Finestra sui social – twitter: Aucharbon (@alcarbon68)
Et voilà un chasseur d’images, figeur d’instants, attrapeur de lumière, collectionneur de graphismes, voleur d’ombres, chercheur de beauté… (inutile tradurre, si capisce benissimo lo stesso e il francese fa sempre figo)
Non lo conosciamo se non attraverso il suo profilo twitter e le magnifiche fotografie in bianco e nero che carica quasi quotidianamente sul social dell’uccellino.
Ma siamo certi che assomigli a Jean Gabin o a Lino Ventura; e senz’altro lo si potrà riconoscere nei bistrot di Boulevard Magenta mentre sorseggia il suo Pernod.
Jack Frusciante è uscito dal gruppo – Enrico Brizzi
“Un libro ben scelto ti salva da qualsiasi cosa.Persino da te stesso”
Jack Frusciante è uscito dal gruppo – Enrico Brizzi
Casa editrice: Mondadori
Anno di pubblicazione: 1994
Genere: narrativa
Libro della mia adolescenza che racconta l’adolescenza.
La potenza dei libri.. Alex, diciassette anni e protagonista della storia, legge un libro e in lui scatta qualcosa.. inizierà a guardarsi intorno, vivendo tutte le esperienze tipiche dell’adolescenza.
L’adolescenza è la scoperta della consapevolezza della propria individualità, che mette in discussione quello che i genitori e la comunità ci ha insegnato e, a volte, impartito.
È quel periodo dove si mettono le basi per la costruzione della nostra personalità attraverso lo sguardo critico di quello che ci circonda, associato al costante antagonismo verso quello che non riteniamo giusto e verso tutti i tipi di ingiustizia.
In adolescenza si gettano le basi della propria crescita culturale, coltivata soprattutto attraverso la musica; fondamentale è, ovviamente, anche il confronto con le dinamiche dei “grandi”.
Durante questo particolare periodo risultano fondamentali le amicizie; queste possono essere obbligate e/o legate ai compagni di scuola e non sempre riescono a farci sentire del tutto completi. Le amicizie però possono essere coltivate anche con singoli ragazze/i: rapporti elitari nati e coltivati al di fuori dell’ambiente scolastico.
I grandi gruppi di amici che in alcune occasioni possono non farci sentire accolti e apprezzati a pieno, consentono di condividere avventure ed emozioni affascinanti, spesso proibite, ma che restano nel cuore.
I veri amici, protetti e difesi con affetto, tante volte possono restare al nostro fianco fino all’età adulta.
Nell’avvicendarsi e nell’andirivieni delle amicizie, alcuni adorati compagni di scorribande e di sogni possono trovare difficoltà a gestire i propri limiti, con il rischio di vederli travolti da un mondo più grande di loro, dove gli adulti non riescono a proteggerli e a salvarli.
L’adolescenza, infine, è anche e soprattutto la scoperta dell’amore. L’amore grande, immenso, che ci riempie e ci fa volare.
I primi rapporti sono totalizzanti e ci travolgono, non soltanto dal punto di vista fisico.
Le giornate si impregnano di sogni e di speranze che a volte s’infrangono, a causa dei primi tradimenti o di eventi indipendenti dalla volontà degli innamorati.
Quando il primo vero amore finisce, il dolore è lancinante e sembra non lasciare scampo..
Il sano passaggio all’età adulta sembrerebbe possibile soltanto se si riescono a vivere tutte le emozioni “previste” dall’adolescenza: amori, delusioni, felicità immense e delusioni cocenti.
Non è facile distinguere se i ricordi provengono dalla lettura del libro o dalle esperienze del lettore.. sicuramente “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” è travolgente e ricorda le preziose emozioni vissute da ragazzi (musica, amore, sofferenze, passioni e musica).
Probabilmente, come Alex, anche noi abbiamo vissuto un viaggio solo e triste “come una birra senz’alcool”.
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.
“Avevo sempre pensato” – dico al mio amico Vittorio davanti ad un Drambuie – “che a quest’età sarei stata una persona tranquilla, saggia, pacata…”
“Invece?”
“Mi entusiasmo, mi incazzo, sbaglio, mi deprimo come quando…….”
Penso a una me stessa più giovane – a venti, a trenta, a quaranta – e finisco sempre col trovare una persona con la testa sulle spalle. Responsabile, alla fine dei conti. Quindi ‘sta cosa dell’entusiasmarsi, incazzarsi, sbagliare è recente…
È perplesso, lo vedo. Guarda dritto davanti a sé, oltre la ringhiera che separa il nostro tavolino dal mare della spiaggia di Mondello, dove, anche se è sera e se l’estate sta finendo, alcuni ragazzi fanno il bagno ridendo e rincorrendosi.
