Trailer: Greco e Latino, in Architettura. La serie.

di Tolomeus

Cominciamo col botto, facendovi entrare virtualmente nella più bella Architettura del mondo (… e ci dispiace per le altre?.. No, non ci dispiace per nulla: non c’è storia, anzi Storia che tenga. Il Pantheon “è” l’Architettura).


E proseguiamo chiarendo subito che questo articolo vuole essere “solo” il trailer di una corposa serie nella quale parleremo di Architettura. Non aspettatevi però archistar modaioli o archistarlettes da rivista patinata; tratteremo solo di Architettura Classica, considerandola soprattutto come linguaggio. Parleremo allora di comunicazione; parleremo del greco e del latino, nelle loro versioni architettoniche. Racconteremo di capitelli, colonne, trabeazioni, ovuli e astragali; ne illustreremo la Prosa, Poesia, Grammatica, Sintassi, Eccezioni e …strafalcioni. (Maiuscole e minuscole non sono casuali) E soprattutto lasceremo la parola alle immagini, tutte originali e – necessariamente – di qualità superlativa. Già, armati di fotocamera, non si possono sfidare delle meraviglie in pietra e mattoni, corrispondenti a quelle su carta di Omero, Cicerone e Virgilio, senza esserne all’altezza. Ecco un’anteprima, e…a presto.




Mies is more

Barcelona pavillon photogallery

Less is more, diceva Mies van der Rohe. E noi lo prendiamo in (poca) parola. Tanto, ci sono le foto. E che foto! Con un focus in appendice dedicato a “Der Morgen” di Georg Kolbe, un’opera all’altezza – stratosferica – del più bel padiglione espositivo di tutti i tempi: quello tedesco all’esposizione universale di Barcellona 1929.




ARTE e DESIGN nei “luoghi della memoria”

Foto ©Mario Barbieri

dMario Barbieri_

Cimiteri – “dormitori” nell’etimologia dal greco: [koimeterion] luogo dove si va a dormire  – sono certamente anche “luoghi della memoria”, memoria per chi ritrova un caro estinto, un figlio, una moglie, una madre, ma anche memoria di un tempo terreno ormai andato, non solo per chi lì “riposa”, ma anche di un tempo storico e artistico ormai irrimediabilmente passato.

Lo sono in particolare i cosiddetti “cimiteri monumentali”, storici, talvolta enormi di altrettanto grandi città, dove ritrovare, ma anche ammirare, tombe che risalgono ai primi del ‘900, se non ad anni antecedenti.

Perché ammirare? Perché troviamo tombe e opere scultoree (arte funeraria) realizzate con rara maestria, per quello che al tempo era un vero e proprio mestiere che dava lavoro a molti “maestri” e “discepoli”, garzoni di bottega che lavoravano in veri e propri “atelier”.

Scultori del Cimitero del Verano | Scultori del Cimitero di Staglieno | Scultori della Certosa di Bologna)

Maestria di bozzetti, modelli e poi sculture, che purtroppo è andata perduta nel tempo, per un cambio di paradigma, di mentalità, della legge della domanda e dell’offerta, in un tempo il nostro, certamente molto standardizzato e appiattito anche nell’arte funeraria.

Un tempo quello andato, in cui per una famiglia generalmente benestante (questo va detto), era importante lasciare un segno imperituro della vita e delle opere del “caro estinto”.
Segno anche di uno “status sociale”, non scevro di una certa ostentazione. Lo si comprende non solo dalla sontuosità di certe tombe, ma anche dagli epitaffi, talvolta mini-biografie che ancora oggi decantano le “opere buone” di chi ci ha lasciato, ma al contempo sono, vorrebbero essere, segno dell’amore, della stima, della gratitudine, di chi è rimasto a piangere il lutto.

Non di meno sono segno di un afflato verso la “vita oltre la vita”, la speranza, la fede, il fato, Dio e i suoi Angeli. Sono opere intrise di tristezza, di dolore, ma anche di certezze, di speranza, di misticismo.

Se ci si sofferma sull’inevitabile incuria, sul deposito della polvere quasi indelebile che crea sulle figure un effetto “al negativo”, come una luce che sembra partire dal basso, più che dall’alto, ci si rende conto ancor di più del tempo trascorso e che ormai morti sono anche coloro che questi morti hanno sepolto…. eppure quel “monumento” è lì, a richiamare la nostra attenzione su una vita di cui nulla conosciamo tranne ciò che l’epitaffio riporta e sulla bellezza e la simbologia di quell’opera di maestria.

Sono luoghi, incredibili, densi di un silenzio avvolgente, di una sacra pace, di una straniante solitudine, affascinanti per chi come me, ama la fotografia, e già prima luogo di “studio”, quando frequentando il Liceo Artistico, ci si spostava presso un cimitero vicino, per avere più “materiale” da ritrarre che non fossero solo gli ormai logori soggetti della gipsoteca dell’istituto.

Questo, o perlomeno anche questo, è l’affascinante Cimitero Monumentale di Staglieno , presso Genova, alla cui visita vi invito e le cui foto da me scattate (solo alcune), qui vi propongo.
Struggente, la sezione delle tombe dei fanciulli morti in tenera età, anch’esse decorate da piccole sculture.

Altro articolo: https://ceuntempoperognicosa.wordpress.com/2012/11/01/il-design-per-il-caro-estinto/


Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti.
Appassionato di Design e Fotografia.

Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.

