Ho riflettuto sulle cosiddette “mostre immersive“, anche in funzione di un articolo del Giornale dell’Arte che ho letto di recente. Si tratta di ambienti in cui sono proiettati, per dettagli o interamente, capolavori di artisti come Van Gogh, che risulta uno dei più gettonati in questo genere di operazioni.
Entrando si è completamente “immersi” per l’appunto nell’universo artistico di un grande Maestro.
Mi sono sforzata di capire, senza pregiudizi e con un approccio ingenuo, se potessero avere una loro utilità. Queste immersioni hanno un valore conoscitivo? Aiutano a comprendere i grandi artisti del passato? Dunque, un bambino della scuola elementare per esempio, che non sa nulla di Van Gogh, sicuramente viene introdotto ai colori e a certi temi della sua pittura. Per questa fascia di età, una qualche utilità forse c’è. Ma per le altre?
Di fatto, queste mostre proprio attraverso il procedimento immersivo finiscono per travisare le opere, accentuando certi dettagli piuttosto che altri, confondendo le relazioni spaziali e cromatiche stabilite dal pittore, eliminando completamente le dimensioni e il formato delle medesime.
Insomma, l’arte è trasformata in “evento“, in spettacolo, in macchina che suscita emozioni, molto facilmente, che stupisce, ma di cui poi, in fin dei conti, al fruitore non resta nulla di concreto.
Nessuna di queste opere proiettate è stata realizzata per essere ingigantita e “mossa” su una parete.
La mia è una considerazione eccessivamente storicista? Certo, lo storicismo mi insegna che ogni opera va compresa secondo le categorie e il contesto culturale di una data epoca. Quindi da questo approccio, “eventi” del genere sono delle mostruosità.
Di fatto, il problema non è tanto la mostruosità, ma il carattere diseducativo che si insinua in queste operazioni. Tutti possiamo fruire dell’arte anche se non conosciamo il contesto storico, fruizione più superficiale ma pur sempre fruizione, ma per lo meno che l’integrità dell’opera come l’ha pensata l’artista sia mantenuta, che il senso delle proporzioni e delle relazioni formali resti intatto.
O allora, che l’immersione diventi un’opera d’arte vera e propria a se stante, che trae ispirazione dall’artista di partenza (Van Gogh o chi per lui), ma che ne interpreti le opere in modo originale, un po’ come ha fatto Bill Viola con le sue videoinstallazioni ispirate a opere medievali e rinascimentali (artista di altissima levatura che nulla ha a che vedere con questi eventi). Oppure a partire dallo stile di Van Gogh, fare un cartone animato sulla sua vita (il bellissimo Loving Vincent).
Insomma se di immersione si deve parlare, allora che sia sfacciatamente interpretativa e originale, e non apparentemente fedele all’artista che vuole celebrare, ma in realtà subdolamente ambigua e falsa.
Penso che queste mostre immersive siano il frutto di un’epoca che cerca le facili emozioni, che vuole una immediata, sensazionalistica e peraltro falsa comprensione delle cose, che trasforma l’arte in divertissement. L’epoca dei likes in cui si cerca di “compiacere” l’altro, privandolo di stimoli veri, con cose spettacolari ma senza sostanza.
La società palliativa.
Chiara Savettieri
Chiara Savettieri insegna Metodologia della ricerca storico-artistica e Storia della critica d’arte all’Università di Pisa. E’ specialista di storia dell’arte e storia della critica d’arte in Francia tra Sette e Ottocento, di tematiche legate all’età neoclassica (fortuna dei primitivi, rapporti tra arti visive e musica/danza, memoria dell’antico). Si è inoltre occupata del tema della morte nell’arte contemporanea e della rappresentazione dei neri nell’età moderna.
Il filosofo Immanuel Kant ha definito la pazienza come “la forza dei deboli e la debolezza dei forti” e, seppur volendo in origine significare molto altro, questo concetto si presta alla perfezione, nella sua apparente contraddizione, a rappresentare l’essenza duale di una capacità umana che, come spesso accade, porta con sé punti di forza e di debolezza, pro e contro, lati positivi e negativi, accezioni costruttive e altrettante distruttive.
Perché il buono e il cattivo sono insiti innegabilmente nelle cose umane, siano esse strumenti, oggetti, pensieri o atteggiamenti. Ciò dipende dall’uso che ne facciamo e dall’applicazione che concretizziamo, con loro e per loro (eccezion fatta per le armi da fuoco, nelle quali è impossibile vedere un lato positivo, ma questa è un’altra storia).
La pazienza non è figlia dei tempi che viviamo e, forse, figlia del tempo corrente, non lo è mai stata e, in un mondo che corre all’impazzata, alla costante rincorsa di un futuro come se “non ci fosse un domani”, è forse più orfana di Oliver Twist.
Nelle sue diverse nature, la pazienza può diventare deleteria quando, travisando il significato profondo del termine – a livello concettuale, ancor prima che etimologico – le attribuiamo un potere magico, taumaturgico, incline a quella speranza, di matrice religiosa, di manzoniana memoria. Certo, la speranza è l’ultima a morire, come si suol dire, ma anch’essa muore, se ci affidiamo solo al fato, alla casualità, alla fortuna, senza metterci del nostro, adagiandoci passivamente nell’infruttuosa attesa che tutto vede scorrere e nulla afferra, dilapidando la pazienza (asset di valore della nostra mente) come fosse un vuoto a perdere da conferire nella differenziata.
Ma la pazienza (da cui discende la calma e che, a volte, dalla calma discende) è una capacità appresa che nulla ha a che fare con la passiva attesa, con la vana speranza che qualcosa di buono accada e che lo faccia in autonomia, a prescindere da noi, nonostante noi.
Perché, avere la pazienza di attendere che determinate cose accadano, non ci solleva dall’obbligo di porre le basi, di creare le condizioni a margine, minime e necessarie, perché quelle cose accadano.
E può essere deleteria anche nel suo esacerbato contrario, quando vogliamo tutto e subito, senza apprezzare il tempo necessario, il percorso obbligatorio, quel divenire imprescindibile di ogni cosa che accade o che si crea, bruciando le tappe e, troppo spesso, anche l’esito a fatica perseguito. Perché le scorciatoie, non sempre portano a destinazione. Soprattutto se percorse frettolosamente.
È una capacità appresa e non innata, dicevamo, dovuta al contesto in cui ci formiamo (da cui anche il carattere discende) e alla divenuta capacità di pensar profondo. Ma non solo. Essa è anche correlata alla capacità adattiva, al modellamento del contesto, non solo quello ambientale in cui viviamo, ma anche quello intimo e introspettivo della nostra mente e del nostro pensiero.
Nessuno di noi nasce paziente. Il neonato è un campione d’impazienza quando, ancora incapace di applicare un filtro cognitivo alle sue ataviche pulsioni, piange disperatamente per ottenere subito ciò che vuole. Con il passare del tempo e con la crescita, la pazienza s’impara, connotandola con l’attesa proattiva necessaria a raggiungere un obiettivo. E si allena, mantenendo la mente presente a se stessa e al momento che sta vivendo, al qui e ora funzionale alle priorità e alle necessità.
Diversamente ricadremmo nel paradosso di Netflix (non dello strumento, bensì dell’abuso) che porta i suoi utenti a fagocitare, come oche dai piedi palmati, intere serie tv in pochissimo tempo, incapaci di aspettare l’evoluzione naturale e la sequenza logica degli avvenimenti, nonché l’altrettanto logico tempo di metabolizzazione delle informazioni, se non altro per godersi la suspance. E quello di Netflix è solo un esempio, essendo youtube e tutte le altre piattaforme on-demand non immuni dallo stesso cattivo utilizzo, nella paura di restare soli con se stessi e con i propri pensieri, terrorizzati dal dover pensare, atterriti dalla vuota eco della nostra “testa”, come avrebbe sentenziato Schopenhauer, che avrebbe aggiunto “solo una mente vuota può annoiarsi”.
Ma anche questo abuso è figlio dell’epoca che viviamo, che ruggisce scandendo il tempo trasformato in denaro, mercificando la vita umana, trasformandola in un valore monetario e vivendo un tanto all’ora. Ma questa vita a termine, complici anche gli strumenti digitali e di comunicazione sempre più immediati, induce la frenesia, l’incapacità di attendere il momento e le condizioni giuste, sufficienti, opportune, travolti da ritmi sempre più frenetici e dallo stress negativo (distress) che distrugge la nostra stessa salute. Al punto da ostentare la mancanza di tempo, come il simbolo distintivo di una vita di successo, il nuovo status symbol da esibire orgogliosi, anche sui social, dimenticando che il tempo è una convenzione uguale per tutti e che la sua mancanza è solo una carenza organizzativa che non impressiona chicchessia.
