormand in the film NOMADLAND. Photo Courtesy of Searchlight Pictures. © 2020 20th Century Studios All Rights Reserved

(di Annalisa Rosati)

Dal 26 aprile in tutta Italia – o, meglio, in tutta l’Italia “gialla” – i cinema hanno finalmente riaperto.

Questa ripartenza, che comunque soffre del coprifuoco, dovendo così rinunciare al secondo spettacolo serale, della capienza ridotta e della voglia di sedersi al tavolino di un bar per l’aperitivo, a differenza della riapertura di giugno 2020, arriva all’indomani della notte degli Oscar© e gode di un’offerta culturale davvero ricca.

La prima settimana di programmazione si apre dunque con un campione che nell’ultimo anno ha fatto incetta di premi: Nomadland di Chloè Zhao, Leone d’Oro a Venezia, due Golden Globes e tre Oscar©, fra cui Miglior Film, Miglior Regia e Migliore Attrice Protagonista all’immensa Frances McDormand, che fra l’altro questo film lo ha anche prodotto.

Il pedigree di Nomadland è presto detto: Chloè Zhao trionfa con il suo film ovunque abbia avuto, in questo anno a luci spente, uno schermo per presentarlo. Passa alla storia come la prima regista asiatica premiata agli Oscar e la seconda vincitrice per la miglior regia in tutta la storia del cinema. E questo già ci dice molto del nostro tempo. Sceglie come interprete principale una donna over 60 e, insieme, calcano il red carpet più famoso del mondo praticamente make up free. Che strano definirla una scelta coraggiosa, ma di fatto sono due antidive che si presentano alla prima occasione sociale dopo la pandemia e, in mezzo a una parata di star, chiedono al loro contenuto di parlare per loro.

Empire, Nebraska, 2011. In seguito alla chiusura della fabbrica cittadina per la crisi economica, la città industriale di Empire viene completamente cancellata dalle cartine americane. Una dei suoi abitanti, Fern, già vedova da qualche anno e inoccupata dopo vari tentativi occupazionali senza successo, carica il suo furgone e parte alla ricerca di incarichi stagionali e di una nuova vita alternativa al “sistema” che per lei non ha funzionato. Tappa dopo tappa, Fern si ritrova parte di una comunità di nomadi, orfani di quel sogno americano che con la crisi del 2006 si è portato via tutto, soldi, sogni e salute, randagi in costante movimento in cerca di una via diversa dal mero materialismo: c’è un reduce del Vietnam che soffre di sindrome da stress post traumatico e ha trovato nella sua solitudine una soluzione pacifica per allontanarsi dai centri urbani e dal rumore della società organizzata, ci sono persone che attraverso il loro “viaggio terapeutico” stanno faticosamente cercando di affrontare un grave lutto, c’è chi non ha più niente, e con niente ha scelto di continuare a vivere. C’è una donna che racconta la storia di un collega e amico che, dopo aver passato un’intera vita dietro alla scrivania, arrivato a un passo dalla sognata pensione, si è ammalato e se n’è andato, sprecando in ufficio i suoi anni migliori, senza avere il tempo e l’occasione di “incassare” la sua libertà, mai arrivato premio per aver servito il sistema una vita intera.

Queste e altre storie Fern incontra sulla strada, la storia di un’altra America, invisibile, drammatica, ma affrontata da Nomadland con una incorruttibile dignità.

Il minimalismo degli oggetti ridotti all’essenziale, fra utensili e ricordi, che i nomadi portano con sé si accompagna al senso di immensità reso dalle inquadrature spaziose di paesaggi sconfinati: come dire, legarsi a niente per avere tutto. Una fotografia poetica insieme al gioco di opposizione tra primi piani e campi lunghissimi, sono il regalo di Chloè Zhao allo spettatore della sala cinematografica, che mette in relazione queste contraddizioni di contenuto e di forma per inondarci di bellezza.

Questa è la scelta stilistica della regista che decide di non soffermarsi, al contrario del libro di Jessica Bruder da cui è tratto il film e di come forse avrebbe fatto Ken Loach al suo posto, sulla scomoda inchiesta del fallimento del sistema capitalistico americano, del precariato e della povertà assoluta in cui versano milioni di “invisibili”. Questo manca un po’ in Nomadland, un approfondimento sulle cause del fallimento, sull’assenza dello Stato nella difesa ai più deboli, sulla tutela dei diritti dei lavoratori schiacciati dal profitto delle “big corporations”.

Eppure Nomadland è nutrimento per la vista e per l’udito, con la colonna sonora firmata da Ludovico Einaudi, di certo un buon inizio per ri-abituarci a spegnere la tv, abbandonare il divano di casa e condividere una visione pubblica su grande schermo.

Nomadland è anche in streaming su Disney+, ma credo faccia bene a tutti tornare al cinema.

A proposito, la Cineteca di Bologna festeggia la riapertura delle sale con un abbraccio particolare a tutto il suo pubblico, usando lo stesso font di Woody Allen.

(foto di Lorenzo Burlando).

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I primi amori di “Ernie”

Il Cartello di Bollate

(di Marina Ruberto)

Luglio 2020. Pomeriggio.  Mi trovo nei pressi di Bollate (Mi); per la precisione tra Novate Milanese e Cormano. Non che la zona sia granché, ma vogliamo visitare l’ex Parco della Balossa (dialettale che, da queste parti, ha più o meno il significato di birichina, bricconcella), ora accorpato al Parco Nord.

Ad uso preminentemente agricolo, in realtà, è una piccola distesa di campi piuttosto piatta e bruttarella. E poi c’è il sole a picco, fa caldo. La cosa più affascinante è che non c’è nessuno tranne le cicale che fanno casino senza obbligo di mascherina.

