Amleta è un’associazione di promozione sociale il cui scopo è contrastare la disparità e la violenza di genere nel mondo dello spettacolo.
È stata fondata da 28 attrici distribuite su tutto il territorio nazionale.
Amleta è un collettivo femminista intersezionale che punta i riflettori sulla presenza femminile nel mondo dello spettacolo, sulla rappresentazione della donna nella drammaturgia classica e contemporanea ed è un osservatorio vigile e costante per combattere violenza e molestie nei luoghi di lavoro.
Discriminazioni, stereotipi, sessismo, abusi, gender gap, gender pay gap, gestione dei fondi pubblici: questo è il problema!
Amleta è nata per raccogliere dati e monitorare le differenze di trattamento tra donne e uomini nel mondo dello spettacolo, per chiedere spazi in cui le donne possano esprimere i loro talenti ed esercitare la loro intelligenza.
Amleta è nata tutte le volte che sopra un molestatore o un abusante è stata messa la vernice glitterata dell’artista genio a cui tutto è concesso.
Amleta è nata da tanto tempo e in tanti luoghi.
A questo link il manifesto della associazione, che noi di FUORI invitiamo a sostenere divulgando e soprattuto esercitando quotidianamente, nella vita e nel lavoro, i principi fondanti dell’Organizzazione.
“I love Allah”
Mullah Neda Mohammad Nadeem, ex governatore e comandante militare, nonché esponente della linea dura religiosa, è stato nominato responsabile dell’Università lo scorso ottobre e sin da subito aveva espresso la sua ferma opposizione all’istruzione femminile, definendola non islamica e contraria ai valori afghani.
Sin dal loro arrivo al potere, i talebani, dopo aver di fatto impedito alle donne di lavorare e aver imposto il velo integrale che deve lasciare scoperti solo gli occhi (ma con il burqa vanno nascosti anche quelli), nel marzo scorso avevano disposto la chiusura delle scuole femminili, in attesa di nuove direttive in accordo con la legge islamica.
Direttive mai emesse, senza contare che senza aver frequentato le scuole superiori è di fatto impossibile accedere all’università.
In questo contesto, tre mesi fa migliaia di ragazze e donne avevano potuto sostenere gli esami di ammissione all’università in tutto il paese, anche se nell’ambito di radicali restrizioni sulla scelta dei corsi di studio, con veterinaria, ingegneria, economia e agricoltura vietate, e giornalismo severamente limitato.
fonte : www.ansa.it
Siamo perbenisti con i pensieri degli altri. Pronti a giudicare, senza mai guardare quella trave. La nostra.
Ci sono momenti, nella vita di tutti noi accade inevitabilmente, in cui ci si trova nella situazione in cui scegliere fra il vivere un momento della propria vita in maniera piena, intera, completa, o piuttosto atteggiarsi in un falso, corretto, formale atteggiamento che, tutto il resto del mondo, perbenista ed ipocrita, gli chiede di vivere.
Divulgare la scienza: in ricordo di Piero Angela
In ricordo di Piero Angela trascriviamo letteralmente l’articolo/intervista “Divulgare la scienza“, a firma Giancarlo De Leo per Poliziamoderna, rivista ufficiale della Polizia di Stato, pubblicata il 01/03/2012.
Autore di fortunati programmi di informazione, Piero Angela, uno dei protagonisti del calendario della polizia, parla di sè e di come vede il futuro della televisione
Uno dei volti televisivi più noti e popolari presso il grande pubblico, considerato il “divulgatore scientifico” per eccellenza della televisione italiana, Piero Angela è il protagonista del mese di marzo del calendario della Polizia di Stato. Vero pioniere dell’informazione radiotelevisiva (il suo programma SuperQuark, in onda dal 1995, è il punto di riferimento nel campo dei documentari scientifici, storici e naturalistici), autore di molti libri – alcuni dei quali tradotti in inglese, tedesco, francese e spagnolo – venduti in milioni di copie, racconta a Poliziamoderna la sua esperienza professionale rispetto alla televisione e ad alcuni temi di attualità.