“Che sbagli avrai mai fatto?”
Mi chiede sorridendo, curioso. Glieli racconto.
“Ego te absolvo…”
Mi dice, facendo una faccia seria e contrita, da vecchio confessore. Rido.
“A te? che ti affligge?”
“Non sono certo di volere insegnare, di essere adatto…”
“Sei più che adatto!”
Sono certa di questo. Siamo stati colleghi per alcuni anni: i ragazzi lo adorano; adorano la sua emotività, il fatto che si commuova declamando certi versi, la sua severità, la sua capacità di leggere dentro di loro, capirne i turbamenti.
“Ma…tutta la vita? Senza avere mai fatto altro?”
Pare sgomento. Una fila interminabile di anni sempre uguali gli passa davanti agli occhi e gli annebbia lo sguardo. Conosco l’ansia di sentirsi intrappolati, anzitempo. Il desiderio senza oggetto.
Non dico niente. I pensieri notturni sono così: devono ingigantirsi, allargarsi e gonfiarsi come le nuvole di pioggia nera, diventare tragici fino a consolidarsi in qualche irrevocabile decisione di cambiamento; per poi dissolversi, di mattina, davanti al caffè, quando la realtà consueta appare così compatta e solida che sembra impossibile anche cambiarne anche solo un dettaglio.
“Che vorresti fare?”
“Non lo so…” – sospira – “Vorrei passare un periodo di studio da qualche parte. In Francia o in Grecia”.
Si scola il suo cocktail e fa cenno alla cameriera di portarne un altro, per entrambi.
“Se vai in Grecia, prendi una casa con un letto per me, ti vengo a trovare. C’è la Scuola Archeologica Italiana, ad Atene.”
“Atene…”
Guardo i nostri cocktail. Le nostre uscite sono quasi sempre così: bere qualcosa e parlare.
“Ma poi dobbiamo trovare un bar, una taverna…”
“Potremmo studiare di mattina, vagare per l’acropoli di pomeriggio, ubriacarci di Retsina di sera…”
L’idea mi piace. Troppo. Il mio sguardo si perde sull’orizzonte, appena rischiarato dalla luna, sulla linea del mare nero, oltre i merli e ifregi liberty del Charleston, che pare senza peso, poggiato sull’acqua a pochi metri da noi.
“E sarebbe facile se vogliamo, prendere un traghetto dal Pireo e passare qualche giorno sulle isole.”
“A declamare versi…”
“Con i piedi nudi nell’acqua…”
“Possiamo farlo anche qui, volendo…”
Dopo cinque minuti, abbiamo i piedi nell’acqua tiepida. Il nostro mare non deve essere troppo diverso dal mar Egeo.
Un lampo lontanissimo illumina l’orizzonte. Parliamo un altro po’ – di amori, di libri, di progetti, del deludere sé stessi – passeggiando sul bagnasciuga e guardando la tempesta avvicinarsi.
“Prof!”
All’improvviso, uno dei ragazzi che fanno il bagno si stacca dagli altri, gocciolante, e ci viene incontro ridendo. È Fulvio, un nostro comune alunno di qualche anno fa. Gli facciamo festa: ci baciamo e ci abbracciamo. Cerca di spiegare ai suoi amici, abbastanza increduli, che noi – con lo sguardo trasognato e i piedi nudi – siamo stati suoi prof… prof veri! di quelli che interrogano e spiegano! Severi! Si ricorda di alcune lezioni. Le enumera:
” Machiavelli, che la sera si cambiava vestito per leggere i classici; Petrarca, che cercava la scorciatoia per salire sul monte Ventoso; poi mi ricordo di Tasso … che voleva seguire le regole, ma non ci riusciva, voleva e non voleva… e finì in manicomio!”
Ridiamo della sua foga. Penso a quante cose ha un professore con cui affascinare i suoi alunni. Parliamo dell’estate, di viaggi, di progetti per l’autunno. Gli chiediamo che cosa fa, in che facoltà si è iscritto. Ingegneria gestionale, ci risponde. Gli piace? vogliamo sapere. Sì, gli piace, ma non ne è certo.
“Prof, si ricorda della lezione sul tetrafarmaco di Epicuro? Quella sulla felicità? O dell’arte di amare di Ovidio?” – si ferma a riflettere, il suo viso si incupisce per la concentrazione. Cerca le parole, ma non le trova – “se tutti i prof fossero stati come voi…”
Ci salutiamo, con altri baci, abbracci e raccomandazioni. Fra poco piove, meglio asciugarsi e rimettersi le scarpe.
Il mio amico Vittorio è rimasto silenzioso. Capisco il suo dilemma. Mi pento del cinismo con cui ho declassato a ‘notturni’ i suoi pensieri. Mi ricordo che fu del tutto ‘diurna’ la mia decisione di lasciare l’insegnamento. Non ho consigli da dargli, purtroppo.