A un certo punto, però, compare lui: “quel” cartello, secondo il quale Ernest Hemingway avrebbe trascorso lietamente un po’ di tempo proprio qui, in questi campi.

Non me lo lascio sfuggire, e con una sorta di stupore tra il divertito e il reverenziale, lo immortalo sul fido smartphone.

La domanda sorge spontanea: oltre che appartarsi con le giovani donne, che ci faceva il grandissimo scrittore americano in ‘sto posto dimenticato da Dio, nel 1918?

Ernest Hemingway

Il 21 luglio del 2020, Ernest Hemingway avrebbe compiuto 121 anni.

Su di lui, qualche anno fa, è uscita una nuova biografia dal titolo “Hemingway’s Brain” di Andrew Farah. L’autore, psichiatra dell’Università High Point del North Carolina, ipotizza che lo scrittore fosse affetto da encefalopatia cronica traumatica: una patologia che può colpire chi ha riportato danni cerebrali dovuti a traumi al capo.  Ed Hemingway, di traumi durante la guerra e in diversi incidenti d’auto, ne subì parecchi. 

Ecco perché, alla fine dei suoi giorni, si lamentava spesso di non riuscire più a scrivere a causa di un cronico, divorante mal di testa. Nel 1961 si fece ricoverare e gli fu praticato persino l’elettroshock che, forse, gli provocò una grave forma di afasia. Uno scrittore che non riesce né a scrivere, né a parlare (e quindi a dettare) ha dei grossi problemi. Anche da qui, probabilmente, la decisione di togliersi la vita. Cosa che fece il 2 luglio del 1961, quando si sparò in bocca con un fucile.

Degna fine di un personaggio da film.

Per tutta la sua vita Hemingway, Premio Nobel per la Letteratura nel 1954, vagabondò in cerca (non è mai “solo” così. Ma in qualche modo devo chiudere la frase) di emozioni forti.

Giramondo, cacciatore, reporter, soldato, bevitore accanito e arcinoto donnaiolo.

Partecipò alla guerra civile spagnola, fu volontario in Italia durante la Prima Guerra Mondiale, viaggiò, si sposò quattro volte ed ebbe tre figli. Non si fece mancare niente, insomma; nemmeno il diabete, la cirrosi, l’insonnia e la depressione, che iniziò a manifestarsi circa 4 anni prima della sua morte.

Fu anche (merito da poco, lo riconosco) uno dei miei primissimi amori letterari adulti, iniziato con Il vecchio e il mare, divorato sul divano rosso della casa dei miei. 

Senza avere la pretesa di ripercorrere la complessa e avventurosa vita dello scrittore, mi è venuta la curiosità di ricostruirne un breve periodo, che forse potrebbe far luce sul contenuto misterioso del cartello. Perché dai!… Sarebbe praticamente uno scoop.

Così mi fiondo su tutto quel che trovo: vecchie biografie di vecchi Oscar Mondadori (dettagliatissime, va detto) e nuovi, fortunati frammenti in web.

E scopro che, cronista al Kansas City Star, quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, il giovane “Ernie” (diciannovenne) si presentò volontario per combattere in Europa.

(Pare fosse un trend tra cronisti e scrittori americani del tempo).

Per un difetto alla vista, venne escluso dai reparti combattenti, arruolato nei servizi d’ambulanza e destinato al fronte italiano.

EH 2723P Milan, 1918
Ernest Hemingway, American Red Cross volunteer. Portrait by Ermeni Studios, Milan, Italy. Please credit “Ernest Hemingway Photograph Collection, John F. Kennedy Presidential Library and Museum, Boston”.

La prima tappa fu Milano, dove si fermò alcuni giorni, per prestare opera di soccorso e pattugliamento. Poi, spedito nella zona del basso Piave, venne ferito alla gamba e curato prima sul posto, poi all’ospedale della Croce Rossa americana, a Milano. Dove rimane per circa tre mesi.

Ma questa è la seconda parte della storia.

La prima è antecedente al Piave.

Il 7 giugno 1918 a Castellazzo di Bollate, vicino a Milano, ebbe luogo un incidente di cui si trovano alcune tracce sul web: una terribile esplosione avvenuta nella fabbrica di munizioni Sutter & Thévenot, una delle più grandi fabbriche d’armi del paese. Tra i 1300 operai, quasi tutte donne, ci furono 59 vittime e oltre 300 feriti. Le cause dell’esplosione non furono mai chiarite e anzi, fino al centenario dell’incidente, sull’episodio cadde una cortina di silenzio. Oggi la tragedia viene finalmente annoverata tra gli anniversari d’interesse nazionale dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Tra i soccorritori della Croce Rossa Internazionale accorsa sul luogo dell’esplosione, c’era Hemingway, tenentino americano al suo primo incarico.

Di quell’episodio lo scrittore narrò in seguito in Piccola storia naturale: i morti, uno dei suoi Quarantanove racconti.

Ce l’ho! E leggo una storia cruda e straziante, dove Ernest confessa di aver visto per la prima volta vittime donne. Morte, bruciate, smembrate. Dev’essere stato un gran brutto ricordo, se decise di scriverne così; una terribile esperienza di cui, però, probabilmente salvò qualcosa.

Castellazzo di Bollate è nei pressi dell’ex parco della Balossa, appunto.

Dove si trova il nostro cartello.

Se vogliamo dargli retta (e dopo tutto perché no?) Ernie trovò il modo di sfuggire dall’inferno, con una giovane donna del posto. Chissà se un’operaia della fabbrica rimasta illesa, una ragazza del paese o un’infermiera.

