Mies is more

Barcelona pavillon photogallery

Less is more, diceva Mies van der Rohe. E noi lo prendiamo in (poca) parola. Tanto, ci sono le foto. E che foto! Con un focus in appendice dedicato a “Der Morgen” di Georg Kolbe, un’opera all’altezza – stratosferica – del più bel padiglione espositivo di tutti i tempi: quello tedesco all’esposizione universale di Barcellona 1929.




L’ Arte palliativa.


di Chiara Savettieri

Ho riflettuto sulle cosiddette “mostre immersive“, anche in funzione di un articolo del Giornale dell’Arte che ho letto di recente. Si tratta di ambienti in cui sono proiettati, per dettagli o interamente, capolavori di artisti come Van Gogh, che risulta uno dei più gettonati in questo genere di operazioni.

Entrando si è completamente “immersi” per l’appunto nell’universo artistico di un grande Maestro.

Mi sono sforzata di capire, senza pregiudizi e con un approccio ingenuo, se potessero avere una loro utilità. Queste immersioni hanno un valore conoscitivo? Aiutano a comprendere i grandi artisti del passato? Dunque, un bambino della scuola elementare per esempio, che non sa nulla di Van Gogh, sicuramente viene introdotto ai colori e a certi temi della sua pittura. Per questa fascia di età, una qualche utilità forse c’è. Ma per le altre?

Di fatto, queste mostre proprio attraverso il procedimento immersivo finiscono per travisare le opere, accentuando certi dettagli piuttosto che altri, confondendo le relazioni spaziali e cromatiche stabilite dal pittore, eliminando completamente le dimensioni e il formato delle medesime.

Insomma, l’arte è trasformata in “evento“, in spettacolo, in macchina che suscita emozioni, molto facilmente, che stupisce, ma di cui poi, in fin dei conti, al fruitore non resta nulla di concreto.

Nessuna di queste opere proiettate è stata realizzata per essere ingigantita e “mossa” su una parete.

La mia è una considerazione eccessivamente storicista? Certo, lo storicismo mi insegna che ogni opera va compresa secondo le categorie e il contesto culturale di una data epoca. Quindi da questo approccio, “eventi” del genere sono delle mostruosità.

Di fatto, il problema non è tanto la mostruosità, ma il carattere diseducativo che si insinua in queste operazioni. Tutti possiamo fruire dell’arte anche se non conosciamo il contesto storico, fruizione più superficiale ma pur sempre fruizione, ma per lo meno che l’integrità dell’opera come l’ha pensata l’artista sia mantenuta, che il senso delle proporzioni e delle relazioni formali resti intatto.

O allora, che l’immersione diventi un’opera d’arte vera e propria a se stante, che trae ispirazione dall’artista di partenza (Van Gogh o chi per lui), ma che ne interpreti le opere in modo originale, un po’ come ha fatto Bill Viola con le sue videoinstallazioni ispirate a opere medievali e rinascimentali (artista di altissima levatura che nulla ha a che vedere con questi eventi). Oppure a partire dallo stile di Van Gogh, fare un cartone animato sulla sua vita (il bellissimo Loving Vincent).

Insomma se di immersione si deve parlare, allora che sia sfacciatamente interpretativa e originale, e non apparentemente fedele all’artista che vuole celebrare, ma in realtà subdolamente ambigua e falsa.

Penso che queste mostre immersive siano il frutto di un’epoca che cerca le facili emozioni, che vuole una immediata, sensazionalistica e peraltro falsa comprensione delle cose, che trasforma l’arte in divertissement. L’epoca dei likes in cui si cerca di “compiacere” l’altro, privandolo di stimoli veri, con cose spettacolari ma senza sostanza.

La società palliativa.


Chiara Savettieri

Chiara Savettieri insegna Metodologia della ricerca storico-artistica e Storia della critica d’arte all’Università di Pisa. E’ specialista di storia dell’arte e storia della critica d’arte in Francia tra Sette e Ottocento, di tematiche legate all’età neoclassica (fortuna dei primitivi, rapporti tra arti visive e musica/danza, memoria dell’antico). Si è inoltre occupata del tema della morte nell’arte contemporanea e della rappresentazione dei neri nell’età moderna.




Brebbus.

Foto di Raffaele Montepaone_ Life_ Tutti i diritti riservati_
E’ vietato riprodurre l’immagine senza autorizzazione scritta dell’autore.

di Maria Patrizia Soru_

Adagiato al centro della piana di Uras, al limite nord-orientale del Campidano (in provincia di Oristano), coperto da lussureggianti lecci e macchia mediterranea, Monte Arci svela la sua origine e  storia senza tempo, è un vulcano dormiente.  Trebina LongaTrebina Lada e Corongiu de Sizoa sono le tre vette che richiamano all’immagine di un treppiede, sono ciò che rimane dei tre condotti vulcanici che hanno dato origine al monte ed al suo inestimabile tesoro, l’Ossidiana.

Considerata “l’oro nero della Sardegna”, l’Ossidiana è una “pietra vitrea” rara, di origine vulcanica, la sua formazione è dovuta al rapido raffreddamento della lava a seguito di un’eruzione. Il suo colore è  nero ed in sardo è chiamata “sa pedra crobina” letteralmente “la roccia nera come il corvo”, anche se il suo colore non è sempre uniforme ma cangiante. Se colpita dai raggi del sole è possibile vederne la vitrea trasparenza e talvolta animarsi di diversi colori, dal nero al grigio, dal caldo rosso al marrone o al verde, fino candido bianco.

E’ un viaggio lungo milioni di anni quello dell’Ossidiana, un viaggio che dal centro della terra la porta fino a noi, tra le nostre mani.

Seguendo le sue vie in senso letterale, è possibile ripercorrere la storia del popolo sardo e delle sue tradizioni. Ad onor del vero altre regioni nel Mediterraneo conservano questo tesoro, Lipari, Pantelleria e Palmarola, anche se è certo che i più ricchi siti di estrazione sono quelli del Monte Arci in Sardegna. Sono e forse lo sono sempre stati in quanto i  primi indizi sullo sfruttamento sistematico della risorsa ad opera dei così detti ‘scheggiatori’ specialisti che la preferirono alla Selce, risalgono al Neolitico recente (II metà del V millennio a.C.), epoca in cui si sviluppò la grande officina di Conca ‘e Cannas e l’Ossidiana divenne il cardine degli intrecci commerciali nel bacino del Mediterraneo.

“Pietra di fuoco” anche questo nome le appartiene, richiamo alla calda e rossa lava che una volta spenta e modellata dall’uomo cerca ancora il “ rosso calore”, quello del sangue. Quel sangue che probabilmente intrise le mani di colui che per primo scoprì che la “pietra nera”  era facile da scheggiare e modellare in oggetti acuminati indispensabili per la vita ma indissolubilmente legati alla morte. Dagli utensili d’uso quotidiano, quali lame e raschiatoi probabilmente per la lavorazione delle pellialle armi da getto: le punte di freccia. Strumento indispensabile per la vita è una punta di freccia in ossidiana issata in cima ad un sottile bastone tra le mani di un cacciatore in cerca di una preda per sfamarsi, per sfamare. La stessa punta di freccia assume un altro significato tra le mani di un guerriero in cerca del “nemico”, pronto a difendere o difendersi seminando morte e dolore all’interno del genere umano.