E induce la superficialità, la frenesia indotta dalla carente pazienza, a discapito di un pensiero profondo, ragionato, pensato, che vada oltre l’apparenza, dritto al cuore delle questioni.
A essere pazienti s’impara, strada facendo, nel corso della vita, ma occorre anche ricordare che la pazienza è un concetto soggettivo e adattivo, legato a doppio filo con la nostra intima realtà e con il contesto in cui viviamo e pensiamo.
La pazienza è resiliente, giusto per usare un termine talmente abusato da essermi diventato indigesto.
L’adattività della pazienza è data dal livello raggiunto, in campo culturale, sociale, professionale ed economico di un soggetto, nonché dal suo equilibrio mentale e dal suo intimo grado di appagamento. Non a caso, la scarsa pazienza è l’ancor più carente calma, sono sintomi evidenti di una cattiva autostima, tipici di soggetti poco equilibrati, scontenti, non appagati, frustrati, che cercano di mascherare queste carenze, (compresa la paura) con una parvenza di iperattività.
E questa connotazione adattiva della pazienza, c’insegna anche a lasciar correre ciò che non possiamo controllare, su cui non possiamo influire, liberandoci dalle zavorre che esulano dal nostro controllo, evitando la frenesia e lo spreco di risorse mentali all’inseguimento di ciò che non ci compete o non ci appartiene, o ancora che accadrà, con noi o senza di noi.
È una questione di consapevolezza di noi stessi, del nostro ruolo e del nostro livello psicologico.
Del resto, solo chi è in posizione dominante con se stesso, come una fiera in cima alla catena alimentare, può muoversi, operare e cacciare, senza frenesia e senza paura.
Lo stesso concetto vale anche per chi è padrone del proprio pensiero, complice una solida cultura e una mente attiva, consapevole del mondo circostante della scala dei valori personali che scandisce l’ordine delle priorità.
In estrema sintesi, la capacità di essere pazienti, mantenendo la calma nelle più disparate situazioni, è un innegabile sintomo di maturità psicologica. Inoltre, esercitare la pazienza, è un valido allenamento per l’autocontrollo, la consapevolezza e l’accettazione di sé, da insegnare ai bambini aiutandoli a crescere.
Occorre attendere, per raccogliere i frutti migliori, tranne che per amare e per amarsi, unico caso in cui attendere è solo una perdita di tempo.
Ogni cosa ha i suoi legittimi ritmi e accelerare non sempre è utile o possibile, rappresentando, questo aumento di passo e velocità, una corsa verso l’autodistruzione, dovuta alla frenesia del risultato e alla conseguente frustrazione. Una corsa del topo che, nell’illusione di afferrare il domani, lascia sfuggire l’oggi, come l’acqua che scivola tra le dita, impossibile da trattenere. Una frenesia rischiosa, foriera d’insuccesso, problemi di salute e conflitti, con noi stessi e con gli altri, portandoci a saltare alle conclusioni (spesso sbagliate) e a perdere quelle occasioni che, con altrettanta frenesia, inseguiamo e cerchiamo invano di afferrare, invece di concentrarci sui passi da compiere e sul viaggio da percorrere, dal quale imparare, traendo soddisfazione dall’esperienza in sé che, come tale, ha sempre tanto da insegnarci
La fretta e l’ansia, sono schiave dei desideri, mentre la pazienza e la calma, sono la positiva risultante di una sana scala dei valori.
Eppure, concetti così immediati e di semplice fruizione, tendono a non essere applicati, o anche solo presi in considerazione, soprattutto nel mondo del business e del lavoro.
In questo specifico ambito, uno degli insegnamenti più rischiosi e vuoti è, infatti, quello secondo cui un’impresa si inizia immediatamente, quali che siano le condizioni a margine, le competenze e le risorse a disposizione, senza attendere il momento perfetto che, non essendo possibile, mai giungerà.
Per quanto in parte verace, è comunque una verità stiracchiata, strattonata, forzata. Il momento ideale per iniziare una nuova attività non esiste e di certo non è “adesso, a ogni costo”, come spesso ci viene trasmesso in un misto di fretta e apprensione. Non ce lo impone il medico di avviare una start-up oggi e, “a ogni costo”, spesso comporta un prezzo troppo alto da sostenere. Un prezzo che non possiamo permetterci.
E la fretta, non solo negli affari, è una cattiva consigliera che gioca alla roulette russa con la nostra testa, o alla slot machine con i nostri soldi. Mentre la pazienza analizza e crea le condizioni a margine, la fretta, bruciando i tempi, improvvisa un salto nel buio dall’esito tremendamente incerto.
Il momento adatto sarà sempre e solo quello che, calcoli e verifiche alla mano, presenti le condizioni minime e sufficienti (competenze e risorse) a rendere possibile l’avvio dell’attività, prevedendo e controllando la maggior parte dei rischi possibili e minimizzando le possibilità di naufragio dell’attività.
Minime e sufficienti, come l’acqua in un bacino di carenaggio, necessaria al galleggiamento di un’imbarcazione. Se il bacino è in secca, occorrerà aspettare con pazienza che il livello dell’acqua salga fino a raggiungere quello minimo e sufficiente per la navigazione, evitando di varare una barca in una pozzanghera di fango e sperare poi di farci il giro del mondo.
Maturare è un’arte e imparare la pazienza, è parte integrante e imprescindibile di quell’arte.
Per tutto il resto c’è la fretta, la deleteria e improduttiva frenesia che ci spinge a correre verso l’obiettivo, verso quel traguardo che della nostra vita si nutre, ingollandola al massimo della velocità!
Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.
Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.
Madame Sullivan: “Alla bambina di Bridget sono spuntati i primi denti da latte. “
Madame Brown: “Oh ! Oh! Madame Sullivan inizia a perdere colpi. Oggi la notizia del giorno è…Attenzione! Attenzione! La bambina di Bridget piange la morte di Mr Money Money e nessuno fa caso al paio di denti nuovi in bocca alla bimba.”
Ogni giorno Madame Sullivan e la sua fedele femme de chambre Madame Brown, si recano al parco davanti casa per spendere al meglio quel che resta delle ultime ore del tardo pomeriggio. Il più delle volte finiscono per parlare di Bridget e di sua figlia. Tutte le signore del quartiere si prendono una sedia per posizionarsi davanti all’uscio di casa per chiacchierare di Bridget e di altri argomenti in primo piano nel paese.
Bridget-scandalo, Bridget partorisce in un taxi, Bridget che sfama la bimba offrendo le sue avvenenti rotondità. Mr Money-Money le regala sempre la carta per la toilette e le saponette tailandesi. Gli altri, quasi sempre, le danno del denaro. Bridget vuole bene a Mr Money Money, come si vuol bene ad un cugino particolarmente attraente, mentre lui la vede come è davvero, una prostituta con una figlia a carico.
Mr Money Money è morto e Bridget continua a fare la prostituta. La figlia di Bridget, per la prima volta, ha pianto per il dolore e non perché affamata o perché stremata da quella stanchezza tipica nei bimbi sottopeso. Mr Money-Money per il quartiere, Martin Maverik per l’anagrafe.
Sulla lapide però hanno scritto:” Riposa in pace Mr Money-Money.“.
Mr Money-Money era sempre alla ricerca di facili illusioni, la famiglia, gli amici più cari, la signora Sullivan e la timorosa ma agguerrita Madame Brown, avevano preso a chiamarlo Mr MoneyMoney perché per lui i soldi valevano più della libertà per un carcerato.
Martin gridava con la sigaretta accesa in bocca come un ossesso:” Money “, “ Money “.I bambini gli facevano il verso “Money “, “ Money “ .Si portava sempre dietro una voluminosa cassa stereo collegata al suo telefono per fare ascoltare a tutti le sue canzoni preferite. Recitava a memoria passi di quei film che lui definiva importanti a quei bambini che non avevano neanche la tv. Questi ricambiavano con un sorriso scomposto che lo galvanizza ancor di più. Aveva concluso un affare di dimensioni spropositate vendendo un immobile scadente ad un giapponese affascinato dal suo inusuale modo di fare. Con il ricavato della vendita, pacca dopo pacca proprio sulle spalle forti del giapponese, si era comprato l’auto dei suoi sogni. Salito a bordo della tanto desiderate Mercedes 2000, aveva strillato al mondo con rabbia felice: “Money “, “Money “.L’urlo di battaglia infastidì due poliziotti invidiosi dell’autovettura che lo denunziarono per disturbo alla quiete pubblica. “Money ! “, “Money “.