In tutti i casi è bello pensare che, in mezzo al dolore, alla morte e allo strazio, questo ragazzo che non aveva mai visto niente di simile prima, abbia avuto una via di fuga. E che la sua generosa opera di soccorso abbia trovato una ricompensa.

Fugace quanto si vuole. Ma Altro dall’orrore.

Ha cominciato presto, ad avere una vita letteraria, Ernie.

Forse per questo non poté che scriverne.

Dopo questa prima missione, come dicevamo poc’anzi, Hemingway venne ferito dalle schegge di un proiettile di mortaio nella zona del basso Piave e ricoverato in un ospedale di Milano, dove oggi c’è una targa a lui dedicata, in via Armorari.

E insomma, anche in ospedale, nonostante sia stato più volte operato rischiando di perdere la gamba, trovò il modo di passare piacevolmente il tempo. E sulla terrazza, dove c’erano sedie di vimini e venivano serviti alcolici, conobbe Agnes Von Kurowski, un’infermiera americana di origini tedesche.

Pare fosse molto bella, Agnes (“Aggie”): assai corteggiata e di qualche anno più grande dello scrittore. Ma anche Ernie non scherzava; giovane, attraente ufficiale dalla lingua sciolta. E tra i due scoppiò l’ammoore.

Lui le fece addirittura una proposta di matrimonio. Lei, sulle prime l’accettò, ma più tardi, fece marcia indietro e ritirò la promessa con una lettera che Ernest ricevette quand’era già tornato in America.

Che sia stato un amore platonico o profano, non è dato sapere.

Ernie, comunque, trasfigurò Agnes in Catherine Barkley, il personaggio femminile di Addio alle armi, pubblicato in America nel 1929 e in Italia solo nel 1945.

Il contenuto, infatti, che narra anche della disfatta di Caporetto, non piacque un granché alle Forse Armate della dittatura fascista.

Ed Ernest, che sul Toronto Star aveva fatto uno spassoso ritrattino di Mussolini, (descrivendolo mentre “leggeva” un dizionario capovolto), non sembrò dispiacersene.

Impegnato com’era, in ben altre avventure. Umane, professionali e letterarie.

Peccato solo che abbia pagato a caro prezzo la sua intensa sete di vita.

Fino al punto da decidere di spegnerla con le sue stesse mani.

Materiali

https://rivista.vitaepensiero.it/news-vp-plus-hemingway-a-milano-nel-1918-dalla-guerra-allamicizia-con-alberto-mondadori-5037.html

https://www.immaginiememoria.it/storie/quellesplosione-centanni-fa/

https://www.ilgiorno.it/rho/cronaca/bollate-esplosione-fabbrica-armi-1.3931261

https://www.doppiozero.com/materiali/hemingway-milano

https://www.raicultura.it/storia/accadde-oggi/Il-giovane-Hemingway-ferito-in-trincea-c3412fcb-1fb6-47e9-94ba-948a094e1502.html

(Video Rai storia sull’8 luglio 1918)                                               




Ciò che il male divide, il cuore unisce.

intervista a Fabiola Maria Bertinotti

1.La premessa.

Incontrai Fabiola Maria quando era ancora direttore della Comunicazione per The Walt Disney Company Italia, durante la premiere del film AVENGERS a Roma. Era il 2012, un secolo fa.

Durante una riunione plenaria con tutti i responsabili dell’evento, presso la sede dell’Agenzia per la quale allora lavoravo e che aveva in carico l’organizzazione dell’Evento, eravamo più di una ventina di persone, rimasi colpito dalla determinazione e apparente durezza di questa manager che teneva agilmente testa a fior di professionisti e colleghi.

Questa immagine mi è rimasta impressa e l’ho sempre associata a Fabiola Maria, ogni qual volta ci siamo poi incrociati a Milano quando mi recavo per riunioni di lavoro in Disney.

Poi l’ho persa di vista.

Ad inizio lockdown, mentre costretto dalle chiusure cercavo come tutti di ricostruire la mia rete di contatti, ebbi occasione di chiederle il collegamento su Linkedin.

2. Ora inizia un’altra storia.

Una vita da manager, con una carriera che l’ha portata ai vertici della direzione di The Walt Disney Company quale membro del Board of Directors responsabile della Comunicazione aziendale e della Responsabilità sociale. Poi imprenditrice, con una sua agenzia di consulenza, la FAB Communications.

Una mamma, con un figlio che vive con distrofia muscolare.

Una donna eccezionale, di una sensibilità e generosità rara. Una visione del futuro piena di speranza e di fede.

Quando Fabiola Maria ha contratto il Covid19, ha deciso di rinchiudersi e di scrivere un libro su questa esperienza.

Ma di questo parleremo dopo, ora vorrei concentrarmi sulla forte spiritualità di una donna che ha saputo rivedere la sua vita, in una nuova ottica.

Sono stata una donna molto emancipata, vivevo una vita che si snodava tra Milano, Roma, Londra, Los Angeles. Sono rimasta sempre fedele ai miei valori, ma mi piaceva la vita internazionale e non ne conosco di altro tipo: sono nata in Italia, ma professionalmente sono anglo-americana”

Che sappia maneggiare il mezzo linguistico è fuor di dubbio, Fabiola Maria ha una capacità dialettica e sa usare le parole giuste per esprimere concetti che, anche se complessi, riescono sempre a raggiungerti in maniera fluida ed efficace.

Eppure, mettere a nudo se stessi con le parole è l’inizio di un’avventura completamente diversa, a volte anche molto intima e privata. Ciò che è capace di raccontare Fabiola Maria potrebbe riempire una conversazione di ore, eppure sembrano minuti per quanto ti rapiscono e coinvolgono.

