Il libro delle case – Andrea Bajani

Un libro ben scelto ti salva da qualsiasi cosa. 

Persino da te stesso”

Illustrazione di Anna La Tati Cervetto

Rubrica a cura di Sara Balzotti_

Il libro delle case – Andrea Bajani

Casa editrice: Feltrinelli 

Data di pubblicazione: 04 febbraio 2021

Genere: narrativa 


Possono essere definiti casa le nostre abitazioni e quelle dei nostri amici e parenti ma anche il contesto delle esperienze vissute e gli eventi che si susseguono dall’infanzia alla vita adulta.

La storia familiare e personale di una persona può essere raccontata in tanti modi e Andrea Bajani utilizza un modo davvero particolare di presentare quella di “Io“.

Io” si racconta analizzando la casa prima dall’esterno, con un approccio molto tecnico, e poi all’interno descrivendo ogni elemento delle ulteriori “sotto case” che compongono gli avvenimenti accaduti.

La storia di “Io” è piena di dolore e il ricorso ai numeri feedback serve forse a spulciare nella memoria per ricercare i momenti più leggeri e felici, che purtroppo non sono molti.

Il dolore viene raccontato bene dalle numerose “case” che compongono la scena; queste sanno essere davvero impietose nel riportare a galla i comportamenti e le parole che hanno fatto tanto soffrire “Io“.

Io cresce e vive fra Torino e Roma e in entrambe le città non riesce a trovare pace.

Nonna“, la madre Padre, sa bene che il figlio si arrabbia spesso perché è venuto al mondo e poco valgono la bella casa al mare affittata tutti gli anni per la famiglia e le dolci storie della buonanotte raccontate ai nipoti. 

Il dolore e la rabbia di “Padre” sono incontenibili e tutti in qualche modo ne vengono coinvolti, senza troppe vie d’uscita.

Nonna” e “Madre” non riescono a proteggere “Io” e “Sorella“; il rapporto fra i due fratelli purtroppo non riesce a rafforzarsi.

Padre” non lascia spazio alle unioni.

Io riesce a conoscere l’amore e a costruire la casa della propria famiglia ma riuscirà a risarcire le ferite del passato?

Quando “Moglie” dovrà affrontare un momento della vita molto difficile, la casa del loro rapporto avrà fondamenta abbastanza solide?

Con “Figlia“, quale rapporto stabilirà “Io“?

La vita fuori da “Io” non è meno difficile e dolorosa.

C’è la casa di “Prigioniero“: verrà catturato?

C’è la casa di “Poeta“: che cosa gli è capitato nella Roma corrotta?

Alla fine, ci sarà una casa che riuscirà ad alleviare il dolore di “Io“?

Il punto di vista raccontato nel “Libro delle case” è davvero particolare e interessante e il lettore non potrà vivere la storia senza rimanerne coinvolto!


[Nota della Redazione di Fuorimag.it]

Il romanzo di Bajani ha lo scopo di indagare le strutture sentimentali di un uomo attraverso gli spazi reali e immaginari che occupa. Il lettore ha così la possibilità di accedere a diversi ambienti nello spazio e nel tempo.  Un capitolo dopo l’altro, un insieme di tessere di un puzzle che prende forma, la vita di “Io” si rivela al lettore nella sua complessità emotiva ed esistenziale.

Attraverso questo percorso, il romanzo racconta pezzi della nostra storia [vissuta in prima persona dal sottoscritto], dagli anni ’70 fino ai giorni nostri: l’uccisione di Aldo Moro, il ritrovamento del corpo martoriato di Pasolini all’Idroscalo di Ostia, sono ricordi indelebili che irrompono nella narrazione e riaprono ferite mai guarite. [ADL]


Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!

A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.

https://www.francesia.it/freetime/consigli-di-lettura/




Cinque falsi miti [e una verità] sulla nostra mente.

Illustrazione di Anna La Tati Cervetto_E’ vietata la riproduzione senza autorizzazione scritta dell’Autore

di Christian Lezzi_

Che siamo bombardati dalle notizie, senza nemmeno avere il tempo di verificarne la correttezza e la provenienza, è un dato di fatto. È la natura stessa delle nostre comunicazioni, il supporto tecnologico che le veicola, il ritmo di vita a cui tutti siamo sottoposti, nonché la fretta che ci autoimponiamo, a determinare questa velocità che, se da una parte ha l’indiscutibile beneficio di tenerci informati e aggiornati, dall’altro assume il sadico piacere di portarci fuori strada, facendoci credere ai falsi miti (di qualsivoglia materia) per fretta, semplicità o convinzione, quindi per coerenza con il nostro punto di vista su quelle tematiche.

Tra i tanti miti che ci giungono ogni giorno, ci sono quelli dovuti alla cattiva informazione, allo scarso livello di approfondimento, alla superficialità di chi dà vita a queste falsità (che a volte sono solo mezze verità o errate interpretazioni, più o meno a scopo di lucro), conoscendo a malapena l’argomento e spacciandosi come luminari dello stesso.

Ecco che quindi, in ambito business, dove la crescita personale e professionale è pane quotidiano o, per lo meno tale dovrebbe essere, i miti privi di fondamento alcuno, in tema di psicologia e mente umana, la fanno da padroni.

Facendo riferimento al bellissimo quanto utile libro “50 Great Myths of Popular Psychology” (spiacente, non credo esista la versione italiana) scritto dallo psicologo statunitense Scott O. Lilienfeld, in collaborazione con Steven Jay Lynn, John Ruscio e Barry L. Beyerstein, approfondiamo insieme alcuni tra i più famosi miti sulla mente umana e, più in generale, sulla psicologia.

In chiusura parleremo anche di una curiosità controintuitiva del nostro stesso funzionamento, qualcosa a cui difficilmente pensiamo e che raramente sappiamo spiegarci. A cui forse, nella sua banalità, nemmeno avremmo pensato.

Uno tra i falsi miti più famosi e longevi, deve la sua origine alle parole travisate del ben noto William James, il quale, ormai un secolo fa, o giù di lì, dichiarò: “sinceramente dubito che le persone usino più del 10% del loro potenziale intellettuale”. Da lì in poi, il disastro. Il potenziale umano, nella dozzinalità delle cattive interpretazioni che diventano falsi miti formativi, è giunto fino a noi diventando “usiamo solo il 10% del cervello”, diffondendosi a macchia d’olio, dando vita a teorie speculative che pretendono di aumentare quella percentuale (non sempre il 10%, a volte ci si spinge addirittura al 7 o al 4) attraverso corsi di formazione più sciamanici che scientifici, atti a “riaccendere il cervello sopito” (si, dicono esattamente così). Ora, è indubbiamente vero che una mente allenata, proprio come un muscolo, possa aumentare la sua efficienza, la prontezza, la potenza di elaborazione e di immagazzinamento dei dati. Può farlo anche di molto, prove alla mano. Ma si parla di potenziale, non di cervello, di processi cognitivi, non di fisiologia. Per sfatare questo mito, qualora la logica non fosse sufficiente e la differenza tra cervello e potenziale non fosse così lampante, basti pensare che, il cervello umano, rappresenta grosso modo il 3% del peso corporeo e che, nonostante il suo evidente stato di minoranza fisica, “brucia” più del 20% dell’ossigeno che respiriamo. Possibile che l’evoluzione abbia permesso un così immotivato dispendio di risorse vitali? Esiste il risparmio cognitivo, vero, ma tenere spenta parte della macchina-cervello non sarebbe produttivo. Domande retoriche a parte, le Neuroscienze non hanno mai trovato un riscontro oggettivo all’esistenza di aree silenti del cervello (per lo meno in assenza di traumi rilevanti).  Nemmeno la corteccia silenziosa è davvero tale (infatti oggi si definisce corteccia associativa, non più silenziosa). 

Ma non complichiamoci la vita inutilmente e andiamo avanti.

