Gli stupidi ben informati.

Emilio_Gomariz

di Valentina Serafin 

La libertà di informazione è, bene o male, garantita da costituzioni e da leggi.

I media che ricoprono il nostro pianeta, con le loro reti, si dichiarano liberi, ma lo sono davvero, oppure sono in catene? Non è, di fatto, ipotizzabile una rivoluzione democratica, né una politica degna di tale nome, se non si affronta la situazione complessa della comunicazione.

Parlare di punto di non ritorno potrebbe sembrare eccessivo, eppure il nostro Paese si trova, oggi, ad un livello assolutamente insufficiente, se parliamo di qualità e libertà dell’informazione.

Senza una vera libertà in questo settore nevralgico, non ci può essere vera democrazia.

Naturalmente, non stiamo parlando di mancanza di libertà di espressione o di parola, condizione propria di regimi totalitari che, grazie a Dio, non ci riguardano, ma i vincoli sono sempre più virtuali, invisibili, tali da condizionare il pensiero comune, indirizzandolo.

La libertà di espressione, così come la conosciamo oggi, in questa forma, è il frutto di lunghe lotte, che hanno assicurato ai giornali e ai media di poter stampare, trasmettere, informare in modo (apparentemente) libero.

Certo, questa libertà è garantita dalla Costituzione e dalla Legge, ma sempre di più in una forma simbolica che, con il tempo, si è andata modificando, rimodellandosi su esigenze editoriali e di partito.

Oggi, la platea di strumenti informativi è impressionante. A volte, può sembrare anche eccessiva, vista la quantità di dati a disposizione e come questi vengano modificati a proprio uso e consumo. Ma se ognuno di questi strumenti è anche in piccola parte “non libero”, la somma totale, poi, diventa preoccupante, perché si rischia di cadere in un conformismo illiberale.

L’opinione pubblica è spesso considerata dominatrice e onnipotente, giudice ultimo, senza possibilità di appello. Ma, in effetti, e allo stesso tempo, questa è quotidianamente condizionata, in modo subdolo, dunque possiamo certamente dire che è manipolata. Questo accade perchè esiste una condizione di oligopolio con una concentrazione limitata di grandi realtà editoriali, irraggiungibili dalle minoranze ideologiche, che, essenzialmente, sono rese inermi da questo strapotere.

Il lettore, lo spettatore e l’ascoltatore, che vengono dichiarati “protagonisti”, in realtà sono ridotti a soggetti passivi ed inconsapevoli.

Non hanno alcun diritto.

I risultati della cosiddetta “libertà d’impresa mediatica” sono insignificanti.

L’opinione pubblica, il lettore, il cittadino, si difendono come possono e arretrano: abbandonano progressivamente gli strumenti più “difficili” e soggiaciono a quelli più “facili”. Vanno sempre meno in edicola ad acquistare i quotidiani e si consegnano inerti e inoffensivi di fronte alla tv, assimilando improbabili notizie che gli si accavallano nella mente in un turbine di realities, “Grandi Fratelli”, serie tv e news accomodate.

In una società che rivendica (giusti) diritti per qualsiasi minoranza e categoria, nessuno ha mai pensato di garantire i diritti dei lettori e ascoltatori?

Il “lettore”, inteso nel senso più ampio del termine, oggi, di fatto, non ha sufficienti garanzie sul prodotto che acquista e quelle poche che ha sono disattese.

Eppure, questi sono consumatori di una merce ben più delicata di altre, perché condiziona la salute mentale e democratica.


Valentina Serafin collabora con PIUATHENA ed ha una esperienza pluriennale come Presentatrice, Conduttrice TV e Speaker radiofonica, acquisita collaborando con le più importanti realtà del settore.




Il peccato del Vescovo.

Il Quarto Stato_ Giuseppe Pellizza da Volpedo

Tratto da un racconto di William Canton.