Bridget trovava la Mercedes 2000 un tantino pericolosa ma a Mr Money Money non lo diceva mai per paura d’esser troppo invadente. Il fato ha voluto che Mr Money Money c’è morto in quella macchina e Bridget ora si pente di non aver saputo osare scavalcare i suoi gentili tentennamenti.
Prima di morire Mr Money Money ne aveva combinate a bizzeffe. La signora Sullivan e la sua confidente-amica-perpetua Madame Brown si erano sempre illuse di saper tutto degli affari sporchi di Mr Money Money.
Quante curve a gomito prima di quell’ultima inesorabile. Accelerava e frenava come uno di quei piloti d’altri tempi tutto coraggio e sfrontatezza. Quelli che l’hanno soccorso per molto tempo hanno avuto l’immagine d’un corpo straziato davanti ai loro occhi, oppure hanno visto riflesso in qualche specchio della loro casa elegante un avanzo di uomo insanguinato senza scatola cranica. Qualcuno racconta l’accaduto e sente d’esser poeta: “Quella è stata per lui l’ultima curva. L’ultima volta che ha sentito d’esser vivo “. I mattoni che hanno contribuito alla costruzione del mito Mr Money Money hanno contato sull’importanza delle emozioni. Il modus vivendi di Mr Money Money rappresentava l’eccezione di quel mondo fatto di uomini che tentennano, di uomini perennemente afflitti da leggere depressioni, un sovrappopolato nucleo umano incurabile. Mr Money Money disprezzava chi si sentiva sotto assedio per uno stato d’animo, per un malumore, per uno di quei momenti di impotenza.
Secondo la sua modestissima opinione era un perder tempo, e il tempo è importante, soprattutto se ogni dì ,si corre dietro al denaro. Nei Pub, per sdrammatizzare la morte di Mr Money Money, la gente usa le parole della signora Sullivan che meglio di chiunque altro conosce vizi e virtù di tutti quelli che non escono mai dal quartiere.
“Mr Money Money era un bravo ragazzo. Forse un esaltato? Chi fra di noi non è ossessionato da qualcosa o da qualcuno. Che questo qualcosa sia fatto di materia o di spirito non ha importanza. Il denaro? Meglio dipendere dal denaro che dai sonniferi. Nel benessere economico Mr Money-Money aveva trovato le distrazioni per vivere, distrazioni a noi tutti molto care”.
La Signora Sullivan gustò con una lentezza premeditata le deliziose frittate della Signora Brown. Aveva trovato come distrarsi dai cattivi pensieri. La signora Brown, la domestica, cercò la chiave di lettura nell’amore che provava per la sua assistita, amore fino ad allora nascosto con grande successo.
Bridget raggiunse quell’invidiabile serenità soltanto molti anni più tardi quando sua figlia la strinse a sé come nessuno aveva fatto mai.
Ho avuto la fortuna di viaggiare con mia madre hostess per non stupirmi ogni volta di come siamo tutti cittadini di un mondo diverso,disunito,ma con i stessi connotati. Conoscere lingue diverse e poter scegliere di studiare il cinema e le arti senza seguire un percorso di studi tradizionale (forse piu’utile ai fini pratici) mi ha portato verso la scrittura con naturalezza e coscienza.Vincere premi letterari non mi ha legittimato a scrivere ma mi ha fatto capire che non solo il solo a sognare.Ho collaborato con diverse riviste letterarie e di cinema per dire in piccolissima parte la mia. Ho lavorato nel hotel management e vissuto a New York per respirare un aria internazionale ma amo al contempo anche le dimensioni locali ridotte dei paesini italiani.
Il teatro piccolo piccolo di una cittadina di provincia del sud Italia, in una sera d’inverno, apparentemente uguale a tante altre.
Il freddo, quello sì, è insolitamente pungente e accompagna la processione di spettatori che,a piedi, percorrono il tragitto verso il Comunale, infagottati nei loro paltò: le sferzate di vento gelido sembrano attenuate solo dal desiderio di prender posto, quanto prima, su quell’avviluppante poltroncina di velluto rosso da cui si potrà godere la piece prevista, per l’occasione, in cartellone: “A piedi nudi nel parco”, di Neil Simon.
Tra la folla di quella sera una bambina percorre, insieme alla mamma e al babbo, il cammino che la separa dalla visione del primo spettacolo teatrale della sua vita.
Lei e le sue gotine rosse rosse, un po’ per il freddo e un po’ per l’emozione.
Ha più o meno dieci anni e sta impettita nel cappottino delle grandi occasioni e nel berrettino di lana,di cui va proprio fiera:quello lavorato a maglia dall’amorevole nonna.
Per lei tutto è così inconsueto, magico e degno della massima attenzione. Appare, a tratti, quasi frastornata e non sa bene cosa la aspetta, ma i suoi passi sono scanditi da una raffica di domande, con le quali assilla i poveri genitori durante il percorso verso il teatro.
Inizia lo spettacolo e, anche se i ricordi, ogni tanto, si appannano, in lei è viva la sensazione di religioso silenzio che abbraccia il proscenio, quasi fondendosi con esso.
Quanto rispetto può esserci in un silenzio del genere, insperato rifugio da un mondo di inutile strepitio e gridolini isterici!
Pochi riflettori animano lo scambio di battute tra gli attori ma c’è una presenza che si muove con passi vibranti, quasi a imprimere impercettibili scricchiolii alle assi del palcoscenico. E’ una danza, dai cambi di passo inaspettati, concentrati nell’attimo che precede il sollevarsi in volo di un gabbiano dalla originaria posizione di quiete, a fior d’onda.
L’attrice si sposta con leggiadria riempiendo il palco e l’aria la segue, obbediente: in platea, ad ogni movimento da lei compiuto, si diffondono folate di profumo inebriante che viaggia al suono della sua voce, particolarmente suadente e familiare.
Non è un profumo qualsiasi: è qualcosa che sale dalle narici, pervade la persona mescolandosi all’odore del velluto delle poltrone e a quello, consumato dall’uso, di pochi, elementari arredi teatrali, passati di mano in mano.
Talvolta la bambina si guarda intorno e le sembra che quella donna non sia più sul palco:potrebbe sbucare da un angolo qualsiasi del teatro e, non per questo, cessare di calamitare l’attenzione del pubblico che la segue, nella sua affascinante performance, senza mai distogliere lo sguardo da ciò che avviene in scena.
E più lo spettacolo prosegue, più tutto, nella mente della piccola spettatrice, col naso perennemente in aria, sembra acquistare un senso nella meraviglia, nel candore e nel rosso vivo della poltrona su cui siede:il suo posto privilegiato in prima fila, spalancato su un mondo che sembrava tanto distante e che, magicamente, quella sera le si avvicina, chiamandola per nome.
Il palco buio esprime perfettamente il senso dell’attesa e i riflettori aiutano a schiarire la mente rendendola feconda alla curiosità, stimolando l’intuizione e la capacità di cogliere anche i più insignificanti dettagli della rappresentazione, attraverso il rapido susseguirsi delle scene.
Ci penso spesso a quella sera e, soprattutto quando scrivo, mi capita di rivivere le emozioni di quella bambina sbigottita ma matura e riflessiva:talvolta provo tenerezza, altre volte un senso di inarrivabilità, come di qualcosa che non si riesce ad acciuffare del tutto.
No, non c’entra lo sbiadirsi dei ricordi d’infanzia e la mia non è una sensazione frustrante: è, piuttosto, una presa di coscienza nei confronti di qualcosa che, molto probabilmente, resta un punto d’arrivo e di svolta.
In fondo, penso che debba essere questa la modalità attraverso cui ci si misura con il significato della parola SEDUZIONE.
Resta un’aspirazione ed è, forse, normale che nessuno si consideri edotto e del tutto arrivato, rispetto a questo tema.
Io, dal canto mio, continuerò a stare col naso all’insù, nell’attesa di riuscire a riconoscere, nel teatro della vita, quel particolare spostamento d’aria,regolato da movenze precise e puntuali, denso di profumi e di aspettative elettrizzanti che danzano al ritmo di una voce amica.