Un altro pericoloso stereotipo (un falso mito, col tempo diventa tale, nella mente delle persone) è quello che vorrebbe la scarsa autostima, come protagonista assoluta di ogni problematica psicologica. Anche in questo caso, a travisare il concetto, stravolgendolo e utilizzandolo a evidente scopo di guadagno, sono stati moltissimi formatori e autori di crescita personale che, per il proprio tornaconto, hanno spinto sull’acceleratore di un concetto sbagliato: nessun problema di ansia, di successo, di depressione o relazionale, discende da una cattiva autostima. L’analisi di oltre 15.000 casi clinici, da parte del prof. Roy Baumeister, nel tentativo di confutare questi presunti legami, ha di fatto smentito la tesi. Non solo non è riscontrabile alcun legame concreto con l’abuso di alcol, farmaci o droghe, ma nemmeno vi è un concreto nesso logico tra la bassa autostima e la depressione. Resta ovvio che il giusto atteggiamento semplifica le cose, ma è una questione di atteggiamento, appunto, non di autostima. Una considerazione, semplice e lapidaria, demolisce per sempre questo falso mito: sono i risultati a far crescere la stima in noi stessi, non il contrario. What else?

Procediamo il viaggio, entrando nel merito del processo cognitivo che tutti gli altri sostiene: la memoria. Il falso mito imperante, nella psicologia popolare, la vorrebbe meccanicamente simile a un videoregistratore. Ma al di là di ciò che crediamo, la nostra memoria non è così infallibile e i nostri ricordi non sono fedeli e testuali come vorremmo o come ottimisticamente speriamo. Essi, infatti, sono soggetti a deformazioni e distorsioni, a condizionamenti esterni, a suggestioni che ne alterano i contorni, all’effetto della cultura che ci impregna, ai tabù e alle fobie da cui siamo dominati, che li plasma e li modifica, fino a snaturarli del tutto. La psicologa Elisabeth Loftus, che ha dedicato buona parte della sua attività professionale a questo argomento di ricerca, ha ampiamente dimostrato la fallacia dei testimoni oculari, quando questi sono oggetto di disinformazione. Addirittura i falsi ricordi possono essere letteralmente impiantati, attraverso processi suggestivi e d’immaginazione. Diversamente, in tribunale, i testimoni oculari avrebbero molto più peso di quanto realmente hanno. Poco o niente!

Un’altra credenza popolare, totalmente destituita di fondamento ma che continua a piacere, mai assente dalle conversazioni “popolari” è il vecchissimo adagio secondo cui “Gli opposti si attraggono”. Una convinzione radicata nel 77% della popolazione, che è diventata lo slogan di molte agenzie matrimoniali e siti d’incontri. Quindi, ancora una volta, una bugia a scopo di lucro. Studi approfonditi, dando sostanza all’altro più approfondito proverbio “gli opposti si attraggono, ma solo chi si somiglia si piglia”, hanno dimostrato scientificamente che, soprattutto nel caso delle relazioni sentimentali, gli opposti proprio non si attraggono. Al contrario, sono i tratti in comune, a costruire una fiducia, un rapport, una complicità duratura, un vero e proprio stato di felicità condivisa. Una mosca bianca, in un gruppo di mosche nere, potrà anche attirare l’attenzione, ma sarà esclusa dalla gran parte delle possibilità riproduttive. Questo falso mito, che tanto piace alla commedia romantica, si basa sulla presunzione del completamento di noi stessi grazie all’altro, ovvero del luogo comune secondo cui, in una coppia, ci si completi a vicenda. Aspetto poeticamente affascinante, in minima parte vero, ma scientificamente inconcludente.

Un mito tra i più pericolosi, invece, è quello che vorrebbe i criminali più furbi, capaci di ottenere l’infermità mentale in tribunale. Non solo questo concetto è totalmente erroneo (ci sono molte perizie di parte e controparte, in un processo, per giungere a tale concessione) ma nella mente comune è dilagato al punto da credere che, quella dell’infermità mentale, sia una richiesta diffusissima. Questa convinzione trae origine anche dalla mentalità forcaiola, che considera la pena un atto di vendetta e la presunta patologia una via di fuga, quasi un regalo al colpevole. Recenti statistiche ci dicono che, negli Stati Uniti (è da lì che arriva il libro) tale richiesta è formulata solo in un risicato 1% dei processi e che viene concessa solo nel 25% di quei casi. Diversamente, in carcere, ci sarebbero solo i secondini, mentre i colpevoli sarebbero tutti in strutture psichiatriche giudiziarie, per quanto queste ultime possano essere addirittura peggiori dell’esperienza carceraria.

La verità è che i falsi miti e le spiegazioni semplicistiche ci piacciono e ci rassicurano. La mente umana agisce spesso in virtù del potentissimo principio di coerenza e, in ossequio a esso, formula e apprende. Coerenza verso noi stessi e le nostre credenze e convinzioni, certo, ma occorre ricordare che, quelle che crediamo nostre sincere convinzioni, altro non sono che la media di quelle della nostra cerchia di riferimento. È qui che entra in gioco la capacità di analizzare le informazioni, approfondirle e metterle alla corda del pensiero critico, cum grano salis

Uno stereotipo, messo sotto sforzo dalla ragione, rompe la crosta della superficialità e implode sotto il peso della propria insussistenza, lasciando spazio alla verità. Acquisita la capacità di osservare le cose con coscienza, presenti a noi stessi, ragionatamente per non ingoiare ogni fandonia ci giunga, potremo dirci soddisfatti di aver aumentato l’utilizzo del nostro potenziale intellettuale (con buona pace di William James).

Concludendo, una curiosità sul funzionamento della nostra mente. Non un falso mito, bensì una verità scientificamente provata, nonostante sia controintuitiva e difficile da accettare a rigor di logica. 

La nostra mente riesce a elaborare le idee migliori, quando è stanca! 

Sembra assurdo, vero? Eppure, i ricercatori hanno dimostrato come, l’impossibilità momentanea di opporsi alle idee strane e inconsuete, o di fare muro contro il pensiero laterale ricorrendo a stereotipi o bias cognitivi, o riducendo la propria elasticità mentale, ci permette di non precludere ciò che, diversamente, nemmeno avremmo preso in considerazione o che, addirittura, avremmo considerato folle, in un altro momento della nostra giornata. 

E questo spiega la produttività della doccia, dopo una lunga e faticosa giornata di lavoro o dopo l’allenamento, o di quel momento magico che precede l’addormentamento, quando la coscienza stremata apre le porte della percezione (non quelle farmacologiche di Aldous Huxley) permettendoci di vedere le cose da prospettive nuove, diverse e mai osate a mente fresca.


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.

Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




Eppure basterebbe guardarsi negli occhi.

Giulia Gellini_”Divagazioni_Guardando_ci”_ Tecnica mista_100 x 48_2012

di Valeria Frascatore_

Quella che stiamo vivendo è sempre più l’era delle statistiche, del calcolo delle probabilità, della valutazione degli obiettivi produttivi raggiunti, della corsa smaniosa alla quadratura dei bilanci.

A ben pensarci, però, i numeri non ci mettono in affanno, almeno non quanto le parole.

I primi li trovi ma non li cerchi, le seconde le cerchi ma non le trovi.

E, se non trovi le parole, c’è la rete Internet: non sia mai che si possa attingere alla libreria di casa propria e sfogliare un’enciclopedia…che so, un Lessico Universale Italiano, un buon dizionario, qualcosa di cartaceo che, solo a maneggiarlo, ti prenda il piacere per la vetustà di cose d’altri tempi.

In ogni caso, non è mai sprecato il tempo che dedichiamo a soppesare le parole, a calibrarle perché vadano a segno senza esondare, in senso positivo o negativo.

Ma c’è un tempo, parimenti prezioso, che nessun orologio tende più a misurare:è il tempo che dedichiamo a guardare gli altri negli occhi.

L’abbiamo decisamente trascurata, ma esiste una forma di comunicazione legata a tutto ciò che è istinto ferino, riconoscibilità immediata tra individui insita in un guizzo dello sguardo: tutto questo non potrà mai essere soppiantato da uno schermo, da un video, da un’interazione mediata da dispositivi elettronici.

Ci sta sfuggendo di mano il contatto con la parte emotiva delle relazioni, che poi è quella profondamente motiva del vivere:non ci guardiamo più dritti in faccia, l’uno con l’altro.