Molto tempo fa, alla vigilia di Natale, un vescovo di una cattedrale di una importante città era fermo a contemplare la maestosità della sua chiesa. E mentre lasciava che i suoi occhi vagassero deliziati sulle tre navate scolpite, il grande rosone centrale, e la galleria che si apriva sotto il campanile che si ergeva in una massiccia torre, si sentiva il cuore gonfio di orgoglio e ammirazione per quello che stava ammirando.

Di certo in tutto il mondo Dio non ha una casa più bella di questa che ho costruito con così lungo lavoro e con una spesa così importante “.

E così il Vescovo cadde nel peccato di vanagloria, e, sebbene pensasse di essere, e magari lo era pure, un santo uomo, non si accorse di essere caduto in questo peccato veniale, tanto era contento alla vista dell’opera che aveva di fronte.

Nella penombra delle navate laterali, c’erano molte grandi statue con corone, scettri, e preziosi affreschi, ma una nicchia sopra il portale centrale era vuota ed era proprio quella che il Vescovo intendeva riempire con una statua che lo avrebbe raffigurato in posa marziale e autorevole.

Sarebbe dovuta essere una statua molto piccola e semplice, in verità, come si addiceva a chi apprezzava l’umiltà di cuore, ma mentre alzava lo sguardo verso quello spazio ,  gli faceva piacere pensare che centinaia di anni dopo la sua morte la gente si sarebbe fermata davanti alla sua effigie e avrebbe lodato e venerato lui e il suo lavoro.

E anche questa, di nuovo, era vanagloria.

Quella notte, mentre il vescovo dormiva, un grande angelo con le ali spiegate, gli apparve accanto e gli ordinò di alzarsi.

Vieni“- disse- “e ti mostrerò alcuni di coloro che hanno lavorato con te nell’edificazione della grande chiesa e il cui servizio agli occhi di Dio è stato più degno del tuo“.

E così l’Angelo lo condusse oltre la Cattedrale e giù per la ripida strada della città antica, e sebbene fosse già mattino, la gente che andava e veniva non sembrava vederli.

Superato il cancello della cattedrale, si incamminarono lungo la strada che conduceva fino a dei verdi campi pianeggianti e lì, in mezzo alla strada, tra sponde erbose coperte di bianco di fiori di ciliegio, due grandi buoi bianchi, aggiogati a un enorme blocco di pietra, stavano riposando, prima di riprendere la faticosa salita verso il paese.

Aspetta!” disse l’angelo; e il vescovo vide tre uccellini dalle ali azzurre che si appollaiarono sulla robusta trave del giogo fissata alle corna dei buoi e cinguettarono una melodia così celestiale che le grandi creature irsute cessarono di soffiare attraverso le loro narici, e cominciarono ad emettere invece lunghi respiri tranquilli.

“Continua a guardare” continuo l’angelo. 

E da una modesta e semplice casa uscì una donna con un fascio di fieno in braccio, e diede prima a uno dei buoi e poi all’altro un po’ di ciuffi di quel fieno e dell’acqua. Poi accarezzò i loro musi neri e appoggiò il suo viso sulle loro guance bianche. Quindi il vescovo vide un uomo alzarsi dal suo riposo sulla riva del torrente che scorreva li a fianco e,  lanciato un comando ai due buoi, questi spinsero contro la trave, le grosse funi si tesero, e l’enorme blocco di pietra  che stavano trasportando fu di nuovo messo in moto.

Quando il vescovo capì che erano questi uomini e queste donne , lavoratori umili, il cui servizio era agli occhi di Dio più degno del suo, fu confuso e addolorato per il peccato in cui era caduto e le lacrime del suo stesso pianto lo svegliarono dal suo sonno.

Allora si alzò dal letto e mandò a chiamare il maestro degli scultori e gli ordinò di riempire la piccola nicchia sopra il portale di mezzo, non con la propria effigie, ma con un’immagine della contadina e dell’operaio; e gli ordinò di fare poi due figure colossali di buoi bianchi.