Nell’immagine di marzo del calendario lei è ritratto accanto alla Lamborghini e all’aereo P180, due mezzi adibiti anche al trasporto di organi. Lei è a conoscenza di questa attività della polizia? Cosa pensa della donazione di organi in Italia? Ne ero a conoscenza e penso sia un merito per la polizia. Riguardo questo punto credo che in Italia ci sia ancora molto da fare soprattutto in termini di corretta comunicazione. Sull’argomento circolano infatti molte chiacchiere infondate, veicolate con estrema leggerezza da personaggi famosi, che purtroppo arrivano a milioni di persone. In questo senso, una volta commesso un grosso danno, risulta difficile ripararlo; la smentita di un serio scienziato non ha mai l’eco di una corbelleria firmata da un personaggio popolare. Voi della Polizia di Stato difendete i cittadini dai malfattori e dalle truffe, noi giornalisti cerchiamo di difenderli dalle false informazioni: una missione parallela che ci rende in qualche modo affini e che in fondo credo “legittimi” anche la mia presenza nel vostro calendario.
La sua passione non è sempre stata solo il giornalismo, sappiamo che uno dei suoi amori giovanili è stata la musica, in particolare quella jazz. Cosa c’è in comune tra questi suoi interessi? In effetti da giovane sono stato un musicista dilettante con potenzialità professionali. Ho fatto anche dei piccoli tour suonando in giro per l’Italia facendo parte di trii e quartetti che si esibivano nei jazz club. Una esperienza di cui ho fatto tesoro nel mestiere di giornalista. Il linguaggio della musica mi ha insegnato i cambiamenti di ritmo, di intensità, le variazioni sul tema e le digressioni che tuttora utilizzo nelle mie comunicazioni per non apparire – appunto – monocorde. È assolutamente essenziale, per ogni divulgatore, non annoiare mai chi guarda e ascolta, a maggior ragione se gli argomenti trattati sono molto seri.
In una televisione generalista è possibile mantenere un’identità riconoscibile? SuperQuark o Ulisse potranno migrare verso qualche canale tematico per non correre il rischio di essere confusi con programmi che non hanno alcuna validità scientifica? Come giornalista per me è assolutamente naturale rivolgersi ad un pubblico che sia il più vasto possibile, anche per stimolare l’attenzione di chi non si orienterebbe autonomamente verso i temi che proponiamo. In fondo è proprio questa la funzione del divulgatore: dapprima far sorgere un interesse e poi aumentare il livello di consapevolezza del “normale” telespettatore relativamente ad un tema che altrimenti rimarrebbe circoscritto a pochi addetti ai lavori o cultori della materia e del tutto ignoto ai più. Per questo stesso motivo non vedo il futuro di Superquark o di Ulisse in palinsesti specializzati: questi canali potrebbero essere utili soprattutto agli studiosi e agli appassionati di questo o quell’argomento, ma corrono il rischio di diventare dei club per pochi, delle vere riserve indiane mediatiche.
Pensa che la televisione generalista rischi di perdere il pubblico più giovane? È incontestabile che i giovani si stiano allontanando dalla televisione, dirigendosi sempre più verso altri terminali come i tablet e gli smartphone: ma è vero che anche loro continuano a guardare la tv, magari veicolata da Internet, sul proprio pc. Poi ci sono i tanti anziani – e la popolazione invecchia sempre di più – che non si servono delle nuove tecnologie e rimangono fedeli alla televisione tradizionale. Se si guardano i dati di ascolto delle trasmissioni televisive si vede che il bacino di utenza complessivo in realtà è aumentato, in particolare le ore quotidiane di fruizione pro capite – si arriva ad una media oltre quattro ore –, e questo è un dato veramente rilevante. È da tenere presente poi che purtroppo nel nostro Paese è il tubo catodico a tenere banco rispetto per esempio ad altre attività come la lettura. Per molte persone il piccolo schermo è rimasto l’unico gancio culturale disponibile e proprio per questo l’offerta dovrebbe essere sempre più aperta, strutturata e stimolante. Al contrario la moltiplicazione dei canali meramente tematici rischierebbe di condizionare la scelta dello spettatore solo sull’argomento che gli interessa, fiction o trasmissioni calcistiche o altro, impoverendo il ventaglio di informazioni che potrebbe ottenere. Detto questo, sicuramente in un contenitore generalista ci può essere il rischio di confondere l’utente con proposte solo in apparenza somiglianti. Non resta che confidare nella maturità dello spettatore e nella sua capacità di discernimento. D’altra parte, ognuno è responsabile in toto per i propri prodotti e personalmente posso garantire solo per i miei… per concludere in leggerezza, vogliamo infine dire che “il mondo è bello perché è vario?”
