Fra la sella e la terra c’è la grazia di Dio.

Giulia Gellini_ Equino [2009]_tecnica mista.

Ilaria Corsi _

Amare i cavalli vuol dire capirli, sentirli, sognarli. 

Quando avevo dieci anni, un libro di cui ricordo bene la copertina ancora oggi, parlava di una storia ambientata in USA. Natalie, una giovane ragazza, obbligata a trasferirsi in una piccola cittadina rurale, iniziava un’amicizia particolare con il cavallo della fattoria accanto.

Li divideva uno steccato, ma il rapporto, e questo mi colpì molto, era davvero particolare, quasi fosse un vero e proprio amico per lei, al quale confidare le sue emozioni e turbamenti adolescenziali.

Natalie era una ragazza di città in tutto e per tutto. Adorava giocare, ridere con i suoi amici durante le feste di quartiere e fare viaggi nel negozio di fumetti locale per prendere l’ultima copia della sua serie di graphic novel preferita. Quando la mamma le disse di andare a vivere in campagna, fu inevitabile avere una crisi profonda che la portò ad isolarsi. Chi avrebbe mai voluto vivere nel mezzo di Nowheresville? Ma abituarsi alla sua nuova vita di provincia fu meno traumatico grazie al bellissimo cavallo, Ghost. 

Nowheresville fa parte di una serie di libri scritti da diversi autori che mettono in evidenza le relazioni uniche tra le ragazze e i loro cavalli.

Questo libro in qualche modo mi ha segnato ed ha influenzato la mia vita negli anni della adolescenza e della mia prima maturità.

Dunque, fin da piccola, ho sentito un amore smisurato verso questo animale. Crescendo questa mia passione non si è mai spenta e anzi,  è sempre stata un fuoco che anno dopo anno si è alimentato sempre di più. L’arrivo di Contigo un meraviglioso cavallo baio dal cuore d’oro, ha segnato l’inizio della mia esperienza e delle prime gare, le prime sconfitte ma anche le prime vittorie.  Grazie a lui ho capito cosa significa prendersi cura di un animale che conta solo su di te ed insieme a lui mi sentivo sicura, nulla poteva separarci. Tutte le storie hanno una fine, e la perdita di Contigo, è stato il mio primo enorme dolore.

Galopin JB un irrequieto, meraviglioso cavallo morello di 4 anni, ha in parte colmato il vuoto nel quale mi stavo perdendo. Con lui mi sono messa davvero in gioco, siamo cresciuti insieme ci siamo qualificati per gare importanti e le abbiamo anche vinte.



I cavalli sono animali empatici dai grandi occhioni, prendersi cura di loro richiede sacrificio, senso del dovere, amore, passione e non bisogna averne paura. 

Accarezzarlo, alimentarlo e cavalcarlo sono azioni che mi hanno portato negli anni un profondo stato di benessere psicofisico

Sono tutti capaci di inforcare una bicicletta e pedalare, ma in questo caso si tratta di lavorare in sintonia con un animale in quanto essere vivente con un suo pensiero e le sue giornate no, come tutti noi del resto.

L’ippoterapia ha origini empiriche antiche perché il cavallo, con le sue straordinarie doti di sensibilità, di adattamento, di intelligenza è ritenuto, da sempre, e non a torto, “straordinaria medicina”. 
L’uso dell’equitazione a scopo terapeutico ha avuto inizio già nell’opera di Ippocrate di Coo (460-370 a.C.), che consigliava lunghe cavalcate per combattere l’ansia e l’insonnia.

I benefici dell’ippoterapia dipendono in buona parte dalle caratteristiche fisiche e comportamentali del cavallo e, a differenza di altre terapie che utilizzano animali di piccola taglia, l’equitazione prevede una strategia di trattamento che riesce a trasferire integralmente al paziente, le sollecitazioni prodotte dal movimento tridimensionale del cavallo.

Il parallelismo tra la tridimensionalità del cammino umano e l’andatura del cavallo dà la possibilità a soggetti che non hanno mai camminato o che camminano con schemi motori scorretti, di trovarsi in una situazione paragonabile ad una deambulazione corretta e fisiologica, sperimentandone quindi gli effetti concatenati a livello del bacino, del tronco, e in generale degli arti superiori.

Questa Attività generalmente è programmata ed inserita all’interno di un più ampio progetto riabilitativo, e viene svolta da una serie di figure professionali come i medici specialisti, i terapisti della riabilitazione, gli istruttori di equitazione, gli operatori sociosanitari e gli assistenti volontari specificatamente preparati, motivo per cui viene praticata in un numero limitato di Centri Ippici in possesso di tutti i requisiti necessari.

Un altro beneficio è riscontrabile sulla reattività del sistema nervoso simpatico.

Paralisi cerebrali infantili, forme spastiche, deficit motori derivanti da traumi, sono tutte patologie che possono essere curate anche in sella. 

Il disciplinare tecnico è molto articolato e varia a seconda delle esigenze specifiche. Di fatto il paziente può salire sul cavallo da solo o con un accompagnatore, il cosiddetto maternage

Secondo uno studio pubblicato su Frontiers in Public Health da studiosi della Tokyo University of Agriculture il cervello dei bambini che vanno a cavallo avrebbe una reattività maggiore, in quanto le vibrazioni prodotte durante la cavalcata, risultano particolarmente efficaci nell’attivare tale sistema.

Per avallare questa tesi è stato condotto un esperimento nel quale un gruppo di 106 bambini di età compresa tra i 10 e i 12 anni, è stato sottoposto ad alcuni test prima e dopo aver cavalcato per 10 minuti su un pony e aver camminato a piedi per 10 minuti. Nel primo test ai bambini, dopo aver visionato per 200 millisecondi dei quadrati di colore rosso, giallo o blu su uno schermo, veniva richiesto di premere velocemente un tasto qualora sullo schermo fosse comparso il quadrato giallo o blu, e di astenersi invece con la comparsa del quadrato rosso. In questo test di tipo comportamentale è stata riscontrata la differenza più rilevante: 25 bambini su 54 (46,3%) hanno migliorato infatti il proprio punteggio dopo la cavalcata, dopo la passeggiata invece, soltanto il 26,9% è riuscito a migliorarsi.

Il secondo test, invece, consisteva nell’eseguire 30 addizioni tra numeri ad una sola cifra in rapida successione. In questo caso non ci sono state differenze rilevanti in termini di risultato, ma si è registrato che per il 72,2% dei bambini che erano stati a cavallo, la velocità di completamento del test era notevolmente migliorata. 

Ma perché il cavallo ha questo enorme potenziale? 

Io credo che tra uomo e cavallo si crea una connessione, una relazione che amplifica la capacità degli animali di trasmettere e stimolare emozioni. Loro hanno una spiccata vocazione sociale e chiunque abbia preso le redini in mano sa come il cavallo sia estremamente reattivo agli stimoli.

Cavalcare implica una sintonia con un’altra creatura, esperienza che tornerà poi molto utile anche fuori dal maneggio, ed associabile ad un potente antistress.

A questo si aggiunge anche l’attività effettuata a terra, il cosiddetto grooming, cioè il prendersi cura dell’animale attraverso la pulizia e la cura del suo mantello. 

Un’attività ad alto contatto che facilita la nascita di un rapporto emozionale tra cavallo e paziente. 

Il piacere e l’emozione nell’eseguire questi gesti di cura, aiutano a sviluppare competenze relazionali e amplificano anche i risultati motori ottenuti in sella.

Io ci ho messo del tempo per farmi accettare da questi esseri meravigliosi, e non ho  alcun dubbio che senza di loro, non sarei la donna che oggi sono.

Per ulteriori informazioni:

https://www.fise.it/


Nota sull’autore_

Ilaria Corsi, classe 1998, Laureata in Design della Comunicazione allo IED, ex campionessa giovanile di equitazione, categorie salto ad ostacoli e dressage, da sempre una sognatrice con una voglia indomabile di scoprire il mondo e lasciare un segno. Innamorata della creatività, del mondo degli eventi, con il sogno nel cassetto di riuscire un giorno a farsi “posto fra i grandi”. Espansiva, affettuosa, chiacchierona, solare, con la voglia di “spaccare il mondo”, sempre di corsa. Affascinata dalle persone che non hanno paura a dire la propria opinione che non si nascondono “dietro a un dito”, che non si fermano davanti a un “no” che si oppongono agli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Amante degli animali sostiene che “grazie a loro possiamo superare ogni nostra paura più grande, bisognerebbe parlare di più di come gli animali aiutino noi esseri umani a superare le nostre paure”.




Integrazione: quando gli altri siamo noi!

di Christian Lezzi_

Un tempo si diceva di noi italiani “popolo di poeti, santi e navigatori” ma, di questa gradevole descrizione, pare non esserne rimasta traccia nel nuovo mondo, essendo stata sostituita, da molto tempo ormai, dalle parole d’ordine che ci etichettano senza possibilità di replica: pizza, spaghetti, mandolino e… mafia!

Richard Nixon, particolarmente noto per il suo essere integerrimo, onesto, trasparente e ligio alle regole, ebbe a dire “gli italiani, tutti conniventi con la mafia, non puoi trovarne uno che sia onesto”. Certo, detto da lui è un po’ come sentirsi dare del mafioso da Totò Riina, che non sai se ridere o piangere.

