Quando i miti animano le organizzazioni [parte 1]

di Massimo Biecher

Se invece di analizzare il mondo del lavoro in un’ottica analitica, lo leggiamo simbolicamente attraverso le lenti della psicologia archetipica, esso ci svela lati inediti ed insospettabili.

Introduzione


Negli gli ultimi due anni analizzando i miti dell’antica Grecia ( qui ) abbiamo appreso come essi non siano soltanto i protagonisti di una religione politeista ma che, in accordo con il modello della psicologia archetipica, interpretano i sentimenti e le emozioni che vivono in ciascuno di noi.

Per quanto riguarda le organizzazioni aziendali, c’è chi le chiama imprese, chi aziende, altri società, sono a disposizione innumerevoli libri che le analizzano proponendo soluzioni per renderle più redditizie ed efficienti e che forniscono consigli ai dirigenti su come trasmettere entusiasmo e passione ai loro collaboratori.

Il nostro scopo, invece, è quello di sostituire questa interpretazione con la visione che abbiamo mutuato ed adattato da una frase sovente ripetuta da James Hillmann il quale, citando il poeta inglese John Keats, diceva «Chiamate, vi prego il mondo -la valle del fare anima-  e allora scoprirete a cosa serve il mondo». Noi invece, adattandola a questo contesto preferiamo dire «Chiamate, le organizzazioni -le valli del fare anima- e allora scoprirete a cosa esse realmente servono».

Ma cosa si intende per fare anima ? 

Si tratta di qualcosa di più e di più profondo che porre l’individuo al centro delle aziende, come anche noi abbiamo fatto negli articoli pubblicati otto anni fa sulla rivista edita dal Coni “Nuova Atletica ricerca in Scienze dello Sport”, rivista riservata agli allenatori di atletica leggera (vedere bibliografia), ma adesso, riteniamo che sia arrivato il momento di fare un ulteriore salto di qualità e comprendere che i luoghi di lavoro sono anche spazi dove ognuno, interagendo con l’ombra dell’altro, ombra nel senso junghiano del termine, fa quello che gli antichi greci, chiamavano la «γνθι σαυτόν– gnothi sayton» ovvero, «la conoscenza profonda di sé».

In quest’ottica, il cosiddetto «posto di lavoro», da mezzo di sostentamento, luogo per conseguire il successo personale, ma anche talvolta “covo di vipere”, diventa il posto dove il nostro Ego, ovvero il lato «costruito» che facciamo vedere agli altri e che in primis nasconde a noi stessi la nostra vera ed unica essenza, si scontra con i lati oscuri, i cosiddetti lati ombra dei nostri colleghi e superiori con lo scopo aureo di aiutarci a «fare anima».

D’altro canto proprio Carl Jung, il “nonno” della psicologia archetipica soleva dire: «Non si diventa illuminati perché si immagina qualcosa di chiaro, ma perché si rende cosciente l’oscuro».

Ma per poter rendere visibile questo materiale non ancora elaborato, da noi tanto temuto ma che non necessariamente contiene aspetti malvagi o negativi, dobbiamo prima, in accordo con il modello che abbiamo preso in prestito dalla psicologia archetipica, riconoscere l’ombra sotto forma di miti che pervadono l’organizzazione e poi, identificare gli dei che simbolicamente agiscono dentro di noi, perché “fare anima” vuol dire iniziare a comprendere le imperscrutabili dinamiche che operano all’interno della nostra psiche, anche e soprattutto grazie a coloro con i quali trascorriamo, magari senza provare alcuna particolare simpatia, otto o più ore, al giorno.

Ecco allora che questo universo di anime, tenute assieme da una comune finalità materiale, dove ciascuna di esse porta con sé le proprie fragilità, paure e talvolta nevrosi, può trovare un nuovo ed inedito senso nell’andare a lavorare.

Da questa nuova prospettiva, le relazioni tra leader e follower e tra colleghi di ufficio, sono finalizzate non solo ad attività concrete ma anche in modo, apparentemente subordinato, «a conoscere sé stessi».

In questa maniera per ciascuno di noi, il posto di lavoro assume una nuova valenza, ovvero diventa lo spazio dove facciamo il percorso di individuazione, dove facciamo esperienza delle leggi che governano la psiche, dove riconosciamo i nostri talenti, o meglio, dato che quest’ultima affermazione è un po’ troppo inflazionata, è lì dove si scoprono i miti, nel nostro caso, gli dei dell’antica Grecia, che incarnano i nostri desideri, le nostre ambizioni ed aspirazioni.

Se coloro che ci leggono per la prima volta trovassero il nostro lessico inconsueto, li invitiamo a consultare alcuni articoli, specialmente i primi, che abbiamo dedicato alla rilettura dei miti dell’antica Grecia rivisti sotto le lenti della psicologia archetipica già pubblicati qui.

Prima di scoprire quali sono i veri miti che agiscono dentro di noi, cominciamo ad esaminare alcuni falsi miti che permeano inconsciamente le organizzazioni. 

Il mito dell’organizzazione


Il primo mito da sfatare è quello di ritenere che esista una sorta di creatura che trova il suo senso solo nel produrre o trasformare un bene od un servizio in qualcos’altro, mentre secondo la visione che stiamo proponendo, essa trova il senso più autentico, quando essa, per dirla alla Hillman «fa da teatro ai miti che la posseggono».

Solitamente ci si sforza di dare un senso all’esistenza di una impresa tramite la cosiddetta «mission aziendale» (se si usasse il temine missione si correrebbe il rischio di svelare un non detto, ovvero che si pretende dai collaboratori la medesima cieca ed incondizionata obbedienza che vige nelle congregazioni ecclesiali), ma che guarda caso, “freudianamente” viene appeso all’ingresso delle mense o dei bagni di alcune aziende quasi a voler sottintendere che essa è destinata a restare nel “Tartaro”, ovvero nei luoghi oscuri, profondi e quindi inconsci, dell’ ”Anima collettiva aziendale”.

La missione aziendale diventa così quella che lo psicoanalista britannico Donald Winnicot, speriamo che bonariamente ci perdoni per aver trasportato il suo termine al di fuori degli ambiti tradizionali, chiamerebbe “il falso sé dell’organizzazione”, che in questo specifico caso, si identificherebbe con il tentativo di rimuovere lo scopo che non viene esplicitato, ovvero: «Noi esistiamo per fare soldi». 

Non contestiamo questo assunto che anzi, riteniamo legittimo, ma il non ammetterlo, lo relega nell’inconscio dell’”anima dell’impresa” e lo trasforma in quel non detto, il cui silenzio col tempo diventerà così assordante, da oscurare quella che con un superfluo anglesismo, verrà chiamata “mission”.

L’azienda, invece, è molto di più, ed infatti, parafrasando e ricontestualizzando James Hillman «essa non è tanto una risultante di forze e pressioni, quanto piuttosto l’attuazione di scenari mitici» dei quali purtroppo viene fraintesa e talvolta mistificata, la sua essenza più intima.

Quando sentiamo dire «Il capo non riconosce le mie idee», oppure «il capo non vale nulla e se Io fossi al suo posto farei meglio di lui..» oppure, quando si sente ripetere il refrain «se l’azienda non va come dovrebbe è tutta colpa di Tizio», quest’ultimo, precisiamo, è il classico esempio del capro espiatorio, significa che, da un punto di vista archetipico, stanno agendo inconsciamente tre scenari mitici e quindi inconsci.

Nel primo caso è il dio Chronos ad entrare in azione o meglio, l’istanza psichica da lui simbolizzata, che sebbene affermasse pubblicamente «Io non sarò mai come mio padre Urano», similmente al genitore rinnega la sua progenie, o meglio ancora, fuor di metafora, usa le idee dei collaboratori senza riconoscerne pubblicamente il contributo.

Il secondo rappresenta il dio  Φαέθων – Phaeton che per invidia o per senso di inferiorità nei confronti dell’amico πφος– Epafos, il figlio di Zeus, prende le redini del carro del padre Apollo per dimostrare il proprio valore ed invece combina un vero e proprio disastro.

Ed in fine nel terzo caso, il Tizio del terzo esempio incarna la Chimera (dal greco χίμαιρα – chimaira , capra) il mostro che simbolizzando le contraddizioni, le incapacità a far fronte alle difficoltà che coesistono all’interno del luogo di lavoro, va invece sacrificato, fuor di metafora isolato, per placare i sensi di colpa causati dall’incapacità di misurarsi in maniera creativa, con quelli che sono i veri problemi che attanagliano l’azienda.

l mito della tecnica e della ragione


Un altro mito che pervade le aziende è di ritenere che per poter superare le crisi e le difficoltà, per essere vincenti sul mercato e primeggiare sui concorrenti, bisogna operare sempre in modo logico e razionale, investire in strumenti che permettono di migliorare sia l’efficienza produttiva che l’organizzazione del lavoro.

