Brebbus.
Adagiato al centro della piana di Uras, al limite nord-orientale del Campidano (in provincia di Oristano), coperto da lussureggianti lecci e macchia mediterranea, Monte Arci svela la sua origine e storia senza tempo, è un vulcano dormiente. Trebina Longa, Trebina Lada e Corongiu de Sizoa sono le tre vette che richiamano all’immagine di un treppiede, sono ciò che rimane dei tre condotti vulcanici che hanno dato origine al monte ed al suo inestimabile tesoro, l’Ossidiana.
Considerata “l’oro nero della Sardegna”, l’Ossidiana è una “pietra vitrea” rara, di origine vulcanica, la sua formazione è dovuta al rapido raffreddamento della lava a seguito di un’eruzione. Il suo colore è nero ed in sardo è chiamata “sa pedra crobina” letteralmente “la roccia nera come il corvo”, anche se il suo colore non è sempre uniforme ma cangiante. Se colpita dai raggi del sole è possibile vederne la vitrea trasparenza e talvolta animarsi di diversi colori, dal nero al grigio, dal caldo rosso al marrone o al verde, fino candido bianco.
E’ un viaggio lungo milioni di anni quello dell’Ossidiana, un viaggio che dal centro della terra la porta fino a noi, tra le nostre mani.
Seguendo le sue vie in senso letterale, è possibile ripercorrere la storia del popolo sardo e delle sue tradizioni. Ad onor del vero altre regioni nel Mediterraneo conservano questo tesoro, Lipari, Pantelleria e Palmarola, anche se è certo che i più ricchi siti di estrazione sono quelli del Monte Arci in Sardegna. Sono e forse lo sono sempre stati in quanto i primi indizi sullo sfruttamento sistematico della risorsa ad opera dei così detti ‘scheggiatori’ specialisti che la preferirono alla Selce, risalgono al Neolitico recente (II metà del V millennio a.C.), epoca in cui si sviluppò la grande officina di Conca ‘e Cannas e l’Ossidiana divenne il cardine degli intrecci commerciali nel bacino del Mediterraneo.
“Pietra di fuoco” anche questo nome le appartiene, richiamo alla calda e rossa lava che una volta spenta e modellata dall’uomo cerca ancora il “ rosso calore”, quello del sangue. Quel sangue che probabilmente intrise le mani di colui che per primo scoprì che la “pietra nera” era facile da scheggiare e modellare in oggetti acuminati indispensabili per la vita ma indissolubilmente legati alla morte. Dagli utensili d’uso quotidiano, quali lame e raschiatoi probabilmente per la lavorazione delle pelli, alle armi da getto: le punte di freccia. Strumento indispensabile per la vita è una punta di freccia in ossidiana issata in cima ad un sottile bastone tra le mani di un cacciatore in cerca di una preda per sfamarsi, per sfamare. La stessa punta di freccia assume un altro significato tra le mani di un guerriero in cerca del “nemico”, pronto a difendere o difendersi seminando morte e dolore all’interno del genere umano.
Una pietra così affascinante ed importante per la sopravvivenza, ha assunto presto un valore ed un significato speciale a tutela della persona e come ornamento, un uso intimo e personale, l’amuleto.
Gli oggetti destinati ad uso personale, sono strettamente legati all’ambito tradizionale che negli anni li ha replicati sostanzialmente immutati, tanto da risultare difficoltoso distinguere visivamente gli esemplari antichi da quelli recenti.
“L’amuleto” vero e proprio non è prezioso nei materiali e non è mai di grandi dimensioni. Il materiale usato per le montature è sempre l’argento in lamina, talvolta dentellata, o lavorato a filigrana. Le catenelle che uniscono i diversi elementi che li compongono sono costituite da perline di varia forma e differenti materiali, legate tra loro con maglie anch’esse d’argento; la tecnica di lavorazione è solitamente piuttosto elementare. Assai rilevante è però il significato magico-religioso che gli amuleti hanno assunto nella loro lunghissima storia. In Sardegna non si è sviluppata una “magia colta” come quella persiana, giudaica o egiziana, profondamente legata allo studio dei problemi dello spirito e del movimento degli astri a cui si connetteva non solo il conteggio del tempo ma ogni evento naturale.