Come se ci portassimo costantemente sul groppone un sottile senso di colpevolezza rispetto alla violazione di chissà quale standard di comportamento ottimale:una specie di eterno confronto con “Il saper vivere di Donna Letizia”, testo la cui lettura, un tempo, si consigliava come breviario delle buone maniere.

La logica dell’evitarsi si sta pericolosamente facendo strada dentro e fuori di noi al punto che, a volte, non riusciamo neppure a ricordare dettagli identificativi dei volti delle persone del nostro diretto entourage familiare: un neo, una macchia discromica della pelle, una vecchia cicatrice.

E,invece, ogni singolo viso potrebbe parlarci di un’armonia tra sguardo e mimica, di un’essenza che appartiene a quel soggetto e solo a lui nelle espressioni che fa quando parla, nelle piccole smorfie e nelle involontarie contrazioni della muscolatura che, in ciascuno di noi, dicono molto più dei gesti.

D’altra parte c’è chi, dalla mimica facciale e del collo di una persona che canta, è in grado di stabilire se quest’ultima stia usando correttamente il diaframma (oppure stia cantando di naso) e se stia sfruttando al meglio le proprie corde vocali.

Guardarsi negli occhi significa soprattutto mettersi a nudo davanti all’altro, richiede coraggio e sgomenta molto più dell’essere semplicemente svestiti.

Certo, a volte è proprio difficile sostenere determinati tipi di sguardi, senza alterare la rettilineità della comunicazione visiva, perché più sentiamo affini le persone che abbiamo di fronte, meno riusciamo a gestirne l’invasività. Tendiamo ad abbassare la testa, abituati a pensare che quello che vogliamo trasmettere possa arrecare fastidio, noia…non sia degno di interesse.

E non parliamo di quando non riusciamo a guardare l’altro dritto in faccia perché ci vergogniamo e sappiamo di aver commesso qualche birbanteria!

In linea generale scappiamo, scappiamo sempre quando arriva il momento del “redde rationem” ma siamo come quei buffissimi personaggi di alcuni cartoni animati che insabbiano la testa e, non accorgendosi di essere rimasti esposti al pericolo con il resto del corpo, pensano di averla fatta franca.

E allora ci ritroviamo, con lo sguardo basso e riluttante, a cercare rifugio nel cellulare. Lì, mal che vada, vediamo riflessi noi stessi e,comunque, non dobbiamo temere il giudizio o l’indagine volta ad una ricerca, che ci riguardi da vicino, della verità a tutti i costi.

Già…la verità. Quale?Quanta?

La verità è fatta di sfumature e, guardarsi negli occhi, consente di coglierle tutte, quelle sfumature.

Perciò, incrociamo gli sguardi, non lasciamoci sfuggire l’occasione di un incontro e di un’occhiata, anche fugace, in cui ritrovare il piacere della socialità e della comunicazione legata al linguaggio del corpo.

E basta pure con quell’asettico:«Prendiamoci un caffè...», «Andiamo a prenderci un aperitivo…», «Facciamoci una pizza…» come se, solo davanti al cibo oppure a una bevanda, riuscissimo a togliere il freno alle nostre più profonde ritrosie.

Addio ai gesti meccanici, privi di slancio e di passionalità.

Credo sia arrivato il momento di parlare guardandosi negli occhi. Senza mezzi termini, senza se e senza ma.

Se poi non aveste voglia di parlare, lasciate liberi i vostri sguardi di posarsi ovunque sia possibile ragionare, comunicare, esprimersi. Mettetevi in gioco:non abbiate paura di un diniego.

E troverete sempre altri due occhi, o anche di più se siete fortunati, pronti a restituirvi tutto ciò che desiderate. A quel punto perdersi o ritrovarsi non avrà importanza, purchè siate appagati e felici di aver sperimentato un incontro di anime.

Troppi involucri senza contenuto, troppi sacchi vuoti, troppa gratuita fatuità in questo nostro, incasinato mondo.

Un pensiero del genere,però,non deve generare rabbia o delusione:piuttosto,ogni tanto,spegniamo i cellulari,abbassiamo la guardia e lasciamo solo che gli occhi parlino di noi e per noi!

Ci sarà sempre qualcosa da dirsi.


Valeria Frascatore_

Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.




Alza il tuo standard, abbassa la tua tolleranza, e poi guarda.

Photo by zum_zug _. Museo Nazionale Romano_Pugile Romano

di Igor Gori

Io non capisco sempre per cosa lavoro, in cosa mi impegno, e cosa ottengo.

Forse ottengo quello che sono disposto a tollerare.

Quello che intendo dire è che, nella mia vita, ho le cose che riesco a tollerare.

Se sono spiacevoli, se hanno bassa energia, se c’è qualcosa che sta succedendo nella mia vita in questo momento, socialmente, finanziariamente, fisicamente, se c’è una parte della mia vita che non è di mio gradimento e mi ritrovo a tollerarla, dicendo che “non è poi così male ” , questa è in effetti una dimostrazione del mio standard, e c’è una correlazione diretta tra il livello del mio standard e il livello di tolleranza che sono disposto a mantenere.

Questo, infatti, crea una qualità di vita. Della mia vita, ma anche della tua.

In effetti, le persone che hanno la massima tolleranza, le persone che sono disposte a sopportare la maggior parte delle cose avverse che le capitano, queste sono anche le persone che hanno gli standard più bassi.

Esempio veloce.

Ti ritrovi spesso a parlare con qualcuno in una conversazione a bassa energia. Ti sta prosciugando.

Stai tollerando questa connessione anche se chiaramente non è nel tuo massimo interesse, e ti accorgi che non ti dà energia.

In effetti, quando incontri questa persona in particolare, o queste persone, senti quel senso di vuoto, di disagio.

Eppure tolleri questo rapporto.

Quindi quell’alta tolleranza per il disagio è allo stesso tempo uno standard basso.

E si manifesta in ogni area della vita delle persone.

Più qualcuno è disposto a sopportare, più basso è il suo standard.

Non c’è alcuna gloria o giustificazione nel tollerare cose che non sono buone per te, e puoi anche scegliere di provare dolore o disagio, è un tuo diritto farlo.

Eppure non c’è motivo per cui le tue giornate siano qualcosa che non produca energia per te. L’energia è la valuta finale, non il tempo, non il denaro.

Energia.

Allora ti chiedo: Come ti senti? Come ti senti riguardo alle attività e alle azioni che sono nella tua vita? Come ti senti riguardo alle relazioni nella tua vita?Come ti senti riguardo al tuo rapporto con te stesso? E se c’è qualcosa nella tua esperienza di vita che ti sta drenando, che ti sta risucchiando l’energia, devi davvero continuare a sopportarlo?

Non esiste una risposta giusta o sbagliata per questo. perchè si tratta di un’esperienza unicamente personale, ma ti invito solo a considerare la connessione tra avere tolleranze inferiori e standard più elevati.

Non c’è motivo di gloria nell’avere un’alta tolleranza per cose che semplicemente non funzionano per te.

Soffrire di più non migliorerà le cose. Ti aiuterà solo a fare più pratica nella sofferenza.

Alza il tuo standard, abbassa la tua tolleranza e poi guarda.

Guarda come la tua capacità di provare più gioia, più appagamento, di creare un’esperienza di vita più significativa ora, non più tardi.

Provalo tu stesso e guarda come va.


Igor Gori

È considerato un professionista dello sviluppo personale, disciplina che deriva dalla tradizione del self-help. Si definisce un coach e un esperto di “peak state”, cioè quel particolare stato d’animo in cui si è fermamente ed euforicamente determinati ad agire al fine di raggiungere i propri obiettivi, a discapito delle proprie paure, quali che esse siano.




L’ Arte palliativa.


di Chiara Savettieri

Ho riflettuto sulle cosiddette “mostre immersive“, anche in funzione di un articolo del Giornale dell’Arte che ho letto di recente. Si tratta di ambienti in cui sono proiettati, per dettagli o interamente, capolavori di artisti come Van Gogh, che risulta uno dei più gettonati in questo genere di operazioni.

Entrando si è completamente “immersi” per l’appunto nell’universo artistico di un grande Maestro.

