Nel mondo, com’era quando il protagonista aveva otto anni, la vita scorreva tranquillamente finché… amici, parenti, estranei iniziarono a svegliarsi nella notte per scrivere frasi strane, incitamenti sovversivi e di denuncia e ad avere sempre più spesso visioni correlate ad Averroè: una folla di persone che si divide in due per far passare un cavaliere che sorregge una persona morta con un braccio e nell’altro tiene una pila di libri.
Queste persone diventano gradualmente entità che non sono più vive ma nemmeno morte.
La società si arresta e da settantadue anni niente è più cambiato. Le TV sono rimaste quelle vecchie, le trasmissioni e i film sono sempre gli stessi; le persone assistono a queste progressive mutazioni chiedendosi se e quando arriverà il proprio turno.
Come sono vissute le relazioni fra umani? Le famiglie come vivono la perdita dei propri cari? Soprattutto, come viene vissuto il rapporto con gli Zombi?
Gli affetti possono ancora essere coltivati di fronte all’eterna sensazione di incertezza?
Il protagonista è un anziano ottantenne che è stato segnato in prima persona da queste entità a cavallo fra la vita e la morte; questi racconta il nuovo equilibrio sociale che si è creato, dove le debolezze umane spesso prevalgono di fronte all’alienazione degli Zombi.
Il punto di vista dell’anziano narratore è lucido nel racconto e riconosce le implicazioni legate alla vecchiaia; questi riesce ad essere indipendente fisicamente e mentalmente nonostante gli impedimenti fisici e psicologici che la sua storia personale gli ha lasciato.
Nell’ambito di una società che sta andando alla deriva, un medico, Tancredi, impegna tutto se stesso nella ricerca delle cause del disastro sociale al fine di trovare una cura che possa interrompere le mutazioni. Tancredi, ci riuscirà?
L’umanità ha qualche speranza di riprendersi?
I colpi di scena sono assicurati!!
“La carne” mette in discussione la nostra società così dinamica e in continua evoluzione ma forse solo all’apparenza. L’abbattimento e l’appiattimento intellettuale sono soltanto un presentimento dei più pessimisti o c’è un fondo di verità…
L’apatia verso certe dinamiche di discriminazione e di sottomissione sociale sono soltanto contestazioni perpetuate da complottisti esaltati?
Alla fine non stiamo diventando Zombi… forse!
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.
Nello sport (soprattutto di squadra e di contatto, calcio in primis) si definisce così, quell’atto scorretto e spesso violento, sicuramente posto fuori dal regolamento vigente, mosso in risposta al torto ricevuto. Una violenza che risponde alla violenza, una scorrettezza che ne paga un’altra, un momento d’impazienza e di frustrazione che reagisce ai gesti o alle offese ricevuti.
Mi offendi? Ti ingiurio! Mi tiri un calcio? Ti restituisco un pugno!
Banale e ancestrale, istintivo e animale, codificato perfino dai sacri versi dell’occhio per occhio e dalle leggi sulla legittima difesa (che ne regolando anche un suo eventuale eccesso colposo).
È indiscutibile che, una violenza, sia sempre da condannare con forza e decisione, chiunque l’abbia agita, qualunque sia stata la causa scatenante. Perché il ricorso alla violenza, sia essa fisica o verbale, è la fine del dialogo, della civile coesistenza e dell’urbano convivere. Rompe la fiducia interpersonale, tirando fuori il peggio di noi.
Un atto bestiale quindi, etologicamente parlando, da condannare tout court, senz’appello alcuno, a prescindere dalle situazioni, condizioni e contesti a margine. Fatta salva forse l’esasperazione che, se proprio non giustifica, per lo meno riesce a rendere più comprendibile l’atto di risposta.
Attenzione! Spiega, ma non giustifica.
La violenza, anche quando è conseguenza inevitabile di gravi mancanze, operate nei nostri confronti, è sempre e comunque un atto da stigmatizzare e punire. Se le dispute si potessero risolvere a suon di pugni, vivremmo ancora sugli alberi, ma siamo esseri umani (comunque animali), seppur dotati di parola e intelletto, intrisi di impulsi e paure, tic e fobie, ambizioni e frustrazioni, emozioni e (neanche a dirlo) reazioni, convogliate da pulsioni spesso ataviche e inspiegabili, anche a noi stessi, data la natura istintiva di ogni reazione brutale.
Per sbagliato che sia, resta impensabile che un atto lesivo, ricorrente e continuato nel tempo, presto o tardi, non finisca per scaturire una reazione contraria, determinata dal momentaneo crollo nervoso ed emotivo, quando la rabbia acceca e impedisce il controllo ragionato. È nella natura delle cose, fa parte del funzionamento degli esseri emotivi che pensano (quali tutti noi siamo), incapaci di gestire in toto quelle emozioni, quando snervati e stressati oltre ogni umana sopportazione.
Ed è proprio l’atto lesivo ripetuto, stante la condanna alla reazione, quello da crocifiggere, rappresentando la mano che arma la proverbiale pistola, una mancanza di rispetto e una grave carenza attitudinale all’umana interazione sociale.
Una mancanza di rispetto! Eccolo il nodo gordiano nel ragionamento.
La violenza è sempre sbagliata, per quanto la reazione, atta a contrastarla o a contenerla, a volte sia legittima (è infatti prevista come tale dal codice penale) e altre sia sproporzionata (eccesso colposo). Ma ciò che troppo spesso estromettiamo dal ragionamento, è il rispetto per l’altro, che nell’azione lesiva ripetuta e continua, quasi sistematica, viene omesso, negato, stravolto e calpestato. Come calpestata è la pazienza di colui che, quella mancanza di rispetto, sopporta e subisce, finché la misura è colma e scocca la proverbiale scintilla.
Come una goccia che a poco a poco, scava la roccia. Anche a quella roccia salterebbero i nervi, se solo li avesse.
Una questione di rispetto. Forse aveva ragione Bukowski quando, probabilmente stanco dei rimproveri e degli appunti mossi al suo atteggiamento, senza che venisse contestualmente analizzata la causa scatenante la reazione, scriveva: “La manipolazione è quando ti rimproverano per la tua reazione alla loro mancanza di rispetto”. Una citazione che, seppur leggermente fuori contesto, ci è utile a chiarire il concetto.
Certo, la violenza è sempre sbagliata (e tre!), anche quando è una risposta snervata a quella subita, seppur solo verbale o di atteggiamento, perché siamo esseri fallibili, soggetti alla neurochimica del nostro cervello e alla cultura ambientale che c’impone un codice comportamentale. E abbiamo una pazienza, tutt’altro che illimitata e, al pari nostro, umanamente fallibile.
