Ho avuto la fortuna di conoscere Barbara De Maestri tramite Instagram ed è stata sintonia a “prima vista”. Barbara è empatica e va oltre lo strato superficiale della quotidianità.
Da cosa sono regolamentati i nostri comportamenti e i nostri pensieri?
Che cosa c’è dietro quello che noi crediamo essere la realtà?
“Angeli e alchimia” è un viaggio nel mondo dell’alchimia con alcuni spunti di esoterismo e fantasy.
Ancora oggi i misteri della pietra filosofale affascinano gli appassionati in materia ma chissà che non si tratti solo di qualcosa di intangibile e che quello che rappresenta non sia qualcosa di diverso.. con uno studio approfondito di noi stessi e delle leggi della natura tutti noi potremmo ottenerla?
Estelle, Marcus, Dylan, Samuel e Lucas sono compagni di classe e ognuno di essi sembra avere qualcosa di speciale. Il prof. Hopp ne sembra convinto.. quali misteri e quali progetti ha in serbo per i giovani ragazzi?
La coscienza collettiva e le sorti dell’umanità sembrerebbero a rischio a causa di un personaggio oscuro e ambiguo arrivato in città, Milano (dove inizia la storia è dov’è in parte ambientata).
In modo misterioso i cinque compagni di avventura vengono portati a Mont Saint-Michel, luogo cruciale alchemico dove gli eventi si svilupperanno a ritmo sempre più serrato e quando tutto sembra essere arrivato a conclusione, il lettore viene lasciato a bocca aperta!
La storia personale dei cinque protagonisti e i loro rapporti familiari impattano profondamente sulla qualità delle loro vite e forse per loro è arrivato il momento di fare i conti con se stessi.
“Angeli e Alchimia” è anche lo spunto di riflessione sull’amore eterno e sul reale rapporto delle anime delle persone: namasté!
La scrittura di Barbara è ricca di amore.
La ringrazio per il regalo che ha fatto a noi lettori con questo libro, ricco di emozioni, suspense e spunti di riflessione importanti!
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
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Il vagone della Metro A, direzione Battistini, singhiozza e procede. Il passo insicuro nel suo incedere borbottante è costante, somiglia alla storia dei suoi passeggeri. Scriviamo le nostre storie ordinarie o magnifiche bucando le città con un vagone metro o attraversandole a piedi, con il muso sfatto per la pioggia di problemi che ci casca ogni giorno in testa e con gli occhi rivolti in preghiera verso lo stato Vaticano. Salvo strappi benevoli del destino ci ricorderanno al massimo i nostri nipoti. Dopo di loro l‘obliò, molti di noi non saranno mai esistiti e di conseguenze nemmeno estinti.
I ragazzi nei vagoni brontolano, sbuffano, si allungano in pachidermiche mosse di stretching nonostante la loro evidente smagliante forma fisica. Non provano a costruire la loro storia. Se non ritengono di essere in grado di incastrare quei mattoncini uno sopra l’altro si potrebbero spendere per vivere grazie al potere dell’immaginazione nella storia di qualche eroe da romanzo storico. Non intercetteranno mai in cloud il mio auspicio anche se sono costantemente connessi.
La comunicazione silenziosa ed efficace dei loro e dei nostri telefoni ha quasi soppresso il volo d‘immaginazione che ci regalava la pagina stampata. La nostra storia di vita a metà tragitto, a metà romanzo, era meno scontata perché si confondeva con il protagonista di vicende lontane che ci rendevano più leggeri ed allo stesso tempo più cupi. Il vero volo low cost era quello che intraprendevamo grazie ai nostri occhi che correvano pagina dopo pagina, ora umidi di malinconia e rabbia, ora impiastricciati di desiderio erotico. Il libro era il viatico per spaziare in terre lontane a costo zero, era il lenzuolo di Snoopy con cui consolarsi dopo le note severe di un professore severo, era un grumo di farina per impastare il pane della conoscenza.
Noi tutti peniamo, sudiamo, speriamo e ci inginocchiamo al cospetto della durezza della vita ma oggi le armi in pugno sono smussate in punta, perché un cellulare non sarà mai la spada nella roccia per nessuno di questi ragazzi. Non è facile incrociare lo sguardo di un giovane uomo attento solo a quel mondo in quella scatoletta paradossalmente perfetta.
Ho avuto la fortuna di viaggiare con mia madre hostess per non stupirmi ogni volta di come siamo tutti cittadini di un mondo diverso,disunito,ma con i stessi connotati. Conoscere lingue diverse e poter scegliere di studiare il cinema e le arti senza seguire un percorso di studi tradizionale (forse piu’utile ai fini pratici) mi ha portato verso la scrittura con naturalezza e coscienza.Vincere premi letterari non mi ha legittimato a scrivere ma mi ha fatto capire che non solo il solo a sognare.Ho collaborato con diverse riviste letterarie e di cinema per dire in piccolissima parte la mia. Ho lavorato nel hotel management e vissuto a New York per respirare un aria internazionale ma amo al contempo anche le dimensioni locali ridotte dei paesini italiani.
Un bar illuminato. Dentro: due uomini, una donna vestita di rosso, un barista. Fuori, una città vuota e buia.
[l’uomo col cappello]
La sera era umida. L’umidità sembrava trasudare dagli angoli bui delle strade, dove l’aria era quasi solida. Maleodorante. Si calò la falda del cappello sulla fronte e affrettò il passo per sfuggire a quegli angoli tetri, a quel buio malsano.
Un bar inondava di luce gialla la strada.
Entrò, di malavoglia. Suo malgrado, quasi.
Non voglio tornare a casa.
Il pensiero gli attraversò rapido la mente, così veloce che non ebbe tempo si scacciarlo e restò sgomento, come colpito da una pallonata con un pugno di ragazzini insolenti e spavaldi intorno,ad aspettare una sua reazione. E quei ragazzini erano i suoi pensieri. Insolenti.
Li scacciò via.
Andò a sedersi nel posto più lontano possibile dall’unico altro cliente del bar, così da non sentirne la solitudine. O da non fargli sentire la sua.
Ordinò un caffè.
Non gli importava se non avrebbe dormito, la notte. Amava casa sua, di notte. Quando gli altri dormivano.
[la donna vestita di rosso]
Alzò lo sguardo, e fuori dalla finestra era già buio. Era sera ed era digiuna. Fece scivolare il libro per terra, gli occhi le facevano male, si tolse gli occhiali e si massaggiò l’attaccatura del naso. La lettura la prendeva. Ma, a volte, doveva smettere di leggere: c’era qualcosa – una frase, un pensiero, un parola – che si faceva strada nella sua testa, ma come sfocata, inafferrabile. La sentiva precipitare dentro di sé, girare a vuoto, vorticare, fino a trovare un altro pensiero, una parola – gemella – che l’avrebbe illuminata.