Fabiola Maria è una donna creativa oltre che interiormente molto libera, seppur professionalmente cresciuta a una scuola di management strutturato che promuove la nozione del think big e out of the box accanto a quella del rigore nella pianificazione e nell’esecuzione di alta qualità. Nella sua sfera privata, quando la vita la mette a dura prova, Fabiola Maria decide di non seguire un copione o delle strategie verbali consolidate, ma mette in luce quei punti scoperti del vivere che ci prendono alla sprovvista.

“Quando andavo a trovare le mie amiche che avevano partorito mi trovavo in una situazione di imbarazzo estremo. E non era da me, che sono molto razionale. C’era un richiamo alla maternità, eppure non ne prendevo atto, anzi a volte ero infastidita che le mie amiche parlassero solo di bambini.

Da un disinteresse, ad un’esperienza di maternità che deve aver attraversato anche momenti difficili.

È stata la volontà di avere un figlio, e che ho cercato in maniera viscerale. Ogni genitore desidera i propri figli con grande intensità, ma chi non può concepirlo naturalmente lo cerca con ancora più veemenza. Io sono andata quasi fin sotto l’Everest per trovare mio figlio, lo abbiamo adottato in Nepal.

Scoprire che mio figlio adottivo avesse una distrofia muscolare è stato angosciante ed è una croce che portiamo tuttora.

Cosa hai scoperto di te stando dentro un imprevisto così grande? 

A dire il vero è stato il momento più alto della mia vita e posso dirlo anche a nome di mio marito. È stato un periodo di massima gioia, ma anche di massimo dolore. Non vivo tutti i giorni col sorriso sulle labbra.  Ci sono dei momenti in cui mi sento abbandonata a me stessa, va detto per onestà. Quando ci fu comunicata la diagnosi su nostro figlio, mi fu subito detto di non fare ricerche su Internet ma fu la prima cosa che feci.

E poi, data la mia formazione, mi sono precipitata negli Stati Uniti per capire se ci fossero orizzonti più promettenti. Lì, nel tempo, sono diventata un’attivista nel campo nazionale e internazionale per le malattie neuromuscolari con una specificità sulla distrofia di cui soffre mio figlio, la FSHD (facio-scapolo-omerale)

 Ho fatto dei corsi di formazione a livello europeo, ma non era nei miei progetti. All’origine io volevo diventare solo una mamma, non un’esperta in questo campo sul confine tra l’ambito etico-sociale e quello medico-scientifico. E invece sono diventata un “patient advocate”, ossia un paziente esperto che rappresenta il mondo dei pazienti e coopera con altri fondamentali stakeholder come medici, scienziati, comitati etici, organizzazioni e infrastrutture internazionali come il TREAT-NMD, Fondazione TELETHON, EURORDIS, TACT. Grazie ad una maggiore sensibilità verso coloro che vivono con una malattia rara, suffragata anche da logiche di produttività e efficacia ai fini sociali e della ricerca scientifica, la figura del “paziente esperto” è diventata, infatti, un fattore di fondamentale importanza per intraprendere decisioni legate al processo di sviluppo di nuovi farmaci e al miglioramento della qualità di vita delle persone.

Una seconda “carriera”, stavolta inaspettata e fuori da ogni programma che, passo dopo passo, con entusiasmo, ha portato Fabiola Maria ad essere nominata da UILDM donna paladina dei pazienti neuromuscolari nel giorno della Festa della Donna 2021 con la qualifica di “Io Difendo”, espressione efficace per esplicitare il significato di Advocate.

Nonostante questa grande ferita, tu sorridi sempre. Un sorriso disarmante e autentico. A cosa ti sei aggrappata per conservarlo?

Una Fede solidissima. Anche se non sempre è stato così, lo dico senza problemi. Sono sempre stata una persona molto profonda e sensibile. Da piccola ero profondamente religiosa, ho frequentato il Collegio della Guastalla e l’Università Cattolica, e mi sono sposata in chiesa, quindi la mia formazione è cristiana. Però poi c’è stato un lungo periodo di vuoto. Di recente c’è stato un ritorno al legame con la Chiesa, che è stato infuocato e legato a Santa Gemma Galgani. La Fede nel Signore è capace di lenire ogni dolore e dà la forza di andare avanti quando senti a volte di non farcela.

Il dolore si può comunicare? Può essere condiviso?

Io cerco di comunicarlo molto poco, perché non voglio scaricarlo sugli altri. Sulla mia famiglia preferisco riversare la mia vitalità. Sono un’ottimista e credo che anche questo sia fondato sul desiderio di portare un po’ della mia buona volontà.

La famiglia, la preghiera, è il perno intorno al quale ruota tutto.

La nostra famiglia persegue un obiettivo di guarigione, io prego tutti i giorni e insieme a me prega gente viva e defunta, secondo il dogma della Comunione dei Santi. Non smetterò mai di bussare alla porta del Cielo, proprio perché il Signore ce l’ha detto per primo.

SEGREGATA è il libro che hai scritto quando è cominciata la guarigione dal Covid-19, che ti ha colpita proprio quando la pandemia stava per scatenarsi nel nostro Paese.

Mi sono messa a letto il 7 di marzo 2020, due giorni prima che la Lombardia venisse dichiarata zona rossa. Erano i giorni appena prima che l’Italia intera entrasse in lockdown.  Mi sono isolata subito perché la malattia di mio figlio lo qualifica nella categoria “ad alto rischio”.  Avevo soprattutto una paura: il terrore che io potessi procurare una malattia mortale a mio figlio. In quei giorni di silenzio e solitudine, ogni volta che percepivo il passaggio di mio figlio sulla sedia a rotelle al di là della porta della mia stanza, provavo una grande commozione, perché non potevo varcare quella soglia. Per 40 giorni ho sentito la mancanza di toccarlo e abbracciarlo.