Per questo prevenire è meglio che curare, laddove la prevenzione assume le sembianze di un comportamento rispettoso dell’altro e delle sue istanze, spesso legittime e motivate.
Forse è proprio nella prevenzione, nel buon gesto a prescindere, la quadratura del cerchio, se solo fossimo disposti a sostituire la fallace astrazione della legittima difesa (anche e soprattutto nel caso del suo eccesso colposo), con una più moderna e inclusiva, oltreché concreta, idea di legittimo rispetto preventivo, potenzialmente più capace di edificare un’agognata, nuova e migliore, società civile.
Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.
Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.
Il silenzio delle labbra cucite non è silenzio.
La cultura del “pensiero correttissimo” che dilaga ormai negli Stati Uniti e che rende i campus luoghi di censura e ipersensibilità, è stata riportata in primo piano dall’incidente di percorso della Commissione Europea alla Parità che, attraverso il documento “Linee guida per la comunicazione inclusiva”ha in qualche modo squalificato, a causa di una mancanza di buon senso e una certa approssimazione culturale, contenuti che ovviamente meritano la massima attenzione.
Cosa c’è nel documento?
Nelle 32 pagine di Linee guida, si affrontano i temi considerati più sensibili: c’è una parte relativa al linguaggio di genere, in cui si invita a preferire espressioni più neutre. Ad esempio, a meno di una preferenza esplicitata già dalla persona a cui ci si rivolge, evitare di usare “Miss o Mrs” e preferire “Dear colleagues”, “cari colleghi”, che in inglese non ha genere. Anche nel caso della disabilità i suggerimenti vanno nella direzione di non identificare la persona con la sua menomazione: non parlare di “disabili” ma di “persone con disabilità”. Allo stesso modo, per la diversità di culto : “Quando comunichiamo, potremmo inconsciamente ricadere nell’uso delle forme apprese nel linguaggio– si legge nel testo. Invece di seguire stereotipi dannosi, dobbiamo sforzarci e aprirci a un atteggiamento espansivo di connessione. Qualsiasi lingua che esprima intolleranza o giudizio verso un gruppo religioso, alimenta stereotipi”.
Per la Commissione bisogna dunque “considerare la diversità di culture, stili di vita, religioni” in tutti i contesti realizzando una comunicazione che tenga conto dei diversi tipi di celebrazioni e rituali popolari in diverse parti dell’UE.
Come in tutti i capitoli, anche in quello relativo alla diversità religiosa vengono forniti suggerimenti: “Evitate di pensare che tutti siano cristiani. Non tutti celebrano le feste cristiane, siate sensibili al fatto che le persone seguono diverse religioni e calendari”. E ancora: “Negli esempi e nelle storie non usate nomi che siano tipici di un’unica religione”. Nelle raccomandazioni fornite viene suggerito di cambiare la frase “le feste di Natale possono essere stressanti” con “il periodo delle feste può essere stressante“. E così via..
L’Europa, e lo dicono i numeri, è sempre più culturalmente e demograficamente complessa. 450 milioni di abitanti, di cui 25 milioni sono cittadini di paesi extraeuropei e 4 milioni nati al di fuori dai confini dell’Unione stessa.
Una complessità culturale che la sta esponendo ai venti della “Woke Culture”.
Woke è sinonimo di “vigile allerta” nella lotta contro le “ingiustizie della maggioritaria e prepotente cultura dei maschi bianchi”, che penalizza gli afroamericani, le donne, le identità sessuali diverse da quelle biologiche e così via.
Negli ultimi due anni la Woke Culture è sbarcata in Gran Bretagna e in Francia, e da li sta prendendo piede un po’ ovunque.
In un contesto già indebolito dalla Brexit e dai sovranismi reazionari di alcuni paesi dell’est europeo, la Comunità Europea e gli stati membri dovranno fare appello alle migliori risorse culturali e politiche per contrastare un fenomeno che si presenta come l’inizio di un nuovo squadrismo culturale che rischia di diventare pericoloso.
Perché è pericolosa? Innanzi tutto perché tutti possono essere sottoposti ad una sorta di giudizio degli attivisti del movimento, che possono accusare una persona di discriminazione razziale, sociale e sessuale, partendo da pubblicazioni o libri, ma anche più semplicemente da mail, battute, o discussioni che avvengono anche durante incontri privati.
Una forma di sottile delazione in pratica.
La Woke Culture è una forma di censura morale e pubblica nei confronti di soggetti ritenuti colpevoli di idee e comportamenti disallineati da valori considerati progressisti e, in generale, politicamente corretti.
Una forma di censura che arriva a vietare in alcuni casi anche di poter esprimere pubblicamente idee non conformi alla pubblica opinione, non allineati al pensare comune, delegittimando coloro i quali non la pensano in maniera conforme alla massa, anche in maniera dialetticamente violenta, sui social o sui media tradizionali.
Nei casi più estremi gli ideologi della woke culture affermano l’inutilità della lettura di testi di autori non conformi ai canoni woke – è in questi casi è inevitabile il rimando alle lugubri immagini dei roghi dove i nazisti bruciavano i libri e i quadri di autori considerati decadenti e non conformi alle parole d’ordine della nuova Germania del Terzo Reich.
Una matrice comune, dunque, che ricorda quanto avvenuto agli albori delle ideologie totalitarie del secolo scorso è che si basa esattamente su questo: il rifiuto del dialogo e del confronto.
La mancanza di un confronto con la diversità e la creatività nelle sue molteplici forme di espressione è la strada che ci conduce contro chi è diverso da noi, nei tempi, nei gusti, nelle passioni, e in generale nella cultura.
L’identità culturale, pur non essendo un dogma intangibile, è il punto di partenza per aprirsi comunque ad un confronto, e rimane il primo mattone per costruire il destino comune di una società che voglia proiettarsi nel futuro
Si tratta di un tema cruciale che invitiamo ad approfondire, perché le società umane stanno cambiando molto e molto velocemente, ad una velocità che non si era mai vista prima nella storia.
La credibilità delle fonti che forniscono informazioni e la qualità dei contenuti stessi, in un modello di società come la nostra, immersa totalmente in una comunicazione disordinata e non sempre verificabile, è ancor più messa in discussione da una sterminata disponibilità di strumenti comunicativi e una quasi totale mancanza di forme di intermediazione.
Lo sviluppo di idee che si trasformano in decisioni e poi successivamente in azioni, non può prescindere dalla disponibilità di informazioni corrette e verificate.
Le informazioni devono necessariamente essere disponibili in forma comprensibile, nel modo più chiaro possibile, senza distorsioni e in forma tale da poterne verificare l’attendibilità.