Doveva fare altro mentre questo accadeva.
Uscì.
L’aria umida della sera la sorprese. Attraversò la strada deserta e si vide riflessa nella vetrata del bar. Oltre la sua immagine, dentro, c’erano due uomini. Andava spesso in quel bar. Quasi ogni giorno, in realtà. Sedeva sempre allo stesso posto, da cui poteva vedere le finestre del palazzo di fronte.
Le piaceva guardare dentro le case, dalle finestre. Le piacevano le case.
Un uomo col cappello era seduto al suo posto e beveva un caffè. Gli si sedette accanto e ordinò un panino e un caffè. Voleva stare sveglia. Finire il libro. Fermare il maëlstrom della sua testa. Avrebbe dormito poi.
[l’uomo col cappello]
La vide arrivare , una macchia rossa, guardare la sua immagine riflessa nella vetrata, sistemarsi i capelli. Entra – pensò. E contemporaneamente: nonentrare. Cercò riparo dall’assurdità dei suoi pensieri nella parete di fronte. Nelle bottiglie di liquore ordinatamente allineate. Non la guardò entrare, ma intuì di averla accanto perché emanava un profumo leggero: limone, forse. Il barista gli sorrise e gli chiese se volesse altro; fece cenno di no con la testa. Poi sorrise anche a lei e scambiarono qualche parola; poi lei sembrò immergersi in qualche pensiero, come se cercasse di mettere a fuoco qualcosa.Note di un jazz invasero la stanza. Si innervosì. Rimpianse la calma e il silenzio di prima, prima che lei entrasse. Lei sarebbe uscita, il barista avrebbe sicuramente spento la radio e smesso di sorridere, sarebbe tornato il silenzio, ma sarebbe stato diverso. Un silenzio diverso. E lei sarebbe sparita nella notte, chissà dove. Ignara.
Quel pensiero lo incupì.
Meglio andarsene. Prima che tutto ciò accadesse.
[l’uomo di spalle]
… ci sono scrittori che sanno scrivere solo di una cosa, ossessionati; e pittori che sanno dipingere solo una cosa: cattedrali, ninfee, mani. Leonardo era un pittore di mani. L’ultima cena. Le mani di Gesù. Come quelle di un direttore d’orchestra. Che cosa sono i gesti di un direttore d’orchestra?
Se lo era sempre chiesto…
Le mani di quei due seduti di fronte. Le guardava da un bel po’. Si sfioravano. Lei aveva divorato il suo panino e orasi guardava intorno come stupita di essere in un bar. Come se vedesse per la prima volta il barista e l’uomo col cappello accanto a lei. L’uomo era nervoso, invece. Si spostò impercettibilmente verso di lei, incerto se iniziare una conversazione o alzarsi. Lei lo guardò e gli chiese qualcosa, indicando un punto oltre i vetri, dall’altra parte della strada.
[il barista]
Certi uomini sono misteri che è meglio non voler indagare. Abissi.
Come quell’uomo che beveva il caffè. Gli chiese se volesse qualcos’altro. Ne aveva visti tanti da dietro il bancone di quel bar… Ma lei gli avrebbe parlato, si capiva. C’era quell’audacia, quella spavalderia…Sorrise.
Accese la radio. La musica scacciò via la sua tristezza.
“Secondo lei chi ci abita in quella casa? “- indicò una finestra spalancata, sul palazzo di fronte, dall’altro lato della strada.
Lui seguì con lo sguardo il gesto di lei, oltre il suo braccio, oltre la mano nel buio verde.
” Uno scrittore? “
“Già! Domanda idiota. Si vedono i libri.Lei legge?“
“Sì.”
“Lei scrive?“
“Un po’.Cosa legge?“”
“Saggi, biografie, di scienziati specialmente “
“Lei cosa scrive?”
“Niente di così intelligente…“
“L’intelligenza è sopravvalutata“
“Perché? Io ho una sconfinata ammirazione per le persone intelligenti”
Lei fece una smorfia e si fermò un secondo a pensare. Poi si adombrò.
“Non sono quasi mai felici“
“Lei è felice?“
“Sì.“
“Nessuno risponde “sì” a questa domanda. Non sta bene.“
“Il valore affettivo” è il romanzo di esordio di questa strepitosa scrittrice, che ha ottenuto la Menzione Speciale della Giuria alla XXXIII edizione del Premio Italo Calvino.
La perdita di un familiare può causare ferite profonde e vuoti incolmabili..
Gli eventi che coinvolgono la vita di Bianca entrano dentro, lasciano attoniti e rimandano un forte senso di impotenza.
Bianca, con la sua famiglia, vive una vita serena, tranquilla nelle vicissitudini quotidiane, fino alla morte improvvisa della sorella, Stella. Bianca ha sette anni quando avviene la disgrazia.
Stella aveva un ruolo centrale nella famiglia e soltanto la sua perdita improvvisa lo rende reale.
Qual è stata la causa dell’incidente? Nessuno lo sa. Bianca porta dentro un grande macigno, fino a quando..
Della perdita della figlia la madre è quella che, all’apparenza, ne risente di più e la protagonista dovrà fare i conti con la nuova realtà che si viene a creare.
Come vivrà e come gestirà i rapporti con la madre?
Nonostante il difficile equilibrio ricreato dopo la morte della sorella, Bianca riesce a farsi una vita. Conosce Carlo, famosissimo e stimato cardiochirurgo, e ne diventa la compagna fortemente amata e voluta.
Tutto sembra molto sereno, all’apparenza, fino al momento in cui la coppia dovrà affrontare determinate scelte e situazioni..
L’amore che Bianca prova per Carlo non è del tutto “disinteressato”. Che cos’è che la attrae di più, in realtà? Che ruolo vede nel compagno?
Di fronte ad eventi terribilmente dolorosi ognuno di noi tira su le proprie barricate.. quella di Bianca è particolare e rischia di travolgerla. Riuscirà la protagonista a gestirla?
Bianca riesce a restituire all’esterno un’immagine di sé molto diversa da quello che realmente prova e vive.
I pensieri di Bianca legano e travolgono il lettore. Le sue angosce diventano reali e forniscono numerosi spunti di riflessione.
La scrittura di Nicoletta Verna incanta e lascia con il fiato sospeso, in attesa di scoprire l’evoluzione degli eventi, del tutto inattesi.
Romanzo strepitoso: da leggere!
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
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Oggi ho dimenticato di mettere nella borsa del mare auricolari, libri… (ho portato solo una Settimana Enigmistica, ma sono andata dritta al Bartezzaghi, l’ho finito e l’ho posato) .
Non ho niente da fare….
Fra un bagno e l’altro osservo le persone sotto gli ombrelloni vicini.
Le coppie mi attirano.