È stata una separazione dura ma feconda, da cui sei uscita con alcune certezze.

Quella che io ho vissuto è poi diventata l’esperienza drammatica di tante famiglie italiane e nel mondo. Perciò tutto questo va oltre la mia esperienza personale. Ed è stato un confronto, con le parole, diverso da quello che ho fatto per tanti anni, vale a dire la scrittura a livello professionale. È stata la prima volta che scrivevo di me. Ero sola nella mia camera, anzi eravamo io, il muro e la finestra. La cosa bella che ho provato è che a un certo punto mi sono resa conto che le mie dita andavano da sole: era il mio cuore a dettare liberamente cosa scrivere. Ecco perché la tagline del libro è “Ciò che il male divide, il Cuore unisce”.

Il libro non è solo una testimonianza fine a se stessa ma è un inno alla positività e uno strumento di bene: infatti il ricavato della vendita è andato e andrà in beneficenza.

Io sono stata segregata “solo” 40 giorni, ma c’è chi resta segregato per una vita intera. Sono i giovani che hanno una distrofia muscolare e che meritano l’opportunità di avviare una loro vita indipendente. Esiste un bellissimo progetto della Presidenza della UILDM – Unione italiana lotta alla distrofia muscolare proprio su questa tematica e ho quindi deciso di devolvere i proventi del libro a questo fine, come per dar celebrare la vita e la libertà, alla faccia del covid!  

3. Il libro.

Siamo di fronte a un piccolo gioiello editoriale, autoprodotto, che ha incassato ad oggi oltre 15 mila euro.

SEGREGATA, con la prefazione firmata dal grande Vincenzo Mollica, ha avuto il supporto della Fondazione Cariplo, che ha concesso il patrocinio e fornito un primo contributo economico al progetto avviandone lo start-up, e della Fondazione della comunità di Monza e Brianza, che ha contribuito a strutturare il fondo speciale che ha accolto le donazioni e seguito la parte di rendicontazione puntuale. Il volume è stato scaricabile in formato ebook dalla piattaforma di crowdfunding ForFunding e, da Natale 2020, è disponibile in versione cartacea.

Per acquisti (spedizione gratuita), scrivere direttamente alla Presidente Gabriella Rossi uildm@uildmmonza.it

https://www.fab-communications.com/comunicazione-il-cuore-unisce/segregata-coronavirus/
“Segregata”, il libro di Fabiola Maria Bertinotti



Il ritorno dell’Audio

Intervista a Valentina Serafin

Quante persone ascoltano la radio in Italia? Quante sono le emittenti nel nostro paese? Con quali strumenti si fruisce maggiormente del mezzo radiofonico?

Secondo i dati ricavati in Rete, sono 35 milioni gli italiani che mediamente ascoltano la radio.

Le emittenti nel nostro paese sono circa un migliaio in totale, ma concretamente quelle che vengono ascoltate sono più o meno 300. Le altre hanno quindi un impatto poco rilevante: o perché non sono attive, o perché non ascoltate.

Di queste 300 radio, quelle che hanno una dimensione d’impresa rilevante sono circa la metà, questo soprattutto è dovuto all’impossibilità del mercato a sostenere un numero così alto di player.

Nonostante questa forte riduzione, l’Italia vanta comunque il primato europeo di numero di emittenti, in rapporto alla popolazione.

Se si vanno ad analizzare le fasce di popolazione, la radio viene ascoltata principalmente dagli adulti. I giovani, specie nella fascia 10/20 anni, preferiscono fruire della musica attraverso altre piattaforme on demand (ad esempio Spotify o Youtube).

Negli ultimi tre mesi c’è stata l’esplosione di Clubhouse che ha riportato la voce al centro, ma sembra che la curva sia drasticamente in discesa, soprattutto perché non si riesce a trovare il modo di monetizzare questa piattaforma.

In questa realtà decisamente rilevante, quanto è importante il mestiere dello Speaker radio?

Iniziamo col dire che il mestiere dello speaker, è un vero e proprio lavoro, che richiede a certi livelli una professionalità altissima.

Preparazione, molto studio e tanti sacrifici.

Non è cosi scontato riuscire ad emergere in questo settore. Non si diventa professionisti improvvisandosi e nemmeno avendo una bella voce.

Sono caratteristiche importanti ma vanno sviluppate.

“ Il lavoro dello speaker, come molti altri, inizia spesso la mattina presto su di un treno affollato, una metropolitana oppure una macchina per raggiungere il posto di lavoro “ ci spiega Valentina Serafin, una delle figure emergenti di questo settoreche può essere lo studio di registrazione, l’emittente radiofonica , una sala-conventionoppure l’ufficio di un cliente. ”.

Valentina Serafin

Nell’immaginario collettivo uno speaker fa una vita agiata e comunque piena di notorietà e lusso.

“Spesso per guadagnare uno stipendio medio, bisogna speakerare svariate righe di un anello di doppiaggio, oppure decine e decine di spot promozionali, di documentaridi vario genere o lunghi discorsi e letture in eventi pubblici e privati”.

Molti speaker radiofonici hanno fatto il salto in tv. Forse è questo il momento in cui si passa da voce nota a viso noto. E quindi alla celebrità?

“Sono tanti gli speaker radio che sono diventati conduttori tv: Nicola Savino, Alessandro Cattelan, Luciana Littizzetto, Amadeus, Gerry Scotti, lo stesso Fiorello. Quando erano in radio nessuno li riconosceva per strada. Dunque direi che la risposta è si, passando al video si diventa noti.