E’ ormai un mondo diverso: la produzione e la condivisione delle informazioni si è praticamente ridotta in tempo reale. Il modo di comunicare è totalmente cambiato, il tono, la forma del linguaggio, la grafia stessa e alcune parole hanno totalmente perso o cambiato significato.
E’ innegabile che siamo di fronte ad una vera e propria rivoluzione culturale, linguistica e comportamentale. Siamo noi stessi gli artefici e allo stesso tempo i destinatari.
La cultura, ad esempio, una volta era destinata ad ambienti circoscritti, così come il mondo della ricerca, di cui oggi si parla in particolare, e dunque anche molti altri settori, oggi, sono chiamati loro malgrado a confrontarsi con una platea sterminata di commentatori ed “esperti” , che possono sostenere teorie non supportate da dati scientifici, e renderle immediatamente pubbliche, trovando anche , ma non solo, attraverso i nuovi media ampia risonanza, consenso e seguito.
Naturalmente non è solo storia recente: attraverso una comunicazione distorta per uso strumentale sono nate, cresciute e prosperate ideologie che hanno fatto la drammatica storia del mondo.
Ma oggi è ancora più semplice indirizzare comportamenti e decisioni su argomenti anche molto delicati, pensiamo alla alimentazione, la salute, con il rischio di conseguenze drammatiche.
Il dissenso critico va sempre dimostrato e verificato, applicando il metodo scientifico, e non ricorrendo ad una narrazione accattivante e persuasiva, ma priva di dati.
Quando accade questo, il pifferaio magico è in grado di incantare il seguito di topini, farli entrare in un mondo di teorie, supposizioni, quanto meno discutibili, e farsi seguire verso destinazioni pericolose e rischiose per loro e la comunità che intendono rappresentare.
La responsabilità della comunicazione condivisa, la competenza per poterne parlare, dovrebbero sempre essere il punto di partenza senza le quali non è nemmeno il caso di mettersi in cammino.
Una buona ed efficace comunicazione, capace di sapersi muovere con strumenti e contenuti credibili, e all’interno di un campo di competenza riconosciuto e riconoscibile, favorisce la crescita di cittadini consapevoli ed informati, e permette loro di comprendere la complessità che caratterizza la nostra Società attuale, esercitando anche una importantissima funzione formativa.
Non stiamo parlando di semplificare concetti e dati che per loro natura devono essere inseriti in griglie complesse ed interpretabili da professionisti del campo, ma saper fornire strumenti idonei per interpretare una mole di informazioni affinchè l’affollamento informativo, amplificato dai vari media, non si trasformi in un incomprensibile rumore di fondo che non aiuta ad orientarsi.
Strumenti capaci di unire e integrare culture e «mondi» diversi, capaci di intrigare e interessare i «nativi» e i «tardivi» digitali.
Perché per tutti l’accesso alle conoscenze, alle informazioni, al riscontro delle fonti sono strumenti necessari per sviluppare la comprensione critica dei dati e l’usabilità degli stessi.
Valentina Serafin collabora con PIUATHENA ed ha una esperienza pluriennale come Presentatrice, Conduttrice TV e Speaker radiofonica, acquisita collaborando con le più importanti realtà del settore.
L ‘amore quando c’era racconta momenti di vita di coppia che in un modo o nell’altro abbiamo vissuto tutti, dietro ai quali si nascondono dinamiche legate ad un rapporto con noi stessi non del tutto risolto o a traumi ancora sanguinanti.
Amanda è single e non riesce a instaurare rapporti di coppia duraturi; qualcosa la rende inquieta e non riesce a darsi le giuste risposte.
Un giorno la donna propone un tema sulla felicità ai suoi alunni; i lavori che le vengono restituiti le fanno scattare qualcosa che la obbligano a guardarsi dentro alla ricerca di quello che non riesce a farla stare bene.
Almeno una volta è successo a tutti noi; nei momenti in cui ci sentiamo fragili, e un pò soli, ci guardiamo indietro alla ricerca della persona che abbiamo amato e con la quale non abbiamo più rapporti.
Dopo tanti anni impulsivamente Amanda decide di mandare una mail al suo ex fidanzato, Tommaso, con il quale aveva vissuto una storia d’amore molto intensa ma che aveva lasciato all’improvviso, senza motivazioni evidenti.
Amanda gli scrive per inviargli le sue condoglianze per la perdita del padre.
Inizia così uno scambio di corrispondenza virtuale, all’inizio dai toni formali dove l’uomo apprezza il pensiero della ex e pone la conversazione su un tono distaccato.
Entrambi si ricordano l’affetto provato reciprocamente; Amanda è cosciente del dolore causato a Tommaso quando lo lasciò improvvisamente.
Tommaso è sposato e ha due bambini: una vita all’apparenza perfetta.
È proprio l’affetto che li ha legati a far aumentare la confidenza delle conversazioni; il mezzo informatico, senza contatto umano, rende più semplice lasciarsi andare a confidenze, momenti di riflessione e ricordi di una passione vissuta.
Piano piano la vita familiare e coniugale di Tommaso non si presenta più così soddisfacente e completa.
Perché i figli mettono così in difficoltà i coniugi?
I due protagonisti resisteranno alla tentazione di rivedersi?
Armanda riuscirà a trovare la sua serenità?
I temi affrontati Chiara Gamberale non sono nuovi e risultano già dibattuti sotto tanti punti di vista; leggerli fa sempre comunque riflettere e ci fa buttare un occhio sullo stato della nostra quotidianità…!
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
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Di norma i tasti sono complessivamente ottantotto: cinquantadue bianchi e trentasei neri.
Alt, non è un indovinello! Perché ne sarebbe troppo scontata la soluzione.
Il pensiero corre alla gamma di combinazioni musicalmente possibili e alla nostra vita, il cui ritmo viene scandito dalle dita che si muovono, abili, sulla tastiera, in una mirabile alternanza di contrasti e conflittualità di opposti in grado,però, di realizzare un’idea di convivenza armonica tra quei tasti bianchi e neri.
Un tremito sottile scuote il corpo e l’anima mentre, rapiti, sperimentiamo la strabiliante familiarità delle vibrazioni del suono realizzando che ci rianima e ci consola:qualche volta induce perfino a iniziare a canticchiare il motivo accennato dallo strumento. Succede a tutti e non si richiede affatto di dar prova della perfetta intonazione per partecipare a una forma di esibizione corale.
La melodia ci fa sentire vivi, vivi nel presente…nel qui e ora.