Blog:
https://ceuntempoperognicosa.wordpress.com/
https://immaginieparoleblog.wordpress.com/




Una storia in attesa di futuro.

Foto Mario Barbieri


di Mario Barbieri_

Lo scorso 15 Luglio si sono celebrati i 115 anni dello storico e prestigioso marchio di auto italiane, LANCIA .

Si è riproposto all’attenzione l’ultimo logo del marchio, che non è una vera novità dato che risale al 2007, ma forse siamo talmente disabituati a vederlo, che può apparire novità di oggi

Lancia ha una importantissima storia di #design automobilistico e notissima tradizione di auto sportive. 
Chi non conosce o non ricorda la Stratos disegnata da Gandini per Bertone, nata dall’evoluzione della Dreamcar Stratos Zero del 1971. Concept veramente avveniristico per quegli anni e che personalmente mi ricorda i bozzetti di Syd Meaddesigner e illustratore americano scomparso nel Dicembre 2019. La Stratos motorizzata Ferrari, vincerà 3 Campionati del Mondo Rally (1974, 1975, 1976) e numerose altre gare e importanti piazzamenti.
Anche non considerando un modello tanto stratos…ferico (se mi è concesso il gioco di parole), cosa dire della Lancia Fulvia Coupé  disegnata da Piero Castagnero (che si ispirò pare, ai motoscafi Riva del tempo) o della Lancia Delta nelle loro versioni HF? Auto che definiremmo “iconiche” e che tali rimangono.

Come, facendo un bel salto indietro nel passato, della mitica “coprotagonista” [link] de “Il sorpasso” (film di Dino Risi del ‘62 con un giovane Jean-Louis Trintignant e l’insuperabile Vittorio Gassman), la Aurelia B24 prodotta in soli 716 esemplari.

Dobbiamo quindi temo stendere un velo pietoso sui modelli generati dagli ibridi “Lancia-Chrysler” (più Chrysler che Lancia), nati da dinamiche aziendali che poco hanno a che fare con l’ormai centenaria storia del marchio e non possiamo che rimanere perplessi oggi, quando come ignari nuovi potenziali clienti, affascinati dalla storia rievocata, cercando la “gamma” Lancia sul sito del Marchio, troveremmo ben… due modelli!
In realtà due varianti del medesimo modello, la ormai anch’essa storica Ypsilon, che per quanto la si rimaneggi, attualizzi e vivacizzi, rimane un modello nato nel 2003 e che vede la Seconda Serie datata all’ormai lontano 2011(!) che in questi anni non ha visto altro che cambio di livree, allestimenti, accessori.

Che dire? Accanimento terapeutico, minestra riscaldata e continuamente ri-scodellata?
Certo possono sembrare conclusioni dure, ma è proprio il fulgido passato che rende più gramo l’attuale presente.
Si prospetta un futuro pienamente elettrico per la Ypsilon, ma auguriamoci non si tratti solo del propulsore e ancor più che si possa vedere una rinascita, una nuova fioritura di modelli che questo Marchio merita, perché è un pezzo di Storia dell’Automobile che non è conosciuto solo qui in Italia, assolutamente no.

Per chi volesse ripercorrere storia e fasti:
https://youtu.be/5FetDQiek4w
https://youtu.be/KgQM3S01Upc

Con questo primo articolo intendiamo indagare, proporre riflessioni e approfondimenti alle innumerevoli e diversificate proposte del mondo del Design che rappresenta, insieme ad altre forme di Arte, una eccellenza italiana [e non solo].

Vi rimandiamo inoltre al link qui sotto dove troviamo ulteriori proposte, casi studio, e progetti innovativi che meritano maggiore attenzione e approfondimento.

https://ceuntempoperognicosa.wordpress.com/category/design-e-tecnologia/


Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti.
Appassionato di Design e Fotografia.

Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.

Blog:
https://ceuntempoperognicosa.wordpress.com/
https://immaginieparoleblog.wordpress.com/




Orgosolo, tra immagini e silenzi.

di Maria Patrizia Soru

C’è una Sardegna lontana dal suono delle onde, dalle trasparenze smeraldo e dalle rocce che sanno di salsedine. E’ una Sardegna da tutti definita aspra e selvaggia che da sempre si è sottratta alla conquista e all’omologazione.“ Barbaria”, così la battezzarono i romani  capaci di conquistare e piegare il mondo, ma non il cuore della Sardegna ed i suoi  abitanti protetti dall’ombra del Gennargentu e forti come le sue rocce, che li costrinsero a porre un avamposto, un limes”,  Forum Traiani ( l’ attuale  Fordongianus in provincia di Oristano) ai margini di quella regione per contenere la loro indole indipendente. 

Anche Gregorio Magno spese molte delle sue energie per estirpare il paganesimo da quelle terre, ma a niente valsero i suoi sforzi. La conversione al cristianesimo e la conseguente romanizzazione  si compirono secoli più tardi in maniera semplice e naturale quando la Barbagia accolse le genti che dalle coste cercarono rifugio nell’entroterra per sfuggire alle invasioni provenienti  dal mare. 

Ne i pisani, ne gli spagnoli o gli aragonesi e neanche il governo sabaudo riuscirono a durare nell’isola un tempo sufficiente per esercitare la propria autorità innovatrice tra le “genti barbare” di Sardegna. L’isolamento, la cultura pastorale, l’ambiente fisico ed il clima hanno resistito allo scorrere della storia come racchiusi dentro ad uno scrigno del tempo che ha protetto le tradizioni ma soprattutto, il carattere di una popolazione antica forte e speciale che esprimeva  attraverso la “balentia”  il massimo della potenzialità dell’uomo suggellata tra le righe di un codice non scritto, il Codice Barbaricino.