Ma, se c’è un senso dell’insegnare, – penso – forse è in incontri come questo, nel ricordarsi di quell’ora di lezione, nel sapere che ci sono – oltre alle cose utili, che servono – anche quelle meravigliosamente ‘inutili’, come i versi di Ovidio, o di Saffo. Mi ricordo di una cosa: “Qual è il verso che ti sei tatuato sul braccio?”
Ho avuto la fortuna di conoscere Barbara De Maestri tramite Instagram ed è stata sintonia a “prima vista”. Barbara è empatica e va oltre lo strato superficiale della quotidianità.
Da cosa sono regolamentati i nostri comportamenti e i nostri pensieri?
Che cosa c’è dietro quello che noi crediamo essere la realtà?
“Angeli e alchimia” è un viaggio nel mondo dell’alchimia con alcuni spunti di esoterismo e fantasy.
Ancora oggi i misteri della pietra filosofale affascinano gli appassionati in materia ma chissà che non si tratti solo di qualcosa di intangibile e che quello che rappresenta non sia qualcosa di diverso.. con uno studio approfondito di noi stessi e delle leggi della natura tutti noi potremmo ottenerla?
Estelle, Marcus, Dylan, Samuel e Lucas sono compagni di classe e ognuno di essi sembra avere qualcosa di speciale. Il prof. Hopp ne sembra convinto.. quali misteri e quali progetti ha in serbo per i giovani ragazzi?
La coscienza collettiva e le sorti dell’umanità sembrerebbero a rischio a causa di un personaggio oscuro e ambiguo arrivato in città, Milano (dove inizia la storia è dov’è in parte ambientata).
In modo misterioso i cinque compagni di avventura vengono portati a Mont Saint-Michel, luogo cruciale alchemico dove gli eventi si svilupperanno a ritmo sempre più serrato e quando tutto sembra essere arrivato a conclusione, il lettore viene lasciato a bocca aperta!
La storia personale dei cinque protagonisti e i loro rapporti familiari impattano profondamente sulla qualità delle loro vite e forse per loro è arrivato il momento di fare i conti con se stessi.
“Angeli e Alchimia” è anche lo spunto di riflessione sull’amore eterno e sul reale rapporto delle anime delle persone: namasté!
La scrittura di Barbara è ricca di amore.
La ringrazio per il regalo che ha fatto a noi lettori con questo libro, ricco di emozioni, suspense e spunti di riflessione importanti!
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
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Il vagone della Metro A, direzione Battistini, singhiozza e procede. Il passo insicuro nel suo incedere borbottante è costante, somiglia alla storia dei suoi passeggeri. Scriviamo le nostre storie ordinarie o magnifiche bucando le città con un vagone metro o attraversandole a piedi, con il muso sfatto per la pioggia di problemi che ci casca ogni giorno in testa e con gli occhi rivolti in preghiera verso lo stato Vaticano. Salvo strappi benevoli del destino ci ricorderanno al massimo i nostri nipoti. Dopo di loro l‘obliò, molti di noi non saranno mai esistiti e di conseguenze nemmeno estinti.
I ragazzi nei vagoni brontolano, sbuffano, si allungano in pachidermiche mosse di stretching nonostante la loro evidente smagliante forma fisica. Non provano a costruire la loro storia. Se non ritengono di essere in grado di incastrare quei mattoncini uno sopra l’altro si potrebbero spendere per vivere grazie al potere dell’immaginazione nella storia di qualche eroe da romanzo storico. Non intercetteranno mai in cloud il mio auspicio anche se sono costantemente connessi.
La comunicazione silenziosa ed efficace dei loro e dei nostri telefoni ha quasi soppresso il volo d‘immaginazione che ci regalava la pagina stampata. La nostra storia di vita a metà tragitto, a metà romanzo, era meno scontata perché si confondeva con il protagonista di vicende lontane che ci rendevano più leggeri ed allo stesso tempo più cupi. Il vero volo low cost era quello che intraprendevamo grazie ai nostri occhi che correvano pagina dopo pagina, ora umidi di malinconia e rabbia, ora impiastricciati di desiderio erotico. Il libro era il viatico per spaziare in terre lontane a costo zero, era il lenzuolo di Snoopy con cui consolarsi dopo le note severe di un professore severo, era un grumo di farina per impastare il pane della conoscenza.
Noi tutti peniamo, sudiamo, speriamo e ci inginocchiamo al cospetto della durezza della vita ma oggi le armi in pugno sono smussate in punta, perché un cellulare non sarà mai la spada nella roccia per nessuno di questi ragazzi. Non è facile incrociare lo sguardo di un giovane uomo attento solo a quel mondo in quella scatoletta paradossalmente perfetta.