Lei è tra i fondatori del Cicap (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale) un’organizzazione per promuovere un controllo sui fenomeni scientificamente inspiegabili. In una società dove spesso sedicenti maghi e veggenti approfittano delle persone psicologicamente deboli quanto valore ha l’affermazione di George Santayana “lo scetticismo è la castità dell’intelletto”? La speculazione a discapito dei creduloni è assolutamente reale e si manifesta in forme più o meno gravi, l’oroscopo ne costituisce l’espressione più diffusa e meno dannosa. Purtroppo, per contrastare efficacemente il problema ci vorrebbe una campagna di informazione collettiva con numerosi testimonial qualificati e conosciuti. Personalmente, anche come scrittore, sono molto impegnato in questo senso, (ndr: ha scritto anche un libro sull’argomento :Viaggio nel mondo del paranormale e ha una rubrica fissa: “L’altra campana” sulla rivista Scienza e Paranormale), ma la mia voce è sempre stata piuttosto isolata.
Lei è anche autore di numerosi libri che spesso approfondiscono gli argomenti trattati nelle sue trasmissioni. Che ne pensa delle nuove tecnologie applicate all’editoria? Legge anche i libri in formato digitale sui tablet o sugli e-book reader? Sono assolutamente consapevole dei vantaggi offerti dalle nuove tecnologie come l’economicità, il risparmio di spazio, di peso e la conseguente disponibilità di una intera biblioteca in pochi centimetri quadri, ma ritengo che questi strumenti siano perlopiù destinati alle nuove e alle nuovissime generazioni, i cosiddetti “nativi digitali”; personalmente continuo ad apprezzare maggiormente la tradizionale carta stampata, facendo parte della generazione dei “nativi gutemberghiani!”.
L’arrivo in Europa della variante sudafricana, indicata con il nome di Omicron, alimenta di nuovo il timore di un “inverno pandemico” senza fine, una visione tragica da film apocalittico.
Al di là di una visione pessimistica della situazione, il timore di una previsione basata su fatti e dati concreti potrebbe essere giustificata almeno riguardo la speranza di una rapida uscita da questa crisi sanitaria (ed economica, e sociale).
Stiamo entrando nel terzo anno di pandemia, e comincia a farsi strada il pensiero di una convivenza con il virus.
La domanda rischia di diventare lecita, forse anche doverosa: “e se non dovesse mai finire? se dovessimo convivere per gli anni a venire con un “inverno” senza fine “?
È una domanda che è utile farsi, perché intanto è necessario attrezzarci con modelli di pensiero che contemplino l’ipotesi peggiore, quella di un’emergenza sanitaria globale che, attraversata una soglia critica, diventa cronica.
“Stiamo attraversando un periodo temporaneo di sofferenza” ci siamo detti, ” ma non dobbiamo essere pessimisti perché nessuna notte è infinita”.
Bisogna avere la forza di superare il momento di difficoltà, rinchiuderci, pregare il dio che avevamo dimenticato, e aspettare la luce del giorno.
“Torneremo ad abbracciarci tutti”, si diceva dai balconi, tra un canto e l’altro.
Grazie al sostegno di questo archetipo della speranza umana, e dell’umana saggezza, abbiamo retto anche in parte sorretti dalla novità, al primo spaventoso lockdown, poi alla seconda ondata, poi alla terza.
L’arrivo del vaccino, al netto dei no-vax, annunciava la luce del giorno tanto attesa.
Oggi, ad inizio dicembre 2021, con la quarta ondata che già sommerge buona parte dell’Europa, forse è necessario smettere di contarle.