La natura dei sardi è nota per i suoi silenzi, per le poche parole. E se lungo le coste la voce più potente è quella del maestrale capace di innervosire ed incupire il mare, nel cuore della Sardegna il silenzio ha una voce differente. Il  vento deve attraversare muri di rocce e foreste di lecci, l’acqua striscia e salta nel sottobosco e tra le gole. Qui le “parole” hanno il loro peso, anche se silenziose ed apparentemente leggere come i fiocchi di neve che lentamente in inverno,  ricoprono il suolo. 

La chiamano omertà, la definiscono un’ ancestrale forma di difesa e ribellione al mondo interno ed esterno che contraddistingue l’indole  dei barbaricini  facendo pensare che abbiano poca voglia di aprirsi, di raccontarsi, di raccontare. Per capire che questo pensiero è privo di fondamento bisogna visitare uno dei borghi più belli e particolari, camminare lentamente tra i vicoli antichi, stare in silenzio, aprire gli occhi, osservare ed ascoltare al contempo ciò che le immagini vogliono comunicare.

E’ noto che “anche i muri hanno orecchie”  ma ad  Orgosolo si può dire invece che “i muri parlano” ed urlano a gran voce la storia, le sofferenze e gli ideali di un popolo.

Eco lontano , figlio delle pitture rupestri, la tradizione dell’arte muraria attraversa la storia dell’umanità come forma di decorazione, narrazione o indottrinamento sia  sacro che profano,  in ambito pubblico e privato. L’arte dei murales così come oggi la conosciamo quale forma di denuncia sociale, si sviluppa in Messico dopo la grande rivoluzione del   1910. Immagini rappresentanti  lotte sociali, particolari della storia popolare e sentimenti nazionalisti  presero forma attraverso la pittura  di grandi muri esterni di edifici destinati al popolo.

Proprio nella manifestazione di dissenso, di ribellione ed al contempo nell’unione popolare Orgosolo vede nascere il suoi primi murales . Nel 1969 la tenacia della popolazione lotta e vince contro la realizzazione di un poligono di tiro nel territorio comunale di Pratobello, tradizionalmente asservito al pascolo. Si narra che nei muri del paese comparvero dei manifesti che esortavano i pastori ad abbandonare i pascoli.

 Nello stesso anno un gruppo anarchico denominato  ‘Gruppo Diòniso’ creò un murale di chiara matrice politica ed un murale tipo ‘reclame’.

Dal quel momento venne rotto il silenzio e dal 1975 in poi grazie ad un insegnate d’arte Francesco del Casino, i muri degli edifici del paese iniziarono a parlare.. un sussurro lieve, un urlo potente ma sempre in una “lingua universale” quella dell’immagine e del colore, talvolta accompagnata da qualche nota che attinge alle tecniche narrative del fumetto , talvolta totalmente priva di “parola”. Tratto nitido e  segno inconfutabile assumono ruolo divulgativo, creando un contesto figurativo immediatamente comprensibile anche a distanza, un  messaggio essenziale che può essere colto in maniera chiara a prescindere dall’età e dal livello di istruzione, poiché è sufficiente il solo atto di guardare le figure. 

Così Orgosolo narra se stessa, lo fa senza timore lasciando che il colore si arrampichi sui muri, prenda forma, catturi l’attenzione dei passanti e consegni il suo messaggio in una forma semplice che attraversa lo sguardo e giunge al cuore.

Il fermento intellettuale degli anni ‘60 e ’70 favorì il nascere e svilupparsi dei murales collettivi che illustrano tutt’oggi con dovizia di particolari le lotte di potere, la vita contadina e pastorale, alternando tematiche socio-politiche alla rappresentazione di simboli tipici appartenenti alla quotidianità. Quotidianità che trova spazio tra i “vicoli della narrazione” dolce ed affabile della vita   di donne e uomini impegnati nei loro lavori, nel loro vivere sereno e familiare..   Uomini e donne senza nome e senza gloria che a quella storia, alla storia di Orgosolo e della Sardegna  appartengono perché in essa hanno vissuto, l’hanno alimentata e, consapevoli o meno  sono stati e, ne sono tutt’ora il motore.

Orgosolo adagiata nel verde dei suoi boschi si offre a se stessa ed al mondo come un grande museo sotto il cielo. Parla ed accompagna se stessa verso il futuro mantenendo nitidi i “tatuaggi e le cicatrici sulla sua pelle” su tutti i suoi muri, protetti ed al contempo,  mostrati con semplicità, genuinità ed orgoglio.

Anche se campidanese e non barbaricina sento che quelle immagini, che quella storia mi appartiene. E’ quella della Sardegna intera e dell’Italia, forse cambia solo il tono dei colori, ma i tratti ci accomunano.

link di riferimento

https://www.comune.orgosolo.nu.it/index.php/vivere/cultura/17

https://www.sardegnaturismo.it/it/la-voce-silenziosa-dei-murales-di-orgosolo

Nota sull’Autrice.

Maria Patrizia Soru è una Guida Turistica Archeologica.
Appassionata di Storia e letteratura della Sardegna, è alla continua ricerca di immagini e parole capaci di raccontarne il passato, il presente ed il futuro.