Hai citato nomi notissimi, ci sono tuoi colleghi meno conosciuti che hanno intrapreso questo cammino?

Ce ne sono moltissimi altri , soprattutto della nuova generazione. Non faccio nomi per evitare di far torto a qualcuno che mi scorderei sicuramente.”

Facciamone uno solo allora.

Oggi Diletta Leotta, che era la voce di 105 Take Away, è la conduttrice numero uno del pacchetto sportivo di Dazn. “

Io credo che la preparazione di uno speaker radiofonico richieda molta più preparazione di un collega in video, perché quest’ultimo può far ricorso alla mimica e alla gestualità che in radio non possono venirti in aiuto.

E’ vero, e non solo. Spesso il nostro lavoro si porta a casa nel proprio studio personale (home-studio), ricavato in un piccolo angolo di casa. Una preparazione attenta e meticolosa degli argomenti, che vanno studiati e approfonditi.

Un po’ come quando si andava a scuola..

Esatto. Io ho fatto il Liceo Classico e ho studiato Latino e Greco che peraltro ricordo perfettamente. Il metodo di studio e l’approccio a quelle materie mi sono molto utili quando mi preparo per un lavoro.

Vuoi dire che bisogna essere laureati per fare lo speaker (risata)?

Esistono scuole specifiche per diventare speaker, ad esempio quelle di dizione che ho frequentato a Roma, o anche corsi di teatro che ti permettono di impostare la voce, ed entrambi mi sono stati utili e fanno parte del mio bagaglio professionale. Naturalmente chi ha del talento, può emergere lo stesso, ma io sono del parere che solo il talento non basta.

Un professionismo in continua evoluzione?

Il mercato cambia continuamente, gli speaker si improvvisano ogni giorno, basta andare su ClubHouse e si trovano moderatori di ogni tipo. Non basta aprire un microfono e parlare. Bisogna conoscere i tempi, e saper far parlare anche gli ospiti o gli altri interlocutori.

E dunque?

Studiare, studiare, studiare. Comprendere i cambiamenti, aggiornarsi e non sentirsi mai arrivati.

Quindi la prossima volta che ascolterete una voce in tv, in radio, in uno spot televisivo, oppure ad una convention, ricordatevi che dietro quella voce e quella persona, quel professionista, si nasconde un uomo oppure una donna come Valentina Serafin.

Una Professionista, con la P maiuscola.

https://valentinaserafin.it/
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https://www.instagram.com/_valentinaserafin_/




Il Cigno Nero

Il cigno nero, raro animale acquatico dalle forme molto eleganti è un paradigma che ci riguarda tutti, come singole persone e come collettività.

E’ la definizione dell’improbabile che spesso governa e confonde, in qualche modo, le nostre vite. Un imprevisto, il caso, un qualcosa che non era proprio all’orizzonte, che cambia in modo radicale la nostra esistenza, in quanto si tratta di un avvenimento che non eravamo preparati ad accogliere.

Cambio scena

La prima volta che ho incontrato, casualmente (questa parola tornerà spesso) Roberta, mi hanno colpito due cose di Lei. Sorrideva sempre, e guardava dritto negli occhi. Non in maniera aggressiva, ma certamente riusciva, non volendo, a metterti a disagio, perché era come sentirsi disarmati di fronte a lei.

Era passata per fare uno shooting sul suo progetto “Smiles Are Viral” , delle shopper di cotone e juta , ecosostenibili, prodotte da una cooperativa di ragazzi Senegalesi, con un enorme smile stampato sui due lati .

Il prodotto che ne usciva fuori non era banale: dentro c’è tutto. Solidarietà, ecosostenibilità, personalità, sorrisi, amore.

Un melting pot di culture, credenze, esperienze di vita.

Le Borse che ridono, come le chiamo io, escono dai confini dell’oggetto di uso quotidiano, e diventano qualcosa che ti accompagna nella tua quotidianità, fino quasi a perdere lo scopo per le quali vengono usate.

Un esempio? Vengono vendute dentro le buste del pane!

“Non è un caso che tutti i fenomeni della vita umana siano dominati dalla ricerca del pane quotidiano” mi dice Roberta “e il suo profumo è il più antico legame con le nostre origini. Aprire una busta del pane e sentirne l’odore ti rimanda al nostro mondo più intimo, alla nostra infanzia, a qualcosa di rassicurante. Io voglio che le mie borse siano questo”

Una coperta di Linus, un portafortuna, qualcosa da abbracciare e che ha un Anima.

Roberta mi ha incuriosito così e, parlando, mi ha raccontato della Spagna, dei suoi anni di danza classica, e della sua vita che ha “ripulito” partendo da se stessa, con momenti intensi di meditazione e yoga.

Il Veganismo che oggi è parte della sua filosofia  (abbiamo scherzato su questo)  è il Karma che sconta per i lavori del nonno e del padre, che trattavano carni e pelli.

“Ripulirsi dentro” è una necessità che ad un certo punto della vita diventa essenziale. Mi alzo ogni mattina alle 5.30 e faccio due ore di Yoga e meditazione, e questa è diventata una esigenza, non un abitudine, dalla quale non posso prescindere “

Adotti qualche tecnica particolare?

“Assorbo ed indirizzo l’energia vitale attraverso il controllo ritmico del respiro. Quando raggiungo questo controllo, non sempre, riesco a rendere la mia mente stabile, forte e tranquilla”

Stai parlando di Yoga quindi?