La mia preferita è quella accanto a me. Non giovanissimi, lui fisico da Steve Jobs, occhiale rotondo occhi azzurri sguardo serio, lei alta bionda super fumatrice. Non parlano tanto, forse si sono già detti tutte le cose importanti. Forse lui ha già rinunciato a farla fumare di meno e lei ha trovato altri pensieri da coltivare mentre lui è assorto. È un tipo assorto, lui. Si capisce.
Se parlano, parlano a bassa voce. Lui legge, mi pare di aver visto ” Il gabbiano Johnatan Livingstone“. Non ne deve essere entusiasta…
Lei prende il sole, quieta. Con atermica, atarassica, stoica tranquillità.
Non hanno un pensiero, apparentemente. Non guardano telefono nè orologio, non sprecano un gesto, non si danno pena del clima inclemente.
Un po’ li invidio. In un’altra vita vorrei essere così. Essere parte di una coppia così (sarei lui, probabilmente)
C’è una coppia molto più giovane. Di sicuro non sono palermitani. Sono bianchissimi. Abbastanza tatuati. Hanno il telefono perennemente fra le mani, tutto – teli da mare, zaini, libri – dall’aspetto molto tecnico. Sguardi acuti, curiosi, un po’ critici. Sono certa che mentre fanno il bagno pensano ad altre cento cose, compresa la loro evidente difficoltà a rilassarsi.
Un po’ distante c’è una coppia diversissima. Asincrona: lei legge, lui nuota; lei nuota, lui chiacchiera con amici; lei chiacchiera con i piedi in acqua, lui nuota. Quando si incrociano, parlano. Cose concrete: organizzazione di cena, mi pare. Squieti. Ma coordinati: hanno obiettivi, cose da fare, metodi da applicare, ordine da mantenere, tempi – intuisco – da rispettare. A turno, aggiustano il telo da mare, appaiano le infradito sotto il lettino, ripongono con cura ogni oggetto che prendono o usano.
Si somigliano, anche. Scuri, asciutti, attivi. Non riesco a immaginarli dirsi cose intime, no. L’attivismo è nemico giurato dell’interiorità. Le capacità di attenzione sono limitate, secondo me: o le scarpe o i pensieri.
Non potrei neanche in una seconda o terza vita essere parte di una coppia così.
Mi accorgo di essermi sdraiata sugli occhiali… e che tutto intorno a me è disordinato. Anche il mio Bartezzaghi è disordinato, pieno di cancellature e riscritture.
Un uccello plana sulla piscina, beve e torna su. Un po’ a fatica, ha le ali bagnate. Lo seguo con lo sguardo. Vorrei fotografarlo..
Anche le coppie vorrei fotografare.
Mi ricordano un po’ le coppie di Hopper, il pittore dei “nottambuli“. Coppie molto fuori dal canone romantico, lontano da quello a cui pensiamo solitamente quando immaginiamo una coppia: passione, complicità, abbracci, sorrisi, sguardi.
In Hopper non si guardano; ognuno assorto nella sua occupazione.
Eppure a me, come tutta la pittura di Hopper, non comunicano solitudine…
Quella dei nottambuli la amo particolarmente. Cerco di ricostruirle il quadro mentalmente…
Non si guardano, questo me lo ricordo, eppure le loro dita si sfiorano. La faccia di lui … non si vede, nascosta dalla falda del cappello; anzi no, controllo: è impassibile, guarda severo e spigoloso dritto davanti a sè; ma il suo corpo è leggermente obliquo rispetto al bancone del bar, il braccio che lo separerebbe da lei è rimosso; il suo corpo – una massa di ombra densa e scura – è come aperto alla luce che lei emana, dal rosso della sua maglia, dal castano dei suoi capelli.
(No, non è la luce gialla che viene dall’alto, è una luce sua, di lei; sì, sono sicura che lei è vestita di rosso, non voglio controllare)
Potrebbe anche essere – ho sempre pensato guardandoli – che le loro solitudini stiano per incontrarsi… che le loro mani – i colori dei loro corpi – ne sappiano di più dei loro occhi, così distanti.
Che sfiorarsi sia una fine e un inizio. Che ancora fra loro tutte le parole siano da dire e la città, così verde e tetra intorno, così geometrica e vuota, sia in attesa di sapere.
Sono sicura che la stragrande maggioranza delle persone conosce il principio della rana bollita di Noam Chomsky. Molti meno sanno chi è Chomsky. Linguista, filosofo, scienziato cognitivista, nonché attivista politico, è un punto di riferimento per chi, come me, si occupa di Comunicazione. In primis per la sua teoria rivoluzionaria sulla grammatica generativo-trasformazionale e poi per l’analisi del ruolo dei mass media nelle democrazie occidentali.
Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda, nel quale nuota tranquillamente una rana.
Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale.
Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa.
L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla.
Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita.
Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50°, avrebbe dato un forte colpo di zampa e sarebbe balzata subito fuori dal pentolone.
In molti hanno utilizzato questo principio in senso metaforico per parlare di potere e condizionamento mediatico, di degrado e scomparsa dei valori e dell’etica, di impoverimento morale e culturale della società.
Ma io voglio prenderla più alla lettera, pensando a ciò che stiamo vivendo in questi giorni. Sono anni che sentiamo i climatologi affermare che “è l’estate più calda di sempre”. Noi ci accorgiamo che le temperature salgono ma non siamo spaventati. Sentiamo parlare di cambiamento climatico e delle sue drammatiche conseguenze, ma ci sembra uno scenario lontano e irrealistico. Per qualcuno è addirittura un complotto o una fake news. Quindi non reagiamo e continuiamo a condurre le nostre esistenze come abbiamo sempre fatto. Intanto il calore sale e diventa torrido e insopportabile. Proviamo a dare qualche segnale di insofferenza, ma senza troppa convinzione pensando che spetti ad altri intervenire per risolvere il problema. Restiamo inerti, immobili, noncuranti condannando noi stessi alle estreme conseguenze.
Con la nostra inazione stiamo alimentando la deriva del nostro mondo e contribuendo al suo disfacimento.
E allora? Come evitare di fare la fine della rana bollita?
Serve una presa di coscienza forte, dirompente, sconquassante da parte dell’umanità. Dobbiamo reagire all’assuefazione e invocare un cambiamento radicale capace di rovesciare lo status quo nel quale ci siamo rifugiati e adattati per convenienza o per ignoranza.
Per quanto possa essere difficile da credere, non può esserci scenario peggiore di quello che stiamo vivendo e che ci sta conducendo verso una fine sicura. E non possiamo aspettare oltre. Se lo facciamo, non avremo più le forze e le risorse per uscirne e sarà troppo tardi.
Prendiamo coscienza della nostra situazione e abbracciamo dunque il cambiamento.
Se vogliamo salvarci dobbiamo saltare.