Bob Marley (personaggio molto meno ambiguo del precedente, ma altrettanto universalmente noto) dal canto suo ebbe a dire, scivolato il discorso sulla credibilità dei giornali: “È vero che tutti gli italiani mangiano pizza e sono mafiosi? Perché è questo che scrivono i giornali”.

Analizzando la considerazione che gli Americani hanno dell’italoamericano medio (in particolare) e dell’italiano più in generale, ne viene fuori un ritratto disastroso, un elenco infinito di stereotipi, di miopia che non permette di vedere la propria immagine e i propri difetti allo specchio, in un coacervo di preconcetti, più dannosi che inutili.

E così i “poeti santi navigatori” diventano, nella visione a stelle e strisce, una banda di pseudo mafiosi, corrotti e corruttori, dalle scarse capacità professionali, dalla bassa statura intellettuale e dall’ancor più bassa statura morale, caciaroni e disordinati, più propensi all’impiego dipendente – meglio se statale – che non all’imprenditoria privata, al lavoro fatto di furbi e truffaldini espedienti e alla vita al di sopra delle proprie possibilità.

Che meraviglia! Questo è quello che negli USA dicono e pensano di noi.

Certo, dicono anche che, almeno storicamente, abbiamo espresso grandi geni e artisti, che siamo ottimi cuochi, che costruiamo belle macchine (de gustibus…) e che di moda ne sappiamo una più del diavolo, anche quando quest’ultimo veste Prada, ma solo in patria. Una volta giunti negli States, pare che si subisca una metamorfosi regressiva impossibile da evitare, nonostante, per linea di massima, siamo comunque apprezzati sul posto di lavoro (ipocrisia?).

L’italoamericano medio diventa, nell’immaginario collettivo, il cittadino di serie B, di classe bassa e di bassa cultura, il pizzaiolo, il poliziotto corrotto, il vigile del fuoco imboscato, il mammone rissoso e spaccone, il gigolò semi analfabeta, palestrato e pieno di brillantina che, per avere un’alternativa, al pari di portoricani e afroamericani, è costretto ad arruolarsi nell’esercito o a lavorare per il mafioso della zona.

Un ritratto ampiamente negativo, ribadito nei tanti, troppi, reality show e telefilm che, oltre oceano, deridono quella fetta della loro stessa popolazione, che ha come marchio d’infamia le origini italiane. Un esempio di estremizzazione dell’immaginario collettivo è l’ennesimo programma donatoci dalla televisione spazzatura, quel Jersey Shore che, mi auguro, non sia più in palinsesto, a tal punto offensivo nei confronti degli italiani d’esportazione e talmente dozzinale nell’uso dei preconcetti, da aver scatenato più volte la furiosa reazione di UNICO National, l’associazione degli italoamericani del New Jersey.

Che poi sia (lo scontro fra classi ed etnie) affidato a programmi di bassissima lega, che vanno in onda sui peggiori e secondari canali televisivi, la dice lunga sul livello culturale della diatriba.

Ma sia chiaro che, la televisione, come qualsiasi altro media generalista, non ha responsabilità dirette, al di fuori delle sue legittime scelte di marketing (parliamo di TV commerciale). Essa offre solo ciò che il pubblico richiede ed è disposto a guardare. La colpa, se di colpa vogliamo parlare, è di chi annichilisce la propria psiche e imbavaglia il proprio intelletto per dedicarsi a tale pattume mediatico.

Il fatto che i migliori scienziati operanti negli States siano italiani, passa in secondo piano, diventa irrilevante in un discorso denigratorio che si muove per schemi e per slogan. Per l’americano medio, quello che voleva rendere ancora grande l’America e chiudere le frontiere, tutto passa in secondo piano, in questo relativismo concettuale: a dispetto di mille prove a discarico, l’italiano resta, sempre e comunque, colui che ha esportato la mafia. 

Touché!

Purtroppo la forma mentis in questione non è solo americana, ma è un male comune, fatto di becero e inutile campanilismo, che spesso sfocia in un altrettanto inutile razzismo, condito dall’ignoranza degli altrui usi e costumi e da una pretesa di superiorità del tutto immotivata. A titolo di esempio, è utile ricordare che, in alcuni Paesi del centro/est Europa, per bollare come tonto (nel senso di poco sveglio) qualcuno, spesso gli si dà dell’italiano. 

Esattamente allo stesso modo in cui noi italiani usiamo l’appellativo “zingaro”, seppur veicolando ben altro significato di pari ignoranza.

Molto più facile parlare male dello straniero e del diverso, ingigantirne i tic, alimentare le leggende metropolitane che lo riguardano, piuttosto che provare a capire le diversità e farne tesoro, allargando la mente e gli orizzonti, perché se è vero che a tutti possiamo insegnare qualcosa, è altrettanto vero che da tutti, ribaltando la questione, abbiamo qualcosa da imparare. Ciò che è diverso va combattuto in quanto anormale turbativa della nostra omeostasi culturale, della nostra normalità il cui contrario è la diversità più denigratoria, qualunque cosa voglia significare essere normali.

Noi stessi non siamo immuni al nefasto atteggiamento e, dimentichi delle nostre peculiarità comportamentali, in patria e fuori, pretendiamo di essere gli unici depositari della cultura e della giustizia, oltre che della civiltà stessa, nel resto del mondo, pretendendo di chiudere a doppia mandata quelle frontiere che, quando fu il nostro turno d’andar per il mondo, pretendemmo aperte. E così, anche in Italia, si ragiona per compartimenti stagni. Lo spacciatore è sempre marocchino, lo stupratore è sempre rumeno, albanese o nigeriana la prostituta, giusto per citare alcuni esempi diffusi (un sempre pretenzioso e assoluto, che non trova conforto nei dati e nelle statistiche annuali del Viminale), come se infangare le altre etnie, gli altri popoli ci rendesse degni di rispetto. Come se, denigrando gli stranieri, potessimo finalmente sentirci un popolo (cosa che mai siamo stati e, forse, mai saremo). 

Come se, in senso generale, buttare il fango addosso agli altri, ci rendesse automaticamente e senza sforzo più puliti e brillanti!

Due pesi e due misure, a celar la xenofobia di fondo che imbratta il ragionamento e che ci porta a chiedere a gran voce l’espulsione immediata dal Paese, dello spacciatore africano, arrestato con otto grammi di hashish, ma che non ci ha spinti a chiedere lo stesso provvedimento per i Riina, i Provenzano, i Mutolo, gli Schiavone, gli Zagaria e tutto il resto della feccia mafiosa!

Tutto il mondo è paese, certo, e ovunque ci sarà sempre chi parla male degli altri, degli stranieri, dei diversi, di coloro che non sono da considerare normali, secondo standard del tutto soggettivi. Perché, in fin dei conti, siamo tutti stranieri, se visti dal di fuori dei nostri confini. Ciò dipende solo dal punto di osservazione. Troppo difficile vedere, capire e risolvere i propri comportamenti sbagliati e le proprie pessime abitudini. Troppo complicato far tesoro delle differenze tra popoli, arricchendosi d’esperienza e di conoscenze nuove, scoprendo realmente i nostri interlocutori, liberandoci così, dalle sterili generalizzazioni e di quel nugolo di muffose convinzioni stereotipate.

Molto meglio, più facile e veloce, indolore quasi, additare gli altri, generalizzando e sparando nel mucchio, a volte solo per partito preso e per appartenenza politica. O religiosa.

Cambia il paese, ma le cattive abitudini no, quelle restano e si moltiplicano. Come la gramigna!

La pessima abitudine di notare le cose sbagliate solo se fatte da altri stenta a morire e, anzi, gode di ottima salute se non, addirittura, di vita eterna. E così, quella serie di sciocchezze e stereotipi che noi usiamo nei confronti degli stranieri, residenti o meno in Italia, per sentirci migliori e mascherare le nostre umane miserie, altrove (soprattutto oltreoceano) resta identica. 

Cambia solo il bersaglio, il destinatario dell’insulto: questa volta, nel mirino ci siamo noi italiani!

Noi che, in patria, ci sentiamo depositari della cultura, dell’arte, di tutto ciò che è bello e sano, padri fondatori della civiltà moderna, profondi conoscitori della vita e del mondo intero (senza magari aver mai viaggiato) come se il resto del mondo fosse una nostra provincia, come se gli orologi della storia fossero rimasti fermi all’impero romano o al rinascimento. Noi che pretendiamo di essere migliori degli altri, di saperne una più di loro e che, di ognuno di loro, essere più furbi. Salvo poi vivere in una stagnazione economica secolare che, da sola, la dice lunga sulla nostra evoluzione e sul nostro essere perennemente il fanalino di coda europeo nelle innovazioni e nell’integrazione tra Paesi.

Noi italiani abbiamo tanto da dire, altrettanto da fare e grazie al quale farci volere bene. Ma ciò non accadrà se, noi per primi, non usciamo dal gorgo degli stereotipi, dei meriti ingigantiti e delle colpe delegate. 

Denigrare gli altri per sembrare migliori noi stessi. Il concetto resta uguale, da qualunque angolazione lo si guardi. Cambia la lingua come la bandiera, ma questo atteggiamento distruttivo resta solo un dito puntato contro il nulla, quale che sia il colore della sua pelle.