Con grande meraviglia dei fedeli questi furono eretti in alto nella torre in modo che gli uomini potessero vederli contro il cielo azzurro. 

E quanto a me“, continuò il Vescovo, “lascia che quando morirò il mio corpo sia sepolto, con la faccia in giù, fuori della grande chiesa, di fronte all’ingresso centrale, affinché i fedeli possano calpestare la mia vanagloria e che io possa servire loro come passaggio verso la casa di Dio”.

Fu così dunque che la fanciulla e l’uomo furono scolpiti, in modo tale da guardare una verso est, con il suo sguardo rivolto al primo bagliore dorato dell’aurora del mattino, mentre l’altro con lo sguardo verso ovest, attraverso il vasto paese che si allargava intorno alla città vecchia, in modo tale che potesse scorgere il primo rossore del tramonto.

Gli uomini stanchi e le donne logore dal lavoro quotidiano, ora potevano osservare le due sculture e provare una sensazione di gioia, una gloria e una pace profonda che ristorava in parte la loro vita di fatica con questo simbolico ma concreto riconoscimento. 

E poi – si dicevano tra loro – che era bene che questi operai, gente che lavorava con fatica e sudore, e che avevano aiutato a costruire la Casa del Signore , trovassero nella chiesa un posto dove poter essere ricordati con onore.

E poi, al pensiero di ciò, gli uomini divennero anche più pietosi del loro bestiame, e delle bestie in servitù, e di tutti gli animali che soffrono in silenzio.

E anche quello fu un buon frutto che scaturì dal pentimento del Vescovo.

La vigilia di Natale i suonatori, secondo l’antica usanza, salivano sul campanile per annunciare la nascita del Bambino Divino. Al momento della mezzanotte il maestro suonatore diede il via, e le grandi campane cominciavano a suonare in gioiosa sequenza. 

Alla fine della sua vita terrena, il Vescovo fu sepolto come aveva richiesto, col volto umilmente rivolto verso terra e la lastra sopra la sua tomba funge ancora oggi da passaggio per coloro i quali si avviano all’interno della Cattedrale.

E Le statue della fanciulla e dell’operaio, e dei buoi, consumati dal tempo lo osservano ancora oggi dall’alto della nicchia , sulla facciata della Chiesa.


Questo racconto di Natale è dedicato a Marco Pozzetti, Roberto Peretto e Filippo Falotico, i tre operai morti a Torino nel crollo della gru sulla quale stavano lavorando.

E a tutti gli uomini e le donne, che sono decedute mentre svolgevano il loro lavoro.

 



I confini del tuo linguaggio sono i confini del tuo mondo.


di Matteo Moro_

Domandatevi da dove venite e cosa volete. Fate altrettanto con il vostro vicino di casa, o con la persona che è immersa totalmente nel suo cellulare sul sedile accanto al vostro in metropolitana.

Una domanda così semplice si basa su una lunga serie di presupposti condivisi: conoscere il significato delle parole utilizzate, conoscere la forma interrogativa di una frase, condividere lo stesso idioma. 

Semplice”, starete pensando. 

Al massimo vi toccherà improvvisare in una lingua straniera che avete appreso al liceo o in una scuola serale.

Ma immaginate ora di dover porre la stessa domanda a degli alieni. 

Da dove si comincia a costruire una forma di comunicazione, quando si proviene da mondi diversi, e non si condivide quasi nulla?

La questione, che apre molti interrogativi di natura filosofica ed etica, mette in discussione l’universalità dei significati del mondo in cui siamo immersi e il modo stesso in cui lo concepiamo. 

L’argomento è stato affrontato in un racconto di Ted Chiang, da cui è stato poi tratto il film “Arrival” [2016] diretto da Denis Villeneuve.

Il racconto dal titolo “Story of Your Life”, tenta di spiegare la difficoltà di un dialogo con uno straniero, in questo caso degli Alieni, che non sia suscettibile di incomprensioni.