Senza timori.
note sull’Autore_
Giuliana Caroli, classe 1965, lavoro in una grande cooperativa di servizi come Responsabile Comunicazione, ma mi porto come bagaglio una lunga esperienza in ambito consulenziale e formativo.
Scrivo di ciò che conosco e di ciò che mi appassiona. Coltivo la curiosità e alimento le relazioni positive. Detesto l’indifferenza e l’irresponsabilità.
A cosa aspiro? A fare la differenza: per qualcuno, per il pianeta.
Amare i cavalli vuol dire capirli, sentirli, sognarli.
Quando avevo dieci anni, un libro di cui ricordo bene la copertina ancora oggi, parlava di una storia ambientata in USA. Natalie, una giovane ragazza, obbligata a trasferirsi in una piccola cittadina rurale, iniziava un’amicizia particolare con il cavallo della fattoria accanto.
Li divideva uno steccato, ma il rapporto, e questo mi colpì molto, era davvero particolare, quasi fosse un vero e proprio amico per lei, al quale confidare le sue emozioni e turbamenti adolescenziali.
Natalie era una ragazza di città in tutto e per tutto. Adorava giocare, ridere con i suoi amici durante le feste di quartiere e fare viaggi nel negozio di fumetti locale per prendere l’ultima copia della sua serie di graphic novel preferita. Quando la mamma le disse di andare a vivere in campagna, fu inevitabile avere una crisi profonda che la portò ad isolarsi. Chi avrebbe mai voluto vivere nel mezzo di Nowheresville? Ma abituarsi alla sua nuova vita di provincia fu meno traumatico grazie al bellissimo cavallo, Ghost.
Nowheresville fa parte di una serie di libri scritti da diversi autori che mettono in evidenza le relazioni uniche tra le ragazze e i loro cavalli.
Questo libro in qualche modo mi ha segnato ed ha influenzato la mia vita negli anni della adolescenza e della mia prima maturità.
Dunque, fin da piccola, ho sentito un amore smisurato verso questo animale. Crescendo questa mia passione non si è mai spenta e anzi, è sempre stata un fuoco che anno dopo anno si è alimentato sempre di più. L’arrivo di Contigo un meraviglioso cavallo baio dal cuore d’oro, ha segnato l’inizio della mia esperienza e delle prime gare, le prime sconfitte ma anche le prime vittorie. Grazie a lui ho capito cosa significa prendersi cura di un animale che conta solo su di te ed insieme a lui mi sentivo sicura, nulla poteva separarci. Tutte le storie hanno una fine, e la perdita di Contigo, è stato il mio primo enorme dolore.
Galopin JB un irrequieto, meraviglioso cavallo morello di 4 anni, ha in parte colmato il vuoto nel quale mi stavo perdendo. Con lui mi sono messa davvero in gioco, siamo cresciuti insieme ci siamo qualificati per gare importanti e le abbiamo anche vinte.
I cavalli sono animali empatici dai grandi occhioni, prendersi cura di loro richiede sacrificio, senso del dovere, amore, passione e non bisogna averne paura.
Accarezzarlo, alimentarlo e cavalcarlo sono azioni che mi hanno portato negli anni un profondo stato di benessere psicofisico
Sono tutti capaci di inforcare una bicicletta e pedalare, ma in questo caso si tratta di lavorare in sintonia con un animale in quanto essere vivente con un suo pensiero e le sue giornate no, come tutti noi del resto.
L’ippoterapia ha origini empiriche antiche perché il cavallo, con le sue straordinarie doti di sensibilità, di adattamento, di intelligenza è ritenuto, da sempre, e non a torto, “straordinaria medicina”. L’uso dell’equitazione a scopo terapeutico ha avuto inizio già nell’opera di Ippocrate di Coo (460-370 a.C.), che consigliava lunghe cavalcate per combattere l’ansia e l’insonnia.
I benefici dell’ippoterapia dipendono in buona parte dalle caratteristiche fisiche e comportamentali del cavallo e, a differenza di altre terapie che utilizzano animali di piccola taglia, l’equitazione prevede una strategia di trattamento che riesce a trasferire integralmente al paziente, le sollecitazioni prodotte dal movimento tridimensionale del cavallo.
Il parallelismo tra la tridimensionalità del cammino umano e l’andatura del cavallo dà la possibilità a soggetti che non hanno mai camminato o che camminano con schemi motori scorretti, di trovarsi in una situazione paragonabile ad una deambulazione corretta e fisiologica, sperimentandone quindi gli effetti concatenati a livello del bacino, del tronco, e in generale degli arti superiori.
Questa Attività generalmente è programmata ed inserita all’interno di un più ampio progetto riabilitativo, e viene svolta da una serie di figure professionali come i medici specialisti, i terapisti della riabilitazione, gli istruttori di equitazione, gli operatori sociosanitari e gli assistenti volontari specificatamente preparati, motivo per cui viene praticata in un numero limitato di Centri Ippici in possesso di tutti i requisiti necessari.
Paralisi cerebrali infantili, forme spastiche, deficit motori derivanti da traumi, sono tutte patologie che possono essere curate anche in sella.
Il disciplinare tecnico è molto articolato e varia a seconda delle esigenze specifiche. Di fatto il paziente può salire sul cavallo da solo o con un accompagnatore, il cosiddetto maternage.
Secondo uno studio pubblicato su Frontiers in Public Health da studiosi della Tokyo University of Agriculture il cervello dei bambini che vanno a cavallo avrebbe una reattività maggiore, in quanto le vibrazioni prodotte durante la cavalcata, risultano particolarmente efficaci nell’attivare tale sistema.
Per avallare questa tesi è stato condotto un esperimento nel quale un gruppo di 106 bambini di età compresa tra i 10 e i 12 anni, è stato sottoposto ad alcuni test prima e dopo aver cavalcato per 10 minuti su un pony e aver camminato a piedi per 10 minuti. Nel primo test ai bambini, dopo aver visionato per 200 millisecondi dei quadrati di colore rosso, giallo o blu su uno schermo, veniva richiesto di premere velocemente un tasto qualora sullo schermo fosse comparso il quadrato giallo o blu, e di astenersi invece con la comparsa del quadrato rosso. In questo test di tipo comportamentale è stata riscontrata la differenza più rilevante: 25 bambini su 54 (46,3%) hanno migliorato infatti il proprio punteggio dopo la cavalcata, dopo la passeggiata invece, soltanto il 26,9% è riuscito a migliorarsi.
Il secondo test, invece, consisteva nell’eseguire 30 addizioni tra numeri ad una sola cifra in rapida successione. In questo caso non ci sono state differenze rilevanti in termini di risultato, ma si è registrato che per il 72,2% dei bambini che erano stati a cavallo, la velocità di completamento del test era notevolmente migliorata.
Ma perché il cavallo ha questo enorme potenziale?