Mi sono sforzata di capire, senza pregiudizi e con un approccio ingenuo, se potessero avere una loro utilità. Queste immersioni hanno un valore conoscitivo? Aiutano a comprendere i grandi artisti del passato? Dunque, un bambino della scuola elementare per esempio, che non sa nulla di Van Gogh, sicuramente viene introdotto ai colori e a certi temi della sua pittura. Per questa fascia di età, una qualche utilità forse c’è. Ma per le altre?

Di fatto, queste mostre proprio attraverso il procedimento immersivo finiscono per travisare le opere, accentuando certi dettagli piuttosto che altri, confondendo le relazioni spaziali e cromatiche stabilite dal pittore, eliminando completamente le dimensioni e il formato delle medesime.

Insomma, l’arte è trasformata in “evento“, in spettacolo, in macchina che suscita emozioni, molto facilmente, che stupisce, ma di cui poi, in fin dei conti, al fruitore non resta nulla di concreto.

Nessuna di queste opere proiettate è stata realizzata per essere ingigantita e “mossa” su una parete.

La mia è una considerazione eccessivamente storicista? Certo, lo storicismo mi insegna che ogni opera va compresa secondo le categorie e il contesto culturale di una data epoca. Quindi da questo approccio, “eventi” del genere sono delle mostruosità.

Di fatto, il problema non è tanto la mostruosità, ma il carattere diseducativo che si insinua in queste operazioni. Tutti possiamo fruire dell’arte anche se non conosciamo il contesto storico, fruizione più superficiale ma pur sempre fruizione, ma per lo meno che l’integrità dell’opera come l’ha pensata l’artista sia mantenuta, che il senso delle proporzioni e delle relazioni formali resti intatto.

O allora, che l’immersione diventi un’opera d’arte vera e propria a se stante, che trae ispirazione dall’artista di partenza (Van Gogh o chi per lui), ma che ne interpreti le opere in modo originale, un po’ come ha fatto Bill Viola con le sue videoinstallazioni ispirate a opere medievali e rinascimentali (artista di altissima levatura che nulla ha a che vedere con questi eventi). Oppure a partire dallo stile di Van Gogh, fare un cartone animato sulla sua vita (il bellissimo Loving Vincent).

Insomma se di immersione si deve parlare, allora che sia sfacciatamente interpretativa e originale, e non apparentemente fedele all’artista che vuole celebrare, ma in realtà subdolamente ambigua e falsa.

Penso che queste mostre immersive siano il frutto di un’epoca che cerca le facili emozioni, che vuole una immediata, sensazionalistica e peraltro falsa comprensione delle cose, che trasforma l’arte in divertissement. L’epoca dei likes in cui si cerca di “compiacere” l’altro, privandolo di stimoli veri, con cose spettacolari ma senza sostanza.

La società palliativa.


Chiara Savettieri

Chiara Savettieri insegna Metodologia della ricerca storico-artistica e Storia della critica d’arte all’Università di Pisa. E’ specialista di storia dell’arte e storia della critica d’arte in Francia tra Sette e Ottocento, di tematiche legate all’età neoclassica (fortuna dei primitivi, rapporti tra arti visive e musica/danza, memoria dell’antico). Si è inoltre occupata del tema della morte nell’arte contemporanea e della rappresentazione dei neri nell’età moderna.




L’arte di navigare con pazienza.

Illustrazione di Anna La Tati Cervetto_E’ vietata la riproduzione senza autorizzazione scritta dell’Autore

di Christian Lezzi_

Il filosofo Immanuel Kant ha definito la pazienza come “la forza dei deboli e la debolezza dei forti” e, seppur volendo in origine significare molto altro, questo concetto si presta alla perfezione, nella sua apparente contraddizione, a rappresentare l’essenza duale di una capacità umana che, come spesso accade, porta con sé punti di forza e di debolezza, pro e contro, lati positivi e negativi, accezioni costruttive e altrettante distruttive.

Perché il buono e il cattivo sono insiti innegabilmente nelle cose umane, siano esse strumenti, oggetti, pensieri o atteggiamenti. Ciò dipende dall’uso che ne facciamo e dall’applicazione che concretizziamo, con loro e per loro (eccezion fatta per le armi da fuoco, nelle quali è impossibile vedere un lato positivo, ma questa è un’altra storia).

La pazienza non è figlia dei tempi che viviamo e, forse, figlia del tempo corrente, non lo è mai stata e, in un mondo che corre all’impazzata, alla costante rincorsa di un futuro come se “non ci fosse un domani”, è forse più orfana di Oliver Twist.

Nelle sue diverse nature, la pazienza può diventare deleteria quando, travisando il significato profondo del termine – a livello concettuale, ancor prima che etimologico – le attribuiamo un potere magico, taumaturgico, incline a quella speranza, di matrice religiosa, di manzoniana memoria. Certo, la speranza è l’ultima a morire, come si suol dire, ma anch’essa muore, se ci affidiamo solo al fato, alla casualità, alla fortuna, senza metterci del nostro, adagiandoci passivamente nell’infruttuosa attesa che tutto vede scorrere e nulla afferra, dilapidando la pazienza (asset di valore della nostra mente) come fosse un vuoto a perdere da conferire nella differenziata.

Ma la pazienza (da cui discende la calma e che, a volte, dalla calma discende) è una capacità appresa che nulla ha a che fare con la passiva attesa, con la vana speranza che qualcosa di buono accada e che lo faccia in autonomia, a prescindere da noi, nonostante noi.

Perché, avere la pazienza di attendere che determinate cose accadano, non ci solleva dall’obbligo di porre le basi, di creare le condizioni a margine, minime e necessarie, perché quelle cose accadano.

E può essere deleteria anche nel suo esacerbato contrario, quando vogliamo tutto e subito, senza apprezzare il tempo necessario, il percorso obbligatorio, quel divenire imprescindibile di ogni cosa che accade o che si crea, bruciando le tappe e, troppo spesso, anche l’esito a fatica perseguito. Perché le scorciatoie, non sempre portano a destinazione. Soprattutto se percorse frettolosamente.

È una capacità appresa e non innata, dicevamo, dovuta al contesto in cui ci formiamo (da cui anche il carattere discende) e alla divenuta capacità di pensar profondo. Ma non solo. Essa è anche correlata alla capacità adattiva, al modellamento del contesto, non solo quello ambientale in cui viviamo, ma anche quello intimo e introspettivo della nostra mente e del nostro pensiero.

Nessuno di noi nasce paziente. Il neonato è un campione d’impazienza quando, ancora incapace di applicare un filtro cognitivo alle sue ataviche pulsioni, piange disperatamente per ottenere subito ciò che vuole. Con il passare del tempo e con la crescita, la pazienza s’impara, connotandola con l’attesa proattiva necessaria a raggiungere un obiettivo. E si allena, mantenendo la mente presente a se stessa e al momento che sta vivendo, al qui e ora funzionale alle priorità e alle necessità.

Diversamente ricadremmo nel paradosso di Netflix (non dello strumento, bensì dell’abuso) che porta i suoi utenti a fagocitare, come oche dai piedi palmati, intere serie tv in pochissimo tempo, incapaci di aspettare l’evoluzione naturale e la sequenza logica degli avvenimenti, nonché l’altrettanto logico tempo di metabolizzazione delle informazioni, se non altro per godersi la suspance. E quello di Netflix è solo un esempio, essendo youtube e tutte le altre piattaforme on-demand non immuni dallo stesso cattivo utilizzo, nella paura di restare soli con se stessi e con i propri pensieri, terrorizzati dal dover pensare, atterriti dalla vuota eco della nostra “testa”, come avrebbe sentenziato Schopenhauer, che avrebbe aggiunto “solo una mente vuota può annoiarsi”.

Ma anche questo abuso è figlio dell’epoca che viviamo, che ruggisce scandendo il tempo trasformato in denaro, mercificando la vita umana, trasformandola in un valore monetario e vivendo un tanto all’ora. Ma questa vita a termine, complici anche gli strumenti digitali e di comunicazione sempre più immediati, induce la frenesia, l’incapacità di attendere il momento e le condizioni giuste, sufficienti, opportune, travolti da ritmi sempre più frenetici e dallo stress negativo (distress) che distrugge la nostra stessa salute. Al punto da ostentare la mancanza di tempo, come il simbolo distintivo di una vita di successo, il nuovo status symbol da esibire orgogliosi, anche sui social, dimenticando che il tempo è una convenzione uguale per tutti e che la sua mancanza è solo una carenza organizzativa che non impressiona chicchessia.