La storia narrata ha la caratteristica di essere “palindroma”, cioè può essere “letta” dall’inizio alla fine e viceversa, lasciando poi al lettore la possibilità di comprenderne il senso e il significato linguistico, in un senso o nell’altro.

Questa una delle (molteplici) chiavi di lettura. 

E’ il nostro pensiero che determina il modo in cui ci esprimiamo, o la struttura della lingua che parliamo eserciterebbe un’influenza sul processo di categorizzazione mentale di chi parla?

Benjamin Whorf, noto linguista e antropologo americano, insieme al suo maestro Edward Sapir diede vita a uno dei più famosi assiomi linguistici di sempre, la Sapir-Whorf Hypothesis, secondo cui il nostro modo di esprimerci e comunicare, in tutte le forme e modalità, determina il nostro modo di pensare; è quella che viene comunemente riassunta come ipotesi della relatività linguistica. 

“La nostra analisi di ciò che ci circonda e viviamo, segue linee tracciate dalle nostre lingue madri.  Le categorie e le tipologie che individuiamo nel mondo dei fenomeni non le troviamo lì come se stessero davanti agli occhi dell’osservatore; al contrario, il mondo si manifesta in un flusso caleidoscopico di impressioni che devono essere organizzate dalle nostre menti, cioè soprattutto dai sistemi linguistici nelle nostre menti. Noi tagliamo a pezzi la natura, la organizziamo in concetti, e nel farlo le attribuiamo significati, in gran parte perché siamo parti in causa in un accordo per organizzarla in questo modo; un accordo che resta in piedi all’interno della nostra comunità di linguaggio ed è codificato negli schemi della nostra lingua…”.

Nel racconto a cui abbiamo accennato, gli Alieni offrono la possibilità di comprendere la propria facoltà comunicativa, conoscendo la quale si riesce a concepire il loro concetto di tempo non lineare, ma circolare e, di conseguenza, a concretizzarlo in una possibilità, in un dono. Il dono di aprire, figurativamente parlando, un varco nel cerchio dello spazio-continuum, per permettere alla mente umana l’ingresso e uno sguardo nuovo, proiettato in avanti.

Conoscere il futuro, in fondo, significa guardare i propri errori, per comprenderli ed evitare quindi di (ri)commetterli.

Si ritorna allora all’ipotesi di Sapir-Whorf: Il linguaggio incide sulla visione delle cose e dunque se è vero che la lingua che parli determina il tuo modo di pensare, allora è altrettanto vero che, studiandone una nuova, è come se il tuo cervello subisse una decodificazione.

Whorf stesso sosteneva che “Non possiamo parlare affatto, se non accettiamo l’organizzazione e la classificazione dei dati che questo accordo stipula […] significa che nessun individuo è libero di descrivere la natura con assoluta imparzialità, ma è costretto a certi modi di interpretazione, anche quando si ritiene completamente libero.

A dimostrazione della natura intrinsecamente interpretativa del linguaggio, la stessa teoria ha due diverse interpretazioni, una versione forte e una debole.

La prima è nota come determinismo e afferma che il nostro pensiero è interamente determinato dalle strutture della lingua; la versione debole della teoria è definita invece relativismo: le strutture delle lingue eserciterebbero un’influenza sul processo di categorizzazione mentale di chi parla.

“Se si tracciano dozzine di linee di forme differenti, le si nota subito come classificabili nelle categorie di “rette”, “contorte”, “curve”, “zig zag”, perché i termini linguistici contengono in se stessi un carattere stimolante la classificazione. Noi vediamo e udiamo e facciamo altre esperienze in un dato modo in gran parte perché le abitudini linguistiche della nostra comunità ci predispongono a certe scelte di interpretazione.”

Che propendiate per l’una o l’altra interpretazione della teoria , sappiate che la lingua che usate ogni giorno non è così neutra e ovvia come avete sempre immaginato. Ogni volta che parliamo forniamo una rappresentazione simbolica e tangibile della nostra mente e del modo in cui concepiamo il mondo.