Gli amuleti ebbero vasta diffusione. Sono questi gli oggetti concreti che la magia semplice, popolare, impiega come strumenti di difesa, con efficacia specifica o generale, contro qualsiasi sofferenza che derivi da cause sconosciute, pertanto ritenute soprannaturali. “Per la loro forma o per la struttura della loro materia, arricchiti talvolta da formule magiche, incorporano la potenza che attiene al soggetto divino di cui sono riconosciuti simbolo e la esercitano in favore di chi li tiene vicini portandoli sulla persona, appesi a capo del letto o della culla, posti sotto il cuscino o fissati alle vesti.” Dovrebbero assicurare benessere, abbondanza e fortuna, tenere lontani i pericoli e preservare dalle malattie e dai malefici.
Gli amuleti formati da più oggetti magici, collegati da una catena o saldati direttamente tra loro, ottengono un effetto maggiore: ogni singolo elemento infatti è dotato di una propria forza che si somma a quella degli altri per concorrere, nel modo più efficace, a tutelare chi li possiede contro i diversi malefici. L’uso dei talismani è documentato sin dall’Età del ferro; dal periodo tardomedioevale e rinascimentale sussistono anche numerose rappresentazioni iconiche e letterarie in ambiente cristiano.
In Sardegna, più che in altre regioni, sono stati rinvenuti antichi amuleti del pantheon egizio e di quello punico che da esso dipende. Tuttavia, col mutare dei tempi e dei costumi, se pure numerose credenze magiche hanno continuato a sopravvivere, gli amuleti hanno subito numerose variazioni, causate dal sovrapporsi di altre culture sino ad essere gradualmente sostituiti da tipologie diffrenti. Una nuova era, per l’universo magico della Sardegna, ha avuto inizio nel corso del XIII secolo quando arabi ed ebrei, provenienti dal Maghreb e dalla Spagna meridionale, stabilirono relazioni commerciali dirette con l’Isola.
La presenza in Sardegna di persone che, come gli antichi egiziani, affiancavano alla religione alcune pratiche esoteriche, può spiegare la sostanziale comunione tra simbolismo religioso cristiano e sovrapposizioni di culture più antiche, una confluenza che ha plasmato le credenze e le pratiche magico-religiose popolari dell’isola. “Le caratteristiche pratiche ad esse legate sono rimaste in uso sino all’inizio del Novecento, nonostante gli anatemi lanciati dal Sinodo di Cagliari sin dal 1652 e costantemente replicati da quelli successivi, nei quali si condanna esplicitamente la magia e l’uso di portare con sé amuleti. Ma pressoché ovunque la volontà popolare manifesta una forte resistenza nel coltivare una ritualità estranea alla religione ufficiale.”
La credenza nel “malocchio”, ovvero nei poteri malefici espressi per mezzo dello sguardo, è documentata per la prima volta in testi magici egizi della fine dell’Antico Regno, duemila anni prima della nascita di Cristo, ma le sue origini risalgono certamente a tempi ancora più lontani, ad un epoca mitica nella quale l’uomo primitivo vedeva nel sole e nella luna l’occhio destro e sinistro della divinità celeste primordiale.
L’osservazione degli effetti talvolta malefici, prodotti dallo “sguardo” dei due “pianeti-occhi” sui campi e sulle acque, generò la convinzione che l’origine di qualsiasi sofferenza fosse causata dall’influenza del cosi detto “occhio cattivo”. Poi, quando la capacità di emanare questa forza venne attribuita ad alcuni individui ritenuti, forse a causa del loro aspetto, possessori anche del tutto inconsci di tale prerogativa, la superstizione del “malocchio” raggiunse una diffusione enorme. A seguito della credenza secondo la quale la persona, prendendo contatto attraverso il simbolo con il suo modello, diviene “una porzione di quell’essere “magico” e acquisisce l’immunità e la tutela dalle sue influenze malefiche”, così da permettere agli amuleti degli “occhi” di godere di grande diffusione e popolarità.