Pure la vita va vissuta così: ricordando sempre che ci sono momenti in cui il mondo deve rimanere ad attenderci fuori. Non importa se per un minuto o per un’ora.
E noi dobbiamo favorire questo salvifico isolamento senza sviluppare sensi di colpa, affinché ogni angolo della nostra mente possa essere permeato da energia: quella che ciascuno di noi è perfettamente in grado di irradiare mentre, con un’inconfondibile – a tratti goffa – presenza, cerca di farsi strada nel mondo.
Possiamo limitarci ad ascoltare un’armonia che si sviluppa attraverso l’alternanza del bianco e del nero, oppure scegliere di comporla e suonarla in prima persona, decidendo dove condurrà noi e il nostro pubblico.
Non è una valutazione agevole e, spesso, passa attraverso il dubbio, il pianto e l’incapacità di frenare i contristati sussulti di un cuore frastornato che,però, trova sempre il modo di tornare a palpitare quando la musica è nuova, intensa e struggente.
Una vita veramente libera è innanzitutto una vita responsabile e alla conquista di sé stessi , di uno spazio in cui la coscienza delle proprie, infinite potenzialità espressive si identifica con l’affermazione incondizionata dell’IO che, senza alcuna pretesa di egotismo, emerge dall’ombra del qualunquismo e dell’ovvietà e, appunto, vive.
L’uomo è libero quando trova l’incastro giusto rispetto al puzzle dell’esistenza: quello che si sceglie da solo, non quello che altri vorrebbero scegliere per lui.
La libertà non è preda di facili seduzioni, rifugge dalle convenzioni, dagli standard e dai luoghi comuni ma il motivo non risiede in una diversità che ha del mostruoso o del ridicolo: in fondo, è un privilegio essere dotati di un patrimonio spirituale attraverso il quale poter sancire il proprio distacco da un mondo manovrato a dovere dalla logica della privazione, dello stantio e del nulla più assoluto.
Il pericolo vero,tutt’al più, è subire una coazione, diretta e indiretta, della propria volontà: essere pilotati come marionette, da chi, facendo leva sulla disistima di sè e sulla sfiducia nelle proprie capacità, dimostra di non arrendersi all’idea che si possa vivere affrancati e non omologati.
Al contrario, chi si affranca, si salva sempre e necessita di un rigeneramento emozionale continuo per non perdere di vista il bisogno, quasi ancestrale, di stabilità che dovrebbe rappresentare l’ideale traguardo dell’esistenza.
E quell’angosciosa inquietudine che, irrimediabilmente, ci assale astraendoci dall’anonimo cortometraggio di una realtà in cui, senza accorgercene, stiamo vegetando – e non vivendo – va coltivata, perché ci sta avvertendo che la musica è cambiata e noi non la stiamo ascoltando.
Se, dall’esterno, sopraggiunge un tocco indulgente sui tasti bianchi e neri, consente di non farci smarrire il senso della melodia e di non rinunciare alla musicalità che accompagnano i singoli vissuti, ma alla fine tocca a noi dover gestire le energie, gli obiettivi, l’ardita ripidezza di alcune scale musicali.
Insomma, bisogna essere disposti a salire su una montagna russa con la consapevolezza che ne scenderemo completamente – ma positivamente – stravolti.
Come quei pianisti, un po’ invasati,che accompagnano l’esecuzione dei loro brani con movenze smodate:veri e propri spasmi, che sembrano interessare tutto il corpo e non solo le dita delle mani.
A prima vista sembrano pazzi: in realtà, sono i veri vincenti…quelli che,della vita, hanno capito tutto.
Il pianoforte ha una precisa collocazione rispetto all’ambiente in cui la sua musica risuonerà:dobbiamo imparare a pensare a noi allo stesso modo.
Perciò, è auspicabile che il pianto duri solo il tempo di un concerto per lasciare il posto, nel domani, a un sorriso pieno, schietto e disimpegnato che si vada a disegnare, lieve lieve, sul volto:sarà il sorriso di chi, grazie al suono di una melodia finalmente riconoscibile, avrà imparato a esercitare e a far valere il proprio diritto a vivere da persona libera.
Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.
Un inverno senza fine.
di REDAZIONE FUORI
L’arrivo in Europa della variante sudafricana, indicata con il nome di Omicron, alimenta di nuovo il timore di un “inverno pandemico” senza fine, una visione tragica da film apocalittico.
Al di là di una visione pessimistica della situazione, il timore di una previsione basata su fatti e dati concreti potrebbe essere giustificata almeno riguardo la speranza di una rapida uscita da questa crisi sanitaria (ed economica, e sociale).
Stiamo entrando nel terzo anno di pandemia, e comincia a farsi strada il pensiero di una convivenza con il virus.
La domanda rischia di diventare lecita, forse anche doverosa: “e se non dovesse mai finire? se dovessimo convivere per gli anni a venire con un “inverno” senza fine “?
È una domanda che è utile farsi, perché intanto è necessario attrezzarci con modelli di pensiero che contemplino l’ipotesi peggiore, quella di un’emergenza sanitaria globale che, attraversata una soglia critica, diventa cronica.
“Stiamo attraversando un periodo temporaneo di sofferenza” ci siamo detti, ” ma non dobbiamo essere pessimisti perché nessuna notte è infinita”.
Bisogna avere la forza di superare il momento di difficoltà, rinchiuderci, pregare il dio che avevamo dimenticato, e aspettare la luce del giorno.
“Torneremo ad abbracciarci tutti”, si diceva dai balconi, tra un canto e l’altro.
Grazie al sostegno di questo archetipo della speranza umana, e dell’umana saggezza, abbiamo retto anche in parte sorretti dalla novità, al primo spaventoso lockdown, poi alla seconda ondata, poi alla terza.
L’arrivo del vaccino, al netto dei no-vax, annunciava la luce del giorno tanto attesa.
Oggi, ad inizio dicembre 2021, con la quarta ondata che già sommerge buona parte dell’Europa, forse è necessario smettere di contarle.
Forse è più utile attrezzarci per un lungo viaggio, un viaggio attraverso una stagione che non conosca più l’alternarsi d’inverno e primavera ma soltanto un autunno perenne.
Un viaggio con destinazione sconosciuta.
Farneticazioni apocalittiche in stile hollywoodiano ?
Se avessimo il coraggio di tenere lo sguardo fisso sull’abisso, potremmo accorgerci che ci siamo già abituati ad un’emergenza permanente, quella ambientale.
Da decenni viviamo tutti in un mondo le cui condizioni climatiche vanno peggiorando in maniera progressiva, costante e probabilmente incontrovertibile.