In realtà anch’esso è figlio della repressione e della negazione dell’ansia causata dall’angoscia di perdere il posto del lavoro, che è lo strumento per procacciarsi il sostentamento (gli utili nel caso degli azionisti) e che nel nome della fiducia incrollabile nei confronti della Ragione, finisce per deprimere, umiliare e ledere gli aspetti a nostro avviso più autentici e preziosi degli individui, ovvero le loro emozioni, i loro sentimenti e la loro dignità.

Il mito del controllo 


Un altro mito, o come la definisce la psicoanalisi prevalente, la formazione reattiva, causata dalla paura negata e/o repressa che l’azienda possa fallire, consiste nel controllo.

Ogni azienda, ogni istituzione o associazione ha la doverosa necessità di istituire dei sistemi di controllo finalizzati alla verifica che non vi siano dispersioni, furti, sprechi di denaro o di tempo.

Talvolta, questo processo, da mezzo finalizzato ad una corretta ed oculata gestione ad ogni livello e funzione, sfugge di mano e diventa il fine. Quando ciò avviene, il sintomo rappresentato da questo mito, si manifesta tramite colei o colui che mette in atto questi controlli, il quale (ovviamente ciò non è sempre vero), più che temere di perdere il controllo sulla struttura, è preoccupato di perdere il controllo di sé.

Ma quand’è che si teme di perdere il controllo di sé stessi? 

Si perde il controllo di sé tendenzialmente quando si teme di non avere abbastanza fiducia nelle proprie qualità e nel proprio valore.

Ma direte, com’è possibile che manger laureati nelle università più prestigiose, che hanno frequentato Master presso le scuole di formazione più rinomate e che esteriormente appaiono dotati di sicurezze granitiche, dovrebbero avere poca fiducia in sé stessi?

Perché sono esseri umani. (e a questo punto si potrebbe parlare, ma questa volta non ci asterremo, del falso mito secondo cui il conseguimento di un titolo di studio comporti anche un’espansione della consapevolezza di sé e quindi, al progressivo raggiungimento dell’equilibrio interiore).

A tal proposito, il professore di Harvard ed dell’Insead, Manfred Kets de Vries, ha pubblicato diversi libri, alcuni dei quali li trovate in bibliografia, che smascherano il mito del dirigente freddo, infallibile e risoluto.

Il problema è che queste paure ed insicurezze, si riverberano sia sui familiari, ma questo attiene alla loro sfera privata, che sulle aziende, portano a definire sistemi di pianificazione e monitoraggio che, nei casi più esasperati, portano a distrarre le risorse umane (e non) che gli sono state affidate da quelle che sono le vere priorità del business, ma soprattutto pregiudicando la tanto agognata efficienza.

Pertanto, quella che dovrebbe essere la medicina il cui compito dovrebbe essere quello di prevenire il male, finisce per diventare il veleno che distrugge, paralizza e soffoca le aziende.

Ma c’è un altro effetto collaterale, questa volta un sottinteso, che riguarda i collaboratori e che consiste nel trasmettere loro il messaggio del, «Io non mi fido di te».

Ciascuno di noi avrà probabilmente, almeno una volta nella vita sperimentato quanto distruttiva possa essersi rivelata, soprattutto durante la fase di crescita e sviluppo, la sfiducia da parte di una figura di riferimento, genitore o insegnante che sia e riuscirà pertanto ad immaginare facilmente gli effetti che la sfiducia ha sulla motivazione.

Il mito del cambiamento e della crisi come opportunità di crescita


Un altro mito che pervade le aziende é quello che riguarda non tanto un aspetto della filosofia Zen rappresentato dal miglioramento continuo, ma quello che riguarda la sua ombra, in senso junghiano ovviamente, del mito del cambiamento.

Soprattutto in questi tempi di crisi, leggiamo e ci sentiamo dire che «la crisi è un’opportunità» ed anzi, per poterle prevenire, saremmo costretti a cambiare continuamente.

A dire il vero, questa filosofia viene efficacemente già applicata nei settori creativi come quello della moda, dello spettacolo e dell’arte, ma riversarla tout court a tutti gli altri settori senza prima un’adeguata verifica se il cambiamento comporta un miglioramento o meno, può anche essere pericoloso.

Questo mito, purtroppo, nasconde anche un’insidia che finisce per popolare l’inconscio collettivo dell’organizzazione e che consiste nel concetto non verbalizzato e quindi sottaciuto, che «se tu non cambi, sei fuori».

Ora, al di là degli inevitabili timori riguardanti il proprio destino economico, che però esulano dal nostro contesto, ciò che si rivela letale per la stabilità emozionale e psichica dei collaboratori è che si sta dicendo a livello subliminale: «tu così come sei non mi piaci» evocando quindi sempre a livello inconscio immagini legate all’infanzia, quando eravamo costretti a modificare il nostro comportamento per essere accettati dai nostri genitori.

Quest’ultimo non detto, a nostro avviso è ben più destabilizzante della sottintesa mancanza di fiducia fatta risuonare dall’eccesso di controllo, perché qui il vero tema, non è «cosa posso modificare affinché l’azienda per cui lavoro resti competitiva» ma risuona fino al piano più intimo e primordiale che c’è in noi.

Ovvero, “Cambiare per non perdere l’amore dei nostri genitori”.

Continueremo la nostra analisi nella prossima uscita.


Bibliografia

  • Daniel Goleman (1996): “Intelligenza emotiva” – Rizzoli editore
  • Daniel Goleman (1998): “Lavorare con intelligenza emotiva” – Rizzoli editore
  • Gian Piero Quaglino: Leadership (2005) ed. Cortina.
  • Gian Piero Quaglino: Psicodinamica della vita organizzativa (1996) ed. Cortina
  • James  Hillman – Articolo di presentazione della Psicologia Archetipica sul sito Treccani:
  • James Hillman – Re-visione della psicologia Edizione Adelphi 1983
  • James Hillman – Il codice dell’anima Adelphi 1996
  • Jean Sinoda Bolen : Gli dei dentro la donna (1993) Casa editrice Astrolabio
  • Jean Sinoda Bolen. Gli dei dentro l’uomo. Casa editrice Astrolabio. 1995
  • Jean-Pierre Vernant – Mito e religione in Grecia antica 2009
  • Manfred Kets de Vries – Danny Miller (1992)  “L’organizzazione nevrotica: una diagnosi in profondità dei disturbi e delle patologie del comportamento organizzativo” Raffaello Cortina”
  • Manfred Kets de Vries – Leader, giullari e impostori (1996) – Raffaello Cortina editore
  • Manfred Kets de Vries  – Successi e fallimento della Leadership – Ferrari e Sinibaldi 2017
  • Massimo Biecher : Evoluzione del concetto di leadership nel mondo delle aziende italiane e statunitensi – Cosa rende un leader una persona di valore che ha impatto sulle persone? – Nuova Atletica ricerca in Scienze dello Sport – ANNO XLII – N. 244-245 ripubblicato sul sito academia.edu
  • Massimo Biecher : L’altra faccia della leadership. Saper guidare le persone verso gli obiettivi  Nuova Atletica ricerca in Scienze dello Sport – ANNO XLII – N. 246 ripubblicato sul sito academia.edu
  • Massimo Biecher : La responsabilità degli obiettivi – Nuova Atletica ricerca in Scienze dello Sport- ANNO XLII – N. 247-248 ripubblicato sul sito academia.edu
  • Massimo Biecher : Emozioni e Leadership Nuova Atletica ricerca in Scienze dello Sport  – Nuova Atletica ricerca in Scienze dello Sport – ANNO XLII – N. 249 – ripubblicato sul sito academia.edu

Massimo Biecher

Ha lavorato per medie e grandi aziende, anche quotate alla borsa di Milano, sia del settore costruzioni civili che del settore beverage, organizzando e gestendo canali e reti di vendita in Italia e all’estero. Attento osservatore delle dinamiche relazionali, trova nella psicodinamica organizzativa ed in particolare nelle pubblicazioni del prof. Gian Piero Quaglino e dello psicanalista e docente di Harvard e dell’INSEAD, Manfred Kets de Vries, un modello nel quale l’individuo viene posto al centro del mondo del lavoro.Questa visione fa si che il focus si sposta dalle organizzazioni alle relazioni interpersonali, analizzate mediante gli strumenti forniti dalla psicoanalisi di stampo junghiano.Combinando questi studi con la pratica operativa, su una rivista edita sotto l’egida del Fidal-CONI e di un comitato tecnico scientifico intitolata “Nuova Atletica: ricerca in scienze dello sport”, ha pubblicato diversi articoli che si proponevano di illustrare questa visione agli allenatori di atletica leggera chiamati non solo ad ottenere risultati ma soprattutto a formare e trasmettere valori positivi ai giovani atleti. Successivamente, spinto dalla necessità di ricercare una prospettiva che ponesse al centro il mondo delle emozioni e degli impatti che esse hanno sul mondo del lavoro, è approdato agli studi dello psicoanalista americano James Hillman, il quale, partendo dalla riscoperta del mondo classico che è avvenuta durante il rinascimento italiano per merito di alcuni intellettuali come Marsilio Ficino, Nicolò Cusano, Giambattista Vico e molti altri, ha scorto nel modello che, nei simboli e nelle immagini contenute nei racconti della mitologia greca, intravvede la strada che conduce alla conoscenza di sé ed alle leggi che regolano i rapporti tra le persone.Dal 2020 pubblica mensilmente su un web magazine articoli che, rileggendo attraverso le lenti della psicologia archetipica i miti dell’antica Grecia, mirano a far tornare in vita immagini, emozioni e sentimenti che essi evocavano negli antichi.Ha partecipato con dei contributi personali alla pubblicazione di due libri, ed uno, di cui è il solo l’autore, uscirà a breve.