Forse è più utile attrezzarci per un lungo viaggio, un viaggio attraverso una stagione che non conosca più l’alternarsi d’inverno e primavera ma soltanto un autunno perenne.
Un viaggio con destinazione sconosciuta.
Farneticazioni apocalittiche in stile hollywoodiano ?
Se avessimo il coraggio di tenere lo sguardo fisso sull’abisso, potremmo accorgerci che ci siamo già abituati ad un’emergenza permanente, quella ambientale.
Da decenni viviamo tutti in un mondo le cui condizioni climatiche vanno peggiorando in maniera progressiva, costante e probabilmente incontrovertibile.
Senza rendercene conto, ci stiamo rassegnando, e adattando, a eventi metereologici estremi, estati torride, inverni cataclismatici, devastazioni.
Ci stiamo rassegnando alle crisi migratorie, con le stragi in mare, che non sono più una notizia da prima pagina.
Siamo forse in grado di reagire a questi avvenimenti che occupano ormai la nostra quotidianità?
Politicamente sappiamo che non ne siamo capaci.
Il “mezzo successo” della COP26 di Glasgow non è forse un fallimento?
Riconoscere i nostri insuccessi, come comunità, è un passo doveroso e necessario. Prendere coscienza che il modello basato sui cicli di “morte e rinascita” dell’alternarsi delle stagioni applicato alla modello di società nella quale viviamo, comporta il riconoscimento della inadeguatezza della politica convenzionale come soluzione per risolvere i problemi di una comunità che ormai va considerata come una e sola, a prescindere dalla latitudine e longitudine di dove si vive.
La pandemia, e il cambiamento climatico sono scorie tossiche della globalizzazione.
La politica, con le sue cerimonie inamidate ancora basate su procedure del secolo scorso, non sembra in grado di saperle affrontare.
Se l’emergenza sanitaria diventerà cronica, così come ormai sono quella migratoria ed ambientale, si rischia di assistere, come già sta avvenendo in fondo, a forme di potere politico che si basano sulla sospensione o addirittura cancellazione delle consuetudini democratiche.
Le leadership populiste, i partiti che si rifanno al sovranismo, troveranno terreno fertile e sapranno raccogliere consensi dalle persone ormai sfinite da una condizione di continua emergenza sociale e privata.
Prendiamo coscienza che un’epoca è finita, che un’altra è cominciata, e prepariamoci ad affrontarla con uno spirito di adattamento a livello globale, e non con la rassegnazione di miliardi di singoli individui malinconici, rabbiosi e in fondo, disperatamente soli.
Redazione Fuori.
Quasi tutte le persone sono altre persone.
di Redazione Fuori.
Questi ultimi due anni, caratterizzati da un periodo pandemico che sembra si stia avviando alla quarta ondata, dovrebbero ricordare ad ognuno di noi quanto è importante il contributo, apparentemente insignificante ma in realtà determinante, per riuscire ad evitare un nuovo lockdown, cogliendo anche l’opportunità offerta dalla scienza medica.
Anche se minoritaria, la voce di chi si oppone ad una evidenza supportata dai numeri rimane rumorosa eppure, in nome di un mal compreso ed egoistico principio di libertà e di fare ciò che si vuole, senza rispettare i propri simili, si rischia una ricaduta che sarebbe per molte persone, lavoratori, aziende, e dunque famiglie, probabilmente fatale.
Queste persone sono convinte di sapere esattamente come stanno le cose, e con una presunzione pari alla loro ignoranza, si ritengono pensatori liberi, che combattono il sistema e la dittatura sanitaria, a differenza del resto del mondo (superiore al 90%) che sarebbero invece sottoposti al lavaggio del cervello.
Pur in buona fede, almeno la maggior parte, queste persone parlano senza avere una vera conoscenza dell’argomento, e si limitano a ripetere concetti, slogan e ragionamenti urlati da altri.
Quasi tutte le persone sono altre persone. I loro pensieri sono le opinioni di qualcun altro, le loro passioni una citazione, le loro esistenze una parodia. (Oscar Wilde)
Naturalmente è improbabile che chi ragiona così sia disposto a cambiare parere, o anche solo a limitarsi ad ascoltare un parere differente dal loro, dunque cercare di fargli capire che un atteggiamento e modo di comportarsi come questo, non ha niente di intelligente, razionale, o libero, rischia di essere un esercizio infruttuoso.