Sono certa che non sarà difficile ritrovarlo e, quando succederà, solo allora, mi alzerò in piedi e gli dedicherò l’applauso più fragoroso e riconoscente di cui sia mai stata capace.
Nel frattempo, vivo appieno la mia vita e inganno il tempo scrivendo di emozioni propedeutiche a «quel che sarà».
Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.
Ramondo lo scudiero – Antonio Chirico
“Un libro ben scelto ti salva da qualsiasi cosa.
Persino da te stesso”
Casa editrice: Youcanprint
Anno di pubblicazione: 22 giugno 2021
Genere: romanzo storico
La storia di “Ramondo lo scudiero” è ambientata nel regno di Napoli negli anni a cavallo fra il 1300 e il 1400 e racconta, in forma romanzata, l’ascesa al potere di Raimondello Orsini Del Balzo.
In quell’epoca le regole familiari erano molto rigide e non ammettevano deroghe. Raimondello è il secondogenito del conte Orsini e la famiglia per lui ha previsto inderogabilmente la carriera ecclesiastica; il successore del padre infatti dovrà essere l’amato fratello, Roberto.
Ramondello però non si arrende al suo destino, s’innamora della giovane contessa Isabella e prova a invertire la sua sorte. Soltanto il pro-zio Raimondo Del Balzo apprezza le evidenti doti cavalleresche del nipote e cerca di costruirgli un futuro diverso, accanto all’amata Isabella. I suoi sforzi purtroppo saranno vani e Ramondello dovrà fuggire; dell’amato pro-zio gli rimarrà soltanto il cognome, Del Balzo, che si aggiungerà a quello di famiglia, Orsini.
Le prime esperienze del giovane saranno difficili e in terre straniere, a fianco di cavalieri legati al mondo ecclesiastico; questi saprà distinguersi fin da subito e il suo nome diventerà presto famoso.
Ramondo Orsini Del Balzo riuscirà a stringere amicizie autentiche e dovrà destreggiarsi fra i poteri reali e papali caratterizzati da equilibri continuamente in divenire. Nel periodo medioevale, più che che mai, i grandi poteri portavano avanti soltanto i proprio interessi personali ed economici senza riguardi per il popolo che offriva i propri servigi.
Le particolari caratteristiche di Ramondo, guerriero valoroso con un grande cuore, faranno sì che egli possa ricoprire posizioni sempre più di prestigio nella scala gerarchica e sarà apprezzato e temuto proprio per quegli aspetti così “inusuali” in un uomo di potere: rispetto e onestà.
Un uomo così non poteva rinunciare all’amore. Quali sviluppi avrà il suo amore per Isabella? Riuscirà il grande Ramondo ad abbandonarsi di nuovo all’amore?
Valorose avventure, avvicendamenti politici e personali sapranno mantenere elevata l’attenzione del lettore che rimarrà inevitabilmente coinvolto nella storia del protagonista.
La storia di Ramondo lancia un messaggio di speranza per tutte quelle persone che riescono a raggiungere il successo sperato soltanto attraverso le proprie capacità, che credono nel valore dei rapporti umani e nell’amore.
La scrittura di Antonio Chirico è piacevole e scorrevole. Gli eventi storici possono essere, a volte, lenti e poco scorrevoli ma la forma romanzata del racconto è sicuramente una scelta adatta a rendere interessante e gradevole la storia.
Le note storiche alla fine del libro sono un ottimo segno di onestà dello scrittore nell’orientare le vicende narrate nel giusto contesto storico.
Tutti adoravano Ramondo Orsini Del Balzo ed è facile capire perché, giunti alla fine della lettura del romanzo!
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.
Shopping compulsivo: è così che normalmente definiamo l’atto di acquistare qualcosa quando, vittime di uno stato ipnotico o di alterata coscienza, soccombiamo all’impulso potente e profondo che ci porta ad acquisire qualsiasi cosa la “pancia” ci suggerisca, bypassando ogni barlume di ragione, di logica e di senso pratico, pur di soddisfare una irrazionale bramosia di possesso.
Parliamo quindi di acquisti non motivati da un reale bisogno o necessità (quindi non meramente beni di prima necessità), che spesso travalicano i limiti del vero utilizzo, al punto da farci scegliere oggetti e strumenti totalmente inutili o sovradimensionati al nostro concreto utilizzo.
Non che sia sbagliato soddisfare un desiderio, un lusso, un capriccio, acquistando un oggetto che non risponde a bisogni concreti, ma che asseconda un desiderio, un’ambizione intima, una vera e propria frivolezza dell’Ego. Fa parte dell’atavico meccanismo comportamentale dell’auto-appagamento, quel bisogno di compiacimento e soddisfazione, appagato nell’unico modo che (a volte) conosciamo: l’acquisto di nuovi “giocattoli” e status symbol di cui andare fieri, da sbandierare e, grazie ai quali, sentirci più attraenti (per non trascurare nemmeno l’atavica pulsione riproduttiva, potente motivatore di molte nostre scelte).
Per affondare l’analisi, occorre considerare che, ammettere l’origine più emotiva che razionale delle nostre scelte, ci spaventa e ci costringe a razionalizzare ogni cosa, ogni gesto, ogni parola, pur di allontanare il rischio d’incorrere nelle dissonanze post-acquisto, o di fare una brutta figura, anche con noi stessi.
Ed è proprio questo bisogno di razionalità, a rendere il concetto di shopping compulsivo, più un falso mito che un vero movente.
Naturalmente, com’è ovvio immaginare, il nodo è un altro e risiede nella reale e ben nascosta motivazione d’acquisto. Chiamare in causa una compulsione emotiva, tranne nei casi interessati da una patologia (stimati dai Neuroscienziati tra i 4 e il 7% del campione analizzato), è una visione superficiale della questione, una scelta di comodo che, spesso, diventa una scusante poco credibile ai nostri comportamenti.
Se fosse sufficiente la natura patologica del comportamento, a coprire le casistiche e a spiegare, in ogni sua accezione il fenomeno, questi ragionamenti non avrebbero ragion d’essere. Ma, evidenze alla mano, così non è. Appare lampante la nostra estraneità al mondo dei pesci o degli uccelli e qui non si tratta di frenesia alimentare, come l’avrebbe definita un naturalista. No, la questione è, di fatto, più di natura vanesia e introspettiva, che patologica.
Partiamo da un punto fermo: alla base d’ogni conoscenza, risiede la comunicazione.
Siamo sempre pronti a indagare l’intimo più nascosto e profondo del nostro interlocutore, per scoprirne i tratti cognitivi, nonché le caratteristiche, positive o negative secondo il nostro personale metro di giudizio. Raramente, però, questa comunicazione prende vita con noi stessi e, davvero di rado, ci capita di interrogarci, allo scopo di scoprire il perché di una scelta, cosa si nasconde dietro quella bramosia che porta, come un riflesso automatico, la mano alla carta di credito, pur di riempire un vuoto di cui ignoriamo l’origine.
Insomma, per metterla in termini filosofici, difficilmente diamo vita a quel dialogo interiore necessario a scoprire chi siamo, dove andiamo e cosa vogliamo davvero e, per dirla con Freud, è assai raro che c’interroghiamo per portare a galla la vera origine della sostituzione d’oggetto, atta a colmare quel vuoto interiore o a superare una lacuna d’abbandono.
La nostra coscienza non può essere spenta e, quello della verifica, è un metaprogramma che, supportato dal bias di conferma, gira in perpetuo in background. La capacità di razionalizzare ciò che ci circonda e che ci tocca da vicino, o da lontano, è operativa h24, sempre pronta a mediare gli impulsi, a valutare le nostre scelte istintive, soppesandole nel sostrato della coscienza, trovando per loro una spiegazione logica, una motivazione credibile che le legittimi ai nostri stessi occhi e a quelli del mondo circostante. È assai raro, infatti, acquistare un oggetto costoso solo sulla scia dell’emozione, del momento e di un impulso non ragionato, senza cercarne un contraltare razionale.
E ci accontentiamo di considerare concreta qualsiasi vaga e vuota motivazione, pur di sentirci giustificati.
Qualsiasi… e tanto basta, per tornare a casa con uno smartphone che per molti vale uno stipendio e che sarà utilizzato, a dir tanto, al 30% delle sue possibilità e funzionalità. Eppure, prima di dar retta alla “pancia”, ci siamo informati, abbiamo confrontato marche e modelli, funzioni e caratteristiche tecniche, (magari senza comprendere appieno quella gergalità tecnica), pur di avere un alibi, una giustificazione razionale che, motivando un acquisto spesso inutile o sovradimensionato, restituisca la dignità dell’arbitrio alle nostre scelte, al punto di immaginare, suggestionandoci, un bisogno che non avevamo.