Io credo che tra uomo e cavallo si crea una connessione, una relazione che amplifica la capacità degli animali di trasmettere e stimolare emozioni. Loro hanno una spiccata vocazione sociale e chiunque abbia preso le redini in mano sa come il cavallo sia estremamente reattivo agli stimoli.
Cavalcare implica una sintonia con un’altra creatura, esperienza che tornerà poi molto utile anche fuori dal maneggio, ed associabile ad un potente antistress.
A questo si aggiunge anche l’attività effettuata a terra, il cosiddetto grooming, cioè il prendersi cura dell’animale attraverso la pulizia e la cura del suo mantello.
Un’attività ad alto contatto che facilita la nascita di un rapporto emozionale tra cavallo e paziente.
Il piacere e l’emozione nell’eseguire questi gesti di cura, aiutano a sviluppare competenze relazionali e amplificano anche i risultati motori ottenuti in sella.
Io ci ho messo del tempo per farmi accettare da questi esseri meravigliosi, e non ho alcun dubbio che senza di loro, non sarei la donna che oggi sono.
Ilaria Corsi, classe 1998, Laureata in Design della Comunicazione allo IED, ex campionessa giovanile di equitazione, categorie salto ad ostacoli e dressage, da sempre una sognatrice con una voglia indomabile di scoprire il mondo e lasciare un segno. Innamorata della creatività, del mondo degli eventi, con il sogno nel cassetto di riuscire un giorno a farsi “posto fra i grandi”. Espansiva, affettuosa, chiacchierona, solare, con la voglia di “spaccare il mondo”, sempre di corsa. Affascinata dalle persone che non hanno paura a dire la propria opinione che non si nascondono “dietro a un dito”, che non si fermano davanti a un “no” che si oppongono agli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Amante degli animali sostiene che “grazie a loro possiamo superare ogni nostra paura più grande, bisognerebbe parlare di più di come gli animali aiutino noi esseri umani a superare le nostre paure”.
COMUNITÀ SIGNIFICATO: Gruppo di persone unite da rapporti e vincoli tali da formare un corpo organico; corpo morale.
ETIMOLOGIA: dal latino commùnitas ‘società, partecipazione’, derivato di commùnis ‘che compie il suo incarico insieme’, derivato di munus ‘obbligo’, ma anche ‘dono’, col prefisso cum-.
Dal che si potrebbe dire che il termine “comunità virtuali” suona come un ossimoro.
La virtualità (virtuale: potenziale, che non esiste in atto; possibile; simulato) di fatto annulla nel concreto ogni possibilità di comunità reale, laddove per reale possiamo pensare a tangibile, persistente, che accomuna, ma non attorno ad una piattaforma o ad un “contenitore” di vari ed eventuali interessi comuni (in realtà molto eterogenei all’interno di ogni “comunità virtuale”), ma che crea e mantiene viva una comunione tra individui tutt’altro che “virtuali”.
Di fatto tutti verifichiamo che le “comunità virtuali” (continuiamo pure ad utilizzare questo termine), sono piuttosto variegate, non di rado conflittuali, mutevoli per contenuti se non anche per contenitore. Questo almeno se ci riferiamo ai cosiddetti social, perché di comunità virtuali che ruotano attorno a singoli specifici temi o interessi, se ne trovano quante se ne vuole, ma in questo caso abbiamo solo l’utilizzo del “mezzo virtuale”, che ha sostituito mezzi più arcaici e certamente meno diffusivi del “pre-web”.
Credo poi si possa anche affermare che le comunità virtuali, abbiano una caratteristica basilare che è quella dell’egocentrismo inteso come visione e proposta di sé e l’egocentrismo, pur senza voler dare al termine un valore negativo in assoluto, è certamente una componente basilare e pregnante dell’individualismo. Potremmo arrivare a dire che le comunità virtuali, i “social”, sono contenitori che per lo più presentato delle singole individualità o al massimo mettono in contatto individualità, che trovano interessi comuni (fugaci o relativamente duraturi) pur continuando a rimanere tali.
Si badi bene, non voglio affermare che sia tutto negativo, che nulla di buono o fattivo o concreto possa nascere, non sarebbe onesto e neppure nella realtà dei fatti, ma solo spingere ad una riflessione e alla distinzione fondamentale: fare parte di una comunità è altra cosa.
Di fatto la Comunità – con la C maiuscola appunto – presuppone singoli e singole individualità che si spendono per un’idea se non per un bene comune, al punto che l’individualità propria passa in secondo piano e, in taluni casi, gli appartenenti a determinate Comunità, sono facilmente riconoscibili come tali pur nelle loro singolarità (diversamente ci sarebbe plagio e massificazione). La Comunità assiste, aiuta, protegge, si fa carico, proprio per via della com-unione. Certo lo stesso non si può dire dei Social… al di là del dilagare dei cosiddetti “odiatori”, nessuno credo si aspetta di venir soccorso in un momento di crisi da Linkedin piuttosto che da TikTok, se non nel vano post di condivisione e per un attimo far puntare like e commenti su di sé (torna l’egocentrismo individualista), terminati – dopo brevissimo tempo – i quali, si ricade nell’oblio di una vita vissuta fuori da una qualsiasi Comunità concreta, come può essere molto semplicemente la Famiglia stessa.
Il vivere in una Comunità è spesso faticoso, è un “combattimento”, perché si tratta anche di un confronto e di dare “all’identità personale, la ragione primaria per cui le si cerca.” (di nuovo Bauman). Cresciamo e maturiamo nel confronto, confronto che non sempre significa “azione di forza”, più spesso significa introspezione, revisione di sé, accogliere le idee dell’altro nel bilanciare se non modificare le proprie.
Non è che questo non possa accedere in senso assoluto in una comunità virtuale, ma in genere accade a chi è già predisposto all’ascolto e possiede altre positive virtù dell’animo. Per lo più, come già o scritto, si vedono transitare virtuali presenze individuali dotate di granitiche certezze, di “capacità di engagement”, dispensatrici di saggi consigli che per altro hanno un preciso fine (se non è quello del venderci qualcosa): la sfuggente chimera del successo. Chi non dispensa, è invece alla ricerca del proprio “momento di gloria” (personale o professionale) tenendosi appeso a quel pezzo di banda wi-fi che grazie a Dio esiste e ci è data in dote. Salvo poi sparire gli uni e gli altri, quando la Comunità (vita?) reale – quale che sia e quali che siano gli accadimenti fausti o infausti – chiama, esige, si fa presente.
Insomma continuiamo a chiamarle “comunità virtuali” ma non confondiamo il virtuale con il reale.
Note sull’Autore_
Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti. Appassionato di Design e Fotografia.
Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.
Si è sempre associato il gioco degli scacchi ad una rappresentazione simbolica di una guerra strategica, una attività tipicamente machiavellica.
Ma io li ho sempre considerati come una sorta di ragionamento esasperato, di lucida follia, che può portare ad un black out mentale.