Però una riflessione andrebbe fatta, almeno tra chi come noi non appartiene a questa schiera di complottisti.
Dubitare e non fidarsi di chi ci “comanda” è sano.
Maturare una forma di pensiero critico, antidogmatico è, o dovrebbe sempre essere, l’obiettivo finale di ogni persona che ambisca a percorrere una strada che lo porti ad essere un “pensatore libero”.
Da dove deve partire questo percorso?
Potremmo dire che una scuola che forma l’atteggiamento critico è una scuola che è capace di indirizzare verso un atteggiamento democratico. Se la scuola sapesse formare una comunità di “pensatori critici” sarebbe una scuola perfetta. Ma la scuola è formata da insegnanti , che sono persone, la maggior parti delle quali non hanno queste capacità formative ed anzi, spesso, sono le prime che avrebbero necessità di impararle.
In un mondo ipotetico, tutti dovremmo aspirare ad essere autentici e liberi “pensatori critici”.
Ma la differenza tra pensatori critici e pensatori selettivi, cioè coloro i quali non si fidano di nulla e nessuno e vedono complotti ovunque, è che questi ultimi sono fermamente convinti di essere in possesso della verità assoluta, mentre i primi rappresenterebbero la massa , il gregge, i pecoroni.
Lo ribadiamo: bisogna sempre imparare a ragionare con la propria testa e mettere in discussione l’autorità.
Questo è doveroso farlo, sempre.
Ma bisogna farlo sulla base di fatti, prove, e non solo perché abbiamo una ideologia basata su convinzioni personali.
Se non riusciamo a costruire una capacità critica basata sui fatti oggettivi, sulla analisi dei dati che abbiamo in possesso, rischiamo di essere davvero come creta plasmabile in mano a chi ci vuole condurre verso obiettivi e tornaconti personali.
Non dobbiamo dubitare di tutto, naturalmente, così come non dobbiamo credere a tutto.
La credenza, senza motivazioni fondate, non ci aiuta a capire la realtà.
Ma allo stesso modo, il rifiuto basato sul pregiudizio non ci aiuta a capire la differenza tra qualcosa che potrebbe essere vero o falso, e qualcosa che in fondo, vorremmo che fosse vero (o falso).
Chi possiede la conoscenza possiede il potere.
Perché la conoscenza ci permette di capire di più e meglio.
Cerchiamo di coltivare sempre questa capacità di “sapere” e rendiamola ogni giorno più forte con l’arte del dubbio, che è un formidabile strumento di conoscenza.
In una società che abbonda di (dis)informazioni, i demoni dell’oscurantismo e del pregiudizio sono una conseguenza inevitabile.
Impariamo ed insegniamo ai nostri figli a pensare in maniera critica ma scientifica, basandoci sui fatti oggettivi e non sul sentito dire.
Potrebbe essere l’unico strumento che ci separa dal buio che ci circonda.
Redazione FUORI.
La democrazia è necessaria per la pace e per minare le forze del terrorismo.
di Redazione FuoriMag_adl
Il ritorno precipitoso dei Talebani al potere ha costretto i Paesi presenti da vent’ anni sul territorio afghano a dare la massima priorità all’espatrio dei cittadini americani, europei e locali che avevano collaborato o che cercavano anche solamente di salvarsi e di avere una prospettiva di vita futura.
Come in tutte le emergenze, la prima cosa da fare è stata gestire le criticità immediate, e dunque riteniamo giusto aver operato così, ma occorre allo stesso tempo fare una attenta riflessione per capire come mai le forze presenti sul territorio, che hanno gestito un ventennio di amministrazione e potere, si siano ritrovate a dare un ordine di ritiro dall’Afghanistan così improvviso e soprattutto non organizzato, quasi senza preavviso.
Il conto presentato da questi venti anni di guerra è salatissimo: 2.461 militari e civili uccisi e oltre 20 mila feriti.
Questi numeri sono compatibili con la versione presentata la scorsa settimana dal Presidente Biden di una mera operazione di antiterrorismo e non come invece un tentativo fallito di “Nation Building”?