Nota sull’autore_

Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano. Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




Orgosolo, tra immagini e silenzi.

di Maria Patrizia Soru

C’è una Sardegna lontana dal suono delle onde, dalle trasparenze smeraldo e dalle rocce che sanno di salsedine. E’ una Sardegna da tutti definita aspra e selvaggia che da sempre si è sottratta alla conquista e all’omologazione.“ Barbaria”, così la battezzarono i romani  capaci di conquistare e piegare il mondo, ma non il cuore della Sardegna ed i suoi  abitanti protetti dall’ombra del Gennargentu e forti come le sue rocce, che li costrinsero a porre un avamposto, un limes”,  Forum Traiani ( l’ attuale  Fordongianus in provincia di Oristano) ai margini di quella regione per contenere la loro indole indipendente. 

Anche Gregorio Magno spese molte delle sue energie per estirpare il paganesimo da quelle terre, ma a niente valsero i suoi sforzi. La conversione al cristianesimo e la conseguente romanizzazione  si compirono secoli più tardi in maniera semplice e naturale quando la Barbagia accolse le genti che dalle coste cercarono rifugio nell’entroterra per sfuggire alle invasioni provenienti  dal mare. 

Ne i pisani, ne gli spagnoli o gli aragonesi e neanche il governo sabaudo riuscirono a durare nell’isola un tempo sufficiente per esercitare la propria autorità innovatrice tra le “genti barbare” di Sardegna. L’isolamento, la cultura pastorale, l’ambiente fisico ed il clima hanno resistito allo scorrere della storia come racchiusi dentro ad uno scrigno del tempo che ha protetto le tradizioni ma soprattutto, il carattere di una popolazione antica forte e speciale che esprimeva  attraverso la “balentia”  il massimo della potenzialità dell’uomo suggellata tra le righe di un codice non scritto, il Codice Barbaricino.

La natura dei sardi è nota per i suoi silenzi, per le poche parole. E se lungo le coste la voce più potente è quella del maestrale capace di innervosire ed incupire il mare, nel cuore della Sardegna il silenzio ha una voce differente. Il  vento deve attraversare muri di rocce e foreste di lecci, l’acqua striscia e salta nel sottobosco e tra le gole. Qui le “parole” hanno il loro peso, anche se silenziose ed apparentemente leggere come i fiocchi di neve che lentamente in inverno,  ricoprono il suolo. 

La chiamano omertà, la definiscono un’ ancestrale forma di difesa e ribellione al mondo interno ed esterno che contraddistingue l’indole  dei barbaricini  facendo pensare che abbiano poca voglia di aprirsi, di raccontarsi, di raccontare. Per capire che questo pensiero è privo di fondamento bisogna visitare uno dei borghi più belli e particolari, camminare lentamente tra i vicoli antichi, stare in silenzio, aprire gli occhi, osservare ed ascoltare al contempo ciò che le immagini vogliono comunicare.

E’ noto che “anche i muri hanno orecchie”  ma ad  Orgosolo si può dire invece che “i muri parlano” ed urlano a gran voce la storia, le sofferenze e gli ideali di un popolo.

Eco lontano , figlio delle pitture rupestri, la tradizione dell’arte muraria attraversa la storia dell’umanità come forma di decorazione, narrazione o indottrinamento sia  sacro che profano,  in ambito pubblico e privato. L’arte dei murales così come oggi la conosciamo quale forma di denuncia sociale, si sviluppa in Messico dopo la grande rivoluzione del   1910. Immagini rappresentanti  lotte sociali, particolari della storia popolare e sentimenti nazionalisti  presero forma attraverso la pittura  di grandi muri esterni di edifici destinati al popolo.

Proprio nella manifestazione di dissenso, di ribellione ed al contempo nell’unione popolare Orgosolo vede nascere il suoi primi murales . Nel 1969 la tenacia della popolazione lotta e vince contro la realizzazione di un poligono di tiro nel territorio comunale di Pratobello, tradizionalmente asservito al pascolo. Si narra che nei muri del paese comparvero dei manifesti che esortavano i pastori ad abbandonare i pascoli.

 Nello stesso anno un gruppo anarchico denominato  ‘Gruppo Diòniso’ creò un murale di chiara matrice politica ed un murale tipo ‘reclame’.

Dal quel momento venne rotto il silenzio e dal 1975 in poi grazie ad un insegnate d’arte Francesco del Casino, i muri degli edifici del paese iniziarono a parlare.. un sussurro lieve, un urlo potente ma sempre in una “lingua universale” quella dell’immagine e del colore, talvolta accompagnata da qualche nota che attinge alle tecniche narrative del fumetto , talvolta totalmente priva di “parola”. Tratto nitido e  segno inconfutabile assumono ruolo divulgativo, creando un contesto figurativo immediatamente comprensibile anche a distanza, un  messaggio essenziale che può essere colto in maniera chiara a prescindere dall’età e dal livello di istruzione, poiché è sufficiente il solo atto di guardare le figure. 

Così Orgosolo narra se stessa, lo fa senza timore lasciando che il colore si arrampichi sui muri, prenda forma, catturi l’attenzione dei passanti e consegni il suo messaggio in una forma semplice che attraversa lo sguardo e giunge al cuore.

Il fermento intellettuale degli anni ‘60 e ’70 favorì il nascere e svilupparsi dei murales collettivi che illustrano tutt’oggi con dovizia di particolari le lotte di potere, la vita contadina e pastorale, alternando tematiche socio-politiche alla rappresentazione di simboli tipici appartenenti alla quotidianità. Quotidianità che trova spazio tra i “vicoli della narrazione” dolce ed affabile della vita   di donne e uomini impegnati nei loro lavori, nel loro vivere sereno e familiare..   Uomini e donne senza nome e senza gloria che a quella storia, alla storia di Orgosolo e della Sardegna  appartengono perché in essa hanno vissuto, l’hanno alimentata e, consapevoli o meno  sono stati e, ne sono tutt’ora il motore.

Orgosolo adagiata nel verde dei suoi boschi si offre a se stessa ed al mondo come un grande museo sotto il cielo. Parla ed accompagna se stessa verso il futuro mantenendo nitidi i “tatuaggi e le cicatrici sulla sua pelle” su tutti i suoi muri, protetti ed al contempo,  mostrati con semplicità, genuinità ed orgoglio.

Anche se campidanese e non barbaricina sento che quelle immagini, che quella storia mi appartiene. E’ quella della Sardegna intera e dell’Italia, forse cambia solo il tono dei colori, ma i tratti ci accomunano.

link di riferimento

https://www.comune.orgosolo.nu.it/index.php/vivere/cultura/17

https://www.sardegnaturismo.it/it/la-voce-silenziosa-dei-murales-di-orgosolo

Nota sull’Autrice.

Maria Patrizia Soru è una Guida Turistica Archeologica.
Appassionata di Storia e letteratura della Sardegna, è alla continua ricerca di immagini e parole capaci di raccontarne il passato, il presente ed il futuro.

Disclaimer: tutte le immagini presenti in questo articolo sono tratte dal web




La funzione rassicurante del Bello

di Orietta Paolucci

Monologo del Marzocco sull’albero di Penone.

(Ovvero, la funzione rassicurante del Bello)

Copia del Marzocco di Donatello. Firenze, Piazza della Signoria.

“Non so nemmeno io da quanto sono qui.

Certo da tanto tempo, ma francamente non potrei dirlo con certezza.

So che una volta eravamo in tanti, e ce n’erano di veri, di leoni intendo, in un serraglio. 

Erano un omaggio al re di stirpe scozzese, governatore di Firenze.

Non so cosa sia la rabbia, l’ho vista forse in faccia a gente che duellava in piazza, oppure si ribellava al potere.

Non so cosa sia la gioia.

Probabilmente l’ho vista nelle espressioni di centinaia di persone che si riempiono il cuore della bellezza di questa piazza, unica al mondo. Le sue forme, la sua architettura, le sue statue. Lo stesso David, accanto a me.

Magari la gioia è quell’espressione che percepisco nei loro occhi.

Ho visto milioni di persone passeggiare, con interesse, con meraviglia, con indifferenza.

Ma non ho mai visto una cosa simile a ciò che mi è stato piantato di fronte: un albero secco, con dei tubi incastrati tra i rami avvizziti.

Non ho ben capito cosa sia la disperazione, l’ho vista poche volte, ma questo albero così rinsecchito, senza foglie, morto, mi colpisce.

L’albero a Piazza della Signoria, Firenze

Nel profondo. 

Non mi spiego il perché.

L’albero mi ha fatto provare una nuova sensazione, una differente sfumatura di dolore: quella che ho visto in faccia alle centinaia di persone che hanno manifestato in piazza, recentemente.

Magari sono rimasti senza lavoro, senza fiducia… o senza speranza.

Questo l’ho capito, di gente in piazza (a parte quella che manifestava) ce n’è davvero di meno. Non so cosa sia successo, ma quest’abete, che troneggia di fronte a me con la sua maestosa afflizione, è come se racchiudesse il dolore che aleggia tutt’attorno.

Sono solo un leone, ma ho pensato che è davvero facile creare cose belle che si lascino ammirare; molto più difficile colpire allo stomaco, alle viscere, con un qualcosa che bello non è affatto.

Vuoi vedere che questo abete avvizzito è più coraggioso del David?”

L’albero di Penone è un’installazione voluta dal Comune di Firenze per rappresentare la metafora del Paradiso Dantesco, cioè “L’albero che vive de la cima/e frutta sempre e mai non perde foglia” (vv. 29/30, Canto XVIII, Paradiso, Divina Commedia). 