Ma se non si tratta di compulsione fine a se stessa, come la funzione mediatrice della nostra coscienza sembra suggerire, allora dobbiamo prendere in esame nuovi e diversi punti di vista, affinando la capacità di pensare fuori dagli schemi.
Una domanda, per conoscere ciò che anima davvero le nostre bramosie, tanto semplice quanto ostica, potrebbe essere: per chi acquisto l’oggetto?
Comprare qualcosa, ad esempio un nuovo smartphone, a nostro diretto beneficio, comporta una risposta tanto immediata quanto ingannevole. È infatti un inganno della mente, pensare che lo acquistiamo per noi stessi perché, se l’acquisto non è motivato da una ragione più che concreta, quel particolare oggetto, di fatto, lo compriamo per gli altri, non per noi stessi.
Attenzione: non nel senso altruistico del termine, ma in quello di ostentazione ed esibizione, per possedere e sbandierare l’oggetto del desiderio, l’ultimo raglio della moda, quel simbolo distintivo (che non distingue!) che ci faccia sentire illusoriamente inseriti, di tendenza (cool direbbero i più aggiornati), dimenticando che essere alla moda, troppo spesso, tradisce omologazione e appartenenza alla massa dominante, all’esatto contrario dell’esibizione della propria inimitabile personalità.
Come i colori di guerra, utili a riconoscere l’appartenenza alla stessa tribù.
Oggi come oggi, possedere l’ultimo modello di “melafonino” è come ricoprirsi di tatuaggi o fumare la cannabis che, nel puerile tentativo di sentirci unici, alternativi, diversi, forse rivoluzionari, addirittura migliori, di fatto ci fagocita e c’ingloba nella massa omologata, nell’amalgama stereotipata, informe e senza volto, che tutto schiaccia e dalla quale nulla più emerge.
Tutti uguali, clonati, fotocopiati, tutti con la stessa ingannevole velleità di sentirci diversi, imitandoci a vicenda.
È il senso d’appartenenza, il biologico ed evolutivo (seppur poco evoluto) bisogno di essere accettati, a muovere la mano armata (di banconota), ancor prima di una patologia che, nei fatti, è solo una scappatoia alle proprie responsabilità.
Nel film “Un boss in salotto”, il bravissimo attore Rocco Papaleo, incalzato dalla sorella, risponde alla domanda “perché proprio la camorra?” con un amarissimo e introspettivo “perché volevo appartenere a qualcosa”, dando forma, tra le amare risate, al mal cogitato senso d’appartenenza e di accettazione, che tanto plasma e plagia i nostri pensieri.
Perché appartenere alla massa dominante, identificandosi in qualcosa o in qualcuno, rassicura e fa sentire protetti. Al contrario, essere davvero originali, esibire le proprie diverse preferenze, rappresentare ciò che si è (al di là di ciò che si ha), spaventa le menti deboli, quelle meno preparate e più inclini all’idea malsana di un mondo in bianco e nero.
In seconda analisi, a spingerci verso un acquisto non necessario, può anche essere l’aspettativa che leghiamo a quell’acquisto, ovvero legata a ciò che ci aspettiamo dall’oggetto, alla sensazione che immaginiamo e che leghiamo in senso predittivo al suo utilizzo e all’appagamento che ne conseguirà.
Insomma, ai preconcetti e ai pregiudizi (siano essi positivi o negativi) che leghiamo all’acquisto di quel particolare oggetto.
Ma le aspettative partorite dalla nostra mente, sono una lama a doppio taglio e, spesso, generano una delusione, una dissonanza tra atteso e percepito, al punto da abbandonare l’oggetto acquistato, quando queste collidono con la realtà dei fatti, con ciò che oggettivamente riscontriamo, a differenza di quanto immaginavamo e ci aspettavamo, sulla base di giudizi e pareri (magari non nostri) o di inutili quanto vuote supposizioni.
Contro il muro granitico della realtà, ogni supposizione s’infrange. E con essa le scusanti auto-assolutorie, rendendo il concetto di shopping compulsivo sempre meno concreto, relegato alle analisi superficiali e dozzinali, sempre fatti salvi i casi patologici precedentemente accennati.
Certo, un capriccio resta un capriccio, proprio come un lusso resta un lusso, a volte assecondato solo per il nostro intimo piacere, che più spesso veicola ragioni profonde, diverse da quelle che, da soli, ci raccontiamo. Dietro quel capriccio, oltre quel lusso, ci sono delle ragioni che travalicano la ragione psicologica del Disturbo Ossessivo Compulsivo, che in questo contesto sarebbe una forzatura. Ragioni che, a condizione di volerle ascoltare e analizzare, ci direbbero molto su noi stessi, permettendo di conoscerci con oggettività ragionata, valutate le emozioni che ci animano e che muovono le nostre preferenze di prima istanza, lungi da attenuanti insulse, da puerili scusanti e da motivazioni che poi davvero tali non sono.
Definire shopping compulsivo le nostre errate elaborazioni della necessità e del senso della misura, nonché delle priorità e dei valori, pur di celare ciò che, al netto d’ogni inganno, è un bisogno di apparire, di essere accettati e riconosciuti, riconoscendoci una riprova d’esistenza, ci fornisce un’attenuante che deresponsabilizza, una scusa prèt à porter che rende tutto più facile e che fornisce una scorciatoia comoda, atta ad alleggerire le coscienze e a contrastare il senso di colpa.
Al contrario, scavare dentro se stessi è un duro lavoro, spesso lento, costante, impegnativo, per nulla scevro da delusioni anche dolorose e dalla necessità di mettere mano a ciò che, a livello cognitivo, può e deve essere rivisto al miglioramento.
La conoscenza costa fatica. Conoscere noi stessi, costa ancor di più e rappresenta una vera pietra miliare nell’evoluzione umana. Ma, tutto sommato, in un mondo che corre e impone, spingendoci alla mediocrità, vogliamo davvero conoscerci così a fondo?
Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.
Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.
Casa editrice: Feltrinelli
Anno di pubblicazione: 2020
Genere: narrativa
Malinverno omaggia la lettura e la grande letteratura internazionale ma crea anche un diverso equilibrio fra la vita e la morte.
Astolfo Maliverno ha due centimetri di carne in meno in una gamba ed è il bibliotecario della prestigiosa biblioteca del suo paese, Timpamara.
Timpamara è caratterizzata dalla presenza di una cartiera che utilizza soltanto libri per la produzione della carta; spesso nel paese soffia un vento forte e dalle montagne dei volumi accatastati, in attesa di essere distrutti, si staccano tante pagine che volano alte nel cielo e ricadono sugli abitanti di Timpamara, i quali iniziano così ad apprezzare la lettura e i suoi protagonisti più famosi.
Per questa ragione i timpamaresi hanno tutti nomi altisonanti, appartenenti ai personaggi e ai grandi della letteratura internazionale.
Non tutti i libri però vengono ridotti a macero e quelli che vengono salvati alimentano la ricca biblioteca di questo delizioso paese, vanto dei suoi abitanti e meta di tanti forestieri appassionati di lettura.
La vita di Astolfo Maliverno viene stravolta quando il sindaco di Timpamara gli propone di integrare il proprio lavoro di bibliotecario con quello di custode del cimitero del paese.
Astolfo all’inizio è un pò scettico, ma poi accetta e inizia la sua avventura.
Sono tante le vicissitudini e le situazioni particolari che si verranno a creare ma Astolfo riuscirà sempre a gestirle con la sua capacità di trasformare in amore tutto quello che tocca.
I vari personaggi che alimentano la vita del camposanto, così come le loro storie, sono deliziosi e il risvolto dato da Astolfo conquista il cuore grazie alla sua sensibilità.
In “Maliverno” si prende confidenza con il particolare luogo qual è il Camposanto; il cimitero può diventare a volte un luogo di vita, seppur nella morte?
Durante il suo ordinario lavoro di manutentore, Astolfo verrà in contatto con una lapide molto particolare e misteriosa, che gli rapirà il cuore. Grazie a questa, il protagonista vivrà una forma particolare di amore… chi è la ragazza che gli gravita intorno? Quali saranno gli sviluppi legati al rapporto si verrà a creare fra Astolfo e la misteriosa avventrice?