Il ragionamento estremamente razionale, portato alle estreme conseguenze, ti può a volte trascinare in un loop astratto dove il pensiero rischia di perdersi, e così la ragione.
Per questo si parla di ossessione, e di conseguenza, è facile comprendere perché la letteratura spesso si avventura lungo il cammino cercando di seguirne il filo, fino a sfiorare e in certi casi, raggiungere la follia.
Seguire il proprio ragionamento e quello del proprio avversario cercando di anticiparne le mosse, in un rincorrersi di aspettative e conoscenza di se stessi e dell’altro, è tipico di un certo tipo di psicoanalisi, e dunque ha a che fare in senso lato, anche con la pazzia.
Tra le migliaia di libri che trattano l’argomento, alcuni possono presentare sfaccettature interessanti che ovviamente invito ad approfondire. “La difesa di Lužin” di Vladimir Nabokov ad esempio, spiega in qualche misura quanto ho descritto. L’autore, appassionato giocatore degli scacchi, ammette che nel corso dei suoi vent’anni d’esilio ha dedicato un’enorme quantità di tempo alla composizione di problemi scacchistici, al punto che si rammarica che negli anni più prolifici della sua vita, lo studio maniacale del gioco e delle sue infinite potenzialità mentali, abbia preso così tanto tempo da fargli trascurare altre esperienze, che rimpiange di non poter ormai più fare. La vita del protagonista del romanzo, Lužin, era fatta di pedine da muovere sulla scacchiera; di strategie nuove da creare ogni volta, di partite da vincere, di avversari da battere. Fuori dalla scacchiera, nulla ha senso per Lužin, e nulla davvero esiste. La resa dei conti di questa “malattia” si riassumente nella convinzione che porta il protagonista del racconto a convincersi che una perversa combinazione di mosse sia stata ordita dalla vita contro di lui e che debba escogitare una difesa valida per non soccombervi.
Samuel Beckett, nel suo romanzo “Murphy” sceglie di far ruotare tutta questa ossessione intorno al protagonista che, verso la fine del romanzo, gioca un’epica partita a scacchi con il signor Endon. Murphy inizia a lavorare come infermiere in un ospedale psichiatrico e scopre che la pazzia dei pazienti è un’attraente alternativa all’esistenza cosciente. Attraverso le potenzialità artistiche e metaforiche degli scacchi, cerca senza riuscirci di riprodurre il gioco simmetrico e ciclico del suo rivale, nella stessa misura in cui è incapace di lasciarsi andare a manifestazioni che non siano speculari a quelle del suo malato avversario.
Il legame tra un’innata propensione al gioco degli scacchi e l’incompetenza sociale, sia determinata da una qualche forma di malattia mentale o meno, è così stretto nel nostro quadro immaginifico da diventare un tratto caratteristico che va a incastrarsi nella descrizione di un carattere timido e schivo. Senza voler approfondire troppo l’argomento,negli anni Settanta del secolo scorso era diventato di moda credere che lo schizofrenico nella sua follia sia in un certo senso più vicino alla verità di noi tutti, nella nostra cosiddetta sanità.
“La novella degli scacchi” di Stefan Zweig non è come nei casi precedenti un romanzo, ma un racconto che l’autore scrisse nel 1941, pochi mesi prima di suicidarsi, nel pieno della seconda guerra mondiale e ovviamente dell’incubo nazista. In questo caso,la componente angosciosa è largamente presente, come una sorta di marchio indelebile. Tema centrale del racconto sono ovviamente gli scacchi, mondo a cui l’autore si appassionò negli anni in cui visse a Petropolis. Gli scacchi erano per Zweig l’unica vera distrazione dal lavoro. La trama di partenza è semplice. A bordo di una nave da crociera il dott. B. e il signor Czentovič, giocano una drammatica partita a scacchi, come nel capolavoro di Ingmar Bergman, Il Settimo sigillo. Intorno alla scacchiera si sfidano due persone profondamente diverse. Il dottor B. è dotto, elegante, rappresentante della cultura del vecchio mondo, colta e raffinata, di quell’età d’oro di matrice Ottocentesca, a un passo dal definitivo tramonto. L’altro, invece, nonostante sia il campione mondiale in carica, è un uomo rozzo, arrogante e profondamente venale, espressione di quel mondo che si sta sfrontatamente affermando.Non si tratta di una semplice partita ma di una vera e propria resa dei conti con la vita. Una sfida fra due uomini diversi ma uniti dal mistero e da due esistenze avvolte in una enigmatica nebbia.
Con rare eccezioni, i personaggi delle storie citate vivono in funzione del loro mestiere e sembrano vedere il mondo attraverso il filtro di una scacchiera, avendo di fronte personaggi fortemente alienati dal mondo, vivi e capaci quasi esclusivamente quando si tratta di giocare. In tutti i casi è presente un forte dualismo, una contrapposizione appassionata tra scacchisti che si considerano l’uno la nemesi dell’altro. La presenza di un acerrimo rivale è quasi obbligata, e nel caso degli scacchi è curioso notare come a questo violento dualismo si accompagni un’evidente vena sociologica.
In fondo, il giocatore di scacchi è libero di scegliere ad ogni mossa varie possibilità. Ma ogni mossa comporterà una serie di conseguenze ineluttabili. La necessità di compiere un certo tipo di mossa, determinerà il risultato finale, facendo si che questo non sia il risultato del caso, ma di una decisione consapevole e ragionata. Un confronto tra libertà e destino, fra conoscenza e impulso. Tra ragione e follia.
Note sull’autore_
Borislav Mancini è nato a Kiev nel 1964 dove il padre Pietro, ingegnere, lavorava per una multinazionale italiana. La madre Alina Solovyova appartiene ad una famiglia altolocata della capitale ucraina.
Trasferitosi in italia da ragazzo, ha compiuto gli studi superiori a Roma prima, e Udine successivamente dove si è Laureato in Lingue e letteratura extraeuropea presso l’università di Udine. Appassionato di scacchi sin da bambino, è stato nella TOP 100 del Live rating mondiale.
Un farabutto esistere.
di Carlo Marrone_
A Ischia, dove passo diversi mesi l’anno, naturalmente quelli che vanno dalla primavera all’autunno, c’è un piccolo ristorante che denuncia la propria particolarità già nel nome, “Cozze Anonime”, e che apre un solo giorno la settimana.
Anzi, non tutte le settimane: solo tre su quattro e solo nei mesi estivi e primaverili, quelli in cui vivo la stagione pure io.
A Marzo apre solo il tempo di far prendere aria ai locali rimasti chiusi di inverno, togliere la muffa ma, se è ispirato, e non è affatto detto che ciò accada, il proprietario decide di dar da mangiare a che ne faccia richiesta.
Non posso mettere una foto che lo mostri, perché il titolare me lo proibisce tassativamente.