“In particolare questo è il Pranayama, una tecnica specifica del respiro attraverso la quale si ottengono molti benefici, anche fisici, se combinati con una disciplina yoga.  Io in particolare pratico l’Ashtanga Yoga, che si basa sulla coordinazione del respiro e il movimento, dunque assumendo posizioni diverse, le Asana”

E’ una disciplina o uno “state of mind”?

“Entrambe le cose. Fisicamente mi ha aiutato aver praticato 17 anni di Danza Classica, ma lo yoga è tanto altro. È oltre “

C’è un fil rouge tra il tuo progetto “Smiles are Viral”, il tuo veganismo, e lo Yoga? Io non faticherei a trovarlo.

“Non saprei, forse è casuale, o forse no. Direi che è più un qualcosa che non era proprio all’orizzonte, che ha cambiato in parte la mia esistenza, in quanto si tratta di un avvenimento che non ero preparata ad accogliere

In che senso?

“Io vivevo tra l’Italia e la Spagna dove ho studiato per diversi anni, ed una volta rientrata a Roma poco prima del lockdwn, sono rimasta bloccata. E’ successo a molti, lo so, ma il progetto delle borse è partito quando mi sono ritrovata qui. Se fossi stata ancora in Spagna, non lo so, forse avrei fatto l’insegnate di Yoga”

Un progetto che sembra casuale ma che in realtà ha dietro molti contenuti.

“Il progetto delle borse lo considero come un figlio, e lo curo con la massima attenzione, dunque forse è nato casualmente, ma è molto della mia vita, oggi”

Una attività imprenditoriale, come la vendita di borse in questo caso, ha sempre un obiettivo economico, che in qualche modo “contamina” la purezza di un Progetto.

“La monetizzazione non è il mio obiettivo primario per Smiles Are Viral. Prima c’è la solidarietà, la realizzazione di qualcosa che possa essere utile e coinvolgere. All’interno delle mie borse ci sono etichette disegnate da bambini che non vengono buttate, ma usate come segnalibri”.

Più che un progetto di impresa, dunque, possiamo parlare di una Visione?

“Si, prima ho detto “figlio”, ma anche “Visione” ha un senso. “

Oppure un sogno?

“I sogni sono desideri, come diceva una canzone, e il mio desiderio è tornare a vivere in Spagna, ed essere serena con me stessa, e dunque con il mondo”.

E’ il momento di salutarci, perché inizia la sessione fotografica delle “Borse che ridono”. Dobbiamo farlo con un colpo di gomito, come vuole il galateo di quest’ultimo anno

“ Ma quale gomito, abbracciamoci forte e vogliamoci tanto bene” mi dice sorridendo Roberta “quando ti sorride il cuore, tutto il resto viene contagiato, e non puoi fermarlo”.

Let’s Get infected” mi grida da lontano!!

E ci illumina con il suo sorriso. Il mio. Il tuo. Il mio, Il suo, I nostri.

Grazie Roberta, di cuore!

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Poco da gasarsi

(di Marina Ruberto)

Anni fa, in Italia, la musica era ribelle.

I giovani se lo sentivano cantare da Eugenio Finardi e si gasavano.

Oggi, a Sanremo i “Ciovani” hanno gioito per la vittoria dei Måneskin: band rock di duri e puri la cui esponente femminile, durante la premiazione, ha riempito di parolacce i conduttori, rei di aver chiesto al gruppo un’altra esibizione.

Per carità.

In linea con l’immagine grintosa e il look dei quattro che, però, (per non incorrere nel reato di “già visto”) potevano fare a meno di sciogliersi in lacrime di commozione sul palco. Cosa che, invece, hanno puntualmente fatto.

Quanto al testo di Zitti e buoni, bah.

Sembra che la ribellione consista nell’affermare di essere diversi (da chi? Ah: da “loro”. Loro chi? La gente che non sa di cosa parla, gli uomini in macchina che non scalano le rapide, gli spacciatori che non aprivano la porta…) nonché “fuori di testa”.

Måneskin – ZITTI E BUONI (YouTube)

Bene.

A parte l’episodio abbastanza isolato, per lo più, oggi i “Ciovani” ascoltano Rap.

A chi fosse interessato, segnalo un articolo su alcuni dei suoi esponenti. Ma ce ne sono molti altri.

Io, che giovane non sono, mi limito ad osservare che i testi vertono (salvo eccezioni) su sesso, droga, nonsense e, a volte, persino violenza.

A caso, dal brano Lento di BoroBoro:

Giro por la calle e sono attento/Lei sopra di me lo muove lento/Steso dentro al letto, giuro che la spengo/E dopo faccio
Ra-pa-pam-pam
Ra-pa-pam-pam
Ra-pa-pam-pam”

E via così.

Ma l’ultima frontiera (che data ormai qualche anno) della musica Ciovane è il Trap. A chi fosse interessato e amante delle distorsioni vocali dell’Auto-Tuner, segnalo un altro articolo:

https://ripetizioni.skuola.net/blog/10-cantanti-della-musica-trap-italiana/

Ancora più che nel rap, qui si parla spesso di autoreferenzialità varie.

Sfera Ebbasta, uno dei portabandiera del genere, da tanto è diventato famoso, ha fatto pure un film che s’intitola (appunto) Famoso ed è un documentario sulla sua ascesa ai vertici delle classifiche europee.

Il testo della canzone omonima, recita:

Ora che sono famoso voglion farsi la foto/ fissano la collana, fissano l’orologio/

da piccolo guardavo /le scarpe in quel negozio/ mo’ tutte quelle che voglio/ le metto solo un giorno/ Non mi facevano entrare manco a pagare/ mò mi devono pagare per farmi entrare…”

Tutto chiaro?