Ho avuto la fortuna di viaggiare con mia madre hostess per non stupirmi ogni volta di come siamo tutti cittadini di un mondo diverso,disunito,ma con i stessi connotati. Conoscere lingue diverse e poter scegliere di studiare il cinema e le arti senza seguire un percorso di studi tradizionale (forse piu’utile ai fini pratici) mi ha portato verso la scrittura con naturalezza e coscienza.Vincere premi letterari non mi ha legittimato a scrivere ma mi ha fatto capire che non solo il solo a sognare.Ho collaborato con diverse riviste letterarie e di cinema per dire in piccolissima parte la mia. Ho lavorato nel hotel management e vissuto a New York per respirare un aria internazionale ma amo al contempo anche le dimensioni locali ridotte dei paesini italiani.
I Cimiteri – “dormitori” nell’etimologia dal greco: [koimeterion] luogo dove si va a dormire – sono certamente anche “luoghi della memoria”, memoria per chi ritrova un caro estinto, un figlio, una moglie, una madre, ma anche memoria di un tempo terreno ormai andato, non solo per chi lì “riposa”, ma anche di un tempo storico e artistico ormai irrimediabilmente passato.
Lo sono in particolare i cosiddetti “cimiteri monumentali”, storici, talvolta enormi di altrettanto grandi città, dove ritrovare, ma anche ammirare, tombe che risalgono ai primi del ‘900, se non ad anni antecedenti.
Perché ammirare? Perché troviamo tombe e opere scultoree (arte funeraria) realizzate con rara maestria, per quello che al tempo era un vero e proprio mestiere che dava lavoro a molti “maestri” e “discepoli”, garzoni di bottega che lavoravano in veri e propri “atelier”.
Maestria di bozzetti, modelli e poi sculture, che purtroppo è andata perduta nel tempo, per un cambio di paradigma, di mentalità, della legge della domanda e dell’offerta, in un tempo il nostro, certamente molto standardizzato e appiattito anche nell’arte funeraria.
Un tempo quello andato, in cui per una famiglia generalmente benestante (questo va detto), era importante lasciare un segno imperituro della vita e delle opere del “caro estinto”. Segno anche di uno “status sociale”, non scevro di una certa ostentazione. Lo si comprende non solo dalla sontuosità di certe tombe, ma anche dagli epitaffi, talvolta mini-biografie che ancora oggi decantano le “opere buone” di chi ci ha lasciato, ma al contempo sono, vorrebbero essere, segno dell’amore, della stima, della gratitudine, di chi è rimasto a piangere il lutto.
Non di meno sono segno di un afflato verso la “vita oltre la vita”, la speranza, la fede, il fato, Dio e i suoi Angeli. Sono opere intrise di tristezza, di dolore, ma anche di certezze, di speranza, di misticismo.
Se ci si sofferma sull’inevitabile incuria, sul deposito della polvere quasi indelebile che crea sulle figure un effetto “al negativo”, come una luce che sembra partire dal basso, più che dall’alto, ci si rende conto ancor di più del tempo trascorso e che ormai morti sono anche coloro che questi morti hanno sepolto…. eppure quel “monumento” è lì, a richiamare la nostra attenzione su una vita di cui nulla conosciamo tranne ciò che l’epitaffio riporta e sulla bellezza e la simbologia di quell’opera di maestria.
Sono luoghi, incredibili, densi di un silenzio avvolgente, di una sacra pace, di una straniante solitudine, affascinanti per chi come me, ama la fotografia, e già prima luogo di “studio”, quando frequentando il Liceo Artistico, ci si spostava presso un cimitero vicino, per avere più “materiale” da ritrarre che non fossero solo gli ormai logori soggetti della gipsoteca dell’istituto.
Questo, o perlomeno anche questo, è l’affascinanteCimitero Monumentale di Staglieno, presso Genova, alla cui visita vi invito e le cui foto da me scattate (solo alcune), qui vi propongo. Struggente, la sezione delle tombe dei fanciulli morti in tenera età, anch’esse decorate da piccole sculture.
Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti. Appassionato di Design e Fotografia.
Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.
Un bar illuminato. Dentro: due uomini, una donna vestita di rosso, un barista. Fuori, una città vuota e buia.
[l’uomo col cappello]
La sera era umida. L’umidità sembrava trasudare dagli angoli bui delle strade, dove l’aria era quasi solida. Maleodorante. Si calò la falda del cappello sulla fronte e affrettò il passo per sfuggire a quegli angoli tetri, a quel buio malsano.
Un bar inondava di luce gialla la strada.
Entrò, di malavoglia. Suo malgrado, quasi.