Leggerezza, affetto, dolore, amore, rabbia sono i sentimenti che si susseguono in Maliverno. Alla fine anche la solitudine può farci sentire un pò meno soli e il dolore legato alla perdita delle persone care può essere destinato ad una forma di rielaborazione, al punto che a volte potrà risultare meno difficile riprendere la nostra quotidianità.
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.
Nel precedente articolo sono partita da un piccolo libro della fine degli anni ’90 per raccontare come alcuni piccoli piaceri della vita possono regalarci momenti di pura felicità. Per similitudine ho cercato di dimostrare che non sempre è necessario andare alla ricerca di gesti importanti ed eclatanti – che quasi sempre si rivelano anche estremamente gravosi – per innescare un cambiamento desiderato per il piccolo universo in cui ci troviamo a vivere, ma persino per il nostro pianeta.
Una filosofia, quella dei piccoli gesti, che se fossimo in tanti a seguire potrebbe davvero essere rivoluzionaria.
Con le nostre scelte di acquisto possiamo condizionare il mercato semplicemente decidendo di comprare il prodotto più sostenibile, perché il packaging è ridotto al minimo o non c’è plastica oppure utilizza materie prime ecologiche o è ricaricabile o, ancora, è di stagione e a km zero.
Noi consumatori dobbiamo acquisire consapevolezza del nostro potere e trasformarci in “consumattori” se vogliamo essere ascoltati e spingere all’azione verso una maggiore sostenibilità.
Ma la rivoluzione dei piccoli gesti ha ambizioni ancora più grandi.
Sogno uno sconvolgimento anche nell’ambito delle relazioni, della socialità, dei rapporti umani. Un terremoto capace di sconquassare le nostre coscienze e costringerci ad aprire gli occhi sulle brutture e sulle deformità del nostro modo di relazionarci con gli altri esseri viventi, umani ma non solo.
E qui mi sovviene un altro libro, più o meno dello stesso periodo: “Brodo caldo per l’anima”.
In una sorta di viaggio gustativo che ci trasporta dalla prima sorsata di birra ghiacciata che regala un attimo di refrigerio unico e irripetibile al calore di un brodo che riscalda l’anima e ci porta ad assaporare ardenti attimi di felicità.
Perché voglio disperatamente credere che l’uomo sia assetato di amore e comprensione e che sia ancora possibile nutrire fiducia nel prossimo e aprirsi al mondo con serenità, senza paura e timore.
Perché voglio sperare che altruismo e gentilezza dimorino nell’animo umano come qualità innate, e per quanto assopite, siano capaci di risvegliarsi e di prendere il sopravvento sull’egoismo e il cinismo che paiono aver ricoperto la nostra umanità.
Come? Con piccoli gesti garbati e cortesi, con minuscoli atti premurosi e amorevoli, come un sorriso sincero o un grazie genuino.
Il sorriso è un’arma potente in grado di disinnescare la nostra diffidenza. È contagioso e agisce come un riflesso condizionato inarrestabile. È un antidolorifico naturale perché, rilasciando endorfine, abbassa il livello di stress e induce una sensazione di calma e tranquillità. È un potente mezzo di comunicazione che parla un linguaggio universale, a cui tutte le culture e le società del mondo attribuiscono lo stesso significato di positività. È espressione di sicurezza e serenità e fa trasparire un senso di fiducia e autostima. È benessere puro per la nostra mente e aumenta la capacità di concentrazione. È capace di modificare il nostro umore, ingannando il nostro corpo e la nostra mente e spingendole a migliorare rapidamente lo stato d’animo. E soprattutto non ci costa nulla, ma può essere un regalo prezioso per gli altri.
Per Charlie Chaplin “un giorno senza sorriso è un giorno perso”. Che inutile spreco di tempo sarebbe una vita senza sorrisi!
Allora, la prossima volta che saliremo su un tram o una metropolitana, che entreremo in un bar per bere un caffè, o in un negozio per fare acquisti, o in un ufficio per sbrigare una pratica, oppure che incontreremo un collega nel corridoio dell’azienda, ricordiamoci di sorridere.
Pensate come sarebbe migliore il mondo se la moneta di scambio di ogni nostra relazione fosse un sorriso.
Un piccolo gesto può avviare una rivoluzione?
Sì, se saremo in tanti a farlo.
Giuliana Caroli, classe 1965, lavoro in una grande cooperativa di servizi come Responsabile Comunicazione, ma mi porto come bagaglio una lunga esperienza in ambito consulenziale e formativo.
Scrivo di ciò che conosco e di ciò che mi appassiona. Coltivo la curiosità e alimento le relazioni positive. Detesto l’indifferenza e l’irresponsabilità.
A cosa aspiro? A fare la differenza: per qualcuno, per il pianeta.
No, stavolta e per una volta, non tirerò in ballo la pandemia parlando di disvalori affettivi.
Sulla linea della temperatura di un immaginario termometro delle emozioni, l’AMORE cammina sempre in bilico, come un giocoliere che oscilla tra il ”Non so se ce la faccio a farcela” e un “Ho capito che oggi non è giornata!”.
E la presa d’atto della definitiva perdita di equilibrio da parte del saltimbanco, viene puntualmente slatentizzata attraverso la consueta elencazione di catastrofi di proporzioni bibliche:la calata delle invasioni barbariche, lo scoppio di epidemie e il trionfo della logica dei piccoli, grandi compromessi di Stato.
L’annuncio parla chiaro: “Venghino signori, venghino…qui giace l’AMORE, precipitato, per cause fortuite e calamità non ben precisate, dalla fune sospesa lassù in alto:anche stavolta ha vinto il DISAMORE, con buona pace degli idealisti dell’ultim’ora!”
Scuse, un mare di scuse, addotte per non buttarsi nella mischia e sperimentare a carte scoperte le relazioni, lasciandosi travolgere da quel briciolo di turbamento emotivo di cui tanto si avverte la mancanza.
E se,invece, turbati e scossi, in ordine sparso, facessimo la rivoluzione attraverso uno Sturm und Drang del cuore, in grado di lasciarci dentro una traccia profonda di tutto ciò che testiamo nel corso dell’esperienza terrena? Forse riusciremmo sul serio a sperimentare l’eccezionalità di un sentimento…certo…ma dovremmo, al contempo, essere in grado di comprendere la portata dei risvolti mortificanti insiti in un’accusa di DISAMORE.
Già il suono di questa parola tocca profondamente l’intimo sentire, è una specie di paravento che affligge il relazionarsi dei tempi moderni, un palcoscenico montato ad arte per guadagnare una via di fuga dai propri fantasmi ed inscenare una recita a soggetto perché, diciamocela tutta, l’atto di far finta di desiderare ciò da cui, in realtà, rifuggiamo quasi con orrore, è seducente come pochi altri. Per noi e per chi ci ascolta, il più delle volte, inebetito dalle delusioni rimediate nella vita e pendente dalle labbra di chi spaccia l’Amore per Disamore, l’Interesse per Disinteresse, l’Empatia per Apatia.
Così, seduti ai margini dello strapiombo da cui contempliamo le nostre vite, con le gambe a penzoloni nel vuoto a rendere delle relazioni interpersonali, tendiamo le mani tremanti verso chiunque ci appaia in grado di sottrarci alle insidie di un abisso, spesso denso di limitatezza sul piano spirituale e morale.
E’ un meccanismo,il nostro, oliato da quella insostenibile leggerezza che regola il desiderio di essere accolti e che trova precisa rispondenza nell’insostenibile, leggera indifferenza, di chi, il più delle volte, è capace soltanto di regalare DISAMORE.
Ma il comune senso del pudore, sempre che esista, alberga proprio in quella manifestazione di sommo ritegno e rispetto per l’altro attraverso la quale si opera nel suo interesse e non contro a prescindere. La vera vittoria resta la precisa scelta di non ritrarre una mano tesa sulla vita di un altro individuo.
Chi ha esperienza diretta con l’insostenibile leggerezza di una forma di DISAMORE subìto, di solito si libera e arriva sempre lì, dove si può osare solo AMORE.
Non si tratta di un luogo fisico:è un anfratto dell’anima in cui le persone si riconoscono nell’alternanza di luci e ombre del proprio Essere.
L’Amore osa ove non sono necessari preamboli, non c’è spazio per il calcolo e nessun preconcetto è ammesso.
Tutto è straordinariamente nitido, i lineamenti si distendono in un sorriso accogliente e cadono le barriere.