“L’Abete in Piazza della Signoria – dice Penone – indica lo sviluppo del pensiero che è simile alla spirale di crescita del vegetale”. 

Potrei continuare citando mille auliche elucubrazioni; sta di fatto che l’installazione è davvero (consentitemi), brutta e antiestetica, e per questo estremamente coraggiosa. 

L’albero di Penone in Piazza della Signoria a Firenze

L’arte contemporanea di Penone non può fare altrimenti, in una piazza esteticamente perfetta, che porre un elemento “disturbante”.

E quest’albero, con i suoi tubi, lo è davvero. 

Implacabile, non lascia nulla alla fantasia, al sentimento.  È secco, diretto, ed affonda nel più profondo del nostro Io, scuotendolo e risvegliandolo dal torpore indotto dall’armonia rinascimentale di Firenze. 

Questa profonda “rottura” del disegno architettonico non è mai stata più visceralmente contemporanea. La bellezza anestetizza, la bellezza è giusta (secondo numerose filosofie estetiche), ma ora non possiamo permetterci svaghi, né celebrazioni del bello.

I leader del 2021 dovranno affrontare il futuro con precisione chirurgica e visione etica, senza concedersi confortanti rassicurazioni. 

“L’arte non è uno specchio su cui riflettere il mondo, ma un martello con cui scolpirlo”. (Bertold Brecht)

Da vedere. Da riflettere. Da discutere.

Orietta Paolucci

Il Marzocco originale di Donatello. 1419-20. Firenze, Museo del Bargello.



Il pozzo di Sciascia

(di Cristiana Caserta)

  • Perché Sciascia non ha avuto il successo popolare di altri scrittori siciliani?

L’ho chiesto a un mio amico, grecista, di grande cultura, conoscitore profondo di cose siciliane.

  • Era antipatico”.

Mi dice. Con il segno di diniego tipico dei siciliani: un movimento della testa non da sinistra a destra e ritorno, ma dal basso all’alto. Appena accennato.

C’è del vero. Ci vuole impegno per leggere Sciascia, seguirne la sintassi, fare i collegamenti, attendere le spiegazioni – di chi si parla? Chi sono i personaggi? – o andarsele a cercare. Di più: nessun personaggio mangia o si mostra interessato all’arte culinaria isolana, alle ‘fimmine’, ai paesaggi e insomma alla Sicilia orgia di colori e sapori che seduce i non siciliani (chè noi ne abbiamo pieni gli occhi e la bocca e ce ne ricordiamo con nostalgia solo quando siamo in altre meno variopinte e insipide latitudini). Raramente filosofeggiano – ed è paradossale che di Sciascia si ricordi fin troppo spesso l’apologo di uomini, mezz’uomini, ominicchi e quaquaraquà – molto spesso addirittura lavorano. Con scrupolo.

© Ferdinando Scianna

Insomma, antipatica come scrittura.

Neanche c’è spazio per autoassoluzioni, divagazioni, abbellimenti.

E una parola che non dipinge: scolpisce.

Ogni parola, come un colpo di scalpello o di martello, leva uno strato di materia e ci avvicina alla verità che c’è nelle cose: solleva, districa, taglia..   “al punto che non c’è nessun vuoto, e nessun elemento superfluo, per cui il soggetto consegue la massima espressività nel minimo spazio possibile” (cito dalla conversazione con l’Anonimo).

Questa essenzialità tagliente e ‘in levare’ non è meno siciliana dell’opulenza del mettere e stratificare. Certi paesaggi della Sicilia occidentale sono così: linee orizzontali, quadri bicromatici: sabbia e cielo; sale e vento; colonne e pietre, bianco e azzurro.

Sciascia ha letto molto Verga e si sente. Ma Verga si straniava per vedere la Sicilia con gli occhi dei suoi personaggi marinai e contadini, lui che era colto e borghese e a lungo aveva vissuto a Milano; Sciascia usa lo straniamento per girare intorno al suo oggetto, come uno scultore alla sua statua, vederlo da tutte le possibili angolazioni. E così la Sicilia la allontana e la avvicina; la scherma e la rivela, la nasconde nelle pieghe delle cose e la trova nel fondo delle persone.

Palermo, 1971. © Henri Cartier-Bresson

Fra le cose più belle di Sciascia, secondo me, ci sono i saggi romanzati, o i romanzi in forma saggistica: La scomparsa di Majorana, La strega e il capitano, L’affaire Moro.

Il lettore de La scomparsa di Majorana sa che poche pagine possono richiedere molto tempo di lettura: ognuna è densa, concentrata; perché la vicenda del fisico che scompare, avendo avvisato che sarebbe scomparso ma poi anche di non tenere conto di quell’avviso, può cambiare a secondo del punto di osservazione.

Così lo scrittore inizia a dipanare la matassa dapprima mettendosi in posizione molto periferica rispetto ad essa: dal punto di vista del cittadino che subisce la giustizia

“Il cittadino che nulla ha mai fatto contro le leggi né da altri ha subito dei torti per cui invocarle; il cittadino che vive come se la polizia soltanto esistesse per degli atti amministrativi come il rilascio del passaporto o del portodarme (per la caccia), se i casi della vita improvvisamente lo portano ad avervi a che fare, ad averne bisogno per quel che istituzionalmente è, un senso di sgomento lo prende, di impazienza, di furore in cui la convinzione si radica che la sicurezza pubblica, per quel tanto che se ne gode, più poggia sulla poca e sporadica tendenza a delinquere degli uomini che sull’impegno, l’efficienza e l’acume di essa polizia.”(corsivi miei)

E interessante notare l’armatura sintattica, annegata nel proliferare di frasi su frasi ma ben visibile: il cittadino che (non conosce) … se (vuole conoscere) …. (si sgomenta).

È la stessa dell’incipit di una novella di Verga, La roba.

“Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria:  ‐ Qui di chi è?  ‐ sentiva rispondersi: ‐ Di Mazzarò”.

© Ferdinando Scianna

Qui è il viandante sgomento che a distese interminabili di terre a destra e a sinistra corrisponda un solo nome di proprietario. L’occhio straniato del viandante rispetto alla religione dell’accumulo diventa in Sciascia l’occhio del cittadino rispetto alla giustizia da reclamare: la verità è una terra straniera.

Ma lo straniamento è un bene, cambiare prospettiva è un bene: il cittadino può trovarsi improvvisamente – perché un parente sparisce – nella posizione di chi vuol conoscere la verità. Quella verità non è più soltanto un adempimento burocratico: è ora un’esigenza personale, un tassello mancante al senso di un affetto, di una famiglia, di una biografia.

Sciascia recupera – nell’epoca degli sperimentalismi, delle neoavanguardie, della provocazione – uno strumento logoro e screditato: la Ragione illuminista e settecentesca. Con la quale si inoltra nel mistero passo dopo passo, come un viandante; o meglio, come un archivista. Districandosi fra le scartoffie, i dispacci, le lettere di trasmissione, i fascicoli aperti chiusi siglati e riaperti. Sciascia è maestro nel trarre ogni informazione possibile da un tratto di penna, un inchiostro, una firma. L’arido linguaggio di un funzionario dischiude i suoi significati all’intelligenza affilata dello scrittore, si rivela al suo sguardo limpido.

Tagliando la carne, ecco l’osso, la verità dall’interno: dalla mente del personaggio, di Majorana.

“La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità.“ (ndr, dal “Giorno della civetta“)

Esistono studi sulla tardività – Lo stile tardo, di Edward Said  –  cioè su quel cambiamento che si verifica nella produzione di poeti, pittori, musicisti nell’ultima fase della loro vita artistica: a volte è un manierismo, a volte un aggravarsi ossessivo di problemi, a volte un’ira disperata; dovrebbero esisterne anche sulla precocità del genio.

Essa si presenta in Majorana, secondo Sciascia, come acuta coscienza di un destino, una vocazione. Assecondarla è morire. La vita del fisico è quindi in un gioco di fughe e di nascondimenti: da sé stesso, dallo scienziato che egli è senza averlo scelto, senza amarlo, senza volerlo essere. E quindi la scelta di scomparire, come fisico; forse per riapparire in altro luogo, anonimo, senza il fardello di un compito e di un destino.

Il pensiero della morte, che tutto corra verso la morte, Sciascia lo vede anche nello sguardo stanco di Moro, anche prima del rapimento. Eppure, questa stanchezza non lo esime dal tentare con pazienza di allontanare da sé quella morte, prendendo tempo, parlando, scrivendo, in attesa di essere trovato.

Concludiamo con questa immagine dello scrivere per ingannare o ritardare la morte; del cercarla per non trovarla, del non temerla per non esserne colto di sorpresa.

Ferdinando Scianna, Leonardo Sciascia. Racalmuto, 1964 © Ferdinando Scianna

Trucchi levantini che sanno di sale e odorano di salsedine.

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Costruire e ricostruire attraverso il Suono.

(di Federico Longo)

La musica offre un’importante e intensa esperienza di costruzione e di ri-costruzione.

Per il concetto di costruzione musicale basta tenere presente l’opera del compositore quando decide di affidare al suono la sua esigenza comunicativa.

I rapporti tra suoni e silenzi, tra vibrazioni che generano una determinata armonia e tra impulsi ritmici che scandiscono nel tempo la successione di suoni e pause, sono stabiliti e governati da un progetto primario che conferisce una precisa architettura alle composizioni musicali.