Non voglio tornare a casa.
Il pensiero gli attraversò rapido la mente, così veloce che non ebbe tempo si scacciarlo e restò sgomento, come colpito da una pallonata con un pugno di ragazzini insolenti e spavaldi intorno,ad aspettare una sua reazione. E quei ragazzini erano i suoi pensieri. Insolenti.
Li scacciò via.
Andò a sedersi nel posto più lontano possibile dall’unico altro cliente del bar, così da non sentirne la solitudine. O da non fargli sentire la sua.
Ordinò un caffè.
Non gli importava se non avrebbe dormito, la notte. Amava casa sua, di notte. Quando gli altri dormivano.
[la donna vestita di rosso]
Alzò lo sguardo, e fuori dalla finestra era già buio. Era sera ed era digiuna. Fece scivolare il libro per terra, gli occhi le facevano male, si tolse gli occhiali e si massaggiò l’attaccatura del naso. La lettura la prendeva. Ma, a volte, doveva smettere di leggere: c’era qualcosa – una frase, un pensiero, un parola – che si faceva strada nella sua testa, ma come sfocata, inafferrabile. La sentiva precipitare dentro di sé, girare a vuoto, vorticare, fino a trovare un altro pensiero, una parola – gemella – che l’avrebbe illuminata.
Doveva fare altro mentre questo accadeva.
Uscì.
L’aria umida della sera la sorprese. Attraversò la strada deserta e si vide riflessa nella vetrata del bar. Oltre la sua immagine, dentro, c’erano due uomini. Andava spesso in quel bar. Quasi ogni giorno, in realtà. Sedeva sempre allo stesso posto, da cui poteva vedere le finestre del palazzo di fronte.
Le piaceva guardare dentro le case, dalle finestre. Le piacevano le case.
Un uomo col cappello era seduto al suo posto e beveva un caffè. Gli si sedette accanto e ordinò un panino e un caffè. Voleva stare sveglia. Finire il libro. Fermare il maëlstrom della sua testa. Avrebbe dormito poi.
[l’uomo col cappello]
La vide arrivare , una macchia rossa, guardare la sua immagine riflessa nella vetrata, sistemarsi i capelli. Entra – pensò. E contemporaneamente: nonentrare. Cercò riparo dall’assurdità dei suoi pensieri nella parete di fronte. Nelle bottiglie di liquore ordinatamente allineate. Non la guardò entrare, ma intuì di averla accanto perché emanava un profumo leggero: limone, forse. Il barista gli sorrise e gli chiese se volesse altro; fece cenno di no con la testa. Poi sorrise anche a lei e scambiarono qualche parola; poi lei sembrò immergersi in qualche pensiero, come se cercasse di mettere a fuoco qualcosa.Note di un jazz invasero la stanza. Si innervosì. Rimpianse la calma e il silenzio di prima, prima che lei entrasse. Lei sarebbe uscita, il barista avrebbe sicuramente spento la radio e smesso di sorridere, sarebbe tornato il silenzio, ma sarebbe stato diverso. Un silenzio diverso. E lei sarebbe sparita nella notte, chissà dove. Ignara.
Quel pensiero lo incupì.
Meglio andarsene. Prima che tutto ciò accadesse.
[l’uomo di spalle]
… ci sono scrittori che sanno scrivere solo di una cosa, ossessionati; e pittori che sanno dipingere solo una cosa: cattedrali, ninfee, mani. Leonardo era un pittore di mani. L’ultima cena. Le mani di Gesù. Come quelle di un direttore d’orchestra. Che cosa sono i gesti di un direttore d’orchestra?
Se lo era sempre chiesto…
Le mani di quei due seduti di fronte. Le guardava da un bel po’. Si sfioravano. Lei aveva divorato il suo panino e orasi guardava intorno come stupita di essere in un bar. Come se vedesse per la prima volta il barista e l’uomo col cappello accanto a lei. L’uomo era nervoso, invece. Si spostò impercettibilmente verso di lei, incerto se iniziare una conversazione o alzarsi. Lei lo guardò e gli chiese qualcosa, indicando un punto oltre i vetri, dall’altra parte della strada.
[il barista]
Certi uomini sono misteri che è meglio non voler indagare. Abissi.
Come quell’uomo che beveva il caffè. Gli chiese se volesse qualcos’altro. Ne aveva visti tanti da dietro il bancone di quel bar… Ma lei gli avrebbe parlato, si capiva. C’era quell’audacia, quella spavalderia…Sorrise.
Accese la radio. La musica scacciò via la sua tristezza.
“Secondo lei chi ci abita in quella casa? “- indicò una finestra spalancata, sul palazzo di fronte, dall’altro lato della strada.
Lui seguì con lo sguardo il gesto di lei, oltre il suo braccio, oltre la mano nel buio verde.