Oltre a Rap&Trap ci sono le nicchie impegnate, naturalmente. Non proprio originali, a parer mio.  Tutti un po’ figli di Francesco DeGregori, ma lontani i chilometri.

C’è l’acclamato e  ben prodotto Mahmood (ospite a Sanremo), dal timbro vocale interessante e le melodie finto/arabeggianti, che continua a firmare successi. Quest’anno ha co-firmato la canzone seconda classificata, Chiamami col mio nome dall hype “ignorante”, appiccicosissimo e tutto sommato gradevole.

Bello l’official video della canzone, in cui il duo Fedez- Michielin canta dai palchi di una serie di teatri vuoti o chiusi per sempre durante la pandemia.

C’è Willie Pejote, a Sanremo pure lui con un brano come sempre ben scritto e divertente. Ci sono le giovani promesse che rimangono tali e infine c’è Ultimo, secondo all’edizione 2019, che pare riempia gli stadi con le sue canzoni pop/hip hop/altro.

Gli Ultimi saranno i primi. Già.

http://www.marinaruberto.eu/




La melanzana di David

Incontro David (David D’Amore) dopo qualche anno che non ci si vedeva.

Oggi capisco che quella che sembrava una forma di contestazione formale era una visione del futuro.

Ricordiamo brevemente i vecchi tempi e ci proiettiamo sull’oggi. Anzi, verso il domani.

D. Il nudo continua ad essere al centro delle tue opere. Perché la scelta dominante e quasi ossessiva di figure, diciamo, svestite? 
R.Credo che rappresentando il corpo si possa lavorare sulla mente. Il corpo come mezzo per scavare nel profondo a patto che il profondo esista. Il richiamo del corpo è sempre irresistibile, i tramonti possono essere stupendi, una notte stellata può essere molto romantica, ma vuoi mettere un bel paio di chiappe? 

D.  La tua produzione artistica è enorme. Disegni, incisioni, dipinti, fotografie, musica. Da cosa nasce l’esigenza di creare così tanto materiale? 
R.  Per uno che non sa fare niente l’arte era l’unico mezzo per passare il tempo. In genere le idee più brillanti mi vengono quando, in sella al mio motorino, percorro le strade di campagna in cerca di una grotta in cui infilarmi per qualche ora. 

D.  Sembra quasi che tu voglia, nei tuoi lavori, confermare una sorta di nichilismo dell’essere umano, enfatizzando  l’inutilità della ripetitività.

R.   Non sono un misantropo, in me, purtroppo, è più presente il vizio della filantropia.  

D.  Non credi che la misantropia sia una sorta di ispirazione per un Artista? Eppure  l’arte dovrebbe essere fruita dalla gente, da un pubblico. Non è un controsenso?
R.  Siamo esseri fallibili e soprattutto volubili. A causa delle nostre altalenanti vicende quotidiane  un giorno siamo fieri filantropi e il giorno dopo siamo misantropi convinti. In genere negli artisti subentra la misantropia quando si è incompresi o sottovalutati.

D.  Tu utilizzi il corpo come un contenitore, un oggetto, e lo associ sempre ad oggetti esterni a lui, come se volessi mettere in risalto la incomunicabilità delle due realtà. Questo genera una sensazione di violenza estetica, blasfema, ma con un obiettivo poetico.

R.  Sono un pessimo esempio per le nuove generazioni, lo ammetto. Nella prossima vita giuro che dipingerò solo prati in fiore e fotograferò esclusivamente località sciistiche con annessi impianti di risalita. Il termine che hai coniato, ”blasfemia poetica”, mi piace, potrebbe essere il titolo della mia prossima fotografia.

D.  Ho visto che spesso nelle tue opere compare l’immagine di una melanzana, o cucita o dipinta. Perché hai scelto proprio quell’ortaggio? 

R.  Ho scelto la melanzana per motivi estetici, non filosofici o esoterici. I riflessi sul corpo liscio di una melanzana sono fantastici da dipingere e anche da fotografare. Una mia foto del 1998, intitolata “Dissidente”, rappresenta una melanzana con un profondo taglio ricucito chirurgicamente. 

D.  Ti sei sentito o ti senti influenzato da alcuni artisti, da alcuni autori, anche letterari, nel tuo modo di produrre?
R.  L’espressionismo nordico mi ha molto attratto, ma troppe sono le cose che mi affascinano, potrei fare un elenco infinito di pittori, musicisti, registi, scrittori e fotografi importanti per la mia crescita artistica. Tra i pittori al momento ammiro il Guariento e Dierick  Bouts.  

D. Esiste un modus operandi di procedere per costruire e dare vita alle tue opere?
R.  Durante il giorno ho delle vere e proprie visioni ad occhi apertiSubito corro nel mio studio, ricreo la scena che ho visto e la fotografo. La foto rappresenta una sorta di appunto sul quale posso poi lavorare di nuovo per migliorarla.

D.Che rapporto hai con le tue opere una volta create?”   

 R.Il  rapporto con le mie opere è difficile, a volte arrivo a odiarle.   

D.  Credi nell’uomo?
R.  Ci vorrebbero cento vite per tentare di decifrare la natura umana. Io di vita ne ho solo una e cerco di dedicarla a cose più elementari e piacevoli. 

D.  C’è qualcosa che non hai ancora fatto e che ti piacerebbe fare? 
R.  Mi piacerebbe essere un artista ricco e famoso, possibilmente senza vocazione, che dipinge, suona o fotografa solo per il mercato

D.  L’amore è sopravvalutato? 
R.  Si, come tutti i vizi e le perversioni. 

D.  La morte è qualcosa di liberatorio? 
R.  Se tutto va bene, a noi umani ci attende l’inferno.

https://davidamore.weebly.com/