Una pietra così affascinante ed importante per la sopravvivenza, ha assunto presto un valore ed un significato speciale a tutela della persona e come ornamento, un uso intimo e personale, l’amuleto.

Gli oggetti destinati ad uso personale, sono strettamente legati all’ambito tradizionale che negli anni li ha replicati sostanzialmente immutati, tanto da risultare difficoltoso distinguere visivamente gli esemplari antichi da quelli recenti.
“L’amuleto” vero e proprio non è prezioso nei materiali e non è mai di grandi dimensioni. Il materiale usato per le montature è sempre l’argento in lamina, talvolta dentellata, o lavorato a filigrana. Le catenelle che uniscono i diversi elementi che li compongono sono costituite da perline di varia forma e differenti materiali, legate tra loro con maglie anch’esse d’argento; la tecnica di lavorazione è solitamente piuttosto elementare. Assai rilevante è però il significato magico-religioso che gli amuleti hanno assunto nella loro lunghissima storia. In Sardegna non si è sviluppata una “magia colta” come quella persiana, giudaica o egiziana, profondamente legata allo studio dei problemi dello spirito e del movimento degli astri a cui si connetteva non solo il conteggio del tempo ma ogni evento naturale.

Gli amuleti ebbero vasta diffusione. Sono questi gli oggetti concreti che la magia semplice, popolare, impiega come strumenti di difesa, con efficacia specifica o generale, contro qualsiasi sofferenza che derivi da cause sconosciute, pertanto ritenute soprannaturali. “Per la loro forma o per la struttura della loro materia, arricchiti talvolta da formule magiche, incorporano la potenza che attiene al soggetto divino di cui sono riconosciuti simbolo e la esercitano in favore di chi li tiene vicini portandoli sulla persona, appesi a capo del letto o della culla, posti sotto il cuscino o fissati alle vesti.” Dovrebbero assicurare benessere, abbondanza e fortuna, tenere lontani i pericoli e preservare dalle malattie e dai malefici.
Gli amuleti formati da più oggetti magici, collegati da una catena o saldati direttamente tra loro, ottengono un effetto maggiore: ogni singolo elemento infatti è dotato di una propria forza che si somma a quella degli altri per concorrere, nel modo più efficace, a tutelare chi li possiede contro i diversi malefici. L’uso dei talismani è documentato sin dall’Età del ferro; dal periodo tardomedioevale e rinascimentale sussistono  anche numerose rappresentazioni iconiche e letterarie in ambiente cristiano.

In Sardegna, più che in altre regioni, sono stati rinvenuti antichi amuleti del pantheon egizio e di quello punico che da esso dipende. Tuttavia, col mutare dei tempi e dei costumi, se pure numerose credenze magiche hanno continuato a sopravvivere, gli amuleti hanno subito numerose variazioni, causate dal sovrapporsi di altre culture sino ad essere gradualmente sostituiti da tipologie diffrenti. Una nuova era, per l’universo magico della Sardegna, ha avuto inizio nel corso del XIII secolo quando arabi ed ebrei, provenienti dal Maghreb e dalla Spagna meridionale, stabilirono relazioni commerciali dirette con l’Isola.

La presenza in Sardegna di persone che, come gli antichi egiziani, affiancavano alla religione alcune pratiche esoteriche, può spiegare la sostanziale comunione tra simbolismo religioso cristiano e sovrapposizioni di culture più antiche, una confluenza che ha plasmato le credenze e le pratiche magico-religiose popolari dell’isola. “Le caratteristiche pratiche ad esse legate sono rimaste in uso sino all’inizio del Novecento, nonostante gli anatemi lanciati dal Sinodo di Cagliari sin dal 1652 e costantemente replicati da quelli successivi, nei quali si condanna esplicitamente la magia e l’uso di portare con sé amuleti. Ma pressoché ovunque la volontà popolare manifesta una forte resistenza nel  coltivare una ritualità estranea alla religione ufficiale.”
La credenza nel “malocchio”, ovvero nei poteri malefici espressi per mezzo dello sguardo, è documentata per la prima volta in testi magici egizi della fine dell’Antico Regno, duemila anni prima della nascita di Cristo, ma le sue origini risalgono certamente a tempi ancora più lontani, ad un epoca mitica nella quale l’uomo primitivo vedeva nel sole e nella luna l’occhio destro e sinistro della divinità celeste primordiale.
L’osservazione degli effetti talvolta malefici, prodotti dallo “sguardo” dei due “pianeti-occhi” sui campi e sulle acque, generò la convinzione che l’origine di qualsiasi sofferenza fosse causata dall’influenza del cosi detto “occhio cattivo”. Poi, quando la capacità di emanare questa forza venne attribuita ad alcuni individui ritenuti, forse a causa del loro aspetto, possessori anche del tutto inconsci di tale prerogativa, la superstizione del “malocchio” raggiunse una diffusione enorme. A seguito della credenza secondo la quale la persona, prendendo contatto attraverso il simbolo con il suo modello, diviene “una porzione di quell’essere “magico” e acquisisce l’immunità e la tutela dalle sue influenze malefiche”, così da permettere agli amuleti degli “occhi” di godere  di grande diffusione e popolarità.

Il mistero della fecondità della donna e della terra è il primo fenomeno che l’uomo si è prefisso di controllare e favorire attraverso la forza magica. Si può presumere che ad assicurare la fertilità siano state preposte, già in epoca paleolitica, le celebri statuette definite, “Dea Madre” che sono state ritrovate in molte regioni dell’Europa e dell’Asia e, in gran numero, anche in Sardegna.

Amuleti con conchiglie marine, ritenute sin dalle origini dell’uomo una potente tutela contro il malocchio, sono stati ritrovati in Sardegna nelle tombe puniche. Le stesse virtù delle conchiglie sono state attribuite nella religione giudaico-araba agli opercoli di alcuni gasteropodi come il Turbo rugosus che per la sua forma, richiamante quella dell’occhio, è divenuto l’amuleto deputato più di ogni altro a proteggere gli occhi da ogni male. Per questa funzione, nella religione popolare cristiana, si ritrova accoppiato ad un’immagine sacra ed è denominato “occhio di Santa Lucia”.