L’Amore osa quando l’intuizione istintiva si fa certezza incrollabile e quando una cosa lungamente attesa si realizza,magari contrariamente ad ogni aspettativa.
Ce lo domandiamo spesso se, per raggiungere questa condizione di estatica contemplazione di un’altra esistenza, esistano delle coordinate precise da seguire:una mappa, una scorciatoia, una dritta furba.
E invece no: tocca arrangiarsi. Che poi, in sostanza, significa mantenere una linea di genuinità.
Resta il fatto che l’occasione in cui si riesce a osare amore è un posto bellissimo, la cui particolarità incanta gli occhi e il cuore e invita a trastullarsi per sempre nella deliziosa incapacità di distinguere il sogno dalla realtà.
Ed è proprio con questo spirito intriso di ingenua incredulità, di movenze incerte, di sequenze interrotte da sguardi lucidi come di pianto ma di coscienza estremamente consapevole e padrona di sé che dovremmo osare tutto l’Amore di cui siamo capaci e dargli peso.
E’ l’unica strada che rende sostenibile la leggerezza del DISAMORE ricevuto.
Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.
Adagiato al centro della piana di Uras, al limite nord-orientale del Campidano (in provincia di Oristano), coperto da lussureggianti lecci e macchia mediterranea, Monte Arci svela la sua origine e storia senza tempo, è un vulcano dormiente. Trebina Longa, Trebina Lada e Corongiu de Sizoa sono le tre vette che richiamano all’immagine di un treppiede, sono ciò che rimane dei tre condotti vulcanici che hanno dato origine al monte ed al suo inestimabile tesoro, l’Ossidiana.
Considerata “l’oro nero della Sardegna”, l’Ossidiana è una “pietra vitrea” rara, di origine vulcanica, la sua formazione è dovuta al rapido raffreddamento della lava a seguito di un’eruzione. Il suo colore è nero ed in sardo è chiamata “sa pedra crobina” letteralmente “la roccia nera come il corvo”, anche se il suo colore non è sempre uniforme ma cangiante. Se colpita dai raggi del sole è possibile vederne la vitrea trasparenza e talvolta animarsi di diversi colori, dal nero al grigio, dal caldo rosso al marrone o al verde, fino candido bianco.
E’ un viaggio lungo milioni di anni quello dell’Ossidiana, un viaggio che dal centro della terra la porta fino a noi, tra le nostre mani.
Seguendo le sue vie in senso letterale, è possibile ripercorrere la storia del popolo sardo e delle sue tradizioni. Ad onor del vero altre regioni nel Mediterraneo conservano questo tesoro, Lipari, Pantelleria e Palmarola, anche se è certo che i più ricchi siti di estrazione sono quelli del Monte Arci in Sardegna. Sono e forse lo sono sempre stati in quanto i primi indizi sullo sfruttamento sistematico della risorsa ad opera dei così detti ‘scheggiatori’ specialisti che la preferirono alla Selce, risalgono al Neolitico recente (II metà del V millennio a.C.), epoca in cui si sviluppò la grande officina di Conca ‘e Cannas e l’Ossidiana divenne il cardine degli intrecci commerciali nel bacino del Mediterraneo.
“Pietra di fuoco” anche questo nome le appartiene, richiamo alla calda e rossa lava che una volta spenta e modellata dall’uomo cerca ancora il “ rosso calore”, quello del sangue. Quel sangue che probabilmente intrise le mani di colui che per primo scoprì che la “pietra nera” era facile da scheggiare e modellare in oggetti acuminati indispensabili per la vita ma indissolubilmente legati alla morte. Dagli utensili d’uso quotidiano, quali lame e raschiatoi probabilmente per la lavorazione delle pelli, alle armi da getto: lepunte di freccia. Strumento indispensabile per la vita è una punta di freccia in ossidiana issata in cima ad un sottile bastone tra le mani di un cacciatore in cerca di una preda per sfamarsi, per sfamare. La stessa punta di freccia assume un altro significato tra le mani di un guerriero in cerca del “nemico”, pronto a difendere o difendersi seminando morte e dolore all’interno del genere umano.
Una pietra così affascinante ed importante per la sopravvivenza, ha assunto presto un valore ed un significato speciale a tutela della persona e come ornamento, un uso intimo e personale, l’amuleto.
Gli oggetti destinati ad uso personale, sono strettamente legati all’ambito tradizionale che negli anni li ha replicati sostanzialmente immutati, tanto da risultare difficoltoso distinguere visivamente gli esemplari antichi da quelli recenti. “L’amuleto” vero e proprio non è prezioso nei materiali e non è mai di grandi dimensioni. Il materiale usato per le montature è sempre l’argento in lamina, talvolta dentellata, o lavorato a filigrana. Le catenelle che uniscono i diversi elementi che li compongono sono costituite da perline di varia forma e differenti materiali, legate tra loro con maglie anch’esse d’argento; la tecnica di lavorazione è solitamente piuttosto elementare. Assai rilevante è però il significato magico-religioso che gli amuleti hanno assunto nella loro lunghissima storia. In Sardegna non si è sviluppata una “magia colta” come quella persiana, giudaica o egiziana, profondamente legata allo studio dei problemi dello spirito e del movimento degli astri a cui si connetteva non solo il conteggio del tempo ma ogni evento naturale.
Gli amuleti ebbero vasta diffusione. Sono questi gli oggetti concreti che la magia semplice, popolare, impiega come strumenti di difesa, con efficacia specifica o generale, contro qualsiasi sofferenza che derivi da cause sconosciute, pertanto ritenute soprannaturali. “Per la loro forma o per la struttura della loro materia, arricchiti talvolta da formule magiche, incorporano la potenza che attiene al soggetto divino di cui sono riconosciuti simbolo e la esercitano in favore di chi li tiene vicini portandoli sulla persona, appesi a capo del letto o della culla, posti sotto il cuscino o fissati alle vesti.” Dovrebbero assicurare benessere, abbondanza e fortuna, tenere lontani i pericoli e preservare dalle malattie e dai malefici. Gli amuleti formati da più oggetti magici, collegati da una catena o saldati direttamente tra loro, ottengono un effetto maggiore: ogni singolo elemento infatti è dotato di una propria forza che si somma a quella degli altri per concorrere, nel modo più efficace, a tutelare chi li possiede contro i diversi malefici. L’uso dei talismani è documentato sin dall’Età del ferro; dal periodo tardomedioevale e rinascimentale sussistono anche numerose rappresentazioni iconiche e letterarie in ambiente cristiano.
In Sardegna, più che in altre regioni, sono stati rinvenuti antichi amuleti del pantheon egizio e di quello punico che da esso dipende. Tuttavia, col mutare dei tempi e dei costumi, se pure numerose credenze magiche hanno continuato a sopravvivere, gli amuleti hanno subito numerose variazioni, causate dal sovrapporsi di altre culture sino ad essere gradualmente sostituiti da tipologie diffrenti. Una nuova era, per l’universo magico della Sardegna, ha avuto inizio nel corso del XIII secolo quando arabi ed ebrei, provenienti dal Maghreb e dalla Spagna meridionale, stabilirono relazioni commerciali dirette con l’Isola.
La presenza in Sardegna di persone che, come gli antichi egiziani, affiancavano alla religione alcune pratiche esoteriche, può spiegare la sostanziale comunione tra simbolismo religioso cristiano e sovrapposizioni di culture più antiche, una confluenza che ha plasmato le credenze e le pratiche magico-religiose popolari dell’isola. “Le caratteristiche pratiche ad esse legate sono rimaste in uso sino all’inizio del Novecento, nonostante gli anatemi lanciati dal Sinodo di Cagliari sin dal 1652 e costantemente replicati da quelli successivi, nei quali si condanna esplicitamente la magia e l’uso di portare con sé amuleti. Ma pressoché ovunque la volontà popolare manifesta una forte resistenza nel coltivare una ritualità estranea alla religione ufficiale.” La credenza nel “malocchio”, ovvero nei poteri malefici espressi per mezzo dello sguardo, è documentata per la prima volta in testi magici egizi della fine dell’Antico Regno, duemila anni prima della nascita di Cristo, ma le sue origini risalgono certamente a tempi ancora più lontani, ad un epoca mitica nella quale l’uomo primitivo vedeva nel sole e nella luna l’occhio destro e sinistro della divinità celeste primordiale. L’osservazione degli effetti talvolta malefici, prodotti dallo “sguardo” dei due “pianeti-occhi” sui campi e sulle acque, generò la convinzione che l’origine di qualsiasi sofferenza fosse causata dall’influenza del cosi detto “occhio cattivo”. Poi, quando la capacità di emanare questa forza venne attribuita ad alcuni individui ritenuti, forse a causa del loro aspetto, possessori anche del tutto inconsci di tale prerogativa, la superstizione del “malocchio” raggiunse una diffusione enorme. A seguito della credenza secondo la quale la persona, prendendo contatto attraverso il simbolo con il suo modello, diviene “una porzione di quell’essere “magico” e acquisisce l’immunità e la tutela dalle sue influenze malefiche”, così da permettere agli amuleti degli “occhi” di godere di grande diffusione e popolarità.