Matteo Moro

Architetto dati che lavora nel settore dell’informatica e dei servizi. Interessato alla matematica, al monitoraggio delle prestazioni e a tutto ciò che riguarda il Machine Learning. Professionista dell’ingegneria con un Master focalizzato in Matematica e Informatica presso l’Università degli Studi di Roma Tre e l’Univeristé Aix-Marseille.




Nessuno muore.


All’improvviso, mi parve di destarmi, e mi trovai come fluttuante all’altezza del soffitto. Mi sentivo benissimo, anche se un po’ eccitata al pensiero di poter osservare ciò che i chirurghi si apprestavano a fare. La camera era dipinta di verde. Una cosa mi meravigliò subito: il tavolo operatorio non si trovava parallelo a tutte le strumentazioni, bensì era relegato in un angolo. A un certo momento mi domandai come mai non soffrissi o non provassi alcuna pena osservando l’intervento sul mio corpo. I chirurghi erano due. Mi feci più vicino per osservare meglio. Grande fu il mio stupore nel vedere fino a quale livello di profondità avevano inciso la mia schiena, e quante attrezzature, pinze e divaricatori contornavano la ferita. Vidi raggiungere la colonna vertebrale con i loro attrezzi chirurgici, ed estrarre lentamente il disco con lunghe pinzette curvate all’estremità. A un certo momento qualcuno si lasciò scappare un’esclamazione di stupore. Tutti si voltarono. Chi aveva parlato, ricorrendo a termini tecnici che non ricordo, gridò che stava succedendo qualcosa e che la mia respirazione si era paurosamente rallentata. Pronunciò parole come “arresto” o “blocco”. Poi quasi urlò: – Chiudere! – A quella specie di ordine tutti affrettarono le operazioni, tolsero pinze e divaricatori e presero a cucire in fretta l’incisione. Notai che incominciarono a suturare partendo dal fondo. Eseguirono la cucitura in modo così rapido da lasciarmi ancora una parte di ferita leggermente aperta sulla schiena. A quel punto, improvvisamente , mi trovai nella hall dell’ospedale . Ero come se fossi a ridosso del soffitto, perché distinguevo con chiarezza le lampade fluorescenti. Da questo momento in poi non ricordo nient’altro, salvo il fatto di essermi finalmente destata in un’altra stanza. Accanto a me scorsi uno dei due medici che mi avevano operata; non l’avevo mai veduto prima, ma lo riconobbi subito“.

Quando agli inizi degli anni 70 del secolo scorso venne coniato l’acronimo NDE (near death experiences ) l’intento era quello di racchiudere in una definizione  più o meno esauriente, una categoria di fenomeni non ancora compresi dalla scienza medica.

Oggi a quasi cinquant’anni di distanza, ben lungi da poter definire le NDE come esperienze valide da un punto di vista meramente scientifico, possiamo però dire che alcune prove raccolte oggettivamente coincidono e dunque rientrano in una casistica numerica che permette loro di meritare maggior attenzione e meno scetticismo.

Le NDE sono esperienze , certamente soggettive, ma spesso con elementi oggettivi particolari, che si ripetono a prescindere dal soggetto che le prova, sia esso un adulto piuttosto che un bambino.

Tra i primi sintomi che precedono queste esperienze (mancanza di reattività, arresto cardio respiratorio) e il successivo decadimento e morte delle cellule dell’organismo umano trascorre un certo tempo, e quello che noi definiamo “morte del soggetto” non è altro che una convenzione basata su alcuni parametri.

Intendiamo dire che non esiste un momento preciso del trapasso, in senso assoluto.

Cosa accade nella fase intermedia?

L’obiezione che questo tipo di esperienze non riguardano persone che hanno smesso di vivere, bensì che siano in uno stato di morte apparente, non è del tutto soddisfacente perché sposta i termini della questione, ma senza affrontarla.