Si può sostenere che le composizioni musicali hanno un’identità diversa da qualsiasi altra forma di espressione artistica. Il compositore, con la musica, crea una “mappa di suoni” che viene fissata attraverso dei luoghi fondamentali che sono le note. Far vibrare questi suoni, ripercorrendo questa “mappa”, ci pone su un piano di comunicazione diverso da quello convenzionale e offre la possibilità di riferirci a un campo espressivo-comunicativo arcaico che concepisce il Suono come qualcosa che precede qualsiasi parola determinata e qualunque concetto logicamente fondato.

Secondo questa visione , appare evidente che la musica esista solo nel momento in cui vibra e, insieme, che una singola composizione possa esistere però simultaneamente infinite volte. Appare altresì chiaro che ogni composizione abbia una precisa identità e che essa possa cambiare ogni volta che viene eseguita a seconda di chi la produce e di chi la fruisce.

La musica, linguaggio simbolico per eccellenza, offre molteplici possibilità espressive ed interpretative e, pochi suoni, magari sempre gli stessi pochi suoni, possono condurre l’ascoltatore in infiniti percorsi attraverso le tre dimensioni: altezza, lunghezza e profondità, rappresentate dall’altezza del suono, dalla sua durata e dalla sua intensità, oppure dall’armonia (dimensione verticale), ritmo (dimensione orizzontale) ed intensità dello stesso suono appunto.

Seguendo e dando vibrazione a questa “mappa di suoni” tracciata dal compositore, sia l’esecutore che l’ascoltatore ripercorrono e ri-costruiscono un progetto che cambierà nel suo potenziale espressivo ogni volta che viene eseguito, fosse anche sempre lo stesso.

Dare luogo ad una esecuzione musicale mette in simultanea operatività diversi individui che agiscono interiormente. Ecco forse, come raccontato dalle cronache, cosa andavano a ri-costruire nella Germania nazista quelle persone che, camminando tra le macerie e rischiando di trovarsi allo scoperto durante il suono delle sirene, si recavano ai concerti di musica sinfonica.

Il QR-code che segue conduce alla piattaforma Spotify per ascoltar un brano dal nome “Lamed (A letter for a friend)”.

Si tratta di una vera e propria lettera scritta con il suono e non con le parole. Prende il suo primo titolo e ispirazione da una lettera dell’alfabeto ebraico: la lettera lamed che, grazie anche alla sua forma, può rappresentare un canale di energia che unisce la terra al cielo. Questa suggestione è affidata al suono, con la speranza che esso conduca in quel campo espressivo-comunicativo a cui è stato fatto cenno in precedenza e che, superando ogni barriera culturale-linguistica, crea una comunicazione pura che trova il suo fondamento nella condivisione.

Federico Longo – Lamed (A letter for a friend) – Spotify

Note biografiche sull’Autore

Federico Longo è un musicista attivo sia come compositore e pianista che come direttore d’orchestra.
Nell’agosto 2020 ha registrato live, in piazza del Duomo a Cremona, l’evento Notte di Luce, cheche è stato trasmesso da RAI1 il 29 agosto e che lo ha visto eseguire le proprie musiche dirigendo l’Orchestra Filarmonica Italiana e tre solisti internazionali quali il clarinettista Alessandro Carbonare, il pianista Carlo Guaitoli e la violinista Clarissa Bevilacqua.

Concatenation, il suo terzo Cd con musiche composte e suonate dall’autore, succede a L’arte del volo e a La vena giusta del cristallo, album quest’ultimo che ha riscosso un notevole successo di pubblico e di critica ( “Compostezza e amabilità espressive. l’interprete autore si affida alla naturale architettura dell’articolazione pianistica con melodie garbate”. Angelo Foletto, La Repubblica, 23 febbraio 2014).

Sempre come compositore e pianista sta svolgendo un’intesa attività concertistica in tutta europa. Di particolare rilievo le due tournée negli Usa nel 2016 e nel 2018.
La sua musica è prodotta dal celebre compositore Maurizio Fabrizio, autore quest’ultimo di alcune fra le più celebri canzoni italiane come Almeno tu nell’universo, I migliori anni della nostra vita etc.
Come direttore d’orchestra, dopo i debutti alla Philharmonie di Berlino e all’Opera House di Sydney che hanno segnato l’inizio della sua carriera internazionale, risulta fondamentale il rapporto con la Germania dove è regolarmente ospite al Festival Rossini in Wildbad, e oltre ad aver realizzato numerose produzioni liriche e sinfoniche, ha diretto stabilmente l’orchestra Kammerphilharmonie Berlin – Brandenburg di Berlino.
L’attività direttoriale di Federico Longo vanta affermazioni importanti sui podi delle maggiori compagini orchestrali del mondo: dalla Sydney Symphony Orchestra alla Philharmonie di Berlino, dalle orchestre italiane del Teatro dell’Opera di Roma, del Carlo Felice di Genova e del Teatro Comunale di Bologna alla Melbourne Symphony Orchestra.

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Nella mente di Tomasi di Lampedusa

(di Cristiana Caserta)

Abbiamo letto tutti Il Gattopardo. Abbiamo visto il film, più verosimilmente.

Abbiamo citato la questione del cambiare tutto per non cambiare niente, quasi sicuramente.

Dimentichiamocene.

 “Ci sono cose che solo la letteratura può dare coi suoi mezzi specifici”

Lo diceva Italo Calvino. Intendeva: costanti, idee e immagini che si ripresentano allo scrittore e monopolizzano (ossessionano?) la sua attenzione. Immagini pervasive nel Gattopardo:

  • smisuratezza
  • mescolatezza
  • inconsistenza
  • tardività.

[Sulla trama, si può sorvolare: la difficoltosa unione di due famiglie, una principesca l’altra borghese, fra molti dialoghi, descrizioni, soliloqui che mostrano la vita quotidiana del Principe di Salina – risvegli, abluzioni, vestizione, riposi, passeggiate – e della sua famiglia; le loro occupazioni – pranzi, cene, balli, visite, recite del rosario -; la vita pubblica (udienze del Re, colloqui con gli ospiti); le case con i loro ornamenti, le relazioni pubbliche e private.]

Cominciamo dalla smisuratezza. L’elenco non può che cominciare proprio dal protagonista del romanzo, Don Fabrizio, Principe di Salina: “l’urto del suo peso da gigante” sul pavimento della villa, nell’atto di rialzarsi dopo la recita quotidiana del rosario, è il primo impatto che il lettore ha col personaggio.

Sulla smisuratezza fisica del Principe, che viene chiamato “zione” dal nipote Tancredi e dalla bella fidanzata Angelica e “Principone” dalla prostituta Mariannina, Tomasi ritorna svariate volte: per sottolinearne l’altezza, la forza, la potenza della figura; che fa rimpicciolire, per contrasto, tutto ciò con cui egli viene a contatto: la moglie piccolissima, le figlie che egli sovrasta mentre salgono la scala del palazzo Ponteleone, nel capitolo del ballo, nonostante sia un gradino più in basso. Altre cose del romanzo sono piccolissime e tuttavia degne di nota: una macchiolina di caffè sul panciotto bianco guasta l’umore di Don Fabrizio; gigante, egli maneggia con erotica cura viti, ghiere, bottoni, lo specchietto per la rasatura, il pennellino con cui ripulisce uno strumento astronomico (mentre padre Pirrone parla, accalorato, del futuro postunitario della Chiesa).

Ma la potenza attrattiva del grandissimo e del piccolissimo vanno oltre il Principe e la sua persona: grandissimo è tutto ciò che circonda il principe: la zuppiera e i piatti del Principe (gli altri commensali hanno piatti normali), il cane Bendicò (alano), il palazzo di Donnafugata (il più amato), smisurato; ma “sentimentucci” sono per Don Fabrizio quelli della figlia Concetta per Tancredi; “piccolissimo” e “sciacalletto” è Don Calogero, il futuro consuocero.

[Quando Don Fabrizio lo abbraccia, durante la cena di fidanzamento, egli resta con i piedi ridicolmente penzolanti.]

La grandezza smisurata è spessissimo fonte di disgusto e di nausea: come davanti allo smisurato buffet del ballo di palazzo Ponteleone – una celebre descrizione – stracolmo di pietanze.

Mescolatezza è parola sconosciuta ai vocabolari ma eloquente. Non c’è frase, definizione, descrizione del Gattopardo che non contenga un’antitesi, un “ma”, un’ossimoro, a partire dalla “rattoppata tovaglia finissima” per finire col “profumo” “pudrido” del giardino.

Tutto è avvertito da Tomasi come accozzaglia: i colori della nuova bandiera, il frack di Don Calogero (“panno finissimo” ma “taglio semplicemente mostruoso”). Mescolata è del resto la persona stessa del Principe, mescolato il suo “sangue” “in cui fermentavano essenze germaniche”, il suo temperamento mezzo siculo e mezzo teutonico, che lo fanno estraneo ai suoi simili.

La mescola tocca un punto notevole nella breve descrizione del giardino di villa Salina, dove, trapiantate su suolo siciliano le rose parigine si ingigantiscono e diventano “cavoli osceni” (ma ovviamente la madre delle mescolanze è la Sicilia, mescolanza di genti, di produzioni artistiche, di culture).