” Uno scrittore? “
“Già! Domanda idiota. Si vedono i libri.Lei legge?“
“Sì.”
“Lei scrive?“
“Un po’.Cosa legge?“”
“Saggi, biografie, di scienziati specialmente “
“Lei cosa scrive?”
“Niente di così intelligente…“
“L’intelligenza è sopravvalutata“
“Perché? Io ho una sconfinata ammirazione per le persone intelligenti”
Lei fece una smorfia e si fermò un secondo a pensare. Poi si adombrò.
“Non sono quasi mai felici“
“Lei è felice?“
“Sì.“
“Nessuno risponde “sì” a questa domanda. Non sta bene.“
“Il valore affettivo” è il romanzo di esordio di questa strepitosa scrittrice, che ha ottenuto la Menzione Speciale della Giuria alla XXXIII edizione del Premio Italo Calvino.
La perdita di un familiare può causare ferite profonde e vuoti incolmabili..
Gli eventi che coinvolgono la vita di Bianca entrano dentro, lasciano attoniti e rimandano un forte senso di impotenza.
Bianca, con la sua famiglia, vive una vita serena, tranquilla nelle vicissitudini quotidiane, fino alla morte improvvisa della sorella, Stella. Bianca ha sette anni quando avviene la disgrazia.
Stella aveva un ruolo centrale nella famiglia e soltanto la sua perdita improvvisa lo rende reale.
Qual è stata la causa dell’incidente? Nessuno lo sa. Bianca porta dentro un grande macigno, fino a quando..
Della perdita della figlia la madre è quella che, all’apparenza, ne risente di più e la protagonista dovrà fare i conti con la nuova realtà che si viene a creare.
Come vivrà e come gestirà i rapporti con la madre?
Nonostante il difficile equilibrio ricreato dopo la morte della sorella, Bianca riesce a farsi una vita. Conosce Carlo, famosissimo e stimato cardiochirurgo, e ne diventa la compagna fortemente amata e voluta.
Tutto sembra molto sereno, all’apparenza, fino al momento in cui la coppia dovrà affrontare determinate scelte e situazioni..
L’amore che Bianca prova per Carlo non è del tutto “disinteressato”. Che cos’è che la attrae di più, in realtà? Che ruolo vede nel compagno?
Di fronte ad eventi terribilmente dolorosi ognuno di noi tira su le proprie barricate.. quella di Bianca è particolare e rischia di travolgerla. Riuscirà la protagonista a gestirla?
Bianca riesce a restituire all’esterno un’immagine di sé molto diversa da quello che realmente prova e vive.
I pensieri di Bianca legano e travolgono il lettore. Le sue angosce diventano reali e forniscono numerosi spunti di riflessione.
La scrittura di Nicoletta Verna incanta e lascia con il fiato sospeso, in attesa di scoprire l’evoluzione degli eventi, del tutto inattesi.
Romanzo strepitoso: da leggere!
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
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Sono sicura che la stragrande maggioranza delle persone conosce il principio della rana bollita di Noam Chomsky. Molti meno sanno chi è Chomsky. Linguista, filosofo, scienziato cognitivista, nonché attivista politico, è un punto di riferimento per chi, come me, si occupa di Comunicazione. In primis per la sua teoria rivoluzionaria sulla grammatica generativo-trasformazionale e poi per l’analisi del ruolo dei mass media nelle democrazie occidentali.
Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda, nel quale nuota tranquillamente una rana.
Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale.
Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa.
L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla.
Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita.
Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50°, avrebbe dato un forte colpo di zampa e sarebbe balzata subito fuori dal pentolone.
In molti hanno utilizzato questo principio in senso metaforico per parlare di potere e condizionamento mediatico, di degrado e scomparsa dei valori e dell’etica, di impoverimento morale e culturale della società.
Ma io voglio prenderla più alla lettera, pensando a ciò che stiamo vivendo in questi giorni. Sono anni che sentiamo i climatologi affermare che “è l’estate più calda di sempre”. Noi ci accorgiamo che le temperature salgono ma non siamo spaventati. Sentiamo parlare di cambiamento climatico e delle sue drammatiche conseguenze, ma ci sembra uno scenario lontano e irrealistico. Per qualcuno è addirittura un complotto o una fake news. Quindi non reagiamo e continuiamo a condurre le nostre esistenze come abbiamo sempre fatto. Intanto il calore sale e diventa torrido e insopportabile. Proviamo a dare qualche segnale di insofferenza, ma senza troppa convinzione pensando che spetti ad altri intervenire per risolvere il problema. Restiamo inerti, immobili, noncuranti condannando noi stessi alle estreme conseguenze.