Disclaimer: tutte le immagini presenti in questo articolo sono tratte dal web




La funzione rassicurante del Bello

di Orietta Paolucci

Monologo del Marzocco sull’albero di Penone.

(Ovvero, la funzione rassicurante del Bello)

Copia del Marzocco di Donatello. Firenze, Piazza della Signoria.

“Non so nemmeno io da quanto sono qui.

Certo da tanto tempo, ma francamente non potrei dirlo con certezza.

So che una volta eravamo in tanti, e ce n’erano di veri, di leoni intendo, in un serraglio. 

Erano un omaggio al re di stirpe scozzese, governatore di Firenze.

Non so cosa sia la rabbia, l’ho vista forse in faccia a gente che duellava in piazza, oppure si ribellava al potere.

Non so cosa sia la gioia.

Probabilmente l’ho vista nelle espressioni di centinaia di persone che si riempiono il cuore della bellezza di questa piazza, unica al mondo. Le sue forme, la sua architettura, le sue statue. Lo stesso David, accanto a me.

Magari la gioia è quell’espressione che percepisco nei loro occhi.

Ho visto milioni di persone passeggiare, con interesse, con meraviglia, con indifferenza.

Ma non ho mai visto una cosa simile a ciò che mi è stato piantato di fronte: un albero secco, con dei tubi incastrati tra i rami avvizziti.

Non ho ben capito cosa sia la disperazione, l’ho vista poche volte, ma questo albero così rinsecchito, senza foglie, morto, mi colpisce.

L’albero a Piazza della Signoria, Firenze

Nel profondo. 

Non mi spiego il perché.

L’albero mi ha fatto provare una nuova sensazione, una differente sfumatura di dolore: quella che ho visto in faccia alle centinaia di persone che hanno manifestato in piazza, recentemente.

Magari sono rimasti senza lavoro, senza fiducia… o senza speranza.

Questo l’ho capito, di gente in piazza (a parte quella che manifestava) ce n’è davvero di meno. Non so cosa sia successo, ma quest’abete, che troneggia di fronte a me con la sua maestosa afflizione, è come se racchiudesse il dolore che aleggia tutt’attorno.

Sono solo un leone, ma ho pensato che è davvero facile creare cose belle che si lascino ammirare; molto più difficile colpire allo stomaco, alle viscere, con un qualcosa che bello non è affatto.

Vuoi vedere che questo abete avvizzito è più coraggioso del David?”

L’albero di Penone è un’installazione voluta dal Comune di Firenze per rappresentare la metafora del Paradiso Dantesco, cioè “L’albero che vive de la cima/e frutta sempre e mai non perde foglia” (vv. 29/30, Canto XVIII, Paradiso, Divina Commedia). 

“L’Abete in Piazza della Signoria – dice Penone – indica lo sviluppo del pensiero che è simile alla spirale di crescita del vegetale”. 

Potrei continuare citando mille auliche elucubrazioni; sta di fatto che l’installazione è davvero (consentitemi), brutta e antiestetica, e per questo estremamente coraggiosa. 

L’albero di Penone in Piazza della Signoria a Firenze

L’arte contemporanea di Penone non può fare altrimenti, in una piazza esteticamente perfetta, che porre un elemento “disturbante”.

E quest’albero, con i suoi tubi, lo è davvero. 

Implacabile, non lascia nulla alla fantasia, al sentimento.  È secco, diretto, ed affonda nel più profondo del nostro Io, scuotendolo e risvegliandolo dal torpore indotto dall’armonia rinascimentale di Firenze. 

Questa profonda “rottura” del disegno architettonico non è mai stata più visceralmente contemporanea. La bellezza anestetizza, la bellezza è giusta (secondo numerose filosofie estetiche), ma ora non possiamo permetterci svaghi, né celebrazioni del bello.

I leader del 2021 dovranno affrontare il futuro con precisione chirurgica e visione etica, senza concedersi confortanti rassicurazioni. 

“L’arte non è uno specchio su cui riflettere il mondo, ma un martello con cui scolpirlo”. (Bertold Brecht)

Da vedere. Da riflettere. Da discutere.

Orietta Paolucci

Il Marzocco originale di Donatello. 1419-20. Firenze, Museo del Bargello.



Di pietra e metallo.

Le colline del Montefeltro

(di Marina Ruberto)

Il Montefeltro è un fazzoletto d’Italia diviso tra Marche, Emilia Romagna e Toscana.  Con quella piccola perla di Urbino per capitale, è costituito in tutto da circa un migliaio di chilometri quadrati di borghi, borghetti, colline di velluto, rocche Malatestiane e Montefeltrine (che continuano a guardarsi in cagnesco), vallate e boschi, boschi, boschi. In una macchia di colori che, vista dall’alto, sembra una tavolozza da cui Piero della Francesca ha rubato a mani basse.

Perché in una terra così poco estesa si siano succeduti tanti visionari, sognatori, letterati e artisti, non è dato sapere. È uno di quei misteri italiani che il mondo ci invidia e che è stupendo visitare in tutte le stagioni. Per esempio nell’estate del 2020.

Senza andare troppo lontano (nel Rinascimento vinceremmo facile solo citando la corte urbinate di Federico da Montefeltro e del colto fratello Ottaviano), si può scoprire che del Montefeltro si sono innamorati un sacco di artisti, letterati e sognatori nostri contemporanei.