Il corallo che un tempo era ritenuto una pietra, deriva la sua valenza “amuletica” dal colore rosso, questa volta da identificare come simbolo del sangue che, per i popoli antichi rappresentava l’energia vitale in conseguenza del fatto che, alla perdita del sangue nell’uomo e nell’animale, si accompagnava la fine del vigore e la morte. Perciò il colore rosso fu ritenuto portatore delle stesse forze misteriose del sangue e quindi capace di dispensare forza e vitalità. 
Vi è inoltre la teoria che abbina alcune pietre alle costellazioni zodiacali e ai pianeti del sistema solare, la cui influenza ricade sulla vita terrestre, tale teoria era riconosciuta sin dai Caldei, anche se  di connessione tra Zodiaco e gemme si parla anche nella Bibbia e, nel III secolo, San Girolamo osservò una precisa corrispondenza tra dodici pietre preziose e i pianeti.
“Anche l’ambra, il giaietto ed altre pietre fossili, che derivano la valenza magica dall’essenza della struttura della loro materia danno vita a molti amuleti sardi. Ad esse si accompagnano altre pietre, quali il diaspro, l’onice e l’agata che si collegano alle gemme gnostiche”. Nel corso del tempo a tutte queste si sono sostituite, sempre con funzione terapeutica, “pietre” di pasta vitrea bianca o colorata con ossidi metallici in rosso, in blu azzurro e in verde. A queste sono stati dati simbolicamente la forma sferica e il colore associati ai pianeti  considerati come perfetti e divini e guidati da angeli, dei quali le pietre racchiudono gli influssi particolari nell’ambito del complesso sistema sia magico che astrologico e religioso, che determina il simbolismo dei colori. La sfera di vetro rosso, insieme con quella azzurra o con quella verde è il simbolo degli occhi di Horo che così sono descritti nei papiri delle Piramidi.  In questi si legge appunto che gli occhi erano uno rosso e l’altro azzurro o verde. 
Nella tradizione magica giudaico-araba, ed anche in Sardegna, venne attribuito lo stesso valore agli occhi di Santa Lucia. 

Valenze diverse hanno invece la pietra bianca “Perda ’e latti”  (la pietra di latte) e la pietra nera, chiamata a seconda delle aree geografiche della Sardegna, SabegiaPinnadellu o Kokko .  La prima provvede a non far mancare il latte nel seno materno, mentre l’altra, in giaietto o ossidiana, lenisce ogni dolore ed è ritenuto protegga contro tutti gli animali velenosi.

L’ossidiana esprime quindi, ancora oggi il suo potere e la sua valenza magica attraverso un ornamento/amuleto semplice e di forma sferica che simboleggia l’occhio. Un occhio buono a protezione di un altro occhio cattivo che genera is Mazzinas ( le fatture e le maledizioni in lingua sarda) o S’ogu malu (l’occhio cattivo) che si posa sul soggetto. Si narra che se il supporto d’argento sul quale è incastonato arriva a spezzarsi, la persona è stata in pericolo di vita per via di una maledizione e l’amuleto ha offerto se stesso a protezione imprigionando al suo interno  il maleficio. Qualora questo dovesse accadere il talismano andrebbe sostituito poiché saturo ed incapace di proteggere ancora.

La tradizione secolare prevedeva che questo amuleto venisse regalato dalle mamme, dalle madrine o dalle nonne alle spose, alle donne in attesa ed alle ragazze che diventavano adulte, ma anche ai neonati in forma di spilla da nascondere nella culla. Prima di essere donato doveva essere benedetto attraverso le preghiere in lingua sarda dette “Brebbus” con funzione di protezione.

Sacro e profano accompagnano tra i secoli la storia dell’ossidiana in Sardegna rendendo sempre vivo ed attuale l’interesse per una pietra che altrimenti sarebbe stata dimenticata.

Non sono in grado di valutare quanto ancora il “potere magico” di questa pietra influenzi la scelta di farne o farsene dono. Ho vacillato a lungo come sospesa in equilibrio su un filo tra razionale ed irrazionale, per capirne il fascino ed il potere. So per certo che l’ossidiana ha accompagnato la mia vita sin da bambina nei frammenti di pietra che raccoglievo nelle scampagnate con i miei genitori attirata dal nero lucente. Così come è altrettanto vero che in fondo, anche se so di non credere in nessuna superstizione, con serenità posso ammettere che quella pietra mi a colpito al cuore. 

Da bambina sono sempre stata abituata alla presenza dei nuraghi, delle domus de janas o delle tombe dei giganti. La storia faceva parte del paesaggio, ne era complementare, ed il tempo che passava aveva un significato sconosciuto. A otto anni è presto per innamorarsi così come è presto per capire chi si vuole diventare. Poi capita che a varcare la porta della mia classe in terza elementare sia un omino curvo su se stesso che tra le mani tiene una piccola teca di legno e vetro, contenente il frutto delle sue passeggiate al di là degli argini che contengono il Tirso. Adagia sulla cattedra inconsapevole, ciò che diventerà una parte della mia vita, il mio quanto mai “remoto” futuro. Quando ho guardato attraverso il vetro ho visto, distese fiere  su un purpureo velluto, punte di freccia d’ossidiana capaci dopo millenni di trafiggere ancora, non le carni, ma l’anima ed il cuore. Di quella piccola lezione di preistoria sarda, credo di aver assimilato ogni singola pausa, respiro, parola, mente gli occhi fissavano le frecce e la mia mente produceva immagini tinte di sangue e mille emozioni. Quelle poche ore, non mi hanno mai abbandonata, anche quando la mia vita sembrava aver preso un’altra direzione e quella punta di freccia in ossidiana tornava puntuale alla mente e mi faceva battere il cuore. Ora forse posso ammettere che il  mio presente è legato ad un inconsapevole “ arcaico cupido-cacciatore”, abile nel modellare e fissare la punta di freccia in ossidiana sul suo sottile bastone, abile nell’averla saputa lanciare oltre il tempo e lo spazio immaginabili, dritta verso la mia anima ed indelebile nella mente.

Non so cosa potrà pensare chi leggerà questo testo sospeso tra storia e superstizione ma, su di me l’ossidiana del Monte Arci, ha compiuto un incantesimo che va oltre il razionale e forse di non semplice comprensione.

Per approfondimento vedi il libro : Gioielli, Storia, linguaggio, religiosità dell’ornamento in Sardegna,  2004 (pag. 83-87); ILISSO EDIZIONI, Collana di ETNOGRAFIA E CULTURA MATERIALE / Coordinamento: Paolo Piquereddu.

http://www.sardegnacultura.it/documenti/7_49_20060414131456.pdf

https://www.sardegnaturismo.it/it/esplora/museo-dellossidiana

https://www.youtg.net/canali/turismo/sardegna-fuori-rotta/121-sardegna-fuori-rotta/15053-il-monte-arci-i-suoi-segreti-e-l-ossidiana-un-viaggio-con-sardegna-fuori-rotta

https://www.donnadifiori.info/donna-fresia/cucci-amuleto-delle-donne-sarde/

http://www.tottusinpari.it/2018/12/27/la-via-dellossidiana-loro-nero-in-sardegna/

https://www.sardegnaturismo.it/it/esplora/parco-del-monte-arci


Maria Patrizia Soru è una Guida Turistica Archeologica.
Appassionata di Storia e letteratura della Sardegna, è alla continua ricerca di immagini e parole capaci di raccontarne il passato, il presente ed il futuro della sua Terra.




D’Amore dimore – Silvia Berton.

Memories_ Olio su tela e pigmento 150 x 120 cm

Intervista a Silvia Berton_

E’ in corso in questi giorni, fino al 30 settembre a Noto [SR] , “D’AMORE DIMORE” , la Personale di Silvia Berton.

E’ una mostra di una Artista poliedrica che arriva dalla fotografia, passa quindi alla Pittura, e inserisce, come in questa occasione, una esperienza  sensoriale e tattile con gli spettatori. 

Lo scopo è quello di ampliare ed integrare l’orizzonte di esplorazione della mostra tramite il coinvolgimento dello spettatore a livello personale.

Spero sia una occasione per ‘guardarci negli occhi’ vedere davvero l’altro…portare i miei lavori dal muro, alla terra, corpo“.