Perfino a me, che sono ormai da anni il suo cliente preferito.
Non è una cosa irrilevante, perché si tratta del ristorante, dicono, più richiesto al mondo.
Mi spiego meglio: io, come cittadino onorario (quale mi sento) di questo piccolo paesino che si affaccia sul golfo di Napoli, valgo come uno zircone in una cesta di diamanti. Eppure, in questo ristorante, io arrivo senza prenotare mentre i proprietari degli Yatch che ormeggiano nel pontile di fronte, attendono mesi per ottenere la prenotazione, e spesso devono chiamare ad inizio primavera per assicurarsela.
Questo privilegio dipende dal fatto che ormai dieci anni fa, salvai il cane del proprietario del ristorante, che era caduto in acqua mentre abbaiava ad una barca che stava facendo manovra, rischiando di restare schiacciato tra banchina e scafo.
Il giorno dopo quel salvataggio, mentre ero al bar a prendermi il mio abituale caffè mattutino seduto al solito tavolino con vista sul mare, forse informato dell’evento della sera precedente, il titolare del ristorante venne a ringraziarmi.
Mi ero guadagnato l’eterna riconoscenza del titolare de “la cozza anonima”.
Luigi, è un uomo di circa 65 anni, pienotto, con la faccia butterata ed un sorriso indecifrabile. Mi ricorda Charles Bukowski . Non è quello che si dice un bell’uomo eppure, e non so come sia possibile, ha più fascino di molti altri che magari sono oggettivamente considerati belli.
La bellezza non ha misure o regole ferree, non è vero che sia oggettiva.
Il giorno in cui scrissi questo racconto, mi trovavo dunque seduto al ristorante, nel tavolo all’angolo che ormai era diventato quasi di mia esclusiva pertinenza, e stavo aspettando mi portassero il piatto che secondo me non ha eguali al mondo.
Una carbonara di mare con cozze, capesante, guanciale, ricotta salata e gamberi. Se venisse replicato da qualunque altro cuoco al mondo, sono sicuro che risulterebbe immangiabile.
Mentre mi gustavo il piatto, con un ottimo bicchiere di vino bianco freddo, naturalmente un Mamertino di Milazzo DOC, notai che l’uomo nel tavolino di fronte a me, veniva trattato con grande rispetto e un signore anziano gli stava facendo firmare una foto.
L’uomo, anziano anche lui, doveva essere stato una celebrità ma, onestamente, non riuscii subito a riconoscerlo.
Aveva i capelli lunghi e bianchi ed una barba dello stesso colore malcurata, anch’essa lunga.
Provai a guardare di sfuggita la foto sulla quale stava scrivendo la sua firma, risalente a quando era giovane. Poteva essere stata una rockstar, forse un chitarrista di una band inglese del periodo hippy, anche perchè nella foto che stava firmando, alle sue spalle, si notavano delle tribune di uno stadio.
La foto era così originale, anzi unica, da rimandarmi indietro con la memoria al punto di farmi ricordare il nome dell’uomo: Ezio Vendrame, giocatore di calcio negli anni 70, talento e indisciplina da vendere, uno dei primi dissacratori del sistema, un visionario.
Mentre visualizzavo le figurine che avevo collezionato e che lo ritraevano, non mi ero accorto che lo stavo fissando e, prima che potessi trovare qualcosa da dirgli, di solito sono banalità, si rivolse a me anticipandomi con un “noi due ci conosciamo forse? È stato un calciatore pure lei? “
No, gli risposi, ho giocato anche io a pallone ma come dilettante, ora più che altro mi piace scrivere. Scrivere di storie di uomini che possono aver lasciato un segno del loro passaggio. Possiamo bere un bicchiere insieme?
Il Campione mi avvicino una sedia come ad invitarmi, e io mi sedetti al suo tavolo.
Nella località dove mi trovavo, c’era un hotel frequentato da personaggi noti, attori, sportivi, anche politici molto importanti, spesso.
La mattina di quella giornata avevo avuto l’occasione di parlare con un regista famoso ed una attrice altrettanto nota, entrambi ospiti del festival del cinema che si teneva li ogni anno, ma sedermi vicino a Vendrame, per me era di gran lunga il momento più emozionante della giornata.
Ezio Vendrame era unico. Personalmente lo ritengo, insieme a Paolo Sollier, per la politica, e naturalmente Gianfranco Zigoni, considerato anch’egli un anomalia nel sistema calcistico dell’epoca, tra i pochi giocatori che per meriti non esclusivamente sportivi, hanno il diritto di restare nella storia di questo sport.
Anche Gigi Meroni, che andava in giro con una gallina, e la cui tragica morte forse lo ha aiutato ad entrare nel mito, non aveva lo stesso carisma e spessore di Vendrame.
La cultura sportiva, in Italia, e anche in alcune redazioni, manca completamente. Intendo dire la cultura vera, quella che al di là della disciplina sportiva specifica, riesce a raccontare storie di uomini che non sono passate inosservate e che anzi spesso vengono tramandate.
Superate le domande formali sul tempo e sullo stato di salute, cosa peraltro ipocrita e di cortesia, perché all’apparenza i suoi 73 anni non erano molto ben portati, gli chiesi se fosse vero l’episodio di quando giocava nel Vicenza e si rivolse ad un gruppo di tifosi rimproverando loro di osannare una persona che si limitava a giocare a calcio.
“ beh..oggi una dichiarazione del genere, nella superficialità ideologica che dilaga, verrebbe messa in risalto e avrebbe un sacco di consensi ma allora eravamo in un periodo quasi di guerra civile, con gli operai fuori dalle fabbriche e le Brigate Rosse che facevano propaganda all’interno delle stesse, ed io onestamente credo che la mia uscita in fondo era anche un po’ banale e qualunquista…! “
Erano gli anni Settanta, i primi, e personaggi così non ce n’ erano molti nel calcio: capelloni magari sì, estroversi pure, ma spregiudicati e spontanei anticonformisti no, non molti davvero.
“Del calcio non mi fregava nulla neanche allora: le pressioni, l’ansia del risultato, le restrizioni alla vita privata, tutta roba che mi faceva schifo. Allora in campo mi inventavo qualcos’altro: era il mio modo per ripagare tutta quella gente che, chissà perché, mi veniva a guardare giocare”.
Un suo modo di sbeffeggiare quello che in fondo era il suo lavoro, era racchiuso in un gesto irriverente. A volte quando aveva il pallone tra i piedi, in una azione in cui la sua squadra stava attaccando, si fermava all’improvviso, saliva con entrambi i piedi sulla palla, e con la mano sopra la fronte a mo’ di vedetta, scrutava l’orizzonte.