Cominciando da Tonino Guerra, poeta, scrittore, pittore e straordinario sceneggiatore romagnolo che, negli ultimi 25 anni della sua vita, si rifugiò in quel di Pennabilli.  Famose sono le sue installazioni e mostre permanenti, che prendono il nome de I Luoghi dell’anima. Con il mio compagno visitiamo, invece, il Parco dei Luoghi minimi, sul Monte Aquilone; dove animali fantastici si mimetizzano nella vegetazione del bosco, tanto grandi quanto aerei. Rinoceronte, tartaruga, elefante e giraffa (a grandezza naturale) sono stati realizzati intrecciando fil di ferro dal ‘Gruppo del Ferro’ di Pennabilli.

Anche il piemontese Umberto Eco, nel 1978, prese casa in Montefeltro, a Monte Cerignone. Una casa abbandonata da trent’anni che, per qualche motivo, lo rapì. Quando la moglie gli chiese perché voleva proprio quella e proprio lì, le rispose: “Voglio nelle notti di tempesta percorrere questi corridoi oscuri con una torcia in mano, sentendo nel cuore uno sterminato sentimento di potenza”. Magia, poesia. Eco cercò anche un fantasma (“perché una casa così senza fantasma non ha senso”). Chissà se lo trovò.

Persino il Dalai Lama, in persona e in ispirito, si dev’essere preso una cotta per questi luoghi perché, dopo aver visitato Pennabilli nel 1994, ci tornò nel 2005 per inaugurare una campana tibetana (la campana di Lhasa) sul colle che domina la splendida vallata sottostante.

La campana di Lhasa

Ma la storia di passioni intrecciate che mi interessa raccontare un po’ più per esteso, è quella del borgo storico del castello di Pietrarubbia (Petra Rubra) a cui si accede dal paese e di cui è la parte più antica. Arroccato su uno sperone di pietra alle pendici meridionali del Monte Carpegna, il borgo risale forse all’anno 1000. Numerose fonti citano un documento, datato 962 d.C., con il quale l’Imperatore Ottone avrebbe concesso in feudo a Ulderico di Carpegna il borgo; ma la tradizione popolare ne anticipa le origini addirittura al V° secolo d.C.

Ci arriviamo non senza sbagliare strada. E ci troviamo di fronte a un piccolo gioiello (la cui torre diroccata è semi-nascosta dalla vegetazione) e al suo alacre nume tutelare: il signor Anacleto Gambarara; dal 2017 unico residente del posto, frequentato dai turisti solo nella bella stagione. 

Torre diroccata

Visionario, musicista e sognatore, Anacleto è un convinto assertore del ritorno del Montefeltro al suo passato di grandezza culturale, naturalistica, gastronomica e architettonica. Per questo, muovendo mari, monti e volontà, quest’anno è riuscito a organizzare il primo Festival del Montefeltro a Pietrarubbia. Musica, Teatro, eventi e performance hanno animato il minuscolo paese in luglio e agosto.

Ma il suo precursore più illustre si palesò nel 1976, quando la passata grande storia di Petra Rubra sembrava destinata all’oblio e le sue pietre rosse di metalli, ad essere divorate dalla natura vorace del posto.

Tutto questo se Arnaldo Pomodoro (proveniente da Morciano di Romagna) non se ne fosse innamorato e non avesse deciso di comprare e ristrutturare una casa. Spendendo successivamente il suo nome per sensibilizzare il Comune e le autorità, ed avviare un’opera più generale di recupero dell’antica località.

Nella chiesa di San Silvestro, oggi recuperata grazie a lui, ci sono l’altare marmoreo e il grande sole bronzeo (con al centro una croce) realizzati dall’artista. Sarà il contesto, il silenzio, le mura romaniche della chiesetta, ma è una vista mozzafiato.

n Silvestro

Tuttavia, l’idea davvero esplosiva (che voleva riallacciarsi all’antichissima tradizione siderurgica e metallurgica del paese) fu quella dell’estate 1990, quando Pomodoro, con la collaborazione della Regione Marche e il Fondo Sociale Europeo, aprì il Centro di Trattamento Artistico dei Metalli: il T.A.M. Non è una delle attività più note dell’artista. E, francamente, me ne domando il motivo.

L’obiettivo primario del Centro era quello di fornire un’approfondita formazione e specializzazione tecnica e culturale a giovani operatori delle arti dei metalli (oro, piombo, stagno, acciaio, ferro, ottone, rame, bronzo…), unendo due ambiti che, di solito, restano distinti: quello tecnico-artistico e quello storico-teorico.
Nel 2007, il Centro è stato dichiarato Polo formativo Regionale di Eccellenza delle Marche.

Dal T.A.M, di fatto una scuola, sono usciti orafi, decoratori, progettisti, stilisti dello spettacolo e molti scultori.

Per anni la direzione artistica del Centro è stata curata personalmente dallo stesso Pomodoro (che l’ha presieduto fino alla chiusura) e dall’equipe del suo studio milanese. Successivamente dagli scultori Eliseo Mattiacci e Nunzio Di Stefano. Le lezioni sono sempre state tenute da specialisti qualificati e artisti di caratura internazionale.

Il T.A.M è stata purtroppo chiuso nel 2019, ma il signor Anacleto ci comunica che le opere dei migliori allievi si possono visitare in una mostra permanente.  Saputo ciò, attendiamo l’arrivo di suo figlio: detentore delle chiavi del Palazzo gentilizio in cui sono raccolte. 

Quando il ragazzo spunta da chissà dove, veniamo affidati alle sue cure e al suo sapere (buona parte di quello che scrivo, lo scopriamo da lui).  Ed ecco che ci si apre un altro mondo di sorprendente bellezza che il giovane ingegnere prestato all’arte, ci spalanca con una sorta di carbonaro entusiasmo. Quasi stupito che qualcuno condivida le sue passioni.