E induce la superficialità, la frenesia indotta dalla carente pazienza, a discapito di un pensiero profondo, ragionato, pensato, che vada oltre l’apparenza, dritto al cuore delle questioni.

A essere pazienti s’impara, strada facendo, nel corso della vita, ma occorre anche ricordare che la pazienza è un concetto soggettivo e adattivo, legato a doppio filo con la nostra intima realtà e con il contesto in cui viviamo e pensiamo. 

La pazienza è resiliente, giusto per usare un termine talmente abusato da essermi diventato indigesto.

L’adattività della pazienza è data dal livello raggiunto, in campo culturale, sociale, professionale ed economico di un soggetto, nonché dal suo equilibrio mentale e dal suo intimo grado di appagamento. Non a caso, la scarsa pazienza è l’ancor più carente calma, sono sintomi evidenti di una cattiva autostima, tipici di soggetti poco equilibrati, scontenti, non appagati, frustrati, che cercano di mascherare queste carenze, (compresa la paura) con una parvenza di iperattività.

E questa connotazione adattiva della pazienza, c’insegna anche a lasciar correre ciò che non possiamo controllare, su cui non possiamo influire, liberandoci dalle zavorre che esulano dal nostro controllo, evitando la frenesia e lo spreco di risorse mentali all’inseguimento di ciò che non ci compete o non ci appartiene, o ancora che accadrà, con noi o senza di noi.

È una questione di consapevolezza di noi stessi, del nostro ruolo e del nostro livello psicologico.

Del resto, solo chi è in posizione dominante con se stesso, come una fiera in cima alla catena alimentare, può muoversi, operare e cacciare, senza frenesia e senza paura.

Lo stesso concetto vale anche per chi è padrone del proprio pensiero, complice una solida cultura e una mente attiva, consapevole del mondo circostante della scala dei valori personali che scandisce l’ordine delle priorità.

In estrema sintesi, la capacità di essere pazienti, mantenendo la calma nelle più disparate situazioni, è un innegabile sintomo di maturità psicologica. Inoltre, esercitare la pazienza, è un valido allenamento per l’autocontrollo, la consapevolezza e l’accettazione di sé, da insegnare ai bambini aiutandoli a crescere.

Occorre attendere, per raccogliere i frutti migliori, tranne che per amare e per amarsi, unico caso in cui attendere è solo una perdita di tempo. 

Ogni cosa ha i suoi legittimi ritmi e accelerare non sempre è utile o possibile, rappresentando, questo aumento di passo e velocità, una corsa verso l’autodistruzione, dovuta alla frenesia del risultato e alla conseguente frustrazione. Una corsa del topo che, nell’illusione di afferrare il domani, lascia sfuggire l’oggi, come l’acqua che scivola tra le dita, impossibile da trattenere. Una frenesia rischiosa, foriera d’insuccesso, problemi di salute e conflitti, con noi stessi e con gli altri, portandoci a saltare alle conclusioni (spesso sbagliate) e a perdere quelle occasioni che, con altrettanta frenesia, inseguiamo e cerchiamo invano di afferrare, invece di concentrarci sui passi da compiere e sul viaggio da percorrere, dal quale imparare, traendo soddisfazione dall’esperienza in sé che, come tale, ha sempre tanto da insegnarci

La fretta e l’ansia, sono schiave dei desideri, mentre la pazienza e la calma, sono la positiva risultante di una sana scala dei valori.

Eppure, concetti così immediati e di semplice fruizione, tendono a non essere applicati, o anche solo presi in considerazione, soprattutto nel mondo del business e del lavoro.

In questo specifico ambito, uno degli insegnamenti più rischiosi e vuoti è, infatti, quello secondo cui un’impresa si inizia immediatamente, quali che siano le condizioni a margine, le competenze e le risorse a disposizione, senza attendere il momento perfetto che, non essendo possibile, mai giungerà.

Per quanto in parte verace, è comunque una verità stiracchiata, strattonata, forzata. Il momento ideale per iniziare una nuova attività non esiste e di certo non è “adesso, a ogni costo”, come spesso ci viene trasmesso in un misto di fretta e apprensione. Non ce lo impone il medico di avviare una start-up oggi e, “a ogni costo”, spesso comporta un prezzo troppo alto da sostenere. Un prezzo che non possiamo permetterci. 

E la fretta, non solo negli affari, è una cattiva consigliera che gioca alla roulette russa con la nostra testa, o alla slot machine con i nostri soldi. Mentre la pazienza analizza e crea le condizioni a margine, la fretta, bruciando i tempi, improvvisa un salto nel buio dall’esito tremendamente incerto.

Il momento adatto sarà sempre e solo quello che, calcoli e verifiche alla mano, presenti le condizioni minime e sufficienti (competenze e risorse) a rendere possibile l’avvio dell’attività, prevedendo e controllando la maggior parte dei rischi possibili e minimizzando le possibilità di naufragio dell’attività.

Minime e sufficienti, come l’acqua in un bacino di carenaggio, necessaria al galleggiamento di un’imbarcazione. Se il bacino è in secca, occorrerà aspettare con pazienza che il livello dell’acqua salga fino a raggiungere quello minimo e sufficiente per la navigazione, evitando di varare una barca in una pozzanghera di fango e sperare poi di farci il giro del mondo. 

Maturare è un’arte e imparare la pazienza, è parte integrante e imprescindibile di quell’arte.

Per tutto il resto c’è la fretta, la deleteria e improduttiva frenesia che ci spinge a correre verso l’obiettivo, verso quel traguardo che della nostra vita si nutre, ingollandola al massimo della velocità!


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.

Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




L’ ultima curva di Mr. Money Money

Illustrazione [bellissima] di Federico Fossi_E’ categoricamente vietata la riproduzione senza autorizzazione scritta dell’Autore.

di Luca Bottari_

Madame Sullivan: “Alla bambina di Bridget sono spuntati i primi denti da latte. “

Madame Brown: “Oh ! Oh! Madame Sullivan inizia a perdere colpi. Oggi la notizia del giorno è…Attenzione! Attenzione! La bambina di Bridget piange la morte di Mr Money Money e nessuno fa caso al paio di denti nuovi in bocca alla bimba.”

Ogni giorno Madame Sullivan e la sua fedele femme de chambre Madame Brown, si recano al parco davanti casa per spendere al meglio quel che resta delle ultime ore del tardo pomeriggio. Il più delle volte finiscono per parlare di Bridget e di sua figlia. Tutte le signore del quartiere si prendono una sedia per posizionarsi davanti all’uscio di casa per chiacchierare di Bridget e di altri argomenti in primo piano nel paese.

Bridget-scandalo, Bridget partorisce in un taxi, Bridget che sfama la bimba offrendo le sue avvenenti rotondità. Mr Money-Money le regala sempre la carta per la toilette e le saponette tailandesi. Gli altri, quasi sempre, le danno del denaro. Bridget vuole bene a Mr Money Money, come si vuol bene ad un cugino particolarmente attraente, mentre lui la vede come è davvero, una prostituta con una figlia a carico.

Mr Money Money è morto e Bridget continua a fare la prostituta. La figlia di Bridget, per la prima volta, ha pianto per il dolore e non perché affamata o perché stremata da quella stanchezza tipica nei bimbi sottopeso. Mr Money-Money per il quartiere, Martin Maverik per l’anagrafe.

Sulla lapide però hanno scritto:” Riposa in pace Mr Money-Money.“.

Mr Money-Money era sempre alla ricerca di facili illusioni, la famiglia, gli amici più cari, la signora Sullivan e la timorosa ma agguerrita Madame Brown, avevano preso a chiamarlo Mr Money Money perché per lui i soldi valevano più della libertà per un carcerato.