Da un punto di vista semantico, usare la parole “morte” potrebbe essere ingannevole mentre è più opportuno invece, da un punto di vista medico, considerare queste persone come “rianimate alla vita”, e dunque si presume che la loro attività biologica fosse tale da impedire l’irreversibilità del loro status.

E’ pur vero che il concetto di “morte” per l’essere umano rientra più nella filosofia che non nella medicina. Definire esattamente il momento in cui cessa il collegamento delle funzioni vitali e la coscienza di “Se”, paradossalmente potrebbe non impedire la reversibilità dell’evento.

Il corpo fisico, nella sua globalità, muore lentamente, organo dopo organo, cellula dopo cellula e potrebbe apparire imprudente accomunare la fenomenologia di cui parliamo con il concetto ancora non troppo precisato di decesso. 

Convenzionalmente per “esperienza di premorte” si intende l’esperienza di una persona che, per episodi traumatici, tossici o patologici, abbia vissuto un arresto cardiaco temporaneo, respiratorio, dei riflessi e dunque della coscienza.

Analoghe esperienze vissute durante lo stato di coma, ad esempio, anche se particolarmente grave e irreversibile, non dovrebbero venire classificate nei fenomeni NDE, rientrando nella cosiddetta OBE (out of body experience). Si tratta di una casistica abbastanza simile, ma riguardante sia persone sane, sia soggetti clinicamente gravi, ma senza sintomi di decesso.

Possiamo considerare una terza tipologia, cioè quella di coloro i quali sono in punto di morte ma rimangono in uno stato mentale di lucidità.

In effetti, delle tre, la nostra analisi riguarda specificatamente la prima, anche se la fenomenologia non è classificabile in precisi schemi ben definiti.

Ma di quali fenomeni stiamo parlando? 

Possiamo provare ad elencare alcune sintomatologie che possono ricondurre le esperienze all’interno delle NDE

  • Consapevolezza della morte del corpo e sensazione di esistere esternamente al corpo stesso;
  • Una chiara visualizzazione, precisa e consapevole, del corpo e dell’ambiente circostante, da una prospettiva quasi sempre sopraelevata e dunque una sensazione di allontanamento dal corpo fisico.
  • La percezione di discorsi di parenti, medici, infermieri.
  • “Distorsione temporale” e/o “atemporalità”.
  • Aumento delle facoltà percettive e intellettive.
  • Visione di un “Tunnel di luce”, con associata la visione delle esperienze del proprio vissuto significativo, ed incontro con persone, decedute in vita,  in un’altra dimensione di esistenza.
  • Totale assenza di dolore fisico e un senso di grande serenità e di generale benessere, associato a contenuti con forte carica emotiva.

Eppure, non sempre le percezioni NDE sono esperienze di gioia e di serenità.  In alcuni casi sono state raccolte esperienze terrificanti, paragonate a immagini infernali. Malgrado ciò queste non sembrano essere molto ricorrenti.

La coerenza delle esperienze raccontate, a prescindere dai luoghi e dalle culture diverse, ci invita a riflettere che tale esperienza riguardano più la reattività del nostro organismo in decadimento biologico piuttosto che alla cultura e credenze alle quali facciamo riferimento.

“Effetto tunnel”, sensazione di generale benessere, percezione di una grande luce, visione panoramica del proprio vissuto, e così via, sono aspetti che sembra rafforzino l’idea che la NDE sia qualcosa elaborato dal cervello. Tali rappresentazioni potrebbero costituire il frutto di esperienze collettive, come negli archetipi Junghiani. 

La cosiddetta visione panoramica retrospettiva degli avvenimenti della propria vita (sequenza vissuta frequentemente nel corso di una NDE) secondo alcuni studiosi potrebbe essere originata sempre dal cervello, il quale, comportandosi come un computer, “salva il file, come se duplicasse la propria memoria”.