Il mistero della fecondità della donna e della terra è il primo fenomeno che l’uomo si è prefisso di controllare e favorire attraverso la forza magica. Si può presumere che ad assicurare la fertilità siano state preposte, già in epoca paleolitica, le celebri statuette definite, “Dea Madre” che sono state ritrovate in molte regioni dell’Europa e dell’Asia e, in gran numero, anche in Sardegna.
Amuleti con conchiglie marine, ritenute sin dalle origini dell’uomo una potente tutela contro il malocchio, sono stati ritrovati in Sardegna nelle tombe puniche. Le stesse virtù delle conchiglie sono state attribuite nella religione giudaico-araba agli opercoli di alcuni gasteropodi come il Turbo rugosus che per la sua forma, richiamante quella dell’occhio, è divenuto l’amuleto deputato più di ogni altro a proteggere gli occhi da ogni male. Per questa funzione, nella religione popolare cristiana, si ritrova accoppiato ad un’immagine sacra ed è denominato “occhio di Santa Lucia”.
Il corallo che un tempo era ritenuto una pietra, deriva la sua valenza “amuletica” dal colore rosso, questa volta da identificare come simbolo del sangue che, per i popoli antichi rappresentava l’energia vitale in conseguenza del fatto che, alla perdita del sangue nell’uomo e nell’animale, si accompagnava la fine del vigore e la morte. Perciò il colore rosso fu ritenuto portatore delle stesse forze misteriose del sangue e quindi capace di dispensare forza e vitalità.
Vi è inoltre la teoria che abbina alcune pietre alle costellazioni zodiacali e ai pianeti del sistema solare, la cui influenza ricade sulla vita terrestre, tale teoria era riconosciuta sin dai Caldei, anche se di connessione tra Zodiaco e gemme si parla anche nella Bibbia e, nel III secolo, San Girolamo osservò una precisa corrispondenza tra dodici pietre preziose e i pianeti.
“Anche l’ambra, il giaietto ed altre pietre fossili, che derivano la valenza magica dall’essenza della struttura della loro materia danno vita a molti amuleti sardi. Ad esse si accompagnano altre pietre, quali il diaspro, l’onice e l’agata che si collegano alle gemme gnostiche”. Nel corso del tempo a tutte queste si sono sostituite, sempre con funzione terapeutica, “pietre” di pasta vitrea bianca o colorata con ossidi metallici in rosso, in blu azzurro e in verde. A queste sono stati dati simbolicamente la forma sferica e il colore associati ai pianeti considerati come perfetti e divini e guidati da angeli, dei quali le pietre racchiudono gli influssi particolari nell’ambito del complesso sistema sia magico che astrologico e religioso, che determina il simbolismo dei colori. La sfera di vetro rosso, insieme con quella azzurra o con quella verde è il simbolo degli occhi di Horo che così sono descritti nei papiri delle Piramidi. In questi si legge appunto che gli occhi erano uno rosso e l’altro azzurro o verde.
Nella tradizione magica giudaico-araba, ed anche in Sardegna, venne attribuito lo stesso valore agli occhi di Santa Lucia.
Valenze diverse hanno invece la pietra bianca “Perda ’e latti” (la pietra di latte) e la pietra nera, chiamata a seconda delle aree geografiche della Sardegna, Sabegia, Pinnadellu o Kokko . La prima provvede a non far mancare il latte nel seno materno, mentre l’altra, in giaietto o ossidiana, lenisce ogni dolore ed è ritenuto protegga contro tutti gli animali velenosi.
L’ossidiana esprime quindi, ancora oggi il suo potere e la sua valenza magica attraverso un ornamento/amuleto semplice e di forma sferica che simboleggia l’occhio. Un occhio buono a protezione di un altro occhio cattivo che genera is Mazzinas ( le fatture e le maledizioni in lingua sarda) o S’ogu malu (l’occhio cattivo) che si posa sul soggetto. Si narra che se il supporto d’argento sul quale è incastonato arriva a spezzarsi, la persona è stata in pericolo di vita per via di una maledizione e l’amuleto ha offerto se stesso a protezione imprigionando al suo interno il maleficio. Qualora questo dovesse accadere il talismano andrebbe sostituito poiché saturo ed incapace di proteggere ancora.