Martin gridava con la sigaretta accesa in bocca come un ossesso:” Money “, “ Money “.I bambini gli facevano il verso “Money “, “ Money “ .Si portava sempre dietro una voluminosa cassa stereo collegata al suo telefono per fare ascoltare a tutti le sue canzoni preferite. Recitava a memoria passi di quei film che lui definiva importanti a quei bambini che non avevano neanche la tv. Questi ricambiavano con un sorriso scomposto che lo galvanizza ancor di più. Aveva concluso un affare di dimensioni spropositate vendendo un immobile scadente ad un giapponese affascinato dal suo inusuale modo di fare. Con il ricavato della vendita, pacca dopo pacca proprio sulle spalle forti del giapponese, si era comprato l’auto dei suoi sogni. Salito a bordo della tanto desiderate Mercedes 2000, aveva strillato al mondo con rabbia felice: “Money “, “Money “.L’urlo di battaglia infastidì due poliziotti invidiosi dell’autovettura che lo denunziarono per disturbo alla quiete pubblica. “Money ! “, “Money “.

Bridget trovava la Mercedes 2000 un tantino pericolosa ma a Mr Money Money non lo diceva mai per paura d’esser troppo invadente. Il fato ha voluto che Mr Money Money c’è morto in quella macchina e Bridget ora si pente di non aver saputo osare scavalcare i suoi gentili tentennamenti.

Prima di morire Mr Money Money ne aveva combinate a bizzeffe. La signora Sullivan e la sua confidente-amica-perpetua Madame Brown si erano sempre illuse di saper tutto degli affari sporchi di Mr Money Money.

Quante curve a gomito prima di quell’ultima inesorabile. Accelerava e frenava come uno di quei piloti d’altri tempi tutto coraggio e sfrontatezza. Quelli che l’hanno soccorso per molto tempo hanno avuto l’immagine d’un corpo straziato davanti ai loro occhi, oppure hanno visto riflesso in qualche specchio della loro casa elegante un avanzo di uomo insanguinato senza scatola cranica. Qualcuno racconta l’accaduto e sente d’esser poeta: “Quella è stata per lui l’ultima curva. L’ultima volta che ha sentito d’esser vivo “. I mattoni che hanno contribuito alla costruzione del mito Mr Money Money hanno contato sull’importanza delle emozioni. Il modus vivendi di Mr Money Money rappresentava l’eccezione di quel mondo fatto di uomini che tentennano, di uomini perennemente afflitti da leggere depressioni, un sovrappopolato nucleo umano incurabile. Mr Money Money disprezzava chi si sentiva sotto assedio per uno stato d’animo, per un malumore, per uno di quei momenti di impotenza.

Secondo la sua modestissima opinione era un perder tempo, e il tempo è importante, soprattutto se ogni ,si corre dietro al denaro. Nei Pub, per sdrammatizzare la morte di Mr Money Money, la gente usa le parole della signora Sullivan che meglio di chiunque altro conosce vizi e virtù di tutti quelli che non escono mai dal quartiere.

Mr Money Money era un bravo ragazzo. Forse un esaltato? Chi fra di noi non è ossessionato da qualcosa o da qualcuno. Che questo qualcosa sia fatto di materia o di spirito non ha importanza. Il denaro? Meglio dipendere dal denaro che dai sonniferi. Nel benessere economico Mr Money-Money aveva trovato le distrazioni per vivere, distrazioni a noi tutti molto care”.

La Signora Sullivan gustò con una lentezza premeditata le deliziose frittate della Signora Brown. Aveva trovato come distrarsi dai cattivi pensieri. La signora Brown, la domestica, cercò la chiave di lettura nell’amore che provava per la sua assistita, amore fino ad allora nascosto con grande successo.

Bridget raggiunse quell’invidiabile serenità soltanto molti anni più tardi quando sua figlia la strinse a sé come nessuno aveva fatto mai.


Luca Bottari.

Ho avuto la fortuna di viaggiare con mia madre hostess per non stupirmi ogni volta di come siamo tutti cittadini di un mondo diverso,disunito,ma con i stessi connotati. Conoscere lingue diverse e poter scegliere di studiare il cinema e le arti senza seguire un percorso di studi tradizionale (forse piu’utile ai fini pratici) mi ha portato verso la scrittura con naturalezza e coscienza.Vincere premi letterari non mi ha legittimato a scrivere ma mi ha fatto capire che non solo il solo a sognare.Ho collaborato con diverse riviste letterarie e di cinema per dire in piccolissima parte la mia. Ho lavorato nel hotel management e vissuto a New York per respirare un aria internazionale ma amo al contempo anche le dimensioni locali ridotte dei paesini italiani.




La luce discreta spiava e le ombre inventava…

Silvia Berton_”Dancer”_Olio su tela e pigmento_150 x 130 [è assolutamente vietato riprodurre l’immagine senza l’autorizzazione scritta dell’autore]

di Valeria Frascatore_

Il teatro piccolo piccolo di una cittadina di provincia del sud Italia, in una sera d’inverno, apparentemente uguale a tante altre.

Il freddo, quello sì, è insolitamente pungente e accompagna la processione di spettatori che,a piedi, percorrono il tragitto verso il Comunale, infagottati nei loro paltò: le sferzate di vento gelido sembrano attenuate solo dal desiderio di prender posto, quanto prima, su quell’avviluppante poltroncina di velluto rosso da cui si potrà godere la piece prevista, per l’occasione, in cartellone: “A piedi nudi nel parco”, di Neil Simon.

Tra la folla di quella sera una bambina percorre, insieme alla mamma e al babbo, il cammino che la separa dalla visione del primo spettacolo teatrale della sua vita.

Lei e le sue gotine rosse rosse, un po’ per il freddo e un po’ per l’emozione.

Ha più o meno dieci anni e sta impettita nel cappottino delle grandi occasioni e nel berrettino di lana,di cui va proprio fiera:quello lavorato a maglia dall’amorevole nonna.

Per lei tutto è così inconsueto, magico e degno della massima attenzione. Appare, a tratti, quasi frastornata e non sa bene cosa la aspetta, ma i suoi passi sono scanditi da una raffica di domande, con le quali assilla i poveri genitori durante il percorso verso il teatro.

Inizia lo spettacolo e, anche se i ricordi, ogni tanto, si appannano, in lei è viva la sensazione di religioso silenzio che abbraccia il proscenio, quasi fondendosi con esso.

Quanto rispetto può esserci in un silenzio del genere, insperato rifugio da un mondo di inutile strepitio e gridolini isterici!

Pochi riflettori animano lo scambio di battute tra gli attori ma c’è una presenza che si muove con passi vibranti, quasi a imprimere impercettibili scricchiolii alle assi del palcoscenico. E’ una danza, dai cambi di passo inaspettati, concentrati nell’attimo che precede il sollevarsi in volo di un gabbiano dalla originaria posizione di quiete, a fior d’onda.

L’attrice si sposta con leggiadria riempiendo il palco e l’aria la segue, obbediente: in platea, ad ogni  movimento da lei compiuto, si diffondono folate di profumo inebriante che viaggia al suono della sua voce, particolarmente suadente e familiare.

Non è un profumo qualsiasi: è qualcosa che sale dalle narici, pervade la persona mescolandosi all’odore del velluto delle poltrone e a quello, consumato dall’uso, di pochi, elementari arredi teatrali, passati di mano in mano.

Talvolta la bambina si guarda intorno e le sembra che quella donna non sia più sul palco:potrebbe sbucare da un angolo qualsiasi del teatro e, non per questo, cessare di calamitare l’attenzione del pubblico che la segue, nella sua affascinante performance, senza mai distogliere lo sguardo da ciò che avviene in scena.

E più lo spettacolo prosegue, più tutto, nella mente della piccola spettatrice, col naso perennemente in aria, sembra acquistare un senso nella meraviglia, nel candore e nel rosso vivo della poltrona su cui siede:il suo posto privilegiato in prima fila, spalancato su un mondo che sembrava tanto distante e che, magicamente, quella sera le si avvicina, chiamandola per nome.

Il palco buio esprime perfettamente il senso dell’attesa e i riflettori aiutano a schiarire la mente rendendola feconda alla curiosità, stimolando l’intuizione e la capacità di cogliere anche i più insignificanti dettagli della rappresentazione, attraverso il rapido susseguirsi delle scene.