LA CLESSIDRA PIÙ GRANDE DEL MONDO⏳

A Oda, in Giappone, si trova il Museo della Sabbia (Nima Sand Museum), costruito nel 1991 su progetto dell’architetto Shin Makamatsu.
È costituito da sei piramidi di varie dimensioni e al centro della piramide maggiore è ospitata la CLESSIDRA PIÙ GRANDE DEL MONDO che è alta più di 5 m e pesa 560 kg.
Ha un diametro di 1 m ed è riempita con 629.100.000.000 (più di 629 miliardi!) di granelli di sabbia che pesano 1.000.368 g (più di una tonnellata!).
Si tratta della sabbia della vicina spiaggia di Kotogahama, famosa per essere tra le poche al mondo ad avere una “sabbia che canta”. (Bitta ne ha parlato il 19 settembre scorso).
Prima di essere sigillata nella clessidra è stata setacciata in modo tale che ogni granello misurasse in media 0,11 mm e scorresse continuamente attraverso un ugello di 0,84 mm di diametro. L’enorme clessidra viene capovolta ogni 31 dicembre a mezzanotte, dopo che l’ampolla superiore ha impiegato esattamente un anno per svuotarsi in quella inferiore.

Cieli sereni
PG




Winckelmann aveva ragione…(e Charbonneux con lui ;-))

Non sopporto le icone russe l’arte finto pop la transavanguardia italiana i graffiti punk inglesi …neanche l’etnica africana. (semicit. da Franco Battiato, 1982)

Prima premessa: Jean Charbonneux (1895-1969), il più famoso archeologo classico francese – che amava considerarsi “un ateniese che il fato aveva voluto far nascere in Francia affinché potesse dirigere da grande un dipartimento del Louvre” – scriveva così nel 1969:

Se oggi è difficile, forse per la prossima generazione sarà impossibile comprendere e soprattutto sentire profondamente ciò che ha significato nell’Antichità classica, e anche per qualche grande scultore recentemente scomparso, il tipo statuario dell’uomo nudo in piedi.

Niente è stato più esaltante per un disegnatore, per un pittore, e soprattutto per uno scultore, della creazione sempre rinnovata di questo essere che guarda al mondo dalla sua statura e sfida il cielo”

Charbonneux è morto nel 1969, tre anni prima del ritrovamento dei Bronzi nel mare, al largo di Riace. Ma le sue profetiche parole riescono a descrivere – come nessun altro in seguito – lo spirito classico, umanistico e intrinsicamente greco dei due capolavori.

Seconda premessa: Johann Joachim Winckelmann (1717- 1768), archeologico e storico dell’arte tedesco, considerato (a ragione) il padre nobile del neoclassicismo, teorizzava il bello ideale attraverso la “nobile semplicità” e la “quieta grandezza” delle sculture greche. E, si pensi, il suo giudizio si basava solo sulle copie in marmo di età romana…chissà come avrebbe commentato la scoperta dei due originali bronzei, avvenuta quasi due secoli dopo la pubblicazione del suoi saggio “Gedanken über die Nachahmung der griechischen Werke in der Malerei und Bildhauerkunst” [Pensieri sull’imitazione delle opere greche in pittura e scultura] , dal quale riportiamo questo passo:

«La generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell’espressione. Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata.»

Ebbene, Il bronzo “B” (“il vecchio”), dalla postura nobilmente rilassata e lo sguardo non focalizzato, concretizza esemplarmente il suo pensiero, molto più del bronzo “A” (“il giovane”) che, al confronto, appare più teso e pronto all’azione, con il capo ruotato, l’espressione ostile del volto e la evidente contrazione dei muscoli delle spalle e del collo.

Non a caso la datazione del “Bronzo B”, per alcuni studiosi, viene collocata intorno al 430 a.C., coincidente quindi con il termine della “Età di Pericle”, il periodo di massimo splendore di Atene, l’apogeo del mondo classico; mentre la realizzazione del “Bronzo A” per la maggior parte degli esperti, dovrebbe essere più antica di una trentina d’anni, quindi nel periodo finale del cosiddetto “stile severo” (460 a.C.).

Lo stle severo fu artisticamente dominato da Mirone di Elèutere, l’autore del Discobolo, (originale in bronzo perduto, ca. 480 a.C., qui illustrato attraverso una copia in marmo di età romana – detta “Discobolo Lancellotti”, conservata a Palazzo Massimo a Roma)

Non sono mancate, inevitabilmente, delle attribuzioni del Riace A a Mirone, ma questa tesi ci appare oggi piuttosto debole per una serie di considerazioni:

  • il Discobolo rimane lontano dall’equilibrio pacato, perfetto, “classico”,del Riace “B”, ma non ha neanche raggiunto la naturalezza attiva del Bronzo “A”, nei confronti del quale appare in posa mimica, enfatizzata. Il Discobolo evoca teatralmente l’idea di movimento, ma ancora non lo rappresenta dinamicamente. La persistenza del preclassicismo si rivela dalla costruzione della figura, ancora più vicina al rilievo che alla statuaria a tutto tondo, e all’immobilità calligrafica della muscolatura della parte frontale del torso (quella posteriore non è altrettanto definita).
  • Questa sua ricerca mirata dell’atteggiamento “istantaneo” riscontrabile chiaramente anche nel suo gruppo di Atena e Marsia, si ricollega agli analoghi tentativi fatti in questo senso fin dall’estremo arcaismo, (si vedano i frontoni di Egina) per fissare la vita nell’opera d’arte, cogliendola, ma anche arrestandola, nel momento topico del movimento.
  • I Bronzi di Riace, al pari del Doriforo di Policleto, presentano già la soluzione formale più strettamente “classica” utilizzata per vitalizzare le statue, che resterà valida per tutta l’antichità, verrà ripresa nel Rinascimento ad opera di Donatello (David, 1430; Michelangelo, (David, 1501-4) Cellini (Perseo, 1546) e che consiste nel rappresentare la possibilità di movimento anziché il movimento stesso, attraverso una figura ferma ma non rigida, grazie a ritmi rigorosi e al bilanciamento ponderato delle parti del corpo. La possibilità di movimento infonde davvero un soffio vitale alla statua, mentre rappresentare in una azione accentuata ne pone in evidenza la effettiva ed artificiosa staticità.
  • Se ci fidiamo del giudizio estetico di Cicerone (…vogliamo fidarci…), che ricorda Mirone come capace di eseguire opere “non ancora vicinissime alla verità; nondimeno non si esiterà a dichiararle belle; quelle di Policleto sono ancora più belle e già veramente perfette, secondo la mia opinione” , considerando le stupende fattezze anatomiche del “giovane” Bronzo “A”, l’attribuzione a Mirone dovrebbe essere esclusa a priori.
  • Plinio e Pausania ricordano Mirone per le statue degli atleti vittoriosi ai giochi olimpici e altre rappresentazioni (“Atene e Marsia”, “la Vacca”) ma non lo menzionano mai per uno o più guerrieri, e Riace A guerriero lo è, senza alcun dubbio.

Oltre a Mirone, sono state avanzate numerose altre ipotesi (alcune diremmo fantasiose e di fatto smentite da accertamenti scientifici successivi) relative agli autori, ai personaggi rappresentati e alla collocazione dei Bronyi di Riace; le riassumiamo di seguito in forme tabellari, dividendole in due gruppi, quelle antecedenti al restauro del 1995 e quelle successive.

Ipotesi ante restauro 1995 (fonte: Wikipedia)

studioso collocazione personaggio A personaggio B scultore A scultore B datazione A datazione B
Stucchi Magna Grecia Euthymos Euthymos Pitagora di Reggio artista magnogreco 470 a.C. 425 a.C.
Paribeni Magna Grecia un eroe, forse Aiace Oileo uno stratego artista peloponnesiaco artista atticizzante 460450 a.C. 410400 a.C.
Rolley ? eroe eponimo attico? eroe eponimo attico artista attico scuola fidiaca 460 a.C. 430 a.C.
Dontàs Agorà di Atene eroe eponimo eroe eponimo Mirone Alkamenes 450 a.C. 450 a.C.
Harrison Olimpia donario degli Achei donario degli Achei Onatas Onatas 470460 a.C. 470460 a.C.
Di Vita Grecia atleta oplitodromo atleta oplitodromo artista attico, forse Mirone artista attico 460 a.C. 430 a.C.
Holloway Sicilia ecista fondatore ecista fondatore bronzista siceliota bronzista siceliota. metà V secolo a.C. metà V secolo a.C.
Ridgway Collocazione in epoca romana guerriero di un poema epico guerriero di un poema epico scuola eclettica e classicistica scuola eclettica e classicistica I secolo a.C. – I secolo d.C. I secolo a.C. – I secolo d.C.