Senza rendercene conto, ci stiamo rassegnando, e adattando, a eventi metereologici estremi, estati torride, inverni cataclismatici, devastazioni.
Ci stiamo rassegnando alle crisi migratorie, con le stragi in mare, che non sono più una notizia da prima pagina.
Siamo forse in grado di reagire a questi avvenimenti che occupano ormai la nostra quotidianità?
Politicamente sappiamo che non ne siamo capaci.
Il “mezzo successo” della COP26 di Glasgow non è forse un fallimento?
Riconoscere i nostri insuccessi, come comunità, è un passo doveroso e necessario. Prendere coscienza che il modello basato sui cicli di “morte e rinascita” dell’alternarsi delle stagioni applicato alla modello di società nella quale viviamo, comporta il riconoscimento della inadeguatezza della politica convenzionale come soluzione per risolvere i problemi di una comunità che ormai va considerata come una e sola, a prescindere dalla latitudine e longitudine di dove si vive.
La pandemia, e il cambiamento climatico sono scorie tossiche della globalizzazione.
La politica, con le sue cerimonie inamidate ancora basate su procedure del secolo scorso, non sembra in grado di saperle affrontare.
Se l’emergenza sanitaria diventerà cronica, così come ormai sono quella migratoria ed ambientale, si rischia di assistere, come già sta avvenendo in fondo, a forme di potere politico che si basano sulla sospensione o addirittura cancellazione delle consuetudini democratiche.
Le leadership populiste, i partiti che si rifanno al sovranismo, troveranno terreno fertile e sapranno raccogliere consensi dalle persone ormai sfinite da una condizione di continua emergenza sociale e privata.
Prendiamo coscienza che un’epoca è finita, che un’altra è cominciata, e prepariamoci ad affrontarla con uno spirito di adattamento a livello globale, e non con la rassegnazione di miliardi di singoli individui malinconici, rabbiosi e in fondo, disperatamente soli.
Redazione Fuori.
Quasi tutte le persone sono altre persone.
di Redazione Fuori.
Questi ultimi due anni, caratterizzati da un periodo pandemico che sembra si stia avviando alla quarta ondata, dovrebbero ricordare ad ognuno di noi quanto è importante il contributo, apparentemente insignificante ma in realtà determinante, per riuscire ad evitare un nuovo lockdown, cogliendo anche l’opportunità offerta dalla scienza medica.
Anche se minoritaria, la voce di chi si oppone ad una evidenza supportata dai numeri rimane rumorosa eppure, in nome di un mal compreso ed egoistico principio di libertà e di fare ciò che si vuole, senza rispettare i propri simili, si rischia una ricaduta che sarebbe per molte persone, lavoratori, aziende, e dunque famiglie, probabilmente fatale.
Queste persone sono convinte di sapere esattamente come stanno le cose, e con una presunzione pari alla loro ignoranza, si ritengono pensatori liberi, che combattono il sistema e la dittatura sanitaria, a differenza del resto del mondo (superiore al 90%) che sarebbero invece sottoposti al lavaggio del cervello.
Pur in buona fede, almeno la maggior parte, queste persone parlano senza avere una vera conoscenza dell’argomento, e si limitano a ripetere concetti, slogan e ragionamenti urlati da altri.
Quasi tutte le persone sono altre persone. I loro pensieri sono le opinioni di qualcun altro, le loro passioni una citazione, le loro esistenze una parodia. (Oscar Wilde)
Naturalmente è improbabile che chi ragiona così sia disposto a cambiare parere, o anche solo a limitarsi ad ascoltare un parere differente dal loro, dunque cercare di fargli capire che un atteggiamento e modo di comportarsi come questo, non ha niente di intelligente, razionale, o libero, rischia di essere un esercizio infruttuoso.
Però una riflessione andrebbe fatta, almeno tra chi come noi non appartiene a questa schiera di complottisti.
Dubitare e non fidarsi di chi ci “comanda” è sano.
Maturare una forma di pensiero critico, antidogmatico è, o dovrebbe sempre essere, l’obiettivo finale di ogni persona che ambisca a percorrere una strada che lo porti ad essere un “pensatore libero”.
Da dove deve partire questo percorso?
Potremmo dire che una scuola che forma l’atteggiamento critico è una scuola che è capace di indirizzare verso un atteggiamento democratico. Se la scuola sapesse formare una comunità di “pensatori critici” sarebbe una scuola perfetta. Ma la scuola è formata da insegnanti , che sono persone, la maggior parti delle quali non hanno queste capacità formative ed anzi, spesso, sono le prime che avrebbero necessità di impararle.
In un mondo ipotetico, tutti dovremmo aspirare ad essere autentici e liberi “pensatori critici”.
Ma la differenza tra pensatori critici e pensatori selettivi, cioè coloro i quali non si fidano di nulla e nessuno e vedono complotti ovunque, è che questi ultimi sono fermamente convinti di essere in possesso della verità assoluta, mentre i primi rappresenterebbero la massa , il gregge, i pecoroni.
Lo ribadiamo: bisogna sempre imparare a ragionare con la propria testa e mettere in discussione l’autorità.
Questo è doveroso farlo, sempre.
Ma bisogna farlo sulla base di fatti, prove, e non solo perché abbiamo una ideologia basata su convinzioni personali.
Se non riusciamo a costruire una capacità critica basata sui fatti oggettivi, sulla analisi dei dati che abbiamo in possesso, rischiamo di essere davvero come creta plasmabile in mano a chi ci vuole condurre verso obiettivi e tornaconti personali.
Non dobbiamo dubitare di tutto, naturalmente, così come non dobbiamo credere a tutto.
La credenza, senza motivazioni fondate, non ci aiuta a capire la realtà.
Ma allo stesso modo, il rifiuto basato sul pregiudizio non ci aiuta a capire la differenza tra qualcosa che potrebbe essere vero o falso, e qualcosa che in fondo, vorremmo che fosse vero (o falso).
Chi possiede la conoscenza possiede il potere.
Perché la conoscenza ci permette di capire di più e meglio.
Cerchiamo di coltivare sempre questa capacità di “sapere” e rendiamola ogni giorno più forte con l’arte del dubbio, che è un formidabile strumento di conoscenza.
In una società che abbonda di (dis)informazioni, i demoni dell’oscurantismo e del pregiudizio sono una conseguenza inevitabile.
Impariamo ed insegniamo ai nostri figli a pensare in maniera critica ma scientifica, basandoci sui fatti oggettivi e non sul sentito dire.
Potrebbe essere l’unico strumento che ci separa dal buio che ci circonda.