Rimaniamo di stucco. Oltre ad alcuni pezzi del Maestro Pomodoro, ci troviamo di fronte a sculture, gioielli, lavori di design che non sembrano certo opere di studenti, ma di Artisti fatti e finiti.

Il giovane ci racconta anche qualcosa degli autori. Alcuni dei quali hanno acquisito una certa notorietà. Ma purtroppo non ne tratteniamo i nomi, e più tardi, non troviamo nulla nemmeno in rete.

Quando usciamo dal Palazzo, un po’ rimbambiti sia dalla sovrabbondanza d’informazioni che dalla bellezza inattesa delle opere, torniamo sotto la benevola ala del signor Anacleto.

Quella sera c’è musica a Petra Rubra. “Un gruppo brasiliano da paura” ci avverte un simpatico elettricista dello staff già al lavoro.

C’è La locanda delle storie in cui poter mangiare (e addirittura dormire) e poi lo spettacolo. Ma abbiamo ancora metalli preziosi negli occhi. Pietra rossa e panorami/tavolozza.

Qualsiasi altra cosa, oltre al silenzio, oggi sarebbe troppo.   




BO it! – Bologna, creativi a raccolta

(di Annalisa Rosati)

Logo e locandina della seconda edizione del Concorso

Il 2020 è stato per tutti un anno di forte rottura rispetto alla quotidianità e alle consuetudini a cui eravamo abituati: istruzione, lavoro, interessi, progetti, relazioni e affetti, tutti aspetti fondamentali delle nostre vite che sono stati di colpo interrotti e fermamente messi in discussione. Insomma, un game changer come si direbbe nell’universo nerd. Al loro posto, però, di abitudini ne sono nate altre, come fare il pane in casa o collegarsi con gli altri via device. E insieme alle abitudini abbiamo esplorato anche nuovi interessi: il bistrattato jogging, le passeggiate nella natura, i giochi da tavolo.

E’ sulla base di questo assunto che BO it! – Immaginando Bologna ha lanciato il tema per la sua seconda edizione: una call for artist per ripensare e – letteralmente – ridisegnare l’immagine di una città partendo da uno dei suoi simboli.

Nato proprio a Bologna nel 2018, BO it! è il concorso internazionale di illustrazione che mira a valorizzare la città di Bologna attraverso un’interpretazione artistica e creativa delle icone che la identificano, quali monumenti e altri simboli: Bologna descritta da chi la abita, da chi la immagina, da chi la scopre come turista e da chi ci arriva come migrante.

Dopo il successo della prima edizione, che ha visto la partecipazione di oltre 300 opere da tutto il mondo, la seconda edizione vede come protagonista i portici di Bologna: sagoma che rende omaggio alla candidatura come patrimonio dell’umanità UNESCO della città e che viene proposta ai creativi per la loro interpretazione artistica.

dettaglio della sagoma – traccia del concorso BO it!

“Bologna è sempre stata all’avanguardia e aperta alle innovazioni: una realtà che ha sempre raccolto prontamente gli stimoli, accolto e tradotto i cambiamenti in atto nella società” dichiara il direttivo di BO it! “Le tante difficoltà conseguenti alla pandemia in atto ci obbligano a ripensare il nostro modo di vivere la quotidianità, il lavoro e il rapporto con la città e la comunità. In questo scenario, le associazioni coinvolte nel progetto hanno scelto di rappresentare la nuova sagoma del 2021 come un unico grande abbraccio all’intera città: i portici di Bologna. È un invito a condividere le emozioni vissute durante il lockdown e le speranze e i desideri per la ripartenza.”

Il bando internazionale, che si chiuderà il 28 marzo 2021, è rivolto a tutti senza limiti di età; ed è possibile partecipare in modo individuale o collettivo. Una giuria qualificata selezionerà le 30 opere finaliste, che saranno esposte al pubblico in una mostra urbana realizzata in concomitanza con la Bologna Children’s Book Fair – Fiera del Libro per Ragazzi (14-17 giugno 2021). Tra le novità di questa edizione, i tre premi che saranno assegnati ai tre vincitori: Primo Premio “Città di Bologna” del valore di 1.200€, il Secondo Premio “Città dei Portici” del valore di 600€ e il Terzo Premio con un kit tecnico offerto da Maimeri.

Il progetto è accompagnato da un percorso di masterclass e laboratori, sia on-line che in presenza nel rispetto delle linee guida anti-covid19, volti a promuovere l’inclusività e la partecipazione di giovani creativi non professionisti e persone con bisogni particolari, come migranti o persone con disabilità.

“BO it!” è un’iniziativa culturale promossa dalle associazioni Il Civico 32 e MenoPerMeno, con il contributo della Fondazione Del Monte di Bologna e Ravenna e COOP Adriatica, promossa e sostenuta da Comune di Bologna, Bologna Welcome, Fiera del Libro per Ragazzi, Maimeri, Galleria Millenium, CotaBo, in collaborazione con Accademia di Belle Arti di Bologna, Cooperativa Nazareno e Autori di Immagini.

La seconda edizione del concorso, avviato con il Patrocinio del Comune di Bologna, rientra tra le iniziative per la Candidatura UNESCO dei Portici di Bologna.

CONTATTI:

boitcontest@gmail.com

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Amleto Cataldi, lo scultore dannato / bannato.