Ipotesi post restauro 1995 (fonte: Wikipedia)

studioso collocazione personaggio A personaggio B scultore A scultore B datazione A datazione B
Moreno Argo Tideo Anfiarao Hageladas Alkamenes 450 a.C. 440 a.C.
Castrizio Argo Polinice Eteocle Pitagora di Reggio Pitagora di Reggio V secolo a.C. V secolo a.C.
Spatari Bruzio ed Etruria eroe dello Stretto eroe del fiume Sagra Vulca di Veio scuola etrusca 500 a.C. 520 a.C.
Brinkmann, Koch-Brinkmann AteneAcropoli Eretteo Eumolpo Mirone? ? 440 a.C. 440 a.C.

Un docente di Scienze Motorie specializzato in Anatomia, il prof. Riccardo Partinico, ha recentemente elencato tredici motivi che smonterebbero tutte le ipotesi sopra elencate. Li riportiamo qui punto per punto, senza commenti:

  1. “Le due statue sono state realizzate a metà del V sec. a.C., lo stile artistico le colloca a distanza di trent’anni l’una dall’altra, la statua A nel 460 a.C. e la statua B nel 430 a.C.. Gli esami con il C14 sono stati svolti dal CEDAD di Unisalento diretto dal prof. Calcagnile.
  2. l’argilla estratta dall’interno delle due statue non proviene solo da Argo, ma da due ambienti diversi situati in un vasto bacino idrogeologico compreso tra Atene, Corinto ed Argo. Anche l’argilla contenuta nel braccio destro della “Statua B”, riparato nei secoli successivi al V sec. a.C. proviene dalla Grecia e non da Roma come ha riferito, erroneamente, il giornalista Paolo Di Giannantonio a Radio Vaticana lo scorso 12 aprile (2024, ndr). Il prof. Ludovico Rebaudo durante la Conferenza internazionale svoltasi a Reggio Calabria nel 2022 ha spiegato a tutti i presenti, compreso l’attuale direttore e lo studioso interessato, che le terre estratte dalle due statue non sono identiche e provengono da due luoghi completamente diversi, quella della “Statua A” è ricca di inclusi e quella della “Statua B” è composta di una matrice argillosa fine e con pochi quarzi.
  3. L’Istituto Centrale per il Restauro ha accertato che la percentuale dei metalli utilizzati per comporre il bronzo e lo spessore medio della lamina delle due statue sono diversi, 8,5 mm nella “Statua A” e 7,5 mm nella “Statua B”.
  4. La tecnica manuale per assemblare la parte interna con le lamelle di argilla, i peli di animali, i bastoncini in legno, i chiodi a testa quadrata e le strutture di ferro di forma quadrata è stata materialmente svolta da artisti diversi che hanno anche lasciato le impronte digitali impresse nell’argilla.
  5. Il noto restauratore dei Bronzi di Riace, Nuccio Schepis, assieme alla collega Paola Donati, ha accertato che gli occhi in calcite sono stati incastonati in maniera differente, nella “Statua A” sono stati bloccati con alcune graffette, nella “Statua B”, l’unico occhio risulta essere stato bloccato con un incastro piramidale.
  6. Lo stile artistico delle due statue è diverso, la “Statua A” in stile “Severo” caratteristico del periodo 480/450 a.C., la “Statua B” in stile “Classico”, successivo all’anno 450 a.C..
  7. Nel periodo di realizzazione delle due statue, precisamente nell’Età di Pericle 460/429 a.C., né Tebe, né Argo, avevano soldi da spendere per realizzare costosissime statue in bronzo, in particolare quelle di due personaggi mitologici fratricidi di cui uno era il traditore di Tebe al quale, nel racconto mitologico, veniva anche negata la sepoltura da parte dello zio Creonte, Re di Tebe.
  8. A metà del V sec. a.C. Atene custodiva i contributi versati dalle città componenti la Lega di Delo (478 a.C. / 404 a.C.), e poteva investire nella ristrutturazione del territorio devastato dai persiani durante le guerre svolte dal 490 al 480 a.C. e nella realizzazione del patrimonio artistico e storico, infatti, Pericle in quel periodo fece realizzare da Fidia numerose statue per onorare dei ed eroi delle guerre vinte contro i persiani. Intorno al 460 a.C. Fidia realizzò la statua di Atena Pròmachos (“che combatte in prima linea”), nel 450 a.C. la statua di Apollo Parnòpios (“sterminatore di cavallette”), nel 448 a.C. la statua di Atena Lémnia (detta “La Bella”, per l’isola di Lemno), nel 438 a.C. la statua crisoelefantina di Athena Parthénos (“la vergine”, alta circa 12 metri), nel 432 a.C. la statua di Zeus Olimpio (anche questa alta circa 12 metri). Altre statue in bronzo di statisti e di militari che avevano combattuto per difendere Atene -mi riferisco a Santippo, Milziade, Temistocle, Cilone, Pericle ed altri eroi- furono descritte da Pausania, Tucidide, Plutarco e da altri A8 antichi.
  9. I tenoni di cui erano fornite le due statue, quattro tenoni la “Statua B” ed un tenone la “Statua A” provengono dalle miniere di Laurion, vicinissime ad Atene e distanti circa 200 km da Argo, città dove si vuole ad ogni costo collocare le due statue.
  10. I due Reperti 12801 e 12802 sono stati denominati sin dal 1981 dagli Archeologi che li hanno analizzati il “Giovane” ed il “Vecchio” perché risulta palese la differenza d’età.
  11. Lo studio anatomico effettuato sulle due statue mette in evidenza numerose alterazioni scheletriche, la perfetta somatometria dei muscoli ed il corretto posizionamento delle vene delle mani e dei piedi che esprimono “vitalità”. Nella “Statua A” è presente il progenismo mandibolare ed l’iperlordosi lombare; nella “Statua B” si nota il cranio dolicocefalo, la rettilineizzazione delle vertebre cervicali, la scoliosi dorso-lombare, il varismo del quinto dito dei piedi e l’appiattimento ed allargamento della volta plantare. Tali dismorfismi e particolari anatomici confermano che le due statue rappresentano soggetti realmente vissuti e non personaggi mitologici che sarebbero, invece, stati rappresentati senza alterazioni scheletriche.
  12. Eteocle e Polinice erano fratelli gemelli, ecco perchè era nata la disputa su chi doveva comandare Tebe. Infatti, nel racconto mitologico di Eschilo, Creonte assunse il comando di Tebe fino a quando Eteocle e Polinice non avrebbero raggiunto la maggiore età. Maggiore età che fu raggiunta contemporaneamente dai due fratelli, al punto che si dovette sorteggiare il primo dei fratelli che avrebbe assunto il comando di Tebe.
  13.  Le due statue non presentano alcuna somiglianza, né fisica, né fisionomica, sono due soggetti completamente diversi, non esprimono alcuna comunicazione corporea, sono corpi scollegati dal punto di vista posturale, mimico e gestuale. La postura e la gestualità delle due statue sono identiche, sono quelle di un militare in posizione di riposo, dotato di armi dell’epoca, che non esprime alcuna azione, né di attacco, né di difesa. Sui vasi della stessa epoca, vedi per esempio il combattimento mitologico tra Ettore ed Achille o quello tra Achille e Pentesilea, è espressa la dinamicità dell’azione aggressiva, nei racconti di Omero nell’Iliade, libro XXIII riguardo i lottatori, è espressa dinamicità: “Nel mezzo della lizza entrambi accinti presentarsi, e stringendosi a vicenda colle man forti s’afferrar, siccome due travi, che valente architettore congegna insieme a sostenere d’eccelso edificio il colmigno, agli urti invitto degli aquiloni. Allo stirar de’ validi polsi intrecciati scricchiolar si sentono le spalle, il sudor gronda, e spessi appaiono pe’ larghi dossi e per le coste i lividi rosseggianti di sangue”. Nei Bronzi di Riace, che dovevano rappresentare due fratelli fratricidi in uno scontro all’ultimo sangue, il nulla, statici nella stessa postura. Uno con la smorfia e l’altro impassibile guarda, imperturbabile, avanti verso il basso”.

Lo stesso Partinico, pur non essendo un Archeologo né uno Storico dell’Arte, si è sbilanciato con due ipotesi di individuazione dei personaggi rappresentati, realmente vissuti: Pericle e Temistocle.