Silvia è veneta di nascita ma, dopo esperienze professionali a Milano e a Tel Aviv, si trasferisce a Noto, in Sicilia. 

Il suo stile, minimalista, è ricolmo di significati narrativi profondi e dal carattere molto forte.

Le sue immagini sono state esposte a Milano, Mantova, Brescia, Genova, Copenaghen, Nizza e Rotterdam.

La incontriamo all’ombra delle arcate di Palazzo Ducezio, location della sua Mostra, seduti sui gradini della splendida facciata.

Nella fotografia esistono, come in tutte le cose, delle persone che sanno vedere e altre che non sanno nemmeno guardare.

Imparare a vedere, è il tirocinio più lungo in tutte le arti. La fotografia per me è stata prima una opportunità professionale quando posavo, e poi un mezzo di espressione potente che mi ha permesso di imparare ad osservare, e che ho usato ed uso tutt’oraE’ il mio personale diario emotivolo sguardo se si guarda veramente, ti porta al di fuori del pregiudizio, ti distanzia dal conformismo che portano inevitabilmente all’ omologazione dell’individuo, cosa che itutti i modi vorrei evitare.

Se usata per comprendere e migliorarsi, è uno strumento anche terapeutico e di grande utilità.

Sono d’accordo, anche se spesso è usata in maniera inadeguata e sicuramente è abusata. Il fotografo ha la responsabilità del suo lavoro e degli effetti che ne derivano” 

La fotografia, dunque non è stata semplicemente un’occupazione. 

Non l’ho mai considerata solo come tale. Sia quando posavo, e poi successivamente usando la macchina fotografica, io ho sempre portato un megafono con il quale ho cercato di parlare senza usare le parole.

Quanto è importante cercare dentro sé stessi le motivazioni che poi ti ispirano per le tue opere?

“Non direi che è importante, forse la vera parola e’ urgente, necessario. Un dipinto mentre lo si fa travolge di rovinosa bellezza e incurante distruzione…ci lascia vuoti attorno , ma pienissimi nello sguardo e nell’anima.Riappacificati e pronti per la bataglia di un nuovo vuoto“.

La tua pittura è caratterizzata da un processo di riduzione della realtà, dell’anti espressività, da una apparente impersonalità e freddezza emozionale. Una sorta di riduzione minimale delle immagini che diventa una pittura estremamente raffinata, simbolica, sospesa tra sogno e realtà. Ti riconosci in questa descrizione? 

Io cerco di trovare la sintesi della forma, e questo vale sia per la fotografia che per la pittura. L’incongruenza naturale di un gesto, scarna di ricerca, virtuosismi , velleità artistiche . La discrepanza , un graffio , un taglio che apre finestre laddove prima c’erano muri compatti di colore e certezze, questa per me è bellezza“.

Possiamo aggiungere che una lucida irresponsabilità, una forma di anarchia e una latente disobbedienza intellettuale sono il “fil rouge” della tua produzione artistica?

Posso dire con convinzione che il principale nemico della creatività è il buonsenso“.

Mirabilis_Olio su tela e pigmento_150x150

Che il valore dell’arte dipenda solo o prevalentemente dal suo valore estetico è sostanzialmente una idea che ci piace pensare che sia vera. Ma, partendo da questo presupposto, come può avere successo un’artista che non tiene in considerazione primaria il valore estetico e magari si esprime attraverso corpi smembrati (è un esempio).

L’arte forse dice di un futuro…e non sempre piace. L’arte pone domande…e  non sempre piacciono“.

Il mercato dell’Arte è un mercato che viene spesso considerato sporco ed inquinato da interessi che nulla hanno a che fare con le emozioni che muovono un artista. Il rapporto tra i mercanti d’arte e l’Artista è davvero così?

E’ mercato appunto…merx “merce”….merce sentimentale …forse non è propriamente il giusto binomio…Non so se ti ho risposto…

Quindi a parità di talento è indubitabile che essere notati dal critico influente faccia la differenza, esporre nelle gallerie più importanti faccia la differenza, essere apprezzati dai collezionisti più capaci faccia la differenza e così via….

Cogliere queste opportunità, accettare il compromesso, può condizionare le libertà espressiva sottoponendo l’artista ad una sorta di “prostituzione” al successo. 

Personalmente,in cuor mio io la penso e la vivo cosìPer altri, con altre priorità, il pensiero può essere diverso e va rispettato“.

Il compromesso è una strategia che inevitabilmente è presente in ogni tipo di contrattazione, e dunque la vera domanda è, “sono disposto a scendere a ricatti”?

Ognuno ha il diritto ed il dovere di guardarsi davanti allo specchio e darsi una risposta. Fatto ciò può prendere una strada o l ‘altra in assoluta libertà, pace e coscienza“.

In qualsiasi mercato la manipolazione dei prezzi da parte degli operatori causa distorsioni, carenze ed inefficienza. Ma nelle sue caratteristiche peculiari , il mercato dell’arte primaria funziona e l’arte contemporanea genera decine di miliardi di dollari di entrate ogni anno. La domanda è : la manipolazione dei prezzi, paradossalmente, non sembra garantire una carriera stabile per le élite e per gli artisti.

La stabilità è importante perché molti artisti impiegano decenni per maturare e produrre i loro lavori
 migliori.Se non avessimo tempo di fronte a noi 
 per maturare, alla fine forse non potremmo produrre opere di livello….o semplicemente non potremmo mangiare“.

I commercianti e i collezionisti d’arte credono tutti di avere un ruolo decisivi nell’arte e per la vostra attività e, interessi finanziari a parte, sono preparati per questo ruolo perchè molti di loro sono veri esperti d’arte che vivono non solo di, ma anche e sinceramente, per l’arte. Praticamente trascorrono tutta la vita nel settore, si aggiornano, studiano la storia dell’arte e collocano l’arte contemporanea nel suo contesto storico. Questo gli va riconosciuto: sanno cogliere ciò che la maggior parte di noi “non addetti ai lavori”, non sapremmo cogliere.

“E’ innegabile e giusto che sia così. Questo è un settore nel quale le masse non sono decisive. Facciamo un paragone con un altro mezzo culturale, diciamo la tv per esempio, dove i gusti della maggior parte della popolazione determina la programmazione e la produzione futura. Se ciò accadesse anche nell’Arte, la richiesta del mercato si attesterebbe ad un livello omogeneamente basso.  La pittura, ma ogni forma d’arte e di cultura, è una cosa privata; si lavora solo per pochi. Può non piacere questo concetto, ma è un dato di fatto”.

A parità di talento e di qualità di contenuti, è corretto dire che sarà l’artista che più e più spesso si esprimerà, che si proporrà al pubblico, che si collocherà nelle “grazie” dei collezionisti che contano , ad avere un maggior e più duraturo successo?

” Il principio è lo stesso che vale per altre professioni. Se uno scrittore non scrive e non pubblica, non è uno scrittore, anche se ha talento. Inutile nasconderlo: creare arte è una libertà, ma come tutte le libertà per essere tale ha la necessità di dargli forma e sostanza, altrimenti resta una sacrosanta libertà ma individuale e basta, praticata per essere tale, e come tale, essendo alta, ben poco si interesserà ad essere riconosciuta e gli basterà essere vissuta solo da chi la crea”.