Il carattere mescolato delle cose è (quasi sempre) degenerazione: la mescola quasi mai riesce e solitamente, è deprecata: quella dei nobili con i villani, quella del nord col sud, quella del nuovo col vecchio. Privilegiato è ciò che è in grado di resistere, secolo dopo secolo, alla mescolanza: a patto però di una altrettanto ‘brutta’ piattezza: la natura, il paesaggio monotono e perenne, teatro impassibile della storia. 

Inconsistenza.  Inconsistenti sono i pensieri del Principe (negli altri Tomasi entra raramente): nel senso non di ‘superficiali’, ma di ‘instabili’, ‘mutevoli’. Don Fabrizio cambia infatti umore e idea con estrema facilità: durante un pranzo, il contatto con la mano della mano della moglie desta in lui il desiderio di un’altra donna – Mariannina – e la conseguente decisione di recarsi a Palermo a vederla; poi la reazione sconfortata dello moglie gli causa un pentimento, senza che tuttavia egli sia capace di revocare la decisione presa; da ultimo, quando è sul punto di entrare nella vettura, don Fabrizio si pente di nuovo, ma stavolta è proprio la reazione esasperata della moglie a confortarlo nella decisione di recarsi a Palermo, non più per desiderio di Mariannina né per la vergogna di revocare l’ordine dato, ma per evitare di assistere alla crisi isterica di Maria Stella.

Questa inconsistenza (“pusillanimità”) è lucidamente intesa dal Principe, in certi momenti, ma come un deus ex machina, sopraggiunge sempre, a schermare la verità, una qualche costruzione ideologica: “la Sicilia”, “il ceto”, la “nobiltà”.

Il centro del romanzo è lo sfarzoso ballo, in un palazzo nobiliare del centro di Palermo. Don Fabrizio è descritto mentre ‘erra’ fra i saloni: gradualmente, egli è preso dalla consapevolezza dell’inconsistenza di tutto ciò che lo circonda. Dapprima ad essere negativamente colpito è il suo senso estetico: un senso di insoddisfazione per l’arredamento, antiquato, per le signore brutte e anziane, per le giovani donne, querule (“bertucce”); poi è la sua intelligenza frustrata dalla stupida ottusità degli uomini, infine il suo senso morale offeso dall’avidità di Don Calogero, incapace di apprezzare la bellezza della sala da ballo, e dall’ipocrisia di Tancredi e di Angelica che ballano, nessuno di loro buono, “ciascuno pieno di calcoli, gonfio di mire segrete”.

Inaspettatamente, dopo questa amarissima notazione, non vi è alcuna presa d’atto, alcuna riflessione!

“Ma cari” prosegue Tomasi, “e commoventi” Con movimento inverso (anticlimax) al salire della nausea di poco prima, adesso la corrente della pietà e dell’amorevolezza da Tancredi e Angelica “comunque cari”, riscende verso le “bertucce” basse e olivastre, verso i nobiluomini ottusi, “il ceto” sociale tutto, ora “i suoi amici”, i soli fra cui è a suo agio etc..

Sotto il segno della tardività è infine tutta l’ultima ‘parte’ del romanzo: dove tardivamente si scopre la verità, la vera misura delle cose: l’amore non era amore; l’odio non era odio; il passato e la memoria di esso si rivelano inservibili, falsi.

Bendicò, il cane amatissimo del Principe, che, morto era stato impagliato e custodito con cura dalle figlie ormai vecchie, ora viene buttato via: con immagine geniale, il corpo di Bendicò gettato sul mucchio della spazzatura – nel lancio – sembra per un ultimo istante il corpo di un cane, vivo.

La forma, la vita, nascono dal gesto postumo, tardivo; sono ri-create (dalla letteratura)! proprio mentre ci si libera della materia di quella forma e di quella vita.

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Il senso delle cose

Intervista a Giulia Gellini

(di Alfredo Dal Caldo)

Frank Zappa – Tecnica mista 70 x 50 – 2012

Da ragazzo frequentavo la chiesa dei Martiri Canadesi a Roma. Mi sedevo nelle panche in fondo vicino l’uscita, lungo le navate laterali e, mentre ascoltavo messa, mi soffermavo a guardare l’architettura imponente composta da ogive paraboliche che si intersecano tra loro.

Ho sempre pensato fosse una forma di rivisitazione delle chiese gotiche, solo dopo, studiando architettura, ho potuto scoprire che l’Architetto Bruno Maria Apollonj Ghetti intendeva rappresentare fasci di palme stilizzate nascenti dal suolo.

La navate della chiesa, illuminate da numerose vetrate, opera di  Giovanni Hajnal, con la raffigurazione di scene bibliche e simboli religiosi legati al tema dell’eucarestia, le trovavo sin da allora sorprendentemente belle, moderne ed innovative per contrasti di colori e segni.

Queste opere splendide, perché di questo si tratta, posso dire che rappresentano il mio ideale artistico perfetto al quale mi sono sempre ispirato crescendo e studiando arte ed architettura.

Ora bisognerebbe credere nel Destino, in quanto necessità suprema e ineluttabile e potere misterioso e incontrastato, il che non è detto che così non sia, per spiegare perché, quando mi sono imbattuto nelle opere di Giulia Gellini, ho subito pensato che si fosse chiuso un cerchio, che qualcosa o qualcuno mi avesse aiutato a capire che c’è sempre una continuità tra due Artisti, anche se geograficamente e temporalmente distanti, come una sorta di eredità trasmessa, e da trasmettere in futuro.

Le opere di Giulia Gellini trasudano sonorità, movimento, geometricità e una conoscenza delle linee e degli spazi. La capacità di saper miscelare varie arti, non esclusivamente pittoriche o architettoniche denunciano una formazione multidisciplinare. Osservando tutti i suoi dipinti, sembra che gli stessi vengano illuminati dal loro interno, come se ci fosse una sorgente luminosa che provenga da dietro, anzi da dentro l’opera stessa.

Costrizioni, s.d.

Giulia, il tuo è un percorso lungo, quando hai iniziato ad avvicinarti al mondo dell’arte?

Il mio apprendistato dura da sempre, da quando ero piccola. Ho studiato pianoforte sin dall’infanzia, e contemporaneamente ho sempre avuto un interesse spiccato per il disegno e per ogni forma espressiva. Mi sono diplomata al liceo artistico e successivamente laureata in Architettura.

Disegno, Pittura, Architettura e Musica dunque…

Ritengo che la mia sensibilità musicale sia un fattore importantissimo, perché la manifesto anche attraverso l’espressività corporea della danza e in particolare del Tango. Questa per me è un’altra forma di energia fondamentale per la mia espressione pittorica, quasi un completamento del mio modus vivendi e dunque della mia arte.

E’ possibile – Tecnica mista 120 x 100 – 2009

Quanto influiscono le tue diverse anime creative sull’opera finale?

In realtà le mie opere non le considero mai finite. Sono in continuo divenire.

Spesso le riprendo e le modifico, le trasformo, alla fine sono stratificazioni delle mie emozioni, del mio sentire e, pur appartenendo ad una sola Anima, questa ne racchiude infinite.

Ognuno di noi ha qualcosa da dire, da trasmettere, a volte da gridare. E’ così evidente nelle tue opere…

Ciò che sento è di voler gridare il disagio della storia del mio tempo, quella che vivo ogni giorno, anche se può infastidire e andare contro le logiche del comune sentire. Ma sarebbe limitativo se dicessi che è solo questo. Non è facile per chi ci crede davvero andare contro corrente, ma per fortuna c’è ancora la libertà di pensare… non ho detto volutamente di pensiero…quest’ ultima infatti è ancora soggetta a censure più o meno dichiarate”

L’Artista potrebbe limitarsi a dipingere, scolpire, e lasciare ad altri questo compito.

Io non posso, né voglio dipingere tematiche idilliache da ‘Mulino Bianco’.

ll compito dell’Arte è sempre stato e sempre dovrebbe essere quello della ‘comunicazione’ della propria contemporaneità senza finizione e ipocrisia.

In tal senso, l’arte non può bleffare altrimenti è altra cosa.

Un’Arte di disagio, che rivendica qualcosa, che parla dell’autore ma racconta anche altro..

Non c’è altra storia da raccontare se non la mia continua voglia di rinascita…sempre…in una pittura in divenire che non avrà mai fine.

Io racconto questo di me, non altro.

Dipinti, quadri, opere comunque autobiografiche.

Tutte le opere lo sono, di qualsiasi artista si parli. Per mia precisa scelta, ho preferito ‘mostrarmi’ solo dopo un lungo percorso di formazione per me necessario. Ogni segno, ogni colore, ogni parola deve contenere un senso per avere valore. Se così non fosse tutto sarebbe tristemente inutile, sterile e banale.

Io devo soprattutto esprimere la mia Anima.

E per far questo ho avuto bisogno di tanto lavoro su me stessa.

Il sistema delle Gallerie e dei Collezionisti è potente ed è indubbio che questi esercitino il controllo sul mercato, ma esistono comunque dei fondamentali che le stesse gallerie seguono, come alcuni parametri indipendenti ed oggettivamente osservabili.

Io non voglio pagare per esporre. Preferisco rifiutare anche a discapito di una maggiore visibilità e future opportunità. Ogni forma di questo tipo a cui non interessa assolutamente la mia arte ma solo un arricchimento personale fine a sè stesso io lo rifiuto categoricamente. Non vuole assolutamente essere un atto di presunzione il mio, ma non ritengo giusto che si debba speculare sull’artista mettendolo in condizione di dover pagare solo per esporre il proprio prodotto.