L’ipotesi dettagliata del prof. Partinico

“I Bronzi di Riace, custoditi presso il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, potrebbero rappresentare gli Ateniesi Temistocle e Pericle, politici di spicco e militari famosi per aver guidato gli eserciti alla vittoria nelle più importanti guerre nel V secolo a. C.. L’ipotesi è fondata sulla comparazione dei risultati delle analisi effettuate dal ministero per i Beni Culturali con gli studi anatomici, le deduzioni e le ricerche storiche che ho svolto sin dall’anno 2005, quando presso la Biblioteca di Reggio Calabria ho presentato le mie prime intuizioni” (cit.)

Luogo e data di realizzazione

L’Istituto Centrale per il Restauro ha effettuato analisi chimiche, tecniche ed archeologiche, rilevando dati incontrovertibili. L’argilla che componeva le strutture interne delle due statue proveniva da microambienti differenti situati in un unico bacino geologico in territorio greco, tra Atene, Corinto ed Argo. Non è possibile individuare la località esatta perché l’argilla greca è molto simile per composizione di minerali. La “Statua A” è stata realizzata nel 460 a.C. e la “Statua B” nel 430 a.C., periodo storico coincidente con l’ “Età di Pericle”.

Autori

L’accertata diversità del periodo di realizzazione, delle tecniche e dei materiali adoperati per strutturare la parte interna, della composizione dei metalli, degli stili artistici e della provenienza dell’argilla, consentono di dedurre che le due statue sono state realizzate da Autori differenti e non possono far parte della stessa scena artistica.

Deduzioni

Le perfette proporzioni dei muscoli scheletrici, le tipicità dei crani, e, soprattutto, le alterazioni scheletriche che si osservano nei corpi delle due statue e che all’epoca erano sconosciute, permettono di dedurre che esse rappresentano due persone realmente vissute di cui si è voluta raffigurare la fisionomia. Quindi, i Bronzi di Riace non possono rappresentare i personaggi mitologici -Etéocle e Polinìce, Anfiarào e Tidéo, Càstore e Pollùce, Erettéo ed Eumòlpo- individuati da altri studiosi.

Studio anatomico della Statua A

Il cranio della “Statua A” è di tipo mesocefalo. Nel sistema scheletrico, normolineo, sono evidenti due dismorfismi: il progenismo mandibolare e l’iperlordosi lombare. Il primo dismorfismo, caratterizzato dall’avanzamento della mandibola, mette in risalto i denti dell’arcata superiore. Il secondo dismorfismo, determinato dalla compensazione del progenismo mandibolare, si manifesta con la riduzione della curvatura delle vertebre lombari, il bacino arretrato, i glutei sollevati e gli addominali avanzati. Il cranio dell’uomo rappresentato è ruotato a destra di circa 40 gradi e, considerato che gli arti superiori esprimono i gesti inconfondibili di chi sostiene con l’avambraccio sinistro uno scudo e con la mano destra una lancia, per deduzione, quel capo dovrebbe accogliere un elmo a completamento della classica dotazione di armi utilizzate dai militari.

Studio anatomico della Statua B

Il cranio della “Statua B” è di tipo dolicocefalo. Nel sistema scheletrico sono evidenti tre dismorfismi: la rettilineizzazione delle vertebre cervicali, la scoliosi dorso/lombare ed il varismo del 5° dito dei piedi. Il primo dismorfismo è stato causato, probabilmente, dalla forma del cranio, allungata esageratamente in senso antero/posteriore, che ha indotto le vertebre cervicali a perdere la normale curva di lordosi, ad allinearsi lungo l’asse longitudinale per far ritrovare al cranio una posizione baricentrica e compensare lo squilibrio. La scoliosi dorso/lombare, prodotta dalla rotazione di alcune vertebre attorno al proprio asse, è stata causata, probabilmente, da posture asimmetriche mantenute costantemente dal personaggio rappresentato ed, anche, per la compensazione dovuta agli altri dimorfismi evidenti in quello scheletro. Il terzo dismorfismo, il varismo del 5° dito dei piedi, dovrebbe essere di natura ereditaria, così come la struttura scheletrica del 2° dito che risulta appena più lungo dell’alluce ed è tipico del cosiddetto “piede greco”. Il capo è leggermente flesso, la postura è militare e le armi in dotazione, sono le stesse di quelle descritte per la “Statua A”.  

I muscoli

I muscoli scheletrici dei due personaggi rappresentati dalle statue presentano differenze ipertrofiche e somatometriche che caratterizzano l’età biologica dei due soggetti. Il personaggio rappresentato dalla “Statua A” risulta essere più giovane e vigoroso di quello rappresentato dalla “Statua B”.

Il tipo di ipertrofia muscolare visibile in entrambe le statue è caratteristico della capacità condizionale denominata in fisiologia forza/resistente che si sviluppa praticando discipline di combattimento, quali la Lotta, il Pugilato ed il Pancrazio, tipiche dell’addestramento base di tutti i Guerrieri Greci. Alcuni segni caratteristici della Lotta si notano nel personaggio rappresentato dalla “Statua B”. Le orecchie sono asimmetriche. Nella cartilagine dell’orecchio destro il Trago e la parte anteriore della Fossa Scafoide risultano consumati. Nell’orecchio sinistro il Trago risulta consumato e nel Lobo, nell’Anti-Trago, nell’Anti-Elice, nell’Elice e nella Fossa Scafoide sono presenti otoematomi. La fisionomia degli arti inferiori della “Statua B”, per l’evidente ipertrofia muscolare dei glutei, degli adduttori e dei tricipiti della sura, è compatibile con chi va a cavallo.

Pericle

La “Statua B” dei Bronzi di Riace rappresenta un guerriero greco con un particolare anatomico che caratterizza la sua testa, allungata esageratamente in senso antero/posteriore. Per cinquant’anni si è creduto erroneamente che quella parte allungata a dismisura fosse una porzione creata volutamente dall’Artista per far calzare l’elmo. Lo studio anatomico ha invece rilevato che quello è un vero e proprio cranio, di tipo dolicocefalo e che l’alterazione inizia con l’appiattimento dell’osso frontale a partire dal primo terzo, sopra le orbite, e si congiunge alle due ossa parietali, anch’esse appiattite ed allungate in senso antero/posterioreSe, come avevano creduto gli studiosi la forma allungata della testa fosse stata una porzione aggiuntiva, l’osso frontale avrebbe avuto una forma regolare, così come quello della “Statua A”.

Dal punto di vista statuario, allungare una testa per far calzare un elmo è irragionevole considerato che la parte che sostiene e mantiene incastrato un elmo è il bordo che poggia sopra l’osso frontale, ai lati sopra le orecchie ed alla base dell’osso occipitale, Inoltre, sarebbe l’unico caso nella storia dell’Arte e dell’Archeologia. Dopo tali considerazioni si può affermare in termini scientifici che il personaggio rappresentato dalla “Statua B” presenta un cranio di tipo dolicocefalo, esageratamente allungato in senso antero/posteriore. Nelle fonti letterarie del V secolo a.C., l’unico personaggio di cui si fa riferimento per avere una forma particolare della testa, èPericle.  Plutarco, nella sua opera “Vite Parallele”, riporta gli scritti di Erodoto e del Commediografo Cratìno che soprannominavano Pericle “Schinocefalo” per avere la testa allungata indietro come una cipolla marina. Èupoli scrive che nella testa di Pericle entravano 11 letti.  Partendo da questa particolare ed unica forma del cranio rappresentata dalla “Statua B” e confrontandola con i dati chimici e scientifici  rilevati con il “carbonio 14” e con i dati geografici e storici l’ipotesi prodotta dal Prof. Partinico assume molta consistenza per un insieme di indizi precisi e concordanti.

Pericle ha governato Atene dal 460 al 429 a.C. proprio nel periodo e nel territorio di realizzazione della statua; lo scultore Fidia, amico personale di Pericle,fu incaricato in quello stesso periodo, di coordinare la ristrutturazione del Partenone e degli edifici distrutti durante le guerre persiane e di realizzare statue in bronzo di divinità ed eroi ateniesi che avevano difeso ed onorato la città. Pericle fu rappresentato da Fidia mentre combatteva contro un’Amazzone, armato di scudo, lancia ed elmo, sullo scudo della statua di Athena Parthenos. Pausania, nella sua opera “Descrizione della Grecia”, elenca tra le statue viste nell’Acropoli di Atene una statua di Pericle esposta di fronte a quella di Santippo. Plutarco, nelle “Vite parallele”, scrive dell’esistenza di statue di Pericle che dovevano essere realizzate con l’elmo sul capo per nascondere la deformità della testa e di Tucidide, che, interpellato da Archidamo II, Re di Sparta, su chi fosse più bravo nella Lotta tra lui e Pericle, rispose: Vinco io, ma Pericle, che non accetta mai di perdere, fa credere il contrario anche a quelli che hanno visto”.