Da quello che abbiamo potuto comprendere osservando le tue opere, è che tu hai un profondo rispetto per te stessa ed un concetto di dignità molto radicato. A volte può sembrare una forma di ego, una considerazione molto alta del tuo lavoro e della tua vita.

In realtà forse ho grande rispetto di quello che amore e lacrime sanno fare e credo che vadano maneggiate con cura,sempre“.


D’AMORE DIMORE

Personale di pittura e arte performativa di Silvia Berton dal 03 al 30 settembre 2021 NOTO

Bassi Palazzo Ducezio – via Silvio Spaventa

La mostra sarà visitabile tutti i giorni della settimana dalle ore 17:00 alle ore 23.00.

Possibilità di apertura mattutina. Per informazioni o appuntamenti 346 8555 368 – prenota la tua performance

Evento realizzato nell’ambito della Rassegna “Percorsi di NOTOrietà” curata da Vincenzo Medica per Studio Barnum contemporary e Patrocinata dall’Assessorato al Turismo e alla Cultura del Comune di Noto.


Silvia Berton si avvicina al mondo della fotografia inizialmente come modella; presto però si interessa più al processo creativo che sta dietro l’obbiettivo, che non a farne da soggetto. Il suo stile, anche se di natura minimalista, rimane denso di carattere, forza e narrazione. Le sue sono immagini che chiedono di fermarsi, riflettere e lasciarsi assorbire. L’immaginario  compositivo sembra provenire quasi da un’altra dimensione e lascia un’impressione duratura. Le composizioni di Silvia creano un’atmosfera seducente e ci portano con lo sguardo in una storia che dobbiamo ancora capire. Quando osserviamo il suo lavoro ci sembra di scivolare nel sogno di qualcun altro: è reale, senza essere vero. E’ misterioso, passionale e quasi sempre ci lascia con un respiro in sospeso, senza raccontarci mai il finale della storia.




ARTE e DESIGN nei “luoghi della memoria”

Foto ©Mario Barbieri

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Cimiteri – “dormitori” nell’etimologia dal greco: [koimeterion] luogo dove si va a dormire  – sono certamente anche “luoghi della memoria”, memoria per chi ritrova un caro estinto, un figlio, una moglie, una madre, ma anche memoria di un tempo terreno ormai andato, non solo per chi lì “riposa”, ma anche di un tempo storico e artistico ormai irrimediabilmente passato.

Lo sono in particolare i cosiddetti “cimiteri monumentali”, storici, talvolta enormi di altrettanto grandi città, dove ritrovare, ma anche ammirare, tombe che risalgono ai primi del ‘900, se non ad anni antecedenti.

Perché ammirare? Perché troviamo tombe e opere scultoree (arte funeraria) realizzate con rara maestria, per quello che al tempo era un vero e proprio mestiere che dava lavoro a molti “maestri” e “discepoli”, garzoni di bottega che lavoravano in veri e propri “atelier”.

Scultori del Cimitero del Verano | Scultori del Cimitero di Staglieno | Scultori della Certosa di Bologna)

Maestria di bozzetti, modelli e poi sculture, che purtroppo è andata perduta nel tempo, per un cambio di paradigma, di mentalità, della legge della domanda e dell’offerta, in un tempo il nostro, certamente molto standardizzato e appiattito anche nell’arte funeraria.

Un tempo quello andato, in cui per una famiglia generalmente benestante (questo va detto), era importante lasciare un segno imperituro della vita e delle opere del “caro estinto”.
Segno anche di uno “status sociale”, non scevro di una certa ostentazione. Lo si comprende non solo dalla sontuosità di certe tombe, ma anche dagli epitaffi, talvolta mini-biografie che ancora oggi decantano le “opere buone” di chi ci ha lasciato, ma al contempo sono, vorrebbero essere, segno dell’amore, della stima, della gratitudine, di chi è rimasto a piangere il lutto.

Non di meno sono segno di un afflato verso la “vita oltre la vita”, la speranza, la fede, il fato, Dio e i suoi Angeli. Sono opere intrise di tristezza, di dolore, ma anche di certezze, di speranza, di misticismo.

Se ci si sofferma sull’inevitabile incuria, sul deposito della polvere quasi indelebile che crea sulle figure un effetto “al negativo”, come una luce che sembra partire dal basso, più che dall’alto, ci si rende conto ancor di più del tempo trascorso e che ormai morti sono anche coloro che questi morti hanno sepolto…. eppure quel “monumento” è lì, a richiamare la nostra attenzione su una vita di cui nulla conosciamo tranne ciò che l’epitaffio riporta e sulla bellezza e la simbologia di quell’opera di maestria.

Sono luoghi, incredibili, densi di un silenzio avvolgente, di una sacra pace, di una straniante solitudine, affascinanti per chi come me, ama la fotografia, e già prima luogo di “studio”, quando frequentando il Liceo Artistico, ci si spostava presso un cimitero vicino, per avere più “materiale” da ritrarre che non fossero solo gli ormai logori soggetti della gipsoteca dell’istituto.

Questo, o perlomeno anche questo, è l’affascinante Cimitero Monumentale di Staglieno , presso Genova, alla cui visita vi invito e le cui foto da me scattate (solo alcune), qui vi propongo.
Struggente, la sezione delle tombe dei fanciulli morti in tenera età, anch’esse decorate da piccole sculture.

Altro articolo: https://ceuntempoperognicosa.wordpress.com/2012/11/01/il-design-per-il-caro-estinto/


Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti.
Appassionato di Design e Fotografia.

Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.

Blog:
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Il valore affettivo – Nicoletta Verna

“Un libro ben scelto ti salva da qualsiasi cosa.

Persino da te stesso”

Illustrazione Federico Fossi_ vietata la riproduzione senza consenso scritto

Rubrica a cura di Sara Balzotti_

Il valore affettivo – Nicoletta Verna

Casa editrice: Einaudi – Stile libero BIG

Anno di pubblicazione: 2021

Genere: narrativa


“Il valore affettivo” è il romanzo di esordio di questa strepitosa scrittrice, che ha ottenuto la Menzione Speciale della Giuria alla XXXIII edizione del Premio Italo Calvino.

La perdita di un familiare può causare ferite profonde e vuoti incolmabili..

Gli eventi che coinvolgono la vita di Bianca entrano dentro, lasciano attoniti e rimandano un forte senso di impotenza.

Bianca, con la sua famiglia, vive una vita serena, tranquilla nelle vicissitudini quotidiane, fino alla morte improvvisa della sorella, Stella. Bianca ha sette anni quando avviene la disgrazia.

Stella aveva un ruolo centrale nella famiglia e soltanto la sua perdita improvvisa lo rende reale.

Qual è stata la causa dell’incidente? Nessuno lo sa. Bianca porta dentro un grande macigno, fino a quando..

Della perdita della figlia la madre è quella che, all’apparenza, ne risente di più e la protagonista dovrà fare i conti con la nuova realtà che si viene a creare.

Come vivrà e come gestirà i rapporti con la madre?

Nonostante il difficile equilibrio ricreato dopo la morte della sorella, Bianca riesce a farsi una vita. Conosce Carlo, famosissimo e stimato cardiochirurgo, e ne diventa la compagna fortemente amata e voluta. 