Con la nostra inazione stiamo alimentando la deriva del nostro mondo e contribuendo al suo disfacimento.
E allora? Come evitare di fare la fine della rana bollita?
Serve una presa di coscienza forte, dirompente, sconquassante da parte dell’umanità. Dobbiamo reagire all’assuefazione e invocare un cambiamento radicale capace di rovesciare lo status quo nel quale ci siamo rifugiati e adattati per convenienza o per ignoranza.
Per quanto possa essere difficile da credere, non può esserci scenario peggiore di quello che stiamo vivendo e che ci sta conducendo verso una fine sicura. E non possiamo aspettare oltre. Se lo facciamo, non avremo più le forze e le risorse per uscirne e sarà troppo tardi.
Prendiamo coscienza della nostra situazione e abbracciamo dunque il cambiamento.
Se vogliamo salvarci dobbiamo saltare.
Senza timori.
note sull’Autore_
Giuliana Caroli, classe 1965, lavoro in una grande cooperativa di servizi come Responsabile Comunicazione, ma mi porto come bagaglio una lunga esperienza in ambito consulenziale e formativo.
Scrivo di ciò che conosco e di ciò che mi appassiona. Coltivo la curiosità e alimento le relazioni positive. Detesto l’indifferenza e l’irresponsabilità.
A cosa aspiro? A fare la differenza: per qualcuno, per il pianeta.
“Mi viene da pensare che non sono tanto gli uomini i guardiani delle greggi, ma le greggi guardiani degli uomini, perché quelle sono molto più libere di questi”.
È passato quasi un mese, da quando ho scritto quell’articolo link e, ancora, sento che qualcosa è rimasto inespresso. In quell’articolo parlavo del concetto usurpato e, spesso abusato, di eroismo. In quelle righe analizzavo ciò che, secondo il mio modo di vedere le cose, non dovrebbe rientrare nella definizione di atto eroico ma, piuttosto, sarebbe da classificare secondo la nobilissima definizione di gesto agito per senso del dovere, di abnegazione al bene altrui, di dedizione a ciò che è giusto, secondo parametri di altruismo e generosità più o meno universali.
Stesso discorso per un gesto avventato e occasionale, agito per senso d’appartenenza, incoscienza, esibizionismo, mancanza di alternative. Mille etichette applicabili, ma non quella di Eroe e, di conseguenza, di atto eroico.
Ho ricevuto molte interazioni, a seguito di quella pubblicazione e, una in particolare, ha calamitato i miei pensieri, attraendo la mia attenzione ancora oggi, a distanza di settimane.
Ma allora, chi sono gli eroi?
Ho dato molto peso alla domanda, nel corso dei giorni successivi alla pubblicazione dell’articolo e, proprio perché la considero importante, ci ho molto riflettuto. È grazie a quella domanda ( e ad un video di Roberto Saviano che mi ha ispirato) se ho deciso di parlare di Walter Bevilacqua, per suggerire un esempio di ciò che ritengo comportamento eroico, di colui che, secondo me, merita l’appellativo di Eroe.
Perché gli eroi esistono, ma sono rari come i più puri dei diamanti e, spesso, si nascondono ai clamori della notorietà.
Walter era un uomo di 68 anni, un pastore della Val d’Ossola, un vecchio alpino, una penna nera nata e cresciuta a pochi passi dal confine, tra una transumanza e un alpeggio estivo.
Nulla di particolarmente eroico, fin qui…
Cammin di vita facendo, un triste giorno, Walter si ammala di una grave patologia renale e, tra visite e farmaci, inizia il calvario della dialisi. Le sue condizioni non migliorano e viene iscritto alla lista d’attesa per il trapianto, unica soluzione prospettata dai medici che lo hanno in cura. Passano i giorni, con loro i mesi e, la vita di Walter, per forza di cose, continua, tra terapie, lavoro e acciacchi vari, più o meno come sempre, sperando ben poco in quella soluzione chirurgica, unico orizzonte possibile a difesa della sua stessa vita.
Era un uomo solo e solitario, Walter, cresciuto dal nonno Camillo, dal quale aveva imparato a non risparmiarsi mai, vissuto tra i monti, con le sue pecore che, nel tempo, erano diventate la sua unica famiglia (eccezion fatta per le sorelle Mirta e Iside), il suo gregge naturale. E aveva imparato molto da quel gregge, che non è solo omologazione o imitazione, sinonimo di cieca e sciocca obbedienza, per questo usato spesso come esempio negativo efficace. Un gregge, Walter lo sapeva bene, è anche stare insieme per difendersi, uniti e compatti, per sopportare i rischi e i conflitti, per superare insieme le asperità della vita, per supportarsi a vicenda.