Storie e leggende narrano come alcuni grandi pittori o scultori, nel corso delle loro vite sofferte e dedicate alla ricerca “matta e disperatissima” delle loro più genuine espressioni artistiche, abbiano sempre sdegnosamente rifiutato di (s)vendersi alle tendenze del momento o alle specifiche richieste di facoltosi committenti, riuscendo stoicamente a rimanere sempre duri, puri e fedeli alle loro convinzioni.
Se alcune volte tutto questo è davvero accaduto, non è certo nel caso di Amleto Cataldi (1882-1930), le cui vicende esistenziali ed artistiche risultano lontanissime da quelle – definiamole romantiche – di pittori come ad esempio Van Gogh, trascurato se non ignorato nel periodo di attività, per essere prima rivalutato e poi idolatrato da critica e pubblico, solo dopo la sua dipartita.

Al contrario, Amleto Cataldi, pur cresciuto modestamente nella bottega del padre intagliatore, si mise in luce fin da giovanissimo partecipando e vincendo numerosi premi di concorsi nazionali e internazionali…fino ad arrivare alla consacrazione parigina sigillata dagli elogi pubblici di tale Auguste Rodin, che qualcosa, in termini di modellato, doveva certamente capire.

Nel giugno 1909 fu indetto un concorso pubblico per la decorazione scultorea delle pile e delle testate di un ponte dedicato a Vittorio Emanuele II , a rappresentare “Le virtù del re”, che sarebbe stato inaugurato in occasione dell’Esposizione Universale del 1911, anno del cinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia. Un ponte intitolato al primo Re d’Italia, costruito per una occasione eccezionale di rilevanza mondiale, quindi. Ma la commissione non si fece condizionare dalla giovane età e dalla mancanza di notorietà del giovane autore. Complimenti quindi alla Commissione, per aver individuato un talento di tale portata. E complimenti, naturalmente, al nostro Amleto, che realizzò una vittoria alata in bronzo (l’unica con le braccia abbassate, tuttora “in situ”.

La sua attività è stata un susseguirsi ininterrotto di successi; commesse – pubbliche e private – esposizioni, biennali, fontane,
monumenti, decorazioni per edifici istituzionali sempre più prestigiosi, fino ad arrivare al coronamento dello Stadio
Nazionale di Marcello Piacentini con quattro gruppi di atleti in bronzo, davvero formidabili nella loro possente plasticità, anticipatrice di Botero.

Subito dopo questi magnifici lavori, Amleto incontrò la morte in età relativamente giovane e non sappiamo cos’altro avrebbe
potuto produrre; di certo la scultura allora perse un vero maestro, sul quale sarebbe lecito rintracciare qualche notizia in
più nei Musei e nelle pubblicazioni di Storia dell’Arte. Purtroppo, tranne qualche sporadica eccezione, non è affatto così:
tanto famoso in vita quanto oscurato post-mortem. “Colpevole” di aver attraversato splendidamente il periodo liberty, quello
ancor più elegante della secessione romana e quello dell’arte di regime; “colpevole” di essere sempre rimasto un artista
figurativo, disdegnando astrattismo e avanguardie di qualsiasi colore; “colpevole” – e questo, per certi critici da schieramento, è
il vero efferato delitto – di essere stato un vero classicista, focalizzando la sua ricerca sulla bellezza del corpo umano,
espressa con grazia femminile o potenza virile… fidatevi dei vostri stessi occhi, la nostra galleria fotografica parla forte e chiaro.

(cliccare sulle immagini per vederle per intero ed ingrandite)

Aggiornamento (gennaio 2024)

I nostri accorati appelli sul recupero della figura di Cataldi sembrano non essere gli unici: il 23 ottobre 2023 si è svolta una giornata di studi “Cataldi classico alla Sapienza”. Di seguito i video documentari

…e un “bonus” :

Aggiornamento (11 gennaio 2024)




Le casette del signor Rossi

Bisogna ammetterlo: ad un certo punto abbiamo pensato di ritrovarci lillipuziani dentro un plastico di Lego o PlayMobil sul quale avevano riversato anche alberghi e case del Monopoli. E invece stavamo percorrendo le sale di un allestimento davvero magistrale, quello dedicato ad Aldo Rossi: l’Architetto e le città, inaugurato il 10 marzo scorso al Museo Maxxi di Roma.

il successo planetario di Aldo Rossi – architetto, designer, scrittore, pittore, docente – a 25 anni dalla sua scomparsa rimane per molti un insondabile mistero. Non per noi, eh. Nell’ultimo quarto del secolo scorso ha firmato di tutto: dal cucchiaino Alessi ad intere parti di Berlino. Tra gli addetti ai lavori, è tuttora amato od odiato, senza riserve. L’aggettivo “Rossiano” era considerato nobilitante o infamante a seconda delle contrade culturali che lo utilizzavano, anche all’interno dello stesso Istituto Universitario di Architettura a Venezia dove insegnava.

Odiato o amato; ma poco capito anche perché poco spiegato: del resto lui stesso alimentava, con la sua prosa oracolare, l’aura mitologica di un Maestro che tra i colleghi riconosceva solo Palladio, Adolf Loos e Mies van der Rohe al livello della sua olimpica altezza. Perché lui, anzi Egli, discendeva direttamente da Pitagora, Euclide, Ictino e Callicrate, “senza passare dal via!” (per rimanere in tema Monopoli). Un via! costituito, in questo caso, da venticinque secoli di Storia dell’Architettura. Semplici composizioni, solidi elementari, uno schizzo e … “Ipse pinxit”! Bastava, o meglio doveva bastare a seguaci, ammiratori e alla nutrita schiera di collaboratori adoranti destinati a tirar su milioni di metri cubi di ferro e cemento, o anche solo una caffettiera, a partire da uno schizzetto a china.