Il mistero della fecondità della donna e della terra è il primo fenomeno che l’uomo si è prefisso di controllare e favorire attraverso la forza magica. Si può presumere che ad assicurare la fertilità siano state preposte, già in epoca paleolitica, le celebri statuette definite, “Dea Madre” che sono state ritrovate in molte regioni dell’Europa e dell’Asia e, in gran numero, anche in Sardegna.
Amuleti con conchiglie marine, ritenute sin dalle origini dell’uomo una potente tutela contro il malocchio, sono stati ritrovati in Sardegna nelle tombe puniche. Le stesse virtù delle conchiglie sono state attribuite nella religione giudaico-araba agli opercoli di alcuni gasteropodi come il Turborugosusche per la sua forma, richiamante quella dell’occhio, è divenuto l’amuleto deputato più di ogni altro a proteggere gli occhi da ogni male. Per questa funzione, nella religione popolare cristiana, si ritrova accoppiato ad un’immagine sacra ed è denominato “occhio di Santa Lucia”.
Il corallo che un tempo era ritenuto una pietra, deriva la sua valenza “amuletica” dal colore rosso, questa volta da identificare come simbolo del sangue che, per i popoli antichi rappresentava l’energia vitale in conseguenza del fatto che, alla perdita del sangue nell’uomo e nell’animale, si accompagnava la fine del vigore e la morte. Perciò il colore rosso fu ritenuto portatore delle stesse forze misteriose del sangue e quindi capace di dispensare forza e vitalità. Vi è inoltre la teoria che abbina alcune pietre alle costellazioni zodiacali e ai pianeti del sistema solare, la cui influenza ricade sulla vita terrestre, tale teoria era riconosciuta sin dai Caldei, anche se di connessione tra Zodiaco e gemme si parla anche nella Bibbia e, nel III secolo, San Girolamo osservò una precisa corrispondenza tra dodici pietre preziose e i pianeti. “Anche l’ambra, il giaietto ed altre pietre fossili, che derivano la valenza magica dall’essenza della struttura della loro materia danno vita a molti amuleti sardi. Ad esse si accompagnano altre pietre, quali il diaspro, l’onice e l’agata che si collegano alle gemme gnostiche”. Nel corso del tempo a tutte queste si sono sostituite, sempre con funzione terapeutica, “pietre” di pasta vitrea bianca o colorata con ossidi metallici in rosso, in blu azzurro e in verde. A queste sono stati dati simbolicamente la forma sferica e il colore associati ai pianeti considerati come perfetti e divini e guidati da angeli, dei quali le pietre racchiudono gli influssi particolari nell’ambito del complesso sistema sia magico che astrologico e religioso, che determina il simbolismo dei colori. La sfera di vetro rosso, insieme con quella azzurra o con quella verde è il simbolo degli occhi di Horo che così sono descritti nei papiri delle Piramidi. In questi si legge appunto che gli occhi erano uno rosso e l’altro azzurro o verde. Nella tradizione magica giudaico-araba, ed anche in Sardegna, venne attribuito lo stesso valore agli occhi di Santa Lucia.
Valenze diverse hanno invece la pietra bianca “Perda ’e latti” (la pietra di latte) e la pietra nera, chiamata a seconda delle aree geografiche della Sardegna, Sabegia, Pinnadellu o Kokko . La prima provvede a non far mancare il latte nel seno materno, mentre l’altra, in giaietto o ossidiana, lenisce ogni dolore ed è ritenuto protegga contro tutti gli animali velenosi.
L’ossidiana esprime quindi, ancora oggi il suo potere e la sua valenza magica attraverso un ornamento/amuleto semplice e di forma sferica che simboleggia l’occhio. Un occhio buono a protezione di un altro occhio cattivo che genera is Mazzinas ( le fatture e le maledizioni in lingua sarda) o S’ogu malu (l’occhio cattivo) che si posa sul soggetto. Si narra che se il supporto d’argento sul quale è incastonato arriva a spezzarsi, la persona è stata in pericolo di vita per via di una maledizione e l’amuleto ha offerto se stesso a protezione imprigionando al suo interno il maleficio. Qualora questo dovesse accadere il talismano andrebbe sostituito poiché saturo ed incapace di proteggere ancora.
La tradizione secolare prevedeva che questo amuleto venisse regalato dalle mamme, dalle madrine o dalle nonne alle spose, alle donne in attesa ed alle ragazze che diventavano adulte, ma anche ai neonati in forma di spilla da nascondere nella culla. Prima di essere donato doveva essere benedetto attraverso le preghiere in lingua sarda dette “Brebbus” con funzione di protezione.
Sacro e profano accompagnano tra i secoli la storia dell’ossidiana in Sardegna rendendo sempre vivo ed attuale l’interesse per una pietra che altrimenti sarebbe stata dimenticata.
Non sono in grado di valutare quanto ancora il “potere magico” di questa pietra influenzi la scelta di farne o farsene dono. Ho vacillato a lungo come sospesa in equilibrio su un filo tra razionale ed irrazionale, per capirne il fascino ed il potere. So per certo che l’ossidiana ha accompagnato la mia vita sin da bambina nei frammenti di pietra che raccoglievo nelle scampagnate con i miei genitori attirata dal nero lucente. Così come è altrettanto vero che in fondo, anche se so di non credere in nessuna superstizione, con serenità posso ammettere che quella pietra mi a colpito al cuore.
Da bambina sono sempre stata abituata alla presenza dei nuraghi, delle domus de janas o delle tombe dei giganti. La storia faceva parte del paesaggio, ne era complementare, ed il tempo che passava aveva un significato sconosciuto. A otto anni è presto per innamorarsi così come è presto per capire chi si vuole diventare. Poi capita che a varcare la porta della mia classe in terza elementare sia un omino curvo su se stesso che tra le mani tiene una piccola teca di legno e vetro, contenente il frutto delle sue passeggiate al di là degli argini che contengono il Tirso. Adagia sulla cattedra inconsapevole, ciò che diventerà una parte della mia vita, il mio quanto mai “remoto” futuro. Quando ho guardato attraverso il vetro ho visto, distese fiere su un purpureo velluto, punte di freccia d’ossidiana capaci dopo millenni di trafiggere ancora, non le carni, ma l’anima ed il cuore. Di quella piccola lezione di preistoria sarda, credo di aver assimilato ogni singola pausa, respiro, parola, mente gli occhi fissavano le frecce e la mia mente produceva immagini tinte di sangue e mille emozioni. Quelle poche ore, non mi hanno mai abbandonata, anche quando la mia vita sembrava aver preso un’altra direzione e quella punta di freccia in ossidiana tornava puntuale alla mente e mi faceva battere il cuore. Ora forse posso ammettere che il mio presente è legato ad un inconsapevole “ arcaico cupido-cacciatore”, abile nel modellare e fissare la punta di freccia in ossidiana sul suo sottile bastone, abile nell’averla saputa lanciare oltre il tempo e lo spazio immaginabili, dritta verso la mia anima ed indelebile nella mente.
Non so cosa potrà pensare chi leggerà questo testo sospeso tra storia e superstizione ma, su di me l’ossidiana del Monte Arci, ha compiuto un incantesimo che va oltre il razionale e forse di non semplice comprensione.
Per approfondimento vedi il libro : Gioielli, Storia, linguaggio, religiosità dell’ornamento in Sardegna, 2004 (pag. 83-87); ILISSO EDIZIONI, Collana di ETNOGRAFIA E CULTURA MATERIALE / Coordinamento: Paolo Piquereddu.
Maria Patrizia Soru è una Guida Turistica Archeologica. Appassionata di Storia e letteratura della Sardegna, è alla continua ricerca di immagini e parole capaci di raccontarne il passato, il presente ed il futuro della sua Terra.