L’ipotesi che le visioni sopra descritte siano la conseguenza allucinatoria della produzione, nell’organismo umano, di particolari sostanze, è una spiegazione razionale e sicuramente condivisibile.  Alcuni ipotizzano inoltre che le esperienze siano conseguenza di una sorta di sconvolgimento psicofisico che si attiva durante la rianimazione, e dunque non della condizione di apparente decesso, ma successivamente a questa condizione.

In generale, si ritiene che le percezioni dell’individuo, clinicamente in condizioni di morte (apparente?), siano elaborate dal cervello in modo da creare delle immagini artificiali, che possano anche riprodurre fedelmente l’ambiente , tuttavia questa opzione ci sembra un po’ forzata. Inoltre, essendo forse l’udito l’ultima forma di percezione durante un processo degenerativo, si ipotizza che le descrizioni di esperienze di premorte siano semplicemente il frutto di associazioni ed elaborazioni di sensazioni uditive derivanti dagli effetti dell’aumento dell’anidride carbonica nel sangue, molto simili alle allucinazioni originate da morfina e droghe varie e dall’ipotesi degli spasmi dei lobi cerebrali, fino alla produzione di ormoni endogeni.

Eppure, ci sono casi in cui persone non dotate della vista, hanno saputo descrivere luoghi e ambienti che non avrebbero mai potuto vedere. In tali casi,  nessuna teoria si rivela esauriente nello spiegare come una persona possa “vedere” senza l’ausilio dei propri sensi, e addirittura da prospettive assolutamente non coincidenti con quella osservabile dalla posizione del proprio corpo.

Ogni tentativo di ricondurre il tutto ad una sorta di spiegazione razionale, sembra essere rimesso in discussione dalle esperienze di NDE raccontate dai bambini i quali , pur essendo privi delle costruzioni mentali degli adulti e non avendo quindi ben chiari i concetti di vita, morte e aldilà, stranamente riferiscono esperienze simili e analoghe a quelle degli adulti, e questo sin dalla più tenera età. Considerando che la percezione della morte nei bambini dovrebbe essere diversa, tutto ciò risulta molto strano. 

Ecco allora che le varie teorie appaiono tutte come supposizioni assolutamente insufficienti, perché è altamente improbabile che “riproduzioni virtuali” possano essere dei meccanismi di difesa e delle proiezioni di fantasie che un cervello adulto metterebbe in atto per preservare la propria incolumità.

In qualsiasi caso, il quadro generale  è comunque molto complesso e ancora lontano dall’essere spiegato in modo esaustivo.





La carne – Cristò

Un libro ben scelto ti salva da qualsiasi cosa. 

Persino da te stesso”

Illustrazione di Anna La Tati Cervetto

Rubrica a cura di Sara Balzotti_

La carne – Cristò

Casa editrice: Neo edizioni

Data di pubblicazione: 19 novembre 2020

Genere: Narrativa


Detto fra noi: che cos’è uno zombi?

Nel mondo, com’era quando il protagonista aveva otto anni, la vita scorreva tranquillamente finché… amici, parenti, estranei iniziarono a svegliarsi nella notte per scrivere frasi strane, incitamenti sovversivi e di denuncia e ad avere sempre più spesso visioni correlate ad Averroè: una folla di persone che si divide in due per far passare un cavaliere che sorregge una persona morta con un braccio e nell’altro tiene una pila di libri.

Queste persone diventano gradualmente entità che non sono più vive ma nemmeno morte.

La società si arresta e da settantadue anni niente è più cambiato. Le TV sono rimaste quelle vecchie, le trasmissioni e i film sono sempre gli stessi; le persone assistono a queste progressive mutazioni chiedendosi se e quando arriverà il proprio turno. 

Come sono vissute le relazioni fra umani? Le famiglie come vivono la perdita dei propri cari? Soprattutto, come viene vissuto il rapporto con gli Zombi?

Gli affetti possono ancora essere coltivati di fronte all’eterna sensazione di incertezza?