Uscire dalla comfort zone, saltarne fuori d’impulso, d’imperio, come se non ci fosse un domani, come se nemmeno ieri avesse più un posto nella memoria. Schizzare via dalla situazione attuale, per fiondarsi nella nuova situazione, nella nuova dimensione, rompendo le abitudini, le consuetudini, le comodità, appunto.
Fallo e basta, è l’essenza del tormentone, della presunta necessità di lanciarsi a piè pari nella nuova avventura, nella prossima competenza, nella mansione in divenire, come un paracadutista che, in un solo istantaneo gesto atletico, abbandona la tranquillità del velivolo, per approcciare una nuova incerta dimensione fatta di libertà, planando sospesi nel vento, cullati dalle correnti ascensionali.
Quante volte abbiamo sentito dire queste frasi? Quante altre volte ci è stato inculcato questo concetto, questa immediatezza, quasi un’urgenza che non prevede transizioni, passaggi intermedi, curve di apprendimento e tabelle di marcia?
Nel mondo del business (o comunque dell’evoluzione personale e delle proprie competenze) questo è un concetto travisato, estrapolato dal contesto logico ed erroneamente applicato, spesso allo scopo unico di creare l’ennesima formuletta magica, tipica di molti (pessimi) corsi e percorsi di crescita personale. Uno stereotipo formativo atto solo a far ricadere la totale responsabilità su noi stessi, attribuendo all’azione spontanea e istantanea, l’illusione del risultato.
Come se la programmazione e il ragionamento, fossero definitivamente démodé.
Ma la realtà si compone di una diversa natura e, per ogni abilità dello scibile umano, fatte salve le funzioni fisiologiche delegate al subconscio, è necessario un percorso, un adeguamento, una scaletta crescente di difficoltà e di elementi da apprendere. Come i bambini che imparano a parlare, a camminare, a giocare, modellando gli altri, questo percorso è necessario e imprescindibile in ogni campo, anche a scuola, nello sport, nell’arte, in qualsiasi altro ambito dell’umano scibile che possa venirci in mente. Uscire di colpo dalla zona di comfort, può solo (nella stragrande maggioranza dei casi) sortire un effetto depressivo, un’ancora negativa legata alla cattiva esperienza, una frustrazione che, di fatto, può inibire il percorso futuro e il desiderato raggiungimento dell’obiettivo.
E può portare al disastro, se quel salto comporta conseguenze dannose che, presi dalla foga del fare, non avevamo preso in considerazione.
Perché la questione non riguarda l’abbandono o meno del metaforico tepore della comodità. Questo è un concetto imprescindibile, necessario alla crescita e all’evoluzione umana. La questione è semmai da collocare nella gradualità, nella tempistica dell’azione, nella sequenza di passi da compiere e di cose da imparare, prima di fare quel salto nel buio.
Perché occorre essere preparati, anche per improvvisare.
Diversamente, non esisterebbero percorsi articolati a difficoltà crescente, per giungere al tanto agognato titolo di studio. Non si passerebbero dieci anni chini sulla tastiera di un pianoforte, per diventarne maestro, non ci sarebbero interminabili allenamenti per giungere alla condizione atletica desiderata e necessaria al raggiungimento di una maestria superiore. Esisterebbe solo un salto nel vuoto, fatto d’improvvisazione avventata e di forza di volontà, ma privo di ragionamento, di programmazione e di quella razionalità capace di gestire l’irrazionale emotività.
Uscire dall’inerzia, dall’apatia dettata dall’immobilismo e dalla mancata azione, questo significa uscire dalla zona di comfort. E se si tratta di un’attività che già sappiamo svolgere, come ad esempio tuffarci nell’acqua gelida, allora si, senza ragionarci troppo, trarremo un bel respiro e ci immergeremo per poi arrivare, nuotata dopo nuotata, a padroneggiare la nostra acquaticità. Ma uscire dalla zona di comfort è qualcosa di più importante e complesso dell’atto meccanico che rende azione un istinto, del fare ciò che già è alla nostra portata ma che comporta uno stress, un atto di volontà, quasi di fede, per portarlo a termine.
Uscire dalla metaforica comodità è soprattutto imparare, ogni giorno, qualcosa di nuovo, mettendoci alla prova e aggiungendo, ad ogni momento, l’ipotetica medaglia della nuova competenza acquisita.
Ma facendolo per gradi, seguendo un percorso logico, che ci motivi grazie ai piccoli traguardi raggiunti. Si esce dalla propria comfort zone, per piccoli passi, non fuggendo a perdifiato, come da un pericolo mortale, senza valutare cosa c’è oltre l’ipotetico confine.
Non si mangia un cocomero da otto kili in un unico grande morso. Non si diventa campioni solo con la volontà. Non ci si laurea esclusivamente con il desiderio. Nemmeno con il grande “Perché“, se nel tempo non si è acquisito un “Come” altrettanto solido e grande. E nemmeno si avvia un business senza le condizioni minime e necessarie a tenerlo in vita, proprio come non si mette in acqua un’imbarcazione, se la profondità dello specchio d’acqua non è sufficiente a sostenerla e a ospitarne il pescaggio.
La vita è fatta di procedure, di verifiche, di tappe da raggiungere, di obiettivi che, da linea di traguardo, possano diventare un nuovo inizio, una nuova linea di partenza verso un obiettivo più alto, più complesso, più difficile e appagante da raggiungere. E di condizioni a margine, minime e necessarie, per raggiungere quel nuovo step fino alla meta.
Chi guida, sa bene che ha dovuto seguire delle tappe obbligate e imprescindibili, per imparare a farlo. Ma se invece della piccola macchinina da autoscuola, fosse stato messo a guidare una Porsche Gt2, fin dalla prima esperienza, fin dalla prima prova di guida, cosa sarebbe accaduto? Probabilmente i tempi d’apprendimento si sarebbero allungati a dismisura, data la difficoltà di guidare una vettura sportiva (per un principiante, almeno) facendo scaturire, nell’apprendista, un’importante dose di frustrazione, fino al probabile abbandono del progetto o dell’obiettivo. Fino a diventare incapacità appresa.
Il mondo del business è un po’ più complesso di quanto descritto da tanti aspiranti startupper e imprenditori (ma solo sulla carta), o dai tantissimi “guru” che impestano i social con le loro frasette estrapolate dal contesto, stiracchiate in un nuovo presunto significato, rubate al filosofo antico e attribuite (per dar loro maggiore peso e valenza nel contesto) all’imprenditore di successo moderno.