Ci penso spesso a quella sera e, soprattutto quando scrivo, mi capita di rivivere le emozioni di quella bambina sbigottita ma matura e riflessiva:talvolta provo tenerezza, altre volte un senso di inarrivabilità, come di qualcosa che non si riesce ad acciuffare del tutto.

No, non c’entra lo sbiadirsi dei ricordi d’infanzia e la mia non è una sensazione frustrante: è, piuttosto, una presa di coscienza nei confronti di qualcosa che, molto probabilmente, resta un punto d’arrivo e di svolta.

In fondo, penso che debba essere questa la modalità attraverso cui ci si misura con il significato della parola SEDUZIONE.

Resta un’aspirazione ed è, forse, normale che nessuno si consideri edotto e del tutto arrivato, rispetto a questo tema.

Io, dal canto mio, continuerò a stare col naso all’insù, nell’attesa di riuscire a riconoscere, nel teatro della vita, quel particolare spostamento d’aria,regolato da movenze precise e puntuali, denso di profumi e di aspettative elettrizzanti che danzano al ritmo di una voce amica.

Sono certa che non sarà difficile ritrovarlo e, quando succederà, solo allora, mi alzerò in piedi e gli dedicherò l’applauso più fragoroso e riconoscente di cui sia mai stata capace.

Nel frattempo, vivo appieno la mia vita e inganno il tempo scrivendo di emozioni propedeutiche a «quel che sarà».



Valeria Frascatore_

Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.




Ramondo lo scudiero – Antonio Chirico

Un libro ben scelto ti salva da qualsiasi cosa. 

Persino da te stesso”

Illustrazione di Anna La Tati Cervetto

Casa editrice: Youcanprint

Anno di pubblicazione22 giugno 2021

Genere: romanzo storico 


La storia di Ramondo lo scudiero” è ambientata nel regno di Napoli negli anni a cavallo fra il 1300 e il 1400 e racconta, in forma romanzata, l’ascesa al potere di Raimondello Orsini Del Balzo.

In quell’epoca le regole familiari erano molto rigide e non ammettevano deroghe. Raimondello è il secondogenito del conte Orsini e la famiglia per lui ha previsto inderogabilmente la carriera ecclesiastica; il successore del padre infatti dovrà essere l’amato fratello, Roberto.

Ramondello però non si arrende al suo destino, s’innamora della giovane contessa Isabella e prova a invertire la sua sorte. Soltanto il pro-zio Raimondo Del Balzo apprezza le evidenti doti cavalleresche del nipote e cerca di costruirgli un futuro diverso, accanto all’amata Isabella. I suoi sforzi purtroppo saranno vani e Ramondello dovrà fuggire; dell’amato pro-zio gli rimarrà soltanto il cognome, Del Balzo, che si aggiungerà a quello di famiglia, Orsini.

Le prime esperienze del giovane saranno difficili e in terre straniere, a fianco di cavalieri legati al mondo ecclesiastico; questi saprà distinguersi fin da subito e il suo nome diventerà presto famoso.

Ramondo Orsini Del Balzo riuscirà a stringere amicizie autentiche e dovrà destreggiarsi fra i poteri reali e papali caratterizzati da equilibri continuamente in divenire. Nel periodo medioevale, più che che mai, i grandi poteri portavano avanti soltanto i proprio interessi personali ed economici senza riguardi per il popolo che offriva i propri servigi.

Le particolari caratteristiche di Ramondo, guerriero valoroso con un grande cuore, faranno sì che egli possa ricoprire posizioni sempre più di prestigio nella scala gerarchica e sarà apprezzato e temuto proprio per quegli aspetti così “inusuali” in un uomo di potere: rispetto e onestà.

Un uomo così non poteva rinunciare all’amore. Quali sviluppi avrà il suo amore per Isabella? Riuscirà il grande Ramondo ad abbandonarsi di nuovo all’amore?

Valorose avventure, avvicendamenti politici e personali sapranno mantenere elevata l’attenzione del lettore che rimarrà inevitabilmente coinvolto nella storia del protagonista. 

La storia di Ramondo lancia un messaggio di speranza per tutte quelle persone che riescono a raggiungere il successo sperato soltanto attraverso le proprie capacità, che credono nel valore dei rapporti umani e nell’amore.

La scrittura di Antonio Chirico è piacevole e scorrevole. Gli eventi storici possono essere, a volte,  lenti e poco scorrevoli ma la forma romanzata del racconto è sicuramente una scelta adatta a rendere interessante e gradevole la storia.

Le note storiche alla fine del libro sono un ottimo segno di onestà dello scrittore nell’orientare le vicende narrate nel giusto contesto storico.

Tutti adoravano Ramondo Orsini Del Balzo ed è facile capire perché, giunti alla fine della lettura del romanzo!



Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!

A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.

https://www.francesia.it/freetime/consigli-di-lettura/




Shopping compulsivo [ falso mito o vero movente?]

Illustrazioni [spettacolari] di Anna La Tati Cervetto_ “STEAM PUNK ILLUSTRATION” _assolutamente vietata la riproduzione senza l’autorizzazione dell’Autore.

di Christian Lezzi_

Shopping compulsivo: è così che normalmente definiamo l’atto di acquistare qualcosa quando, vittime di uno stato ipnotico o di alterata coscienza, soccombiamo all’impulso potente e profondo che ci porta ad acquisire qualsiasi cosa la “pancia” ci suggerisca, bypassando ogni barlume di ragione, di logica e di senso pratico, pur di soddisfare una irrazionale bramosia di possesso.

Parliamo quindi di acquisti non motivati da un reale bisogno o necessità (quindi non meramente beni di prima necessità), che spesso travalicano i limiti del vero utilizzo, al punto da farci scegliere oggetti e strumenti totalmente inutili o sovradimensionati al nostro concreto utilizzo.

Non che sia sbagliato soddisfare un desiderio, un lusso, un capriccio, acquistando un oggetto che non risponde a bisogni concreti, ma che asseconda un desiderio, un’ambizione intima, una vera e propria frivolezza dell’Ego. Fa parte dell’atavico meccanismo comportamentale dell’auto-appagamento, quel bisogno di compiacimento e soddisfazione, appagato nell’unico modo che (a volte) conosciamo: l’acquisto di nuovi “giocattoli” e status symbol di cui andare fieri, da sbandierare e, grazie ai quali, sentirci più attraenti (per non trascurare nemmeno l’atavica pulsione riproduttiva, potente motivatore di molte nostre scelte).

Per affondare l’analisi, occorre considerare che, ammettere l’origine più emotiva che razionale delle nostre scelte, ci spaventa e ci costringe a razionalizzare ogni cosa, ogni gesto, ogni parola, pur di allontanare il rischio d’incorrere nelle dissonanze post-acquisto, o di fare una brutta figura, anche con noi stessi. 

Ed è proprio questo bisogno di razionalità, a rendere il concetto di shopping compulsivo, più un falso mito che un vero movente.

Naturalmente, com’è ovvio immaginare, il nodo è un altro e risiede nella reale e ben nascosta motivazione d’acquisto. Chiamare in causa una compulsione emotiva, tranne nei casi interessati da una patologia (stimati dai Neuroscienziati tra i 4 e il 7% del campione analizzato), è una visione superficiale della questione, una scelta di comodo che, spesso, diventa una scusante poco credibile ai nostri comportamenti.

Se fosse sufficiente la natura patologica del comportamento, a coprire le casistiche e a spiegare, in ogni sua accezione il fenomeno, questi ragionamenti non avrebbero ragion d’essere. Ma, evidenze alla mano, così non è. Appare lampante la nostra estraneità al mondo dei pesci o degli uccelli e qui non si tratta di frenesia alimentare, come l’avrebbe definita un naturalista. No, la questione è, di fatto, più di natura vanesia e introspettiva, che patologica.

Partiamo da un punto fermo: alla base d’ogni conoscenza, risiede la comunicazione.