Friedrich Nietzsche ha scritto: “Il piacere di essere gregge è più antico del piacere di essere io: e finché la buona coscienza si chiama gregge, solo la cattiva coscienza dice: io.”
C’è molta nobiltà anche in un gregge di pecore, se solo ci sforziamo di guardarlo da un’altra angolazione, scevra dagli annosi stereotipi e secondo un diverso paradigma. Ma noi umani, ormai incapaci di fare quadrato e di essere gregge, secondo l’alta e solidale accezione, propensi a essere folla (che del gregge è la versione peggiore) forse lo abbiamo dimenticato.
Ma torniamo a Walter.
Un gran lavoratore il nostro pastore, innamorato delle sue montagne, appassionato di agricoltura e molto legato ai suoi animali. Del resto, erano il suo mondo e si dice di lui che non abbia mai fatto un giorno di vacanza dalle sue attività, mai un’assenza, mai una lamentela. Ma forse sono cose che si dicono ai funerali.
Non importa, non è questo che rende speciale Walter Bevilacqua.
Nell’attesa del trapianto, l’uomo inizia a pensare che forse, quel rene, debba andare ad altri, a chi lo merita di più, a chi ha una famiglia a cui pensare, un gregge umano di cui occuparsi, al contrario di lui che non deve occuparsi d’altri che non siano il suo gregge di pecore. Un pensiero sempre più presente, nella mente del pastore, che gli toglie il sonno, gli lascia il tormento e gli spegne il sorriso, per la paura di portare via, l’ultima opportunità, a chi ritiene più meritevole di lui, a chi quel rene ha più motivi desiderarlo. Per ottenerlo. Almeno secondo la sua personale etica e la sua soggettiva – in questo caso indiscutibile – morale.
Se mai arriverà, quel rene. E se mai si troverà, in esso, la piena compatibilità.
Quel momento arriva, portando con sé il turno di Walter. È il momento della speranza, quella concreta, che ha una data e una procedura. Il rene si trova e la compatibilità biologica è tale, da permettere il trapianto che salverà la vita al vecchio alpino ossolano.
Citando Roberto Saviano, “la realtà si muove per paura, per interesse, per piacere, per necessità”. Ma non quella di Walter, che si muove verso l’altro, a tutela di altre vite, forse più importanti e meritevoli della propria, per altruismo e per spirito di sacrificio.
Per spirito di gregge.
Walter ha deciso. Non accetta di vivere, se questo implica consegnare a morte certa un’altra persona. Non toglierà la speranza a chi, restando in vita, potrà dare a sua volta vita ad altre persone. No, non farà quel trapianto. Lascerà il rene a chi è dietro di lui, nella lista dell’eterna e lancinante attesa. Lo lascerà a chi è più giovane, a chi ha una famiglia, a chi ha moglie e figli di cui occuparsi, a chi ha ancora speranze, ancora un futuro.
Walter rifiuta il rene e, con un gesto d’immensa umanità e di infinita solidarietà, tanto forte quanto silenzioso, pregno di quello schivo pudore che solo il vero eroe sa avere, dona la sua stessa vita a un’altra persona, a qualcuno che ritiene, secondo il suo insindacabile giudizio, più bisognoso e meritevole di lui.
Non per istinto, ma per ragionamento e per libera scelta.
Inevitabilmente, con il passare del tempo, le sue condizioni si aggravano e, durante la dialisi cui settimanalmente si sottopone, presso l’ospedale San Biagio di Domodossola, il suo immenso cuore cede. La sua bara sarà portata a spalla dagli alpini della sezione di Varzo, i suoi amici di sempre, tra le lacrime delle sorelle e il ricordo che, di lui, fa il parroco del paese, Don Fausto Frigerio.
Proprio a Don Fausto, Walter aveva confessato, parlando della sua drammatica decisione: “C’è chi ha più bisogno di me. Sono in molti che aspettano quest’occasione. Persone che hanno famiglia, che hanno più diritto di vivere di me. È giusto così” e questa frase, questo modo di pensare agli altri, prima che a se stesso, la dice lunga sulla filosofia di vita di Walter Bevilacqua.
Personalmente non so dire se, al suo posto, avrei agito allo stesso modo e forse, accantonate le ipocrisie e i “machismi” del caso, nessuno di noi può sinceramente rispondere a cotanta domanda.
Lui lo ha fatto e tanto basta.
Era un contadino Walter, un pastore, un alpino, un uomo d’altri tempi, di montagna e di frontiera, un fratello per qualcuno, un amico per altri. Ed è soprattutto un Eroe, lui sì, questa volta al presente, perché gli Eroi, quelli veri, quelli lontani dalla retorica patinata e dalle facili ipocrisie, quelli dotati di una straordinaria umanità, donando la propria vita, vivono per sempre.
Nota sull’Autore_
Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano. Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.