Tutto sembra molto sereno, all’apparenza, fino al momento in cui la coppia dovrà affrontare determinate scelte e situazioni.. 

L’amore che Bianca prova per Carlo non è del tutto “disinteressato”. Che cos’è che la attrae di più, in realtà? Che ruolo vede nel compagno?

Di fronte ad eventi terribilmente dolorosi ognuno di noi tira su le proprie barricate.. quella di Bianca è particolare e rischia di travolgerla. Riuscirà la protagonista a gestirla? 

Bianca riesce a restituire all’esterno un’immagine di sé molto diversa da quello che realmente prova e vive.

I pensieri di Bianca legano e travolgono il lettore. Le sue angosce diventano reali e forniscono numerosi spunti di riflessione.

La scrittura di Nicoletta Verna incanta e lascia con il fiato sospeso, in attesa di scoprire l’evoluzione degli eventi, del tutto inattesi. 

Romanzo strepitoso: da leggere!


Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!

A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.

https://www.francesia.it/freetime/consigli-di-lettura/




Che sfiorarsi sia una fine e un inizio.


di Cristiana Caserta_

Oggi ho dimenticato di mettere nella borsa del mare auricolari, libri… (ho portato solo una Settimana Enigmistica, ma sono andata dritta al Bartezzaghi, l’ho finito e l’ho posato) .

Non ho niente da fare…. 

Fra un bagno e l’altro osservo le persone sotto gli ombrelloni vicini.

Le coppie mi attirano.

La mia preferita è quella accanto a me. Non giovanissimi, lui fisico da Steve Jobs, occhiale rotondo occhi azzurri sguardo serio, lei alta bionda super fumatrice. Non parlano tanto, forse si sono già detti tutte le cose importanti. Forse lui ha già rinunciato a farla fumare di meno e lei ha trovato altri pensieri da coltivare mentre lui è assorto. È un tipo assorto, lui. Si capisce. 

Se parlano, parlano a bassa voce. Lui legge, mi pare di aver visto ” Il gabbiano Johnatan Livingstone“. Non ne deve essere entusiasta…

Lei prende il sole, quieta. Con atermica, atarassica, stoica tranquillità.

Non hanno un pensiero, apparentemente. Non guardano telefono nè orologio, non sprecano un gesto, non si danno pena del clima inclemente.

Un po’ li invidio. In un’altra vita vorrei essere così. Essere parte di una coppia così (sarei lui, probabilmente)

C’è una coppia molto più giovane. Di sicuro non sono palermitani. Sono bianchissimi. Abbastanza tatuati. Hanno il telefono perennemente fra le mani, tutto – teli da mare, zaini, libri – dall’aspetto molto tecnico. Sguardi acuti, curiosi, un po’ critici. Sono certa che mentre fanno il bagno pensano ad altre cento cose, compresa la loro evidente difficoltà a rilassarsi. 

Un po’ distante c’è una coppia diversissima. Asincrona: lei legge, lui nuota; lei nuota, lui chiacchiera con amici; lei chiacchiera con i piedi in acqua, lui nuota. Quando si incrociano, parlano. Cose concrete: organizzazione di cena, mi pare. Squieti. Ma coordinati: hanno obiettivi, cose da fare, metodi da applicare, ordine da mantenere, tempi – intuisco – da rispettare. A turno, aggiustano il telo da mare, appaiano le infradito sotto il lettino, ripongono con cura ogni oggetto che prendono o usano. 

Si somigliano, anche. Scuri, asciutti, attivi. Non riesco a immaginarli dirsi cose intime, no. L’attivismo è nemico giurato dell’interiorità. Le capacità di attenzione sono limitate, secondo me: o le scarpe o i pensieri. 

Non potrei neanche in una seconda o terza vita essere parte di una coppia così. 

Mi accorgo di essermi sdraiata sugli occhiali… e che tutto intorno a me è disordinato. Anche il mio Bartezzaghi è disordinato, pieno di cancellature e riscritture. 

Un uccello plana sulla piscina, beve e torna su. Un po’ a fatica, ha le ali bagnate. Lo seguo con lo sguardo. Vorrei fotografarlo..

Anche le coppie vorrei fotografare. 

Mi ricordano un po’ le coppie di Hopper, il pittore dei nottambuli. Coppie molto fuori dal canone romantico, lontano da quello a cui pensiamo solitamente quando immaginiamo una coppia: passione, complicità, abbracci, sorrisi, sguardi.  

In Hopper non si guardano; ognuno assorto nella sua occupazione. 

Eppure a me, come tutta la pittura di Hopper, non comunicano solitudine…

Quella dei nottambuli la amo particolarmente. Cerco di ricostruirle il quadro mentalmente…

Non si guardano, questo me lo ricordo, eppure le loro dita si sfiorano. La faccia di lui … non si vede, nascosta dalla falda del cappello; anzi no, controllo: è impassibile, guarda severo e spigoloso dritto davanti a sè; ma il suo corpo è leggermente obliquo rispetto al bancone del bar, il braccio che lo separerebbe da lei è rimosso; il suo corpo – una massa di ombra densa e scura – è come aperto alla luce che lei emana, dal rosso della sua maglia, dal castano dei suoi  capelli. 

(No, non è la luce gialla che viene dall’alto, è una luce sua, di lei; sì, sono sicura che lei è vestita di rosso, non voglio controllare)

Potrebbe anche essere – ho sempre pensato guardandoli – che le loro solitudini stiano per incontrarsi… che le loro mani – i colori dei loro corpi – ne sappiano di più dei loro occhi, così distanti. 

Che sfiorarsi sia una fine e un inizio. Che ancora fra loro tutte le parole siano da dire e la città, così verde e tetra intorno, così geometrica e vuota, sia in attesa di sapere. 


Cristiana Caserta_

LinkedIn Top Voice 2020; scrivo, studio, insegno materie con le tecnologie, sono pratica di formazione, giornalista free lance, multipotenziale




Una storia in attesa di futuro.

Foto Mario Barbieri


di Mario Barbieri_

Lo scorso 15 Luglio si sono celebrati i 115 anni dello storico e prestigioso marchio di auto italiane, LANCIA .

Si è riproposto all’attenzione l’ultimo logo del marchio, che non è una vera novità dato che risale al 2007, ma forse siamo talmente disabituati a vederlo, che può apparire novità di oggi

Lancia ha una importantissima storia di #design automobilistico e notissima tradizione di auto sportive. 
Chi non conosce o non ricorda la Stratos disegnata da Gandini per Bertone, nata dall’evoluzione della Dreamcar Stratos Zero del 1971. Concept veramente avveniristico per quegli anni e che personalmente mi ricorda i bozzetti di Syd Meaddesigner e illustratore americano scomparso nel Dicembre 2019. La Stratos motorizzata Ferrari, vincerà 3 Campionati del Mondo Rally (1974, 1975, 1976) e numerose altre gare e importanti piazzamenti.
Anche non considerando un modello tanto stratos…ferico (se mi è concesso il gioco di parole), cosa dire della Lancia Fulvia Coupé  disegnata da Piero Castagnero (che si ispirò pare, ai motoscafi Riva del tempo) o della Lancia Delta nelle loro versioni HF? Auto che definiremmo “iconiche” e che tali rimangono.