Siamo sempre pronti a indagare l’intimo più nascosto e profondo del nostro interlocutore, per scoprirne i tratti cognitivi, nonché le caratteristiche, positive o negative secondo il nostro personale metro di giudizio. Raramente, però, questa comunicazione prende vita con noi stessi e, davvero di rado, ci capita di interrogarci, allo scopo di scoprire il perché di una scelta, cosa si nasconde dietro quella bramosia che porta, come un riflesso automatico, la mano alla carta di credito, pur di riempire un vuoto di cui ignoriamo l’origine.

Insomma, per metterla in termini filosofici, difficilmente diamo vita a quel dialogo interiore necessario a scoprire chi siamo, dove andiamo e cosa vogliamo davvero e, per dirla con Freud, è assai raro che c’interroghiamo per portare a galla la vera origine della sostituzione d’oggetto, atta a colmare quel vuoto interiore o a superare una lacuna d’abbandono.

La nostra coscienza non può essere spenta e, quello della verifica, è un metaprogramma che, supportato dal bias di conferma, gira in perpetuo in background. La capacità di razionalizzare ciò che ci circonda e che ci tocca da vicino, o da lontano, è operativa h24, sempre pronta a mediare gli impulsi, a valutare le nostre scelte istintive, soppesandole nel sostrato della coscienza, trovando per loro una spiegazione logica, una motivazione credibile che le legittimi ai nostri stessi occhi e a quelli del mondo circostante. È assai raro, infatti, acquistare un oggetto costoso solo sulla scia dell’emozione, del momento e di un impulso non ragionato, senza cercarne un contraltare razionale. 

E ci accontentiamo di considerare concreta qualsiasi vaga e vuota motivazione, pur di sentirci giustificati.

Qualsiasi… e tanto basta, per tornare a casa con uno smartphone che per molti vale uno stipendio e che sarà utilizzato, a dir tanto, al 30% delle sue possibilità e funzionalità. Eppure, prima di dar retta alla “pancia”, ci siamo informati, abbiamo confrontato marche e modelli, funzioni e caratteristiche tecniche, (magari senza comprendere appieno quella gergalità tecnica), pur di avere un alibi, una giustificazione razionale che, motivando un acquisto spesso inutile o sovradimensionato, restituisca la dignità dell’arbitrio alle nostre scelte, al punto di immaginare, suggestionandoci, un bisogno che non avevamo.

Ma se non si tratta di compulsione fine a se stessa, come la funzione mediatrice della nostra coscienza sembra suggerire, allora dobbiamo prendere in esame nuovi e diversi punti di vista, affinando la capacità di pensare fuori dagli schemi.

Una domanda, per conoscere ciò che anima davvero le nostre bramosie, tanto semplice quanto ostica, potrebbe essere: per chi acquisto l’oggetto?

Comprare qualcosa, ad esempio un nuovo smartphone, a nostro diretto beneficio, comporta una risposta tanto immediata quanto ingannevole. È infatti un inganno della mente, pensare che lo acquistiamo per noi stessi perché, se l’acquisto non è motivato da una ragione più che concreta, quel particolare oggetto, di fatto, lo compriamo per gli altri, non per noi stessi. 

Attenzione: non nel senso altruistico del termine, ma in quello di ostentazione ed esibizione, per possedere e sbandierare l’oggetto del desiderio, l’ultimo raglio della moda, quel simbolo distintivo (che non distingue!) che ci faccia sentire illusoriamente inseriti, di tendenza (cool direbbero i più aggiornati), dimenticando che essere alla moda, troppo spesso, tradisce omologazione e appartenenza alla massa dominante, all’esatto contrario dell’esibizione della propria inimitabile personalità.

Come i colori di guerra, utili a riconoscere l’appartenenza alla stessa tribù.

Oggi come oggi, possedere l’ultimo modello di “melafonino” è come ricoprirsi di tatuaggi o fumare la cannabis che, nel puerile tentativo di sentirci unici, alternativi, diversi, forse rivoluzionari, addirittura migliori, di fatto ci fagocita e c’ingloba nella massa omologata, nell’amalgama stereotipata, informe e senza volto, che tutto schiaccia e dalla quale nulla più emerge. 

Tutti uguali, clonati, fotocopiati, tutti con la stessa ingannevole velleità di sentirci diversi, imitandoci a vicenda.

È il senso d’appartenenza, il biologico ed evolutivo (seppur poco evoluto) bisogno di essere accettati, a muovere la mano armata (di banconota), ancor prima di una patologia che, nei fatti, è solo una scappatoia alle proprie responsabilità.

Nel film “Un boss in salotto”, il bravissimo attore Rocco Papaleo, incalzato dalla sorella, risponde alla domanda “perché proprio la camorra?” con un amarissimo e introspettivo “perché volevo appartenere a qualcosa”, dando forma, tra le amare risate, al mal cogitato senso d’appartenenza e di accettazione, che tanto plasma e plagia i nostri pensieri.

Perché appartenere alla massa dominante, identificandosi in qualcosa o in qualcuno, rassicura e fa sentire protetti. Al contrario, essere davvero originali, esibire le proprie diverse preferenze, rappresentare ciò che si è (al di là di ciò che si ha), spaventa le menti deboli, quelle meno preparate e più inclini all’idea malsana di un mondo in bianco e nero.

In seconda analisi, a spingerci verso un acquisto non necessario, può anche essere l’aspettativa che leghiamo a quell’acquisto, ovvero legata a ciò che ci aspettiamo dall’oggetto, alla sensazione che immaginiamo e che leghiamo in senso predittivo al suo utilizzo e all’appagamento che ne conseguirà. 

Insomma, ai preconcetti e ai pregiudizi (siano essi positivi o negativi) che leghiamo all’acquisto di quel particolare oggetto.

Ma le aspettative partorite dalla nostra mente, sono una lama a doppio taglio e, spesso, generano una delusione, una dissonanza tra atteso e percepito, al punto da abbandonare l’oggetto acquistato, quando queste collidono con la realtà dei fatti, con ciò che oggettivamente riscontriamo, a differenza di quanto immaginavamo e ci aspettavamo, sulla base di giudizi e pareri (magari non nostri) o di inutili quanto vuote supposizioni. 

Contro il muro granitico della realtà, ogni supposizione s’infrange. E con essa le scusanti auto-assolutorie,  rendendo il concetto di shopping compulsivo sempre meno concreto, relegato alle analisi superficiali e dozzinali, sempre fatti salvi i casi patologici precedentemente accennati.

Certo, un capriccio resta un capriccio, proprio come un lusso resta un lusso, a volte assecondato solo per il nostro intimo piacere, che più spesso veicola ragioni profonde, diverse da quelle che, da soli, ci raccontiamo. Dietro quel capriccio, oltre quel lusso, ci sono delle ragioni che travalicano la ragione psicologica del Disturbo Ossessivo Compulsivo, che in questo contesto sarebbe una forzatura. Ragioni che, a condizione di volerle ascoltare e analizzare, ci direbbero molto su noi stessi, permettendo di conoscerci con oggettività ragionata, valutate le emozioni che ci animano e che muovono le nostre preferenze di prima istanza, lungi da attenuanti insulse, da puerili scusanti e da motivazioni che poi davvero tali non sono.

Definire shopping compulsivo le nostre errate elaborazioni della necessità e del senso della misura, nonché delle priorità e dei valori, pur di celare ciò che, al netto d’ogni inganno, è un bisogno di apparire, di essere accettati e riconosciuti, riconoscendoci una riprova d’esistenza, ci fornisce un’attenuante che deresponsabilizza, una scusa prèt à porter che rende tutto più facile e che fornisce una scorciatoia comoda, atta ad alleggerire le coscienze e a contrastare il senso di colpa.

Al contrario, scavare dentro se stessi è un duro lavoro, spesso lento, costante, impegnativo, per nulla scevro da delusioni anche dolorose e dalla necessità di mettere mano a ciò che, a livello cognitivo, può e deve essere rivisto al miglioramento.

La conoscenza costa fatica. Conoscere noi stessi, costa ancor di più e rappresenta una vera pietra miliare nell’evoluzione umana. Ma, tutto sommato, in un mondo che corre e impone, spingendoci alla mediocrità, vogliamo davvero conoscerci così a fondo?


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.

Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.