Quando l’America (e questo vale per ogni democrazia che ritiene essere tale) mette in pericolo la vita dei suoi militari, e dunque di fatto mette in gioco il prestigio di chi governa , deve farlo sulla base di un ragionamento più complesso, e motivarlo con una combinazione di obiettivi strategici che possano chiarire all’opinione interna e a quella mondiale quali sono state le circostanze che hanno motivato un intervento militare, [ dunque politico], che sia in grado di supportare i risultati raggiunti (o non raggiunti).
Gli obiettivi militari in Afghanistan, sono stati alla fine di fatto non raggiunti, e quelli politici troppo generici. Quando i due obiettivi non sono saldamente collegati tra loro, l’opinione pubblica fatica a comprenderne i confini e perde di vista una finalità condivisa ed accettata, dividendosi in mille rivoli che diventano diatribe manipolabili per altri scopi.
L’11 settembre 2001 ha creato le condizioni di una invasione ad un Paese straniero che era stato indicato come base dei terroristi che l’avevano organizzato. L’ampio sostegno popolare in risposta a quell’attentato ha permesso facilmente di supportare una campagna militare che sembrava aver raggiunto il suo scopo in tempi brevi. I talebani sono stati confinati in Pakistan e da li hanno continuato a combattere una guerriglia disordinata ma alla fine molto efficace.
Come era stato annunciato dai talebani stessi, le forze di coalizione, anzi parliamo degli Stati Uniti in particolare, si sono rivelati inadeguati alle azioni di contrasto ai loro combattenti, e questo perché in fondo, al di là delle tattiche di guerriglia adottate dai talebani, non si è mai avuta una strategia chiara e lineare che ha permesso di capire esattamente quale fosse il piano finale a lungo termine.
Nel momento in cui i talebani erano confinati ed in difficoltà, le forze alleate hanno perso di vista il principale obiettivo strategico e hanno creduto che l’unico modo per impedire ai terroristi di riorganizzarsi fosse quello di trasformare l’Afghanistan in uno stato moderno e democratico sulla base di quelli occidentale. Una vera e propria forma di esportazione della democrazia ibrida che non teneva conto in maniera significativa delle complesse realtà locali.
Una impresa di tali dimensioni, ammesso che fosse realmente possibile farla, richiedeva una “road map” precisa e condivisa con tutte le forze in campo e soprattutto andava supportata saldamente a livello politico.
Ma un procedimento del genere, che richiede tempi lunghissimi, va strutturato in modo tale da essere accettato anche e soprattutto dalla realtà locale, anche a quella parte che si era comunque opposta ai talebani.
Entrare in un Paese senza tenere conto della storia e delle tradizioni dello stesso, e cercare di importare un modello totalmente alieno alla realtà locale, è destinato a fallire inevitabilmente.
L’Afghanistan non è mai stato un paese moderno. Cercare di strutturare uno stato democratico moderno in un Paese dove i decreti che partono da un governo centralizzato, richiede anni, decenni, e forse non bastano nemmeno. Le componenti geografiche, etniche, religiose del territorio sono elementi determinanti, anzi decisivi, per la riuscita di una operazione del genere. La lontananza geografica di alcune città e villaggi da Kabul, ha fatto si che questo tipo di operazione nemmeno sia stata avvertita, tanto è vero che molte aree rurali sono rimaste sempre sotto il controllo talebano.
Nonostante si possa collocare la presenza di una società Afghana sin dal 1700, di fatto le sue popolazioni si sono sempre opposte ad una forma di unità nazionale. In una struttura essenzialmente feudale, le linee delle etnie e dei clan sono sempre stati i riferimenti per la vita sociale della popolazione. Militarmente, impegnati in conflitti interni tra di loro, i “Signori della guerra” si sono comunque sempre associati in coalizioni di larghe intese ogni qualvolta una potenza esterna è intervenuta per imporre centralizzazione dei poteri [vedi l’invasione da parte dell’esercito britannico nel 1839 e delle forze armate sovietiche che occuparono l’Afghanistan nel 1979].