Temistocle

La “Statua A” dei Bronzi di Riace è stata realizzata trent’anni anni prima della “Statua B”, nella stessa area geografica e rappresenta anch’essa un guerriero greco. Atene fu governata in successione da Temistocle, Cimone e Pericle. Temistocle, promotore del potenziamento militare navale di Atene fin dal 493 a.C., è stato l’eroe delle battaglie di Maratona, Capo Artemisio e Salamina, il condottiero che più di tutti ha contribuito alla vittoria della Grecia contro la Persia del Re Serse. Temistocle morì in esilio nel 459 a.C. e Pericle riabilitò la sua memoria, riconoscendolo come un eroe della causa ateniese. Le copie romane di originali del V secolo a.C. che rappresentano i volti di Pericle e Temistocle, custodite presso i Musei Vaticani, sono molto simili per fisionomia ai Bronzi di Riace”. 

Azzardiamo le nostre conclusioni…

Plinio il Vecchio stila la “top four” dei bronzisti greci, riprendendola da Senocrate di Sicione:

1) Fidia

2) Policleto 

3) Mirone;

4) Pitagora di Reggio.

inoltre, riferendosi all’arte di Mirone e di Pitagora, Plinio afferma a proposito della statua del Pancratiaste di quest’ultimo :

«lo superò Pitagora di Reggio in Italia col Pancratiaste dedicato a Delfi […]. Fece anche Astilo che si vede a Olimpia […]; a Siracusa fece poi uno Zoppo[1] tale che anche a chi lo guarda sembra di sentire il dolore della sua piaga […]; Pitagora fu il primo a riprodurre i tendini e le vene e il primo a trattare i capelli con maggiore diligenza degli altri, suddividendoli con precisione.»

(Plinio il Vecchio XXXIV 59)

Insomma, tra Mirone e Pitagora il livello doveva essere paragonabile se non equivalente, e il terzo posto di Mirone è probabilmente stato assegnato di misura. Vero è che Pitagora viene indicato come il primo scultore ad avere una cura minuziosa di particolari come capelli, tendini e vene; un’attenzione che è tipica dello stile severo e che non riguarda il minuto particolare fine a se stesso, ma la struttura dell’anatomia umana indagata come un tutto organico. Vero anche che i due Riace abbondano in questi particolari anatomici, ma essere il primo cronologicamente non significa essere l’unico, anzi…Inoltre, tornando a Pitagora, le caratteristiche del suo lavoro hanno permesso di attribuirgli dubitativamente moltissime opere e diversi capolavori dell’arte scultorea di passaggio tra lo stile severo e quello protoclassico. Come accaduto per Mirone, le numerose opere attribuite a Pitagora dagli antichi (Plinio e Pausania) sono soprattutto statue di atleti vincitori a Olimpia e a Delfi; ma anche eroi mitologici e effigi divine, tutte perdute e nessuna copia dei suoi lavori è stata identificata con certezza. Alcune citate dalle fonti sono in parte riconoscibili in bronzetti, altre in riproduzioni fatte su gemme, cammei, o sulle monete siciliane e italiote.

Ma le recenti tesi secondo le quali potrebbe essere l’autore di una o addirittura due Riace secondo noi non sono minimamente sostenibili (i riccioli freack del Bronzo A hanno probabilmente fuorviato i seriosi accademici); se il livello di Mirone è quello del Discobolo, e se Pitagora è gli pari o addirittura leggermente inferiore, siamo ben lontani dagli inarrivabili Riace A e B. Rimarrebbero in lizza, a questo punto, solo Fidia (per il “giovane” e Policleto (per il “vecchio”). Guarda caso, la postura di quest’ultimo è esattamente quella canonica del Doriforo.

L’Antico e i competitor moderni

Solamente Michelangelo con il suo David si avvicina all’ideale greco, ma per ragioni prospettiche “inciampa”, alterando le proporzioni perfette dei bronzi classici. Da lontano, il David è un vero “capoccione”.

Neanche Bernini, molti secoli dopo con il suo dinamico David, riesce ad arrivare al livello supremo dei due guerrieri. Fissa mirabilmente un momento, un’espressione (la sua, ahi ahi…) e una situazione: rimane troppo reale, senza raggiungere l’ideale.

In tempi più recenti, anche Rodin ci ha provato, troppo pathos, nulla da fare, il Monte Olimpo rimane troppo alto da scalare.

E allora? Winckelmann aveva ragione, da vendere, pur senza aver potuto godere dell’immenso privilegio, a noi concesso dalla Storia, di ammirare i Bronzi di Riace. E non aveva visto neanche il Pugile delle Terme, scoperto oltre un secolo dopo la sua morte, nel marzo del 1885 su un versante del Quirinale. Con il Pugile che si aggiunge ai due guerrieri, si completa il podio delle tre statue più belle di tutti i tempi e di tutti i luoghi, “by far”.

(Su questo postulato non si ammettono discussioni ;-))

La statua è stata ritrovata tra il secondo e il terzo muro di fondazione di un edificio antico, alla profondità di 6 metri sotto il livello della piattaforma. L’archeologo Rodolfo Lanciani, all’epoca segretario della Commissione Archeologica Comunale, ha lasciato una descrizione tanto vivida quanto precisa delle circostanze del ritrovamento: «Il più importante dato raccolto, mentre ero presente e seguivo la rimozione della terra nella quale il capolavoro giaceva seppellito, è che la statua non era stata gettata là, o seppellita in fretta, ma era stata nascosta e trattata con la massima cura. La figura, trovandosi in posizione seduta, era stata posta su un capitello di pietra dell’ordine dorico, come sopra uno sgabello e il fosso che era stato aperto tra le fondamenta più basse del tempio del Sole, per nascondere la statua era stato riempito con terra setacciata per salvare la superficie del bronzo da ogni possibile offesa. Sono stato presente, nella mia lunga carriera nell’attivo campo dell’archeologia, a molte scoperte; ho sperimentato una sorpresa dopo l’altra; ho talvolta e per lo più inaspettatamente, incontrato reali capolavori ma non ho mai provato un’impressione straordinaria simile a quella creata dalla vista di questo magnifico esemplare di un atleta semi-barbaro, uscente lentamente dal terreno come se si svegliasse da un lungo sonno dopo i suoi valorosi combattimenti»[3] (da Wikipedia)

Il restauro condotto tra il 1984 e il 1987 ha permesso di riconoscere nell’opera aspetti tecnici riconducibili ad ambito classico. L’opera fu realizzata con la tecnica della fusione a cera persa e con il metodo indiretto. La scultura è un insieme di otto segmenti. Le labbra, le ferite e le cicatrici del volto erano fuse separatamente in una lega più scura o in rame massiccio. Separatamente erano fuse anche le dita centrali dei piedi (un aspetto tecnico già riscontrato nei Bronzi di Riace) per permettere una più accurata modellazione degli spazi interdigitali. Lo stesso si dica per la calotta cranica che doveva permettere l’inserimento degli occhi policromi dall’interno. (da Wikipedia)

…segue…




Earth Overshoot Day

[Che sia passato non vuol dire che non sia più importante…]

di Francesca Bux

C’è già stato e, come sempre, abbiamo fatto finta di niente.

Stiamo parlando dell’Earth Overshoot Day (EOD), in italiano “Giorno del Superamento Terrestre” e indica, a livello illustrativo, l’esatta data in cui il genere umano consuma interamente le risorse prodotte dal pianeta nell’intero anno.

Nel 2022 l’EOD è stato in piena estate, precisamente il 28 luglio. 

E mentre la maggior parte di noi era – giustamente – alle prese con vacanze, apertivi, spensieratezza e meritato relax, la nostra amata casa contava già un sovrasfruttamento delle sue risorse.

Facendo un po’di calcoli, si può tranquillamente stimare che, procedendo di questo passo, intorno al 2050 l’umanità consumerà ben il doppio di quanto la Terra produca.

È Evidente come questo non porterà davvero nulla di buono.

Ma visto che ogni anno è sempre diverso, come si fa a calcolare il giorno esatto in cui cade l’EOD?

Ci pensa il Global Footprint Network Gfn, un’organizzazione internazionale che si occupa di contabilità ambientale calcolando l’impronta ecologica.

In pratica, grazie a calcoli a dir la verità non troppo difficili da capire, viene determinato il numero di giorni dell’anno che la biocapacità terrestre riesce a provvedere all’impronta ecologica umana.

Ci spieghiamo meglio.

Il calcolo del giorno definito come Earth Overshoot Day è dato dal rapporto tra la biocapacità del pianeta(ovvero l’ammontare di tutte le risorse che la Terra è in grado di generare annualmente) e l’impronta ecologica dell’umanità (la richiesta totale di risorse per l’intero anno). 

In questo modo, si riesce a stimare la frazione dell’anno per la quale le risorse generate riescono a provvedere al fabbisogno umano e, moltiplicando per 365, si ottiene la data dell’Earth Overshoot Day. 

Perciò:

Dove: 

BIO = biocapacità annuale del pianeta Terra

HEF = impronta ecologica annuale dell’umanità

L’umanità ha iniziato a consumare più di quanto la Terra producesse già nei primi anni Settanta: da allora il giorno in cui viene superato il limite arriva sempre prima (nel 1975 era il 28 novembre) e questo per via della crescita della popolazione mondiale e dell’espansione dei consumi in tutto il mondo.