Uscire da quella palude comportamentale, non è come varcare un banale segno di gesso, ma significa rivedere e correggere il proprio assetto mentale, per diventare ogni giorno qualcosa (o qualcuno) di nuovo, di migliore, di vincente. Ciò che si è sempre sognato essere. E lo si fa, necessariamente, per gradi, con i giusti passi e con i corretti tempi, fino ad allargare la nostra zona di comfort, invece di abbandonarla, rendendo comodo ciò che tale non era, in attesa della sfida successiva.
Non basta la volontà di uscire da quell’area di comodità, per diventare persone migliori. Abbiamo bisogno anche di una bussola e di un orologio. E di saperli usare, senza che sia una forzatura, bensì un percorso fluido e appagante verso il livello superiore.
Altrimenti, lo stereotipato concetto, forzato all’estrema conseguenza, a ogni costo, in ogni condizione, rimarrà sempre e solo un cumulo di sciocchezze. Sontuose, inascoltabili e pericolose sciocchezze!
Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.
Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.
Noi viviamo come se dovessimo vivere sempre, non riflettiamo mai che siamo esseri fragili.
La classica domanda a cui cercano di rispondere le religioni e le filosofie è “chi siamo, da dove veniamo e perché”.
Un po’ meno scontato, ma a nostro avviso egualmente interessante, è invece chiedersi perché l’uomo senta la necessità di porsi questo quesito.
È vero che i filosofi, sono coloro i quali hanno fatto di questa indagine il perno dei propri studi e della propria riflessione teorica, ma secondo noi, il movente che li ha spinti in questa direzione non è soltanto quello intellettuale.
Pertanto, partendo dalla premessa che la “domanda delle domande”, ben prima di essere formulata da filosofi e teologi, è ragionevole ritenere che essa sia stata affrontata almeno una volta nella vita da chiunque sia in grado di intendere e volere, ci metteremo nei panni di chi, come noi, magari fin da ragazzi, ci siamo posti lo stesso interrogativo.
Osservare la questione da un altro punto di vista.
Come tutti gli esseri umani, secondo un’interpretazione psicologica, se accettiamo il presupposto della teoria freudiana così come viene enunciato nel libro intitolato “Al di là del principio del piacere”, due sarebbero gli istinti o le pulsioni, per lo più inconsci, che guidano il comportamento umano.
Il primo è la pulsione alla vita, il secondo la pulsione alla morte.
Diciamo subito che questi due termini non vanno presi alla lettera e quindi direttamente associati al significato che essi assumono nel linguaggio comune, in quanto Freud per elaborare questa teoria, si era ispirato al pensiero del filosofo ellenico Empedocle il quale, nella sua visione cosmologica prevedeva, oltre a quelle che lui definiva le 4 radici dell’esistenza, ovvero aria, acqua, terra e fuoco, anche l’esistenza di due poteri divini, ovvero “φιλότης/filotes- amicizia” e “νεῖκος/neikos – lite”.
In termini metaforici questi due termini condensavano su di loro due principi.
Filotes, il cui scopo era “fondere”, “riunire”, “attrarre” le 4 radici, mentre neikos, aveva la finalità di “allontanarli”, “dividerli” , “separarli”.
Trasponendo questi principi sul piano psicologico, potremmo dire che il primo rappresenterebbe, sempre usando una terminologia freudiana, la pulsione che spinge l’individuo a crescere, ad espandersi, ad avere sempre di più, a voler occupare spazi sempre maggiori, il secondo invece, a ritirarsi, a rinchiudersi in se stesso quando sopraggiungono eventi ritenuti ostili.
Gli stessi termini, secondo invece la terminologia usata da altre correnti di studiosi, sarebbero rispettivamente l’istinto di espansione ed l’istinto di conservazione.
La maggior parte delle teorie basate sull’osservazione dei fenomeni naturali, sull’analisi del comportamento sociale ed individuale, hanno preferito per dare maggior importanza e quindi a focalizzare studi ed analisi, intorno all’istinto di conservazione, che è quello che polarizza i sentimenti e quindi, le scelte che facciamo, quando la priorità del momento è quella di difenderci da un evento esterno percepito come pericoloso o frustrante.
Ma come sostiene lo psicanalista junghiano Louis Corman, ciascuno di noi è sottoposto ad entrambi le pulsioni, (tralasciamo in questo contesto per semplificazione e praticità che secondo lo psicoanalista Carl Jung, saremmo invece soggetti, ad un numero maggiore di “sollecitazioni inconsce ad agire” da lui definiti complessi) che prendono il sopravvento a seconda dei momenti.
Dell’istinto di conservazione si è detto e scritto molto, mentre di quello di espansione, se ne parla in riferimento a quegli aspetti legati alla vita adulta che sfociano nella spinta al possesso impulsivo di beni materiali, in ambito lavorativo a voler fare carriera a tutti i costi o nel come caso dei governanti del passato, ad ambire alla conquista territoriale mediante l’uso della forza.
L’istinto di espansione come pulsione primaria.
A noi interessa in particolare, soffermarci su quell’impulso che si manifesta fin dai primi giorni di vita e che orienta i comportamenti del neonato nei confronti dell’ambiente esterno con lo scopo di prenderne il possesso.
Ci riferiamo all’istinto primigenio, quello che spinge il bambino ad assimilare nel senso più ampio, ovvero a mangiare spinto oltre che dalla soddisfazione del “principio del piacere”, anche dal desiderio di apprendere per imitare e relazionarsi i suoi genitori, dette anche figure di riferimento e crescere, per migliorare le proprie le proprie capacità motorie in modo da “padroneggiare” l’ambiente che lo circonda.
Ma è dall’interazione e dal confronto con coloro che costituiscono il primo contatto con il mondo esterno, sia dal punto di vista materiale (i genitori si prendono cura di lui quando ha bisogno di sfamarsi, di muoversi o di cambiarsi), che emotivo (lo scopo di coloro che si prendono cura del neonato è quello di creargli un ambiente emotivamente il più possibile sereno) che egli sentirà di non essere più al centro della loro attenzione e quindi sperimenterà le prime frustrazioni.
Tutto ciò mette in discussione il cosiddetto “Es” o “Id”, ovvero, quella componente primitiva della personalità, che fino a qualche tempo prima gli forniva l’illusione, ogni qualvolta le richieste venivano prontamente esaudite, di essere onnipotente.
Ed è a questo impedimento alla manifestazione libera del proprio “Es”, che il piccolo reagisce in maniera per lo più elementare, ovvero facendo prevalere gli istinti primordiali che lo inducono ad esprimersi in maniera aggressiva e rabbiosa mediante pianti, urla, pugni stretti e vibranti e sguardi astiosi nei confronti dell’oggetto di amore/odio che non ha soddisfatto prontamente le sue pretese.