L’ipotesi che in questi giorni abbiamo ascoltato e che parla di una popolazione afghana non disposta a combattere per il proprio paese è smentita dunque dalla storia.
Con il passare del tempo, le guerre in questa parte del mondo hanno assunto connotati di contrasto alla guerriglia, che a lungo termine non solo ha provocato un numero di morti significativa tra i soldati della coalizione, ma ha anche logorato l’opinione pubblica mondiale che ha perso le certezze e le convinzioni del dopo 11 settembre.
Ma il supporto alla costruzione di una nazione, nonostante lo stesso presidente americano abbia negato fosse nei programmi, ha richiesto un enorme spiegamento di mezzi e militari.
Il duplice scopo di tenere sotto controllo eventuali rigurgiti dei talebani e il necessario apporto delle forze armate con funzioni di addestramento dell’esercito locale e di controllo del territorio durante la ricostruzione, ha permesso che si creassero le condizioni per l’introduzione di forme di governo non legittimate dal popolo e molto spesso colluse con i poteri locali.
Coloro i quali sostenevano questo tipo di governo, additandolo come un primo passo verso una forma di democrazia, venivano contestati da coloro i quali erano contrari e facevano opposizione. La paralisi che si è creata ha impedito una naturale evoluzione verso un dibattito politico e dunque una presa di coscienza critica che facilitasse la costruzione di una forte identità di una “governance” locale che, forse, avrebbe potuto opporsi ad un ritorno talebano.
I paesi confinanti, ad esempio, anche se non sempre amici degli stati uniti e dei loro alleati, potevano sentirsi minacciati dal potenziale terroristico afghano?
Sarebbe stato possibile coordinare sforzi comuni di lotta ai ribelli? Certamente India, Cina, Russia e Pakistan spesso manifestano interessi contrastanti. Ma una diplomazia creativa avrebbe potuto distillare misure condivise per debellare il terrorismo in Afghanistan
Se invece di concentrarsi su una modalità di guerra piuttosto che di contenimento dei talebani, avessero lavorato di più dal punto di vista diplomatico e creato una condizione migliore per una leadership locale più solida e strutturata?
Questa alternativa non è mai stata esplorata in maniera convincente. Dichiaratisi apertamente contrari alla guerra, i presidenti Donald Trump prima e Joe Biden oggi, hanno avviato trattative di pace con i talebani, che avevamo giurato di eliminare una ventina d’anni prima.
I negoziati si sono concretizzati in un rapidissimo ritiro incondizionato degli americani e di tutte le altre forze presenti. Solo oggi, dopo il ritiro di tutte le forze straniere, si comincia a pensare di coinvolgere i Paesi interessati per diverse ragioni ad una normalizzazione dell’area.Troppi gli interessi in gioco a livello mondiale per lasciare quella Regione in mano a fondamentalisti con i quali sembra difficile potersi relazionare.
L’America a nostro parere non può sottrarsi oggi al suo ruolo di attore chiave nell’ordinamento internazionale, sia per le sue capacità che per i suoi valori storici. Non ha il diritto di rinnegarli e di rinnegare sè stessa ritirandosi come sta facendo oggi senza un piano diplomatico a lungo termine.
Gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno il dovere di sviluppare e sostenere una strategia comprensiva, compatibile con le esigenze interne ed internazionali.
Lo devono per i loro giovani soldati caduti in una terra lontana, per le donne e gli uomini Afghani che oggi stanno precipitando in un medio evo buio e drammatico, e che non vedono alcun futuro davanti a loro.
Le democrazie solide e credibili, quelle a cui noi tutti guardiamo con fiducia e speranza, si evolvono nel confronto, e siglano il loro successo con una riconciliazione e presa in carico di precise responsabilità.
Ciò che sta accadendo in Afghanistan è terrificante, ma non si può imporre la democrazia e il rispetto dei diritti umani con la forza. È una contraddizione in termini.
In questi giorni siamo diventati tutti esperti di geopolitica e siamo pronti ad urlare il nostro sdegno per il fallimento dell’Occidente. Ma cosa sappiamo realmente dell’Afghanistan, del suo popolo, della sua cultura e della sua storia millenaria di invasioni e dominazioni? E soprattutto… pensiamo veramente di conoscere le reali motivazioni che hanno spinto le potenze straniere, come gli Stati Uniti e prima di loro l’Unione Sovietica, ad invadere questo paese?