La tradizione secolare prevedeva che questo amuleto venisse regalato dalle mamme, dalle madrine o dalle nonne alle spose, alle donne in attesa ed alle ragazze che diventavano adulte, ma anche ai neonati in forma di spilla da nascondere nella culla. Prima di essere donato doveva essere benedetto attraverso le preghiere in lingua sarda dette “Brebbus” con funzione di protezione.
Sacro e profano accompagnano tra i secoli la storia dell’ossidiana in Sardegna rendendo sempre vivo ed attuale l’interesse per una pietra che altrimenti sarebbe stata dimenticata.
Non sono in grado di valutare quanto ancora il “potere magico” di questa pietra influenzi la scelta di farne o farsene dono. Ho vacillato a lungo come sospesa in equilibrio su un filo tra razionale ed irrazionale, per capirne il fascino ed il potere. So per certo che l’ossidiana ha accompagnato la mia vita sin da bambina nei frammenti di pietra che raccoglievo nelle scampagnate con i miei genitori attirata dal nero lucente. Così come è altrettanto vero che in fondo, anche se so di non credere in nessuna superstizione, con serenità posso ammettere che quella pietra mi a colpito al cuore.
Da bambina sono sempre stata abituata alla presenza dei nuraghi, delle domus de janas o delle tombe dei giganti. La storia faceva parte del paesaggio, ne era complementare, ed il tempo che passava aveva un significato sconosciuto. A otto anni è presto per innamorarsi così come è presto per capire chi si vuole diventare. Poi capita che a varcare la porta della mia classe in terza elementare sia un omino curvo su se stesso che tra le mani tiene una piccola teca di legno e vetro, contenente il frutto delle sue passeggiate al di là degli argini che contengono il Tirso. Adagia sulla cattedra inconsapevole, ciò che diventerà una parte della mia vita, il mio quanto mai “remoto” futuro. Quando ho guardato attraverso il vetro ho visto, distese fiere su un purpureo velluto, punte di freccia d’ossidiana capaci dopo millenni di trafiggere ancora, non le carni, ma l’anima ed il cuore. Di quella piccola lezione di preistoria sarda, credo di aver assimilato ogni singola pausa, respiro, parola, mente gli occhi fissavano le frecce e la mia mente produceva immagini tinte di sangue e mille emozioni. Quelle poche ore, non mi hanno mai abbandonata, anche quando la mia vita sembrava aver preso un’altra direzione e quella punta di freccia in ossidiana tornava puntuale alla mente e mi faceva battere il cuore. Ora forse posso ammettere che il mio presente è legato ad un inconsapevole “ arcaico cupido-cacciatore”, abile nel modellare e fissare la punta di freccia in ossidiana sul suo sottile bastone, abile nell’averla saputa lanciare oltre il tempo e lo spazio immaginabili, dritta verso la mia anima ed indelebile nella mente.
Non so cosa potrà pensare chi leggerà questo testo sospeso tra storia e superstizione ma, su di me l’ossidiana del Monte Arci, ha compiuto un incantesimo che va oltre il razionale e forse di non semplice comprensione.
Per approfondimento vedi il libro : Gioielli, Storia, linguaggio, religiosità dell’ornamento in Sardegna, 2004 (pag. 83-87); ILISSO EDIZIONI, Collana di ETNOGRAFIA E CULTURA MATERIALE / Coordinamento: Paolo Piquereddu.
http://www.sardegnacultura.it/documenti/7_49_20060414131456.pdf
https://www.sardegnaturismo.it/it/esplora/museo-dellossidiana
https://www.donnadifiori.info/donna-fresia/cucci-amuleto-delle-donne-sarde/
http://www.tottusinpari.it/2018/12/27/la-via-dellossidiana-loro-nero-in-sardegna/
https://www.sardegnaturismo.it/it/esplora/parco-del-monte-arci
Maria Patrizia Soru è una Guida Turistica Archeologica.
Appassionata di Storia e letteratura della Sardegna, è alla continua ricerca di immagini e parole capaci di raccontarne il passato, il presente ed il futuro della sua Terra.