C’è una foto, firmata e datata “Atene 1971”, che lui, anzi “Egli stesso”, scelse per aprire un volumetto di Zanichelli dedicatogli quando era già famoso e che spiega tutto: colonna tra le colonne, mito nel mito, jeans e sguardo/sigaretta alla Clint Eastwood nella Trilogia del Dollaro. Ci siamo capiti.

Ciò premesso, il maggior merito di questa splendida e davvero imperdibile retrospettiva è proprio quello di aiutarci a rintracciare, grazie all’abbondanza del materiale in mostra, qualche elemento del patrimonio genetico rossiano che giocoforza deve emergere qua e là dal mucchio…intendiamoci: emerge, a patto di avere l’occhio per scorgerlo. E a noi del FUORI l’occhio non manca di certo; di queste impronte cromosomiche però qui ne elenchiamo solo quattro, lasciando a voi il piacere di scoprirne altre direttamente al Maxxi:

  • Mario Sironi – Discendenza diretta, palmare e, diremmo ora di “look and feel”, nelle periferiche atmosfere milanesi trasferite tout court dai quadri di Mario a quelli di Aldo (che sembrano quelli di Mario, copiati male);
Dipinti di Aldo Rossi in mostra al Maxxi di Roma
  • Heinrich Tessenow (1876 – 1950) depredato dall’iconico triangolo/frontone con buchetto su pilastri lisci ed allungati, come quelli della Festspielhaus Hellerau di Dresda, che dopo i restauri, sembra una “Rossi DOC”, e pure delle migliori annate. Il povero Tessenow certo non immaginava che le sue illustrazioni minimal del manualetto “Osservazioni Elementari del Costruire”, destinate agli anonimi capimastri teutonici per diffondere buone ed umili pratiche edilizie, sarebbero poi diventate, a spietati colpi di CTRL+C/ CTRL + V, dei progetti osannati e patinati da esporre nei bookshop fighetti dei musei di tutto il mondo.
Heinrich Tessenow – Festspielhaus Hellerau

Diez Brandi (1901 – 1985) – vi bastano le foto della Auferstehungskirche di Bad Oeynhausen in Germania (1953-56)? Non crediamo di dover aggiungere altro… 😉

Diez Brandi – Auferstehungskirche Bad Oeynhausen-Altstadt
  • Insula Romana: “Ecco l’Idea!” (riferendosi alla patata lessa) recitava una “rèclame” televisiva di qualche tempo fa. Ebbene, tutto il saggio “L’Architettura della Città” del 1966, quello che lo ha lanciato nel firmamento delle future archistar, si sintetizza in questi tre punti focali concatenati: a) le strade sono quei posti dove le cose accadono e la gente gira; b) bisogna allineare i corpi edilizi alle strade dove la gente gira e le cose accadono; c) bisogna mettere botteghe e negozi nei corpi edilizi allineati lungo le strade dove le cose accadono e la gente gira, altrimenti nei negozi non entra nessuno. Ecco L’idea. Che Genio…

Appare chiaro a questo punto che lo strepitoso successo del sig. Rossi, (Gr. Parac. Efferat. Copion. e Gran Maestro di Ovvietà, semicit.) si debba ad una catena di circostanze (fortunate per lui, jellate per l’Architettura) che lo hanno fatto riconoscere come un profeta grazie ad un solo merito: uno solo, ma fondamentale: quello di aver capito e denunciato per primo che a cavallo dei ’70 l’Architettura Moderna, dopo gli anni d’oro ’20 e ’30 e a causa del furore ideologico postbellico, pur di cancellare qualunque cosa che ricordasse gli stili dei regimi, aveva preso una pessima ed orribile piega. Le Corbusier e i suoi epigoni, pur partendo da nobili premesse, hanno fatto danni, danni veri, disseminando per il mondo osceni cassoni di béton brut soggetti a precoce deterioramento. Interi villaggi sperimentali come le Siedlung Halen di Berna che si facevano studiare in maniera “matta e disperatissima” nelle facoltà di architettura anni ’70 come i massimi modelli da seguire, sono ridotti ad un ammasso di rovine cementizie divorate dalla giungla (..svizzera, si si, svizzera!), neanche fossero cavalcavia del terzo mondo in sabbiacemento crollati e abbandonati dopo un terremoto scala 2 scarso. Tanto per chiarire: le Siedlung Halen erano parecchio bruttine anche da nuove, intendiamoci. E comunque non funzionavano, non potevano funzionare, perché senza attività urbane vitali qualsiasi insediamento-dormitorio è destinato inevitabilmente al degrado.

Il Signor Rossi lo ha capito per tempo e così ha potuto recuperare e rilanciare la tradizione della città; ha disegnato le case a forma di casa e i palazzi a forma di palazzo, disponendo il tutto in maniera ordinata e pulita ai bordi delle strade… né piu, né meno, come si dispongono gli alberghi rossi e le casette verdi sugli spazi colorati delle caselle di Parco della Vittoria e Viale dei Giardini.

Si si, proprio quelle del Monopoli.

(cliccare sulle immagini per vederle per intero ed ingrandite)