Progetti a breve termine?

Sto lavorando su due tematiche che corrono in parallelo: la costrizione, come dicevo prima, e l’impossibilità di saper pensare, di poter esprimersi. Una sorta di omologazione silenziosa. La sensibilità femminile è quella del voler sempre cercare metaforicamente lo strumento che permetta di tagliare i legacci ed i bavagli che ci vengono quotidianamente imposti, attraverso parole che sembrano innocue ma sono lame taglienti, aghi sottili. La violenza su una donna può essere anche solo un monologo fatto in tv da una persona che pensa, in malafede, di difendere il proprio figlio.

Hai in calendario esposizioni o Personali?

Si, a breve esporrò dal 7 al 9 maggio a Bologna insieme ad una mia amica, anche lei una artista.

Giulia esporrà a Bologna nell’ambito di “ART CITY BOLOGNA” il 7-8-9 maggio presso L’Altro Spazio – via Nazario Sauro 24/F

Di Giulia Gellini si sono occupati i maggiori critici del settore e le sue mostre sono state recensite dai maggiori quotidiani italiani e stranieri.

giulia gellini




La Fanciulla con canestro di frutta

Intervista a Giulia Blasi

(di Ian Jongbloed)

Fashion_Designer: Svitlana Pasirska – Fotografia: Giulia Blasi

Incontro Giulia Blasi sul set dove sta lavorando per una serie di interviste di un format, nel quale ha il duplice ruolo di fotografa e direttrice artistica.

Mentre ci sistemiamo su un divano attiguo al set, in una pausa dal lavoro per preparare l’intervista, mi spiega subito, quasi fosse una premessa fondamentale del resto della chiacchierata, quali sono i punti di riferimento, la sua stella polare.

“Nel mio lavoro mi ispiro fortemente alla natura che considero uno dei punti centrali della mia estetica tra i contrasti, che utilizzo come lente d’ingrandimento per le peculiarità dei soggetti”

Mi piace molto questa visione “fantastica”, inquadra il contesto molto tecnico nel quale ci troviamo in una cornice quasi “magica” e fiabesca.

Quasi sembra un elfo, Giulia.

Forse la frangetta, o gli occhi vispi e magnetici, potrebbe avere le orecchie a punta se scostasse i capelli che le coprono.
Meglio non indagare, ma non mi sorprenderebbe.

Quanto ha influito il viaggiare, vivere esperienze all’estero?

Una parte importante dell’ispirazione è costituita da viaggi e nuovi scenari che hanno stimolato e tuttora stimolano la mia immaginazione. Conoscere culture diverse, viverle quotidianamente, lasciarsi contaminare e poi restituire il tutto.”

Ora, come tutti, sei stata costretta a non viaggiare e hai vissuto per 14 mesi continuativi a Roma. Quanto ha influito tutto questo sul tuo lavoro?

“Avendo la fortuna di vivere in una grande metropoli come Roma, sono comunque costantemente esposta a tanti input che assorbo restituendoli al mondo attraverso la mia sensibilità. Il mix di culture arricchisce questo luogo che ha tante limitazioni ma anche tanto da donare, tutto sta nel saper coglierne la bellezza e le tante possibilità.

Possiamo in qualche modo catalogare la tua poliedricità artistica? Dire che hai uno stile che ti definisce, che permetta a chi vede una tua foto di dire “ questo è uno scatto di Giulia Blasi, lo riconosco”.

Dando una descrizione generale del mio lavoro, le mie fotografie sono caratterizzate da uno stile minimale e pulito volto a rappresentare l’essenziale di ogni composizione. Sicuramente una predominante è data dalla componente cromatica. Sono certa che una mia fotografia sia riconoscibile, per forma e contenuti.”

Sono rapito dalla sua dialettica e mi trovo in un limbo dove nemmeno quasi più sento i rumori di scena degli attrezzisti che preparano le scenografie e le luci, e gli altri professionisti che collaborano sul set.

“La collaborazione è alla base di un progetto di successo. Quando lavoro penso sia fondamentale lasciare spazio creativo ad altri professionisti, dando loro indicazioni precise sull’intento del progetto e sul suo mood per dare loro gli strumenti giusti per comprenderlo nel migliore dei modi “

Le chiedo di parlarmi di quanto l’arte abbia importanza nel suo lavoro, perché a mio avviso vedendo le sue foto è inevitabile ritrovare richiami formali ed iconografici a pitture e sculture note, ad esempio il Fanciullo con canestro di frutta del Caravaggio.

“Sono sempre stata innamorata dell’arte e sin da piccola mi piaceva esplorare ogni tipo di espressione creativa. All’inizio dipingevo ma allo stesso tempo portavo avanti le mie ricerche fotografiche. È stato un percorso naturale che ho seguito dedicando sempre più tempo alla, fino a quando, ormai quasi 5 anni fa mi sono resa conto che era quello che volevo fare a tempo pieno “

Pensi sia possibile coniugare questo aspetto con le esigenze commerciali? In fondo i committenti hanno bisogno di risultati in termini di vendita.

“Al di là del mio progetto artistico, lavoro con la fotografia commerciale per marchi e aziende, e amo vedere come le mie ricerche artistiche si traducono in lavori su commissione. Non trovo sia una contraddizione, piuttosto una ulteriore occasione di crescita professionale ed artistica.”

Fashion_Designer: Ian Lorenzo – Fotografia: Giulia Blasi

Quanto la tua esperienza all’estero ha influenzato il tuo lavoro? Si può dire che se non avessi vissuto un altro Paese, oggi faresti foto diverse?

“ Il mio processo di lavoro è cambiato nel tempo a causa delle esperienze che ho avuto. Mi sono trovata in diverse situazioni e questo mi ha aiutato ad avere le idee più chiare sulle mie esigenze professionali. Pensando a me stessa alcuni anni fa, sono consapevole di aver imparato a tradurre in immagini le mie visioni in modo più chiaro e personale. Artisticamente mi conosco meglio e riesco a giocare con gli elementi di cui ho bisogno per dare forma alle mie idee.”

In un epoca in cui con uno smartphone in mano siamo tutti fotografi, cosa può consigliare una Professionista dell’arte fotografica ai ragazzi che provano ad essere qualcosa di più di un “postatore” di immagini sui social?

“Un consiglio che posso dare a chi vuole esplorare la fotografia è quello di osare sempre e di non aver paura di provare qualcosa di nuovo.
Condividete senza remore le vostre Visioni, e trasformatele in immagini”

Salutiamo Giulia e la lasciamo al suo lavoro sul set.

L’impressione che ci rimane è di aver avuto una occasione rara di conoscere una persona diversa e particolare.

Autoritratto – Fotografia: Giulia Blasi

www.giuliablasi.com

Instagram: giuliablasiph

Fb: Giulia Blasi Photography




Il divano rosso

Intervista a Marina Ruberto

In redazione avevamo deciso di ripercorrere la Belle Epoque della Pubblicità e delle Agenzie della Milano da bere, attraverso le interviste ai protagonisti (vedi anche quelle ad Anna La tati Cervetto e Fabiola Maria Bertinotti).

L’idea era quella di confrontare, attraverso i racconti di chi ha vissuto in pieno quel periodo, la realtà attuale di un settore che è stato totalmente stravolto (come quasi tutti) dai nuovi strumenti delle nuove generazioni.

Il progetto ha poi preso tutt’altra piega, per un motivo tanto banale quanto profondo.

Dietro quei Professionisti ci sono le Persone, che hanno cose molto più interessanti da raccontare.

E quindi da ascoltare.

Alla fine, indicavamo la Luna, ma guardavamo il dito.

Marina Ruberto è un punto di riferimento del Copywriting e della scrittura.

Le abbiamo fatto la corte a lungo e, non senza difficoltà, siamo alla fine riusciti a vincere la sua riluttanza.

“Fermarsi a ricordare, di questi tempi, ha parecchie controindicazioni. Ma visto che ci tenete tanto…” ci dice .

E con questo preambolo la strada è già in salita.

Cos’è la scrittura per te, oltre che uno strumento di lavoro?  

“Ce l’hai un paio d’ore?… Cos’è, per una persona, ciò che fa tutti i giorni, da un numero di anni ormai imbarazzante? Io non me lo chiedo manco più. So che mi alzo la mattina pensando a “quello che dovrò scrivere”. Non c’è differenza tra lavoro o scrittura volontaria. In modi diversi. Per scopi diversi. Su varie piattaforme, è sempre “quello che devo scrivere”.

Passione? Bisogno? Responsabilità? Pagnotta? Vita? Droga, anche un po’.

Perché la scrittura è possessiva. Non lascia spazio a molto altro. Al massimo io mi concedo di cambiare tastiera, to’.  Passando a quella del pianoforte come una sorta di prosieguo ideale o di stacco totale. Dipende.”

A noi interessa conoscere le persone più che il loro lavoro. In realtà è così che scardiniamo il cassetto che ognuno di noi tiene gelosamente chiuso.

C’è stato un “inizio” del tuo percorso? O c’è un filo conduttore?

“Mi è sempre piaciuto scrivere storie. In quinta elementare le maestre applaudivano al fatto che tramutassi i loro ingessati termini, in storie. Di fantasia pura o di vita reinterpretata. Ho scritto il primo racconto fantasy a 22 anni. Si chiamava “la civetta”. Qualche giorno fa, un amico mi ha detto che i miei post su Linkedin (di cui parleremo), sono brani di vita. Piccole storie, di fatto. Introspettive o meno, sempre lì si torna: alla narrazione”

Quanto è vero il detto “Non puoi scrivere se non leggi”?