Siamo onesti e ammettiamo la nostra ignoranza e impreparazione.
Su una cosa però abbiamo il dovere morale di agire.
Difendere i diritti delle donne afghane.
Come? È questa la vera domanda.
Come possiamo aiutare queste donne perché possano esercitare i loro diritti fondamentali e non sottostare alle restrizioni imposte dalla sharia, o meglio alla sua interpretazione fortemente limitante della libertà e dignità femminile?
Possiamo esprimere la nostra rabbia e preoccupazione, firmare petizioni, perfino manifestare. Ma basterà per cambiare le cose?
L’Afghanistan è un crocevia strategico dell’Asia centrale e gli interessi economici sono fortissimi. Chi si siederà al tavolo con i talebani – la Cina, la Russia ma anche gli USA e l’Europa – sarà più interessato a portare a casa accordi commerciali che garanzie per il rispetto dei diritti umani.
La nostra debolezza sta nel nostro stesso stile di vita, nel nostro modello di sviluppo ancora basato sulle fonti energetiche non rinnovabili e sulle materie prime preziose, quanto rare, diventate indispensabili per garantire quella prosperità alla quale non siamo disposti in alcun modo a rinunciare.
Il prezzo della nostra agiatezza saranno altri a pagarlo.
A quel tavolo saranno soprattutto uomini. Uomini che governano, uomini che comandano, uomini che detengono il potere politico ed economico.
Ma tutti questi uomini hanno una cosa in comune. Hanno una madre che ha donato loro la vita e li ha cresciuti. Hanno una moglie o una compagna al loro fianco. Hanno figlie che possono studiare, lavorare e realizzarsi pienamente perché libere di cercare il loro posto nel mondo.
E se tutte queste donne facessero sentire la loro voce?
Se la loro voce si unisse a quella di tutte le altre donne per dire basta alle discriminazioni, alle violenze, alle sopraffazioni, alle violazioni dei diritti? E lo facessero con una tale forza e convinzione da non poter essere ignorate da quegli uomini che stanno per sedersi e decidere le sorti del nostro mondo?
Mai come ora, le donne sono chiamate a dimostrare di essere unite, risolute e determinate per garantire il diritto delle afghane e di ogni donna a vivere liberamente.
Madri, mogli, compagne, figlie, sorelle. Facciamo sentire la nostra voce nelle nostre case, nelle nostre famiglie, prima ancora che nelle piazze fisiche e virtuali.
Nota della Redazione: l’articolo scritto da Giuliana Caroli è presente anche sul suo profilo Linkedin, e invitiamo a visitare e commentare questo ed altri argomenti che Giuliana condivide quotidianamente.
Naturalmente abbiamo avuto la sua disponibilità a pubblicarlo, ed inserirlo nell’ambito di una rubrica che porta avanti i diritti delle donne, avviata la scorsa settimana con “Niente da celebrare” e che intendiamo portare avanti con continuità , determinazione e forza.
Desideriamo ringraziare anche Anna La Tati Cervetto che ci dà sempre disponibilità delle sue illustrazioni e che, come sempre ma in questo caso ancora di più, si è dimostrata pronta e disponibile a supportare questa “missione”.
Giuliana Caroli, classe 1965, lavoro in una grande cooperativa di servizi come Responsabile Comunicazione, ma mi porto come bagaglio una lunga esperienza in ambito consulenziale e formativo.
Scrivo di ciò che conosco e di ciò che mi appassiona. Coltivo la curiosità e alimento le relazioni positive. Detesto l’indifferenza e l’irresponsabilità.
A cosa aspiro? A fare la differenza: per qualcuno, per il pianeta.
La linea editoriale
Ci chiedono, da più parti, di definire la nostra linea editoriale. …ok, allora dovremmo fare il punto per collocarci nell’area culturale di riferimento più appropriata per evidenziare al meglio lo spazio creativo che vorremmo offrire nel tempo ai nostri scrittori e ai nostri lettori?