Come, facendo un bel salto indietro nel passato, della mitica “coprotagonista” [link] de “Il sorpasso” (film di Dino Risi del ‘62 con un giovane Jean-Louis Trintignant e l’insuperabile Vittorio Gassman), la Aurelia B24 prodotta in soli 716 esemplari.

Dobbiamo quindi temo stendere un velo pietoso sui modelli generati dagli ibridi “Lancia-Chrysler” (più Chrysler che Lancia), nati da dinamiche aziendali che poco hanno a che fare con l’ormai centenaria storia del marchio e non possiamo che rimanere perplessi oggi, quando come ignari nuovi potenziali clienti, affascinati dalla storia rievocata, cercando la “gamma” Lancia sul sito del Marchio, troveremmo ben… due modelli!
In realtà due varianti del medesimo modello, la ormai anch’essa storica Ypsilon, che per quanto la si rimaneggi, attualizzi e vivacizzi, rimane un modello nato nel 2003 e che vede la Seconda Serie datata all’ormai lontano 2011(!) che in questi anni non ha visto altro che cambio di livree, allestimenti, accessori.

Che dire? Accanimento terapeutico, minestra riscaldata e continuamente ri-scodellata?
Certo possono sembrare conclusioni dure, ma è proprio il fulgido passato che rende più gramo l’attuale presente.
Si prospetta un futuro pienamente elettrico per la Ypsilon, ma auguriamoci non si tratti solo del propulsore e ancor più che si possa vedere una rinascita, una nuova fioritura di modelli che questo Marchio merita, perché è un pezzo di Storia dell’Automobile che non è conosciuto solo qui in Italia, assolutamente no.

Per chi volesse ripercorrere storia e fasti:
https://youtu.be/5FetDQiek4w
https://youtu.be/KgQM3S01Upc

Con questo primo articolo intendiamo indagare, proporre riflessioni e approfondimenti alle innumerevoli e diversificate proposte del mondo del Design che rappresenta, insieme ad altre forme di Arte, una eccellenza italiana [e non solo].

Vi rimandiamo inoltre al link qui sotto dove troviamo ulteriori proposte, casi studio, e progetti innovativi che meritano maggiore attenzione e approfondimento.

https://ceuntempoperognicosa.wordpress.com/category/design-e-tecnologia/


Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti.
Appassionato di Design e Fotografia.

Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.

Blog:
https://ceuntempoperognicosa.wordpress.com/
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Siamo noi le rane bollite.

David D’Amore_ China su carta_1991

di Giuliana Caroli_

Sono sicura che la stragrande maggioranza delle persone conosce il principio della rana bollita di Noam Chomsky. Molti meno sanno chi è Chomsky. Linguista, filosofo, scienziato cognitivista, nonché attivista politico, è un punto di riferimento per chi, come me, si occupa di Comunicazione. In primis per la sua teoria rivoluzionaria sulla grammatica generativo-trasformazionale e poi per l’analisi del ruolo dei mass media nelle democrazie occidentali.

Nel suo libro “Media e potere” del 2014 scrive:

Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda, nel quale nuota tranquillamente una rana.

Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale.

Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa.

L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla.

Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita.

Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50°, avrebbe dato un forte colpo di zampa e sarebbe balzata subito fuori dal pentolone.

In molti hanno utilizzato questo principio in senso metaforico per parlare di potere e condizionamento mediatico, di degrado e scomparsa dei valori e dell’etica, di impoverimento morale e culturale della società.

Ma io voglio prenderla più alla lettera, pensando a ciò che stiamo vivendo in questi giorni. Sono anni che sentiamo i climatologi affermare che “è l’estate più calda di sempre”. Noi ci accorgiamo che le temperature salgono ma non siamo spaventati. Sentiamo parlare di cambiamento climatico e delle sue drammatiche conseguenze, ma ci sembra uno scenario lontano e irrealistico. Per qualcuno è addirittura un complotto o una fake news. Quindi non reagiamo e continuiamo a condurre le nostre esistenze come abbiamo sempre fatto. Intanto il calore sale e diventa torrido e insopportabile. Proviamo a dare qualche segnale di insofferenza, ma senza troppa convinzione pensando che spetti ad altri intervenire per risolvere il problema. Restiamo inerti, immobili, noncuranti condannando noi stessi alle estreme conseguenze.

Con la nostra inazione stiamo alimentando la deriva del nostro mondo e contribuendo al suo disfacimento.

E allora? Come evitare di fare la fine della rana bollita?

Serve una presa di coscienza forte, dirompente, sconquassante da parte dell’umanità. Dobbiamo reagire all’assuefazione e invocare un cambiamento radicale capace di rovesciare lo status quo nel quale ci siamo rifugiati e adattati per convenienza o per ignoranza. 

Per quanto possa essere difficile da credere, non può esserci scenario peggiore di quello che stiamo vivendo e che ci sta conducendo verso una fine sicura. E non possiamo aspettare oltre. Se lo facciamo, non avremo più le forze e le risorse per uscirne e sarà troppo tardi.

Prendiamo coscienza della nostra situazione e abbracciamo dunque il cambiamento.

Se vogliamo salvarci dobbiamo saltare.

Senza timori. 


note sull’Autore_

Giuliana Caroli, classe 1965, lavoro in una grande cooperativa di servizi come Responsabile Comunicazione, ma mi porto come bagaglio una lunga esperienza in ambito consulenziale e formativo.

Scrivo di ciò che conosco e di ciò che mi appassiona. Coltivo la curiosità e alimento le relazioni positive. Detesto l’indifferenza e l’irresponsabilità.

A cosa aspiro? A fare la differenza: per qualcuno, per il pianeta.




Il senso del dovere: una forma di rispetto?

Anna Cervetto [ annalatati_sketch]_Piovra_Orange Series

di Christian Lezzi_

Tutti noi abbiamo guardato (forse anche più volte) le varie trasposizioni televisive delle umane vicende di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Ninni Cassarà, Boris Giuliano e tutte le altre vittime di quella immonda vigliaccheria che, genericamente, chiamiamo mafia. Film (o telefilm) che, a volte bene, altre molto male, puntano l’occhio indagatore sulle vicende del diretto interessato, sul suo lavoro, tra luci e ombre, sulle vittorie professionali e le umane sconfitte, su ciò che lo ha portato alla morte e, a volte, come nel caso di Falcone, anche al pubblico linciaggio (guitto mediatico, Falcon Crest, il giudice abbronzato, l’amico dei socialisti… ce le ricordiamo queste infamie, lanciate al suo cospetto da buona parte dei “giornalisti” italiani?).

Si parla solo di rimbalzo, spesso come se fosse una componente secondaria, il poco importante contorno al piatto di portata, della loro famiglia, delle persone ugualmente importanti che, del personaggio principale, hanno condiviso ansie e dolori, gioie e paura, percorsi di vita e, a volte, di morte.