“Il problema principale è che, nonostante l’evidente deficit ambientale, non stiamo prendendo misure per imboccare la giusta direzione – ha dichiarato Mathis Wackernagel, presidente del Gfn. – è una questioneanche psicologica: quello che è ovvio per il 98 % dei bambini, è considerato dai pianificatori economici un rischio minore ,che non merita la nostra attenzione”.

Ma cosa si può fare concretamente per invertire la rotta e iniziare a prendersi davvero cura del nostro pianeta?

  • Stimolare settori emergenti – come le energie rinnovabili – riducendo così i rischi e i costi connessi a settori imprenditoriali senza futuro, perché basati su tecnologie vecchie e inquinanti
  • Disinvestire sulle fonti fossili, a favore delle energie pulite
  • Riducendo il consumo di carne, la cui produzione ha un terribile impatto ambientale
  • Consumare prodotti provenienti dal proprio territorio
  • Evitare gli sprechi alimentari

Noi stiamo consumando il capitale naturale, come se avessimo a disposizione 1,75 Terre e capite bene che questo non è più sostenibile.

“La terra è un bel posto e per essa vale la pena di lottare.”

(Ernest Hemingway)


Francesca Bux

Classe 1984.

Veneta dal sangue pugliese, intraprendente, riservata e creativa.

Attenta nei confronti delle nuove tendenze della comunicazione, con un occhio di riguardo per le campagne pubblicitarie di impatto sociale, innovative e fuori dagli schemi.

Lettrice eclettica, viaggiatrice anche solitaria, dipendente dalla musica e dalle espressioni d’arte come la fotografia, la pittura e la moda.

Amante delle rappresentazioni teatrali, tradizionali e indipendenti.

Non ho un mio blog, ma amo scrivere in quello degli altri.




Bandiera a Mezz’asta

Con il termine ‘bandiera a mezz’asta’ si indica la pratica, a bordo e a terra, di issare e far sventolare la bandiera non in testa al pennone ma più in basso, di solito poco sopra la sua metà, in segno di lutto.
Il motivo (risalente ad una tradizione del XVII secolo), sarebbe quello di consentire alla “bandiera invisibile della morte” di sventolare in cima all’albero. Per questo, la bandiera a mezz’asta è issata più in basso di quanto è l’ altezza della bandiera stessa: ad esempio se la bandiera è alta 1 metro, sarà issata 1 metro più in basso rispetto alla testa dell’asta.

In TUTTI i Paesi del mondo, per certi eventi luttuosi o in determinate ricorrenze, viene esposta la bandiera nazionale a mezz’asta.
Fanno eccezione l’Arabia Saudita e Somaliland dove è SEMPRE vietato mettere la bandiera a mezz’asta, poiché questa, mostrando la “Shahada”- la professione di fede islamica – sarebbe un’offesa alla religione dal momento che quella bandiera porta il più alto concetto di Dio.

Cieli sereni
PG




Un Gallo che sembra un delfino

Questo isolotto a forma di delfino si chiama GALLO LUNGO, e fa parte di un piccolo arcipelago, che si trova tra Capri e Positano, detto “Li Galli”.
Le altre due isole che lo compongono sono La Castelluccia e La Rotonda.

In passato, le isole Li Galli erano note con l’appellativo “Le Sireneuse”. Infatti, secondo un’antica leggenda, le tre isole erano abitate dalle tre sirene dell’Odissea: Partenope, Leucosia e Ligia che seducevano ed ammaliavano i naviganti con il loro canto.
Questi perdevano il controllo delle loro navi e, inevitabilmente, si andavano a schiantare sulle rocce degli isolotti!
Solo due navi riuscirono a scampare a quel triste destino: quella di Ulisse e quella degli Argonauti.

CURIOSITÀ
Il nome LI GALLI dell’arcipelago deriva dal fatto che, sempre secondo la mitologia greca, le tre sirene avevano il volto di una donna bellissima ma il corpo di uccello; da qui l’accostamento tra le sirene “pennute” con i galli.

Cieli sereni 🐬
PG




Can’t Help Myself

Can’t Help Myself 2016 – Sun Yuan e Peng Yu

di Redazione Online

Nessuna installazione artistica ci ha mai colpito emotivamente come “Can’t Help Myself ”[2016], realizzata  da Sun Yuan e Peng Yu

Di fatto, è solo un braccio robotico, programmato per cercare di contenere il fluido idraulico – di colore rosso sangue che, volutamente, fuoriesce costantemente in quantità limitata – e che è necessario per far continuare a funzionare il braccio stesso.

Se fuoriesce troppo liquido, superiore alla quantità necessaria al funzionamento meccanico, il braccio “morirà”, e quindi il suo movimento, disperato, è funzionale al recupero del liquido per garantire la sopravvivenza per un altro giorno.

Quando il progetto è stato lanciato per la prima volta, il braccio non era programmato per recuperare il suo fluido vitale, ma si è limitato ad interagire con i visitatori, in quanto la quantità di liquido all’interno del sistema era sufficiente e non richiedeva ancora questa attività, vitale, di recupero.

L’opera, visitabile dal 2016 non è stata mai modificata e il braccio robotico ha intrapreso il suo ingrato compito appena uscito dalla fabbrica, al punto che dopo 5 anni lavorava a fatica e in una stanza sporca senza potersi sottrarre alla sua natura. 

Programmato per vivere questo destino, non importa cosa abbia fatto o quanto sia stato difficile, ci ha provato, e non c’era modo di sfuggirgli. 

Gli spettatori hanno guardato mentre sanguinava lentamente fino al giorno in cui ha smesso di muoversi per sempre.

Vivere i suoi ultimi giorni in un ciclo senza fine tra sostenere la vita e contemporaneamente sanguinare.


Lasciamo ai lettori le interpretazioni filosofiche e morali di questa opera.


Qui sotto alcune fonti verificate , tra le molte che si trovano in Rete.

https://www.doppiozero.com/sun-yuan-e-peng-yu-i-cant-help-myself

https://www.vice.com/it/article/d7wmdz/prima-opera-robotica-del-guggenheim-fuori-controllo




Divulgare la scienza: in ricordo di Piero Angela

In ricordo di Piero Angela trascriviamo letteralmente l’articolo/intervista “Divulgare la scienza“, a firma Giancarlo De Leo per Poliziamoderna, rivista ufficiale della Polizia di Stato, pubblicata il 01/03/2012.

Autore di fortunati programmi di informazione, Piero Angela, uno dei protagonisti del calendario della polizia, parla di sè e di come vede il futuro della televisione

Uno dei volti televisivi più noti e popolari presso il grande pubblico, considerato il “divulgatore scientifico” per eccellenza della televisione italiana, Piero Angela è il protagonista del mese di marzo del calendario della Polizia di Stato. Vero pioniere dell’informazione radiotelevisiva (il suo programma SuperQuark, in onda dal 1995, è il punto di riferimento nel campo dei documentari scientifici, storici e naturalistici), autore di molti libri – alcuni dei quali tradotti in inglese, tedesco, francese e spagnolo – venduti in milioni di copie, racconta a Poliziamoderna la sua esperienza professionale rispetto alla televisione e ad alcuni temi di attualità.

Nell’immagine di marzo del calendario lei è ritratto accanto alla Lamborghini e all’aereo P180, due mezzi adibiti anche al trasporto di organi. Lei è a conoscenza di questa attività della polizia? Cosa pensa della donazione di organi in Italia?
Ne ero a conoscenza e penso sia un merito per la polizia. Riguardo questo punto credo che in Italia ci sia ancora molto da fare soprattutto in termini di corretta comunicazione. Sull’argomento circolano infatti molte chiacchiere infondate, veicolate con estrema leggerezza da personaggi famosi, che purtroppo arrivano a milioni di persone. In questo senso, una volta commesso un grosso danno, risulta difficile ripararlo; la smentita di un serio scienziato non ha mai l’eco di una corbelleria firmata da un personaggio popolare. Voi della Polizia di Stato difendete i cittadini dai malfattori e dalle truffe, noi giornalisti cerchiamo di difenderli dalle false informazioni: una missione parallela che ci rende in qualche modo affini e che in fondo credo “legittimi” anche la mia presenza nel vostro calendario.

La sua passione non è sempre stata solo il giornalismo, sappiamo che uno dei suoi amori giovanili è stata la musica, in particolare quella jazz. Cosa c’è in comune tra questi suoi interessi?
In effetti da giovane sono stato un musicista dilettante con potenzialità professionali. Ho fatto anche dei piccoli tour suonando in giro per l’Italia facendo parte di trii e quartetti che si esibivano nei jazz club. Una esperienza di cui ho fatto tesoro nel mestiere di giornalista. Il linguaggio della musica mi ha insegnato i cambiamenti di ritmo, di intensità, le variazioni sul tema e le digressioni che tuttora utilizzo nelle mie comunicazioni per non apparire – appunto – monocorde. È assolutamente essenziale, per ogni divulgatore, non annoiare mai chi guarda e ascolta, a maggior ragione se gli argomenti trattati sono molto seri.