“Molto. Io leggevo sempre. Dovunque. Sotto la scrivania dello studio di papà. Sul divano rosso del salotto di Merlino. A letto, sotto le lenzuola, fino a notte fonda. Mia madre mi rimproverava che non dormivo abbastanza.

Qualcuno ha sostenuto (e non ricordo mai chi) che bisognerebbe scrivere una riga per ogni libro letto. Una volta era quasi la mia proporzione. Ora non più, purtroppo.

Eppure, ci dicevi, che hai fatto studi scientifici. Potevi prendere un’altra strada del tutto diversa, potevi essere altrove.

“Vero. Ho fatto il liceo Scientifico. Perdendomi del tutto il greco, ahimè. Però poi ho frequentato l’Istituto Europeo di Design, dove una grande copy dei tempi puntò il dito su di me, [ancora lo ricordo, quel giorno]: “tu devi scrivere”. Mi sentii prima una formica, poi una leonessa.  Così, mentre facevo colloqui per entrare in agenzia di pubblicità, lavoravo in una piccola casa editrice a pagamento. Leggevo i libri altrui e li commentavo. Oppure li raddrizzavo, a seconda. Più o meno quello che fa una editor.”

La gavetta, quello che oggi chiamano “stage”, o lavoro a costo zero.

“Ci rimasi qualche mese. Mi offrirono anche uno stipendio. Ma ero vittima del sacro fuoco della pubblicità.  Quando mi chiamarono in J.W.Thompson, non ci pensai un secondo.”

Una delle più importanti agenzie di comunicazione del Mondo, che oggi si chiama WPP. Un salto al centro della “Comunicazione con la C maiuscola”.

“Esatto, è lì che sono diventata una copywriter. Una gavetta ben pagata, direi. Non come succede oggi. Dopo una decina d’anni e varie agenzie (l’ultima la Mc Cann Erickson), ho scoperto che mi stava tutto stretto. Ricordo che dopo un aperitivo con un grande dell’ADV di allora (luminoso e generoso essere accogliente; lo ringrazierò per l’eternità) mi convinsi a mettermi alla prova. Free lance. Cane sciolto.  Anche adesso. Mai rientrata se non parzialmente, in agenzia. A contratto. Ho avuto anche ruoli di supervisione che mi hanno arricchita professionalmente e umanamente, ma non mi sono mai fermata. Magari è una patologia, chi lo sa. “

È bello veder crescere i nuovi talenti. Poter insegnare loro qualcosa, vederli diventare professionisti…

“È bello, sì. Un giovane copy, musicista, compose un brano per me: “Waltz for Guru”. Già: i miei mi chiamavano così. Che scemi.

Insegnai anche due anni in Accademia di Comunicazione. Scrittura creativa. Non era ancora di moda, allora. Me ne andai perché gli studenti mi venivano a chiedere cose di cui non volevo prendermi la responsabilità. Troppo. Troppo.”

Una motivazione che meriterebbe approfondimenti, ma sulla quale glissiamo. Poi dopo la parentesi dell’insegnamento…?

“Ho sempre affiancato varie attività. Accanto al quotidiano lavoro di copywriting, ho ricominciato a scrivere con parole mie. Un manuale scherzoso, dei racconti brevi… Ho vinto anche qualche premio, del tutto inutile in qualunque termine.

I premi letterari sono ben fatti e ben organizzati quando li vinci. Quando non li vinci sono mal fatti, male organizzati, inutili, insopportabili.

Devi essere inserita, accreditata dove conta, e fare Public Relations. Io non ho mai conosciuto nessuno. Non ho mai avuto il piacere di confrontarmi con altri autori. I premi che ho vinto o a cui ho partecipato, si sono rivelati inutili proprio dal punto di vista delle relazioni. Tranne in un caso che riguarda comunque la sfera dell’amicizia e non del lavoro. L’editoria è un mondo a parte. Forse andrebbe riformato, come la scuola.

Ad ogni modo, tra qualche mese pubblicherò un libro di racconti “a tema” con una casa editrice che ha una vision molto diversa dalle altre. Promuove il concetto di “rete” tra gli autori, e tra autori e associazioni. Direi che somiglia più a un “social tematico” che non a una casa editrice. Mi piace come impostazione, ma per il momento non ho ancora partecipato alle attività. Il tempo è tiranno”.

L’impressione è che tu scriva per puro piacere personale, una sorta di soddisfazione fine a sè stessa. Scrivere per rileggerti come se ti specchiassi nello stagno in una sorta di contemplazione.

È come se volessi metterti in contatto con te stessa, e la scrittura ti permettesse di relazionarti all’altra te. E comprenderla meglio.

“Ah sì?… Mi sembra una spiegazione quasi stucchevole. Sicuramente scontata. Non metto in dubbio che ci sia una componente di narcisismo nello scrivere, ma come dicevo poc’anzi, per me è più vicino all’incapacità di fare altro. A una sorta di dipendenza che può essere galvanizzante, liberatoria oppure doverosa e noiosissima. Ma che non ho mai messo in discussione.

Quanto alla relazione con le tante me stessa (perché due sole, scusa eh?) sarà sempre complicata. Come per quasi tutti gli esseri pensanti. Tenere il diario dei miei labirinti interiori, non mi ha mai indicato l’uscita. Magari a qualcuno sì, ma a me no.

Sembra una vita a capitoli, la prima da copywriter, la seconda da scrittrice..

“Mica è finita qui. Qualche anno fa ho incontrato una terza anima: quella di redattrice/biografa. E per un’agenzia editoriale, ho scritto le bio(e l’ambiente storico) di alcuni filosofi. I volumi si vendevano insieme al Corriere della sera, nella collana Grandangolo. Mi pagavano mezzo euro per un lavoro pazzesco da topo da biblioteca. Oramai avevo fatto amicizia con la bibliotecaria di una sperduta propaggine di cultura in pieno far west milanese: il Giambellino. Dopo un anno e mezzo di fame e durissimo lavoro, sono tornata al “profit”.

Ce n’è anche una quarta, scommetto…

“Claro. Del tutto casualmente (sul “caso”, torneremo dopo), è capitato che degli amici mi presentassero un giovane cantautore italo/svizzero che aveva bisogno dei testi per il suo sito. Ma da cosa nasce cosa e abbiamo cominciato a scrivere alcune canzoni. Insieme. Durante telefonate/fiume che mi hanno insegnato il mestiere più divertente della terra: quello di song writer. Parole e musica: le due cose che amo di più. A cui mi sono applicata più a lungo e che devono danzare insieme, in una canzone. Sembrerebbe la quadratura del cerchio, no?

Si dice “se non sei online non esisti “. Quanto sei presente sui social, e quanto per tua scelta piuttosto che per “esigenze professionali”?

“Naturalmente non poteva mancarmi un’esperienza di scrittura su alcuni blog.

Poi, lo scorso anno, in pieno lockdown, come quasi tutti, ho cominciato a pubblicare i miei post su Linkedin. Non avrei mai detto che la cosa mi sarebbe piaciuta. E che commentare, leggere, interagire con tante altre persone, avrebbe potuto diventare quasi un lavoro. Eppure è andata così. Ho fatto amicizia con diverse persone con cui mi sento abbastanza regolarmente anche fuori dalla piattaforma.”

Sembra un’esperienza formativa, nonché costruttiva, anche in funzione lavoro.

“Direi una sorta di allenamento al confronto, allo scambio. Che può fermarsi alla piattaforma, o tramutarsi in progettualità o addirittura concretizzarsi in collaborazione. Come sempre, dipende da tante varianti. Professionali e umane.”

La domanda, come si dice, sorge spontanea. Sembrerebbe ormai matura una scelta professionale che si avvicini al giornalismo; sicuramente non mancano le basi e le capacità di raccontare in maniera coinvolgente. Il talento è chiaro, inconfutabile.

“La vita è fatta di circostanze concomitanti. Qualcuno le chiama fortuna, altri  caso, karma o  Universo. Sta di fatto che a un certo punto è arrivato Fuori. La tua è una domanda corretta, perché da quando ho cominciato a scrivere sul magazine è emersa una sorprendente passione per la ricerca, l’intervista e l’indagine; tutte attività che ho svolto marginalmente nelle altre “vite professionali” e che penso dovrebbero convergere in quella di una giornalista. Ovviamente non potrò fregiarmi di un titolo, iniziando un percorso di abilitazione adesso. Ma diciamo che potrebbe essere un’altra strada da percorrere liberamente. Un altro modo di scrivere. Il settimo, mi pare. E il 7 è un numero pieno di significati.”

Una vita piena di esperienze e soddisfazioni professionali. Cosa ti manca di più oggi?

“Raramente mi guardo indietro. La nostalgia non è uno stato d’animo che provo frequentemente. Ma questo tempo infinito e doloroso, ha sparigliato molte carte.

Così spesso mi capita di pensare al divano rosso; quello dove, da ragazzina, mi allungavo per ore a leggere. Divorata dai libri. Posseduta dalle storie. Senz’altro desiderio che quello di lasciarmi portare via dalle parole altrui.  E percorrere strade lontane. Diverse. Ma con i miei colori.

Ecco.”