Per quanto sia stato da poco l’anniversario della morte di Falcone (23 maggio) e appena passato quello di  Borsellino (19 luglio), e per quanto non sia mai abbastanza lontano nella memoria l’estremo loro sacrificio (29 anni) non è dei protagonisti del Pool antimafia e del maxiprocesso di Palermo, che voglio parlare. Non di mafie ma di rispetto e, per una volta, voglio dare luce e voce a chi, silenziosamente, ha rischiato e sofferto, pur di restare al fianco dei protagonisti di queste brutte storie di sopruso e inumana violenza. Mogli, figli, in primis, travolti dal pericolo che, dal loro congiunto, come un cancro, si è esteso fino a loro. Famiglie intere stravolte dal cambiamento delle abitudini, dovuto alle minacce e alla non-vita sotto scorta, tra canne di pistola e luci blu. Qualunque cosa, ogni sacrificio, pur di restare accanto alla persona amata che, non per eroismo (e di questo abbiamo già parlato qui  ) bensì per un altissimo senso del dovere e dello Stato, hanno deciso di giocare il proprio ruolo fino alle estreme conseguenze, fino a quel sacrificio, di cui avrebbero fatto volentieri a meno, che era parte del gioco.

“Io accetto, ho sempre accettato, più che il rischio le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall’inizio che dovevo correre questi pericoli. La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi, come viene ritenuto, in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare dalla sensazione che, o financo, vorrei dire, dalla certezza, che tutto questo può costarci caro.”

(Paolo Borsellino, a proposito di senso del dovere).

Ed è proprio di senso del dovere, inteso come forma di rispetto per le altre persone coinvolte dalle nostre scelte e dalle nostre azioni, che desidero parlare. E voglio farlo riportando alla memoria di tutti noi, un episodio di vita quotidiana, di desiderio di normalità e di ritorno alla vita, che comunque di rispetto e di senso del dovere, nobilmente si ammanta. Quella percezione di un dovere che non è un obbligo, bensì una scelta, libera, sofferta, ragionata, ma voluta e difesa perché sfida l’inevitabile, che ci fa alzare in piedi e dire “Presente“, quando la situazione lo richiede. Senza eroismi. Solo perché è giusto così.

Oggi voglio parlare di loro, anzi, di una di loro, in particolare. Tra i tanti, diretti congiunti dei troppi caduti per mafia, voglio ricordare l’integrità morale e la forza d’animo di Lucia Borsellino, senza per questo sminuire il sacrificio e l’abnegazione dei suoi fratelli minori Fiammetta (la piccola di casa) e Manfredi, il secondo nato. E nemmeno privando di memoria il sacrificio e la disponibilità di Agnese, madre e moglie esemplare che mai, nemmeno per un istante, vacillò nel suo appoggio al giudice, ben consapevole del rischio e anzi, cosciente della certezza di quanto, prima o poi, soprattutto dopo lo scempio di Capaci, sarebbe accaduto anche a suo marito.

Ma io voglio ricordare Lucia, perché all’epoca dei fatti era solo una ragazza di 23 anni, magra e delicata, forse troppo sensibile per sopportare senza piega la scorta, la paura, l’esilio forzato all’Asinara, le corse nella claustrofobica auto blindata e quel telefono che, in casa Borsellino, seminava il terrore a ogni squillo.

Lucia, che tra mille disagi interiori, dovuti non solo alla situazione contingente, ma anche all’età fragile di per sé, al suo diventare donna, giorno dopo giorno, al bisogno negato (per forza di cose) di libertà e indipendenza, alla necessità di essere serena e di non aver paura, che seppe, nonostante tutto e malgrado tutti, farsi interprete di un’educazione morale eccellente (grazie a papà Paolo e a mamma Agnese) e di un altrettanto eccellente senso del rispetto e del dovere che mai fu solo parole o sterile proclama.

Lucia Borsellino, nel mio immaginario incarna il senso del dovere e del rispetto quanto (e forse più) del suo indimenticato genitore. Quel dovere così sintetizzato dall’insegnamento del Dalai Lama “Segui sempre le tre R: Rispetto per te stesso, Rispetto per gli altri, Responsabilità per le tue azioni”. Perché, in estrema sintesi, il rispetto è anche una forma di responsabilità, quando la responsabilità diventa un dovere.

“Segui sempre le tre R: Rispetto per te stesso, Rispetto per gli altri, Responsabilità per le tue azioni”.

DALAI LAMA

Fu Lucia a voler vedere e a ricomporre i resti martoriati del padre, nella camera mortuaria, nel tentativo di restituirgli quella dignità che la bestialità del tritolo aveva cancellata, distruggendo il suo corpo e quel sorriso che mai dimenticheremo.

Un atto di coraggio, quello di Lucia, che preannuncia l’essenza della donna che sarà, ricca di valori e di forza etica, di senso del dovere, della capacità di dire “ci penso io”, anche quando si trattava di avvolgere di dolorosa pietà (per quanto possibile) i resti del suo povero papà, morto da poche ore.

A tutti noi capita di rinviare un impegno, un appuntamento, solo perché piove, perché siamo stanchi, perché siamo pigri, perché abbiamo altro da fare o perché, tutto sommato, di quell’impegno ci importa poco, togliendo de facto il rispetto alle persone da esso coinvolte. Ma Lucia no, lei ha risposto “Presente“, anche nel momento probabilmente più duro e cupo della sua vita. Un “Presente” che, nelle sue sfumature, aveva la voce di Paolo, artefice di quell’educazione e della trasmissione di cotanto senso civico.

Ed è proprio frutto di quella educazione, di quella formazione genitoriale, di quella percezione del dovere, se Lucia, pochi giorni dopo i tristi fatti di via D’Amelio, con i resti carbonizzati del padre ancora negli occhi (temo per sempre nella mente) decide di onorare l’impegno di un appello universitario, nonostante le validissime giustificazioni che poteva addurre e alle quali nessuno avrebbe potuto obiettare, presentandosi alla commissione e sostenendo un esame universitario, tra lo stupore di professori e studenti presenti..

Perché rispettare i propri impegni, la parola presa, farsi carico dei doveri assunti, è un atto di rispetto, forse il più alto e nobile che l’essere umano possa esprimere e tributare. E Lucia Borsellino, grazie anche all’esempio di Paolo, ne è stata insuperabile interprete, rispettando la memoria di suo padre, le aspettative della sua famiglia, il lavoro dei docenti e la sua stessa dignità.

Oriana Fallaci ha scritto e non a caso: “Non si fa il proprio dovere perché qualcuno ci dica grazie, lo si fa per principio, per sé stessi, per la propria dignità”. Quella dignità che Paolo Borsellino, come tutte le altre vittime di mafia, ha rispettando, pagando con la vita il suo inarrestabile senso del dovere. 

“Non si fa il proprio dovere perché qualcuno ci dica grazie, lo si fa per principio, per sé stessi, per la propria dignità”.

ORIANA FALLACI

Ma Lucia, sua figlia, ci ha dimostrato che di senso del dovere non si muore soltanto. Di senso del dovere si vive, ci si migliora, ci si allontana dalla bestia (come direbbe Immanuel Kant) dando forma alla propria esistenza, alla propria umanità, alle proprie scelte, perché il senso del dovere è, tutto sommato, l’espressione più immediata e tangibile del rispetto che tributiamo agli altri (coinvolti dalle nostre scelte) e a noi stessi, di quelle scelte artefici e protagonisti, nel bene e nel male.

Grazie Lucia. Il tuo esempio ci ha resi persone migliori.


Note sull’Autore_

Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano. Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.