In una televisione generalista è possibile mantenere un’identità riconoscibile? SuperQuark o Ulisse potranno migrare verso qualche canale tematico per non correre il rischio di essere confusi con programmi che non hanno alcuna validità scientifica?
Come giornalista per me è assolutamente naturale rivolgersi ad un pubblico che sia il più vasto possibile, anche per stimolare l’attenzione di chi non si orienterebbe autonomamente verso i temi che proponiamo. In fondo è proprio questa la funzione del divulgatore: dapprima far sorgere un interesse e poi aumentare il livello di consapevolezza del “normale” telespettatore relativamente ad un tema che altrimenti rimarrebbe circoscritto a pochi addetti ai lavori o cultori della materia e del tutto ignoto ai più. Per questo stesso motivo non vedo il futuro di Superquark o di Ulisse in palinsesti specializzati: questi canali potrebbero essere utili soprattutto agli studiosi e agli appassionati di questo o quell’argomento, ma corrono il rischio di diventare dei club per pochi, delle vere riserve indiane mediatiche.

Pensa che la televisione generalista rischi di perdere il pubblico più giovane?
È incontestabile che i giovani si stiano allontanando dalla televisione, dirigendosi sempre più verso altri terminali come i tablet e gli smartphone: ma è vero che anche loro continuano a guardare la tv, magari veicolata da Internet, sul proprio pc. Poi ci sono i tanti anziani – e la popolazione invecchia sempre di più – che non si servono delle nuove tecnologie e rimangono fedeli alla televisione tradizionale. Se si guardano i dati di ascolto delle trasmissioni televisive si vede che il bacino di utenza complessivo in realtà è aumentato, in particolare le ore quotidiane di fruizione pro capite – si arriva ad una media oltre quattro ore –, e questo è un dato veramente rilevante. È da tenere presente poi che purtroppo nel nostro Paese è il tubo catodico a tenere banco rispetto per esempio ad altre attività come la lettura. Per molte persone il piccolo schermo è rimasto l’unico gancio culturale disponibile e proprio per questo l’offerta dovrebbe essere sempre più aperta, strutturata e stimolante. Al contrario la moltiplicazione dei canali meramente tematici rischierebbe di condizionare la scelta dello spettatore solo sull’argomento che gli interessa, fiction o trasmissioni calcistiche o altro, impoverendo il ventaglio di informazioni che potrebbe ottenere. Detto questo, sicuramente in un contenitore generalista ci può essere il rischio di confondere l’utente con proposte solo in apparenza somiglianti. Non resta che confidare nella maturità dello spettatore e nella sua capacità di discernimento. D’altra parte, ognuno è responsabile in toto per i propri prodotti e personalmente posso garantire solo per i miei… per concludere in leggerezza, vogliamo infine dire che “il mondo è bello perché è vario?”

Lei è tra i fondatori del Cicap (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale) un’organizzazione per promuovere un controllo sui fenomeni scientificamente inspiegabili. In una società dove spesso sedicenti maghi e veggenti approfittano delle persone psicologicamente deboli quanto valore ha l’affermazione di George Santayana “lo scetticismo è la castità dell’intelletto”?
La speculazione a discapito dei creduloni è assolutamente reale e si manifesta in forme più o meno gravi, l’oroscopo ne costituisce l’espressione più diffusa e meno dannosa. Purtroppo, per contrastare efficacemente il problema ci vorrebbe una campagna di informazione collettiva con numerosi testimonial qualificati e conosciuti. Personalmente, anche come scrittore, sono molto impegnato in questo senso, (ndr: ha scritto anche un libro sull’argomento :Viaggio nel mondo del paranormale e ha una rubrica fissa: “L’altra campana” sulla rivista Scienza e Paranormale), ma la mia voce è sempre stata piuttosto isolata.

Lei è anche autore di numerosi libri che spesso approfondiscono gli argomenti trattati nelle sue trasmissioni. Che ne pensa delle nuove tecnologie applicate all’editoria? Legge anche i libri in formato digitale sui tablet o sugli e-book reader?
Sono assolutamente consapevole dei vantaggi offerti dalle nuove tecnologie come l’economicità, il risparmio di spazio, di peso e la conseguente disponibilità di una intera biblioteca in pochi centimetri quadri, ma ritengo che questi strumenti siano perlopiù destinati alle nuove e alle nuovissime generazioni, i cosiddetti “nativi digitali”; personalmente continuo ad apprezzare maggiormente la tradizionale carta stampata, facendo parte della generazione dei “nativi gutemberghiani!”.

data pubblicazione articolo originale: 01/03/2012

link articolo originale sul sito ufficiale di Poliziamoderna; Divulgare la scienza (poliziadistato.it)




LUNA PIENA DEL GRANO O DELLO STORIONE

12 AGOSTO
LUNA PIENA DEL GRANO O DELLO STORIONE

Oggi, venerdì 12 agosto, il nostro satellite naturale ha raggiunto la fase di plenilunio.
Rispetto a noi la Luna si trova dalla parte opposta (opposizione) del Sole, quindi la sua parte illuminata è proprio quella rivolta verso di noi.

La Luna piena di agosto è detta Luna del Grano in quanto coincidente con la raccolta del cereale prima della semina autunnale.

È anche conosciuta come Luna dello Storione, nome che veniva usato dalle tribù indiane perché, in questa parte dell’estate, lo storione dei Grandi Laghi era più facilmente catturabile.

È la quarta e ultima SUPERLUNA del 2022, dopo quelle «dei fiori» (16 maggio), «delle fragole» (14 giugno) e «del cervo» (13 luglio). Ancora una volta, dunque, il nostro satellite si viene a trovare nel tratto di orbita più vicino alla Terra – precisamente a non meno del 90% del suo massimo al perigeo (che è stato mercoledì scorso) – apparendo così, anche se di poco, più grande e luminosa e per questo chiamata SUPERLUNA.

CURIOSITÀ
Dato che la Luna ci rivolge sempre la stessa faccia, siamo indotti a pensare che quello che vediamo è esattamente il 50% della superficie lunare.
In realtà, dalla Terra, riusciamo ad osservarne di più: circa il 59% !
Il fenomeno, scoperto da Galileo Galilei e spiegato da Newton, è definito “librazione” e ci permette di vedere a periodi alterni le regioni più orientali ed occidentali della Luna. Questo movimento è una conseguenza del moto non uniforme della Luna: quando si trova nei punti della sua orbita più vicini alla Terra (perigeo), si muove piu’ velocemente e la sua rotazione su se stessa, per cosi’ dire, “resta indietro” rispetto alla rivoluzione.
Detta in altre parole, nel tempo che impiega a ruotare su se stessa di 90° (..eh sì, anche lei ruota!) la Luna “percorre” 97° di orbita.
All’apogeo, gli stessi 90° di rotazione avvengono in 83° di orbita.

L’effetto visibile dalla Terra e’ una lieve rotazione della Luna su se’ stessa: prima in un senso, quando accelera, poi nel senso opposto, quando rallenta.

Cieli sereni
PG




GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA BIRRA

Ogni primo venerdì di agosto si celebra la Giornata Internazionale della Birra.
Il nome BIRRA deriva dal tedesco “bier” ma l’etimologia sarebbe riconducibile al latino biber, cioè bevanda, o alla parola germanica per indicare l’orzo (beuwo).

In Spagna si chiama cerveza e la radice sarebbe da ricercare nel termine latino cervesia, che indicava una birra senza luppolo facendo riferimento alla dea Cerere, divinità dei raccolti.
Le sue origini sembrano risalire ai Sumeri e agli antichi popoli della Mesopotamia, che potrebbero aver iniziato a produrla oltre seimila anni fa. Poi la birra si diffuse tra egizi, greci e romani.

UNA STORIA SULLA BIRRA
Ebbe inizio nel XVI secolo con una nave e una traversata atlantica. La nave era la Mayflower (in figura), un galeone a tre alberi di circa 180 tonnellate. A bordo c’erano i Padri Pellegrini (ribattezzati poi Thirsty Pilgrims, “pellegrini assetati”). In tutto a bordo 102 persone compresi donne e bambini in fuga dall’Europa. Approdarono in un luogo che la tradizione identifica con Plymouth Rock il 9 novembre 1620 e il primo edificio che costruirono fu proprio… un birrificio !

Come tante bevande alcoliche, anche la birra passò così dall’uso religioso a quello medico e solo in seguito a quello ricreativo. La birra, infatti, veniva servita come ricostituente ai pellegrini che avevano compiuto un lungo viaggio ed era una bevanda naturalmente sterilizzata in un tempo in cui l’acqua non poteva essere consumata prima di essere bollita. Il consumo di birra si diffuse facilmente anche per quest’ultimo motivo. Il luppolo, inoltre, conferiva alla bevanda proprietà antisettiche.

Cieli sereni🍺
PG