È la complessità della relazione che fa sorgere in lui la consapevolezza di non essere, come aveva ritenuto all’inizio, al centro di quel universo da dominare con la propria personalità e quindi, prende il sopravvento l’istinto di conservazione che lo guiderà verso comportamenti più maturi che tengano conto dell’esistenza di altre identità con le quali confrontarsi.
Solo in un secondo momento, grazie allo sviluppo ed all’affacciarsi delle capacità intellettive, prenderà piede in lui quella riflessione, che lo condurrà ad indagarsi sul perché soffre e quali possano esserne le vere cause, nella speranza che grazie alla loro conoscenza possa o prevenirle oppure mettere in atto comportamenti che hanno lo scopo di limitarne gli effetti.
È come se dalla presa di coscienza di non poter avere sotto controllo tutti gli aspetti della propria vita, sorgesse in lei o lui, la speranza o l’illusione, che la conoscenza la o lo possa preservare in futuro da ulteriori fonti di ansia o di dolore.
Come si manifesta l’istinto di conservazione ?
A questo punto l’individuo, di fronte al dilemma ontologico, mette in atto tre tipi di risposte.
Il primo modo, consiste nel attuare l’istinto di conservazione in senso stretto ovvero, ritraendosi completamente in sé stesso per tenere lontane quelle che sono ritenute le cause della sofferenza.
Questa strategia, per così dire rinunciataria, consiste o in quella che i filosofi epicurei definivano “l’atarassia”, ovvero nel ritrovare la pace interiore mediante l’uso di tecniche che portino alla liberazione dalle passioni, oppure far ricorso alla virtù degli stoici, la cosiddetta “apatia”, ovvero la qualità raggiunta dai saggi che consisteva nel ottenere il distacco dai patimenti della vita.
Oppure infine, perseguendo una vita virtuosa con l’aiuto della “catarsi”, ovvero mediante la pratica di riti purificatori che liberano dal dolore interiore, accedendo a riti o pratiche di meditazione che permettono di riacquisire l’equilibrio o la pace interiore messe in discussione dai contrasti o dagli accadimenti della vita.
Ma esiste una seconda reazione, tipica invece di coloro che di fronte a limiti ed ostacoli, si prodigano in una ricerca intellettuale, che consiste nel porsi domande intorno al senso ultimo dell’esistenza partendo dal presupposto, che dalla scoperta della causa prima, si possa dare un senso alla sofferenza e quindi alleviarla.
Questo è il percorso delle filosofie e dei filosofi, i quali sono alla ricerca di modelli che cercano di fornire un senso all’esistenza.
Ma esiste anche una terza alternativa.
Stiamo parlando delle religioni, che forniscono una dottrina che attribuisca un significato all’esistenza ed alla sofferenza, partendo da assiomi non necessariamente dimostrabili, così come vengono intesi dall’uomo del XXI secolo, ma ipotizzando l’esistenza di uno o più creatori ritenuti i motori primi e la causa sia di un mondo immanente che di uno materiale.
Secondo questa visione, sarebbe compito della religione, la cui missione in senso etimologico consisterebbe nel “ricollegare “(dal latino “re-ligere”) l’uomo al cielo, fornire un senso escatologico all’esistenza ed alle sofferenze umane.
Osserviamo che seppure queste ultime due strade pur condividendo la medesima domanda, ovvero “soffro , ma allora, perché soffro?”, in realtà propongono due soluzioni divergenti.
Infatti, mentre per la filosofia il dibattito intorno alla ricerca del senso dell’esistenza è fluido, in continua evoluzione e nessuna risposta è mai definitiva, nel caso delle religioni il dibattito è possibile solo nella misura in cui non si entri in contrasto con i dogmi o la rivelazione.
Il senso dietro alla ricerca del fine ultimo.
Desideriamo concludere questa breve riflessione, rimarcando che in accordo con l’ipotesi da noi formulate, al di là delle risposte che il singolo, che si tratti di un intellettuale, di un teologo o di una persona comune, cerchi di darsi, essi sono accomunati da una pulsione, una spinta od una motivazione, che prima di essere intellettuale o spirituale, proviene una necessità interiore e quindi psicologica, di placare l’incertezza del vivere e sperimentare le proprie fragilità soprattutto quando si tratta di affermare se stessi o quando ci troviamo in competizione con gli altri.
Pertanto, a nostro avviso, è dalla reazione alla fragilità umana, quello che abbiamo chiamato istinto di conservazione e non, dall’ambizione dell’intelletto umano, in altre parole dall’istinto di espansione, che nasce il bisogno di cercare una risposta intorno al fine ultimo della vita.
Appassionato fin da ragazzo di fisica nucleare, elettronica e computer, entrato nel mondo del lavoro scopre che la sfera emozionale è importante tanto quanto quella razionale.
Ricoprendo all’interno delle aziende ruoli di sempre maggior responsabilità, osserva che per avere successo, oltre ad investire in ricerca e sviluppo ed in strumenti di marketing innovativi, le organizzazioni non possono prescindere dal fatto che le emozioni giochino un ruolo determinante tra i fattori critici di successo.
Grazie ai libri del Prof. Giampiero Quaglino, viene a conoscenza delle più moderne teorie sulla leadership ed in particolare quelle del docente dell’Insead, Manfred Kets de Vries, con cui condivide la visione secondo la quale non esistono modelli di leadership vincenti, ma solo relazioni efficaci tra gli individui.
Nel 2014 la rivista “Nuova Atletica”, organo ufficiale della Federazione Italiana Di Atletica Leggera, gli commissiona una serie di contributi sulla leadership per allenatori professionisti, coerente con le teorie che quotidianamente cerca di mettere in pratica sul lavoro.
Appassionato anche di filosofia, va alla ricerca instancabile di un modello che metta al centro l’individuo e ne rispetti l’unicità ma che al contempo, sia riconducibile a dei principi da cui cui tutto “principia”, convinto che la cultura e la superspecializzazione della scienza e della tecnologia moderna, conduca ad un inevitabile frammentazione dell’Io.
Ritiene di aver trovato ciò che cercava, riscoprendo la filosofia platonica e di Plotino e nella rilettura dei miti greci attraverso le lenti della psicologia archetipica introdotta dallo psicoanalista junghiano James Hillmann assieme ad i contributi dei filosofi E. Casey, L. Corman e dell’antropologo J.P. Vernant.
Pubblica con cadenza mensile sul magazine “karmanews.it” articoli che reinterpretano i miti dell’antica Grecia in chiave psicoanalitica, ritenendoli una metafora dei travagli dell’anima che, mediante l’uso di immagini e di racconti fantastici, si rivolgono direttamente al cuore e quindi all’inconscio.