“Era un modo per far capire che oltre al calcio, che era già allora era preso troppo sul serio, c’era dell’altro. Bisognava guardare oltre….“
Ma forse questo gesto era anche il suo trucco per esorcizzare qualcosa: una sorta di tensione interiore, una profonda sofferenza nell’ affrontare le domande della vita.
Ritiratosi a fine carriera in una frazione vicino al suo paese, Casarsa della Delizia, dove è sepolto Pier Paolo Pasolini, Vendrame rilasciò un giorno una intervistà a Gianni Minà, proprio sulla tomba del Regista e Poeta bolognese.
“ Minà voleva scusarsi di avermi fatto fare 250 km per una intervista che reputavo ignobile e mi propose di rimborsarmi la benzina. Ma io gli chiesi di raggiungermi al mio paese, Casarsa, al cimitero, dove gli avrei raccontato storie ed aneddoti. Gli dissi, “vieni che ti presento il mio compaesano più vivo di tutti, peccato che sia morto…”
Un altro poeta, e cantautore, Piero Ciampi, suo grande amico, ha rappresentato il suo legame con la scrittura e la poesia.
“A Piero devo tutto. Quello che so l’ho imparato da lui. La sua morte mi ha sconvolto, al punto che decisi di smettere di giocare e dedicarmi a coltivare l’anima “
Diventa egli stesso poeta, pubblica raccolte di versi, soprattutto ricordi.
“Il calcio è una cosa volgarissima, rispetto alla poesia “ mi dice prima di sorseggiare un po’ del vino che stiamo condividendo.
“E da un bel po’ che sto male. Vorrei non pensarci, ma mi viene difficile non farlo. Me ne sto a casa, penso, rifletto, ogni tanto mi torna la voglia di scrivere, ma non sempre lo faccio. Esco poco ormai, fuori sono aumentate a dismisura le persone insopportabili. Il 23 dicembre mi barrico in casa e scrivo i miei versi. Riemergo all’Epifania perchè il peso delle Feste mi è insopportabile “.
“Se mi mandi in tribuna, godo” e “Una vita in fuorigioco” sono due dei suoi libri, che in fondo possono essere considerati una summa della sua vita.
“ .. si, ma ne ho scritti anche altri, erano un copia incolla di ricordi, ma che funzionava”.
Un elenco di racconti e verità, doping, partite truccate, sesso.
“Durante un Padova- Udinese mi offrirono sette milioni per giocare male, senza sapere quante volte avevo fatto schifo gratis…durante quella partita segnai direttamente dal calcio d’angolo e mi soffiai il naso con la bandierina posizionata sul corner ” ride, ricordando l’episodio.
Usa un linguaggio vietato ai minori che oggi sarebbe quanto meno, politicamente scorretto, come si (ab)usa dire.
«Ma sono le parole del calcio: i giocatori sono ragazzi, spesso ignoranti e maleducati, e non sono leccati e precisini come li vedete in tv. Non facciamo gli ipocriti».
Una istigazione all’autoerotismo…
“ Ragazzi, buttate nel cesso le vostre playstation e rinchiudetevi nei bagni con un giornaletto giusto in bella vista. Quando uscite, innamoratevi di una bella figliola: il sesso fai da te è bello, ma quello con una coetanea è meglio ..”
Comprensibile che la comunità rumoreggi, che parroci e curati non gradiscano.
La ricca e benpensante provincia del Nordest, non sopporta che i propri figli amino un beat, un reperto archeologico del Sessantotto.
Per sopravvivere e pagarsi l’affitto “ la proprietà è un furto ” mi dice, riprendendo uno slogan tanto caro negli anni ‘70, allena i giovani della Sanvitese.
“ il padre di un ragazzo che allenavo, mise un assegno in bianco in mano al presidente della Sanvitese: metti tu la cifra, basta che licenzi quel matto. “
Proposta respinta.
“Boniperti disse che con la sua testa avrei giocato in nazionale , ma io in nazionale ci gioco da sempre, perché da sempre io faccio quello che voglio, senza permettere a nessuno di poter vivere la mia vita ..io, discepolo di me stesso, arrogante, presuntuoso, vanitoso, asociale, masochista, egoista, e dunque libero ”.
La vita di Vendrame è fatta di amori maledetti, sofferti, passionali. Erotismo crudo a volte crudele. Paura della morte e della vecchiaia. Una tendenza a mettersi in discussione insopprimibile, anche se dolorosa, feroce.
Perché lo ha fatto? Perché non si è accontentato di tenere per sé tutto questo?
“Perché sento di vivere in un mondo in cui faccio fatica a stare, e forse scrivere è anche un modo per sentirmi meno isolato”
Parole, pensieri, poesie di un settantacinquenne che ha vissuto, e non certo soltanto di calcio: l’unico grande protagonista della sua storia tenuto al di fuori, emarginato, come una parentesi insignificante dentro un racconto di cose più serie.
“Qui a Casarsa si sono dimenticati di Pasolini, si figuri se potevano ricordarsi di me… ”.
Una testimonianza straordinaria, dalla viva voce di un campione degli anni epici: avevo persino la testa che mi girava, e non credo che dipendesse solo dal vino.
Lo ringraziai e lo abbracciai.
Avevo un appuntamento per il quale ero già in ritardo, e dovevo andarmene con una certa fretta.
Imboccata l’uscita, mi girai per guardarlo un ultimo istante.
Non c’era.
Non c’era nemmeno la foto autografata sul tavolino; la foto con cui avevo condiviso il mio bicchiere di vino in una fantasiosa chiacchierata che, a guardar bene, non aveva avuto alcun bisogno di essere reale.
Ho conosciuto Ezio Vendrame tuffandomi nei racconti appassionati di tutti i cronisti che lo hanno ricordato negli anni successivi alla sua carriera.
Le risposte qui sopra risalgono ai video e alle interviste da lui rilasciate negli anni, e che ho potuto recuperare attraverso il web.
Il mio bicchiere di Mamertino, però, l’avevo bevuto da solo, come solo avevo camminato lungo il mare per arrivare al ristorante dove sedevo e scrivevo questo pezzo.
Di quel ristorante in cui si mangiano cozze e ricotta, la porta è ormai murata da decenni, da prima che io nascessi.
Perché chi scrive in continuazione lo fa per sfuggire alla solitudine, pur non riuscendo a fare a meno di essa.
Carlo Marrone è stato un professionista del content marketing di una piattaforma di vendita inbound che aiuta le aziende ad attrarre visitatori, convertire lead ed è specializzato in closing. In precedenza, Marrone ha lavorato come direttore marketing per una startup di software tech. E’ esperto di Business Administration e Scrittura Creativa. Nato a Vicenza, dove ha passato la sua gioventù, si è trasferito a Milano dove ha vissuto e lavorato fino al 2010. Oggi vive tra Ischia, Napoli e, raramente, Milano.
Appassionato di football, ama scrivere soprattutto di persone e delle loro storie.