Il protagonista è un anziano ottantenne che è stato segnato in prima persona da queste entità a cavallo fra la vita e la morte; questi racconta il nuovo equilibrio sociale che si è creato, dove le debolezze umane spesso prevalgono di fronte all’alienazione degli Zombi.

Il punto di vista dell’anziano narratore è lucido nel racconto e riconosce le implicazioni legate alla vecchiaia; questi riesce ad essere indipendente fisicamente e mentalmente nonostante gli impedimenti fisici e psicologici che la sua storia personale gli ha lasciato. 

Nell’ambito di una società che sta andando alla deriva, un medico, Tancredi, impegna tutto se stesso nella ricerca delle cause del disastro sociale al fine di trovare una cura che possa interrompere le mutazioni. Tancredi, ci riuscirà?

L’umanità ha qualche speranza di riprendersi?

I colpi di scena sono assicurati!!

“La carne” mette in discussione la nostra società così dinamica e in continua evoluzione ma forse solo all’apparenza. L’abbattimento e l’appiattimento intellettuale sono soltanto un presentimento dei più pessimisti o c’è un fondo di verità… 

L’apatia verso certe dinamiche di discriminazione e di sottomissione sociale sono soltanto contestazioni perpetuate da complottisti esaltati?

Alla fine non stiamo diventando Zombi… forse!


Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!

A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.

https://www.francesia.it/freetime/consigli-di-lettura/




Fallo di reazione.

Sophie Jodoin_Study for headgames

di Christian Lezzi_

Nello sport (soprattutto di squadra e di contatto, calcio in primis) si definisce così, quell’atto scorretto e spesso violento, sicuramente posto fuori dal regolamento vigente, mosso in risposta al torto ricevuto. Una violenza che risponde alla violenza, una scorrettezza che ne paga un’altra, un momento d’impazienza e di frustrazione che reagisce ai gesti o alle offese ricevuti.

Mi offendi? Ti ingiurio! Mi tiri un calcio? Ti restituisco un pugno! 

Banale e ancestrale, istintivo e animale, codificato perfino dai sacri versi dell’occhio per occhio e dalle leggi sulla legittima difesa (che ne regolando anche un suo eventuale eccesso colposo). 

È indiscutibile che, una violenza, sia sempre da condannare con forza e decisione, chiunque l’abbia agita, qualunque sia stata la causa scatenante. Perché il ricorso alla violenza, sia essa fisica o verbale, è la fine del dialogo, della civile coesistenza e dell’urbano convivere. Rompe la fiducia interpersonale, tirando fuori il peggio di noi. 

Un atto bestiale quindi, etologicamente parlando, da condannare tout court, senz’appello alcuno, a prescindere dalle situazioni, condizioni e contesti a margine. Fatta salva forse l’esasperazione che, se proprio non giustifica, per lo meno riesce a rendere più comprendibile l’atto di risposta.

Attenzione! Spiega, ma non giustifica.

La violenza, anche quando è conseguenza inevitabile di gravi mancanze, operate nei nostri confronti, è sempre e comunque un atto da stigmatizzare e punire. Se le dispute si potessero risolvere a suon di pugni, vivremmo ancora sugli alberi, ma siamo esseri umani (comunque animali), seppur dotati di parola e intelletto, intrisi di impulsi e paure, tic e fobie, ambizioni e frustrazioni, emozioni e (neanche a dirlo) reazioni, convogliate da pulsioni spesso ataviche e inspiegabili, anche a noi stessi, data la natura istintiva di ogni reazione brutale.

Per sbagliato che sia, resta impensabile che un atto lesivo, ricorrente e continuato nel tempo, presto o tardi, non finisca per scaturire una reazione contraria, determinata dal momentaneo crollo nervoso ed emotivo, quando la rabbia acceca e impedisce il controllo ragionato. È nella natura delle cose, fa parte del funzionamento degli esseri emotivi che pensano (quali tutti noi siamo), incapaci di gestire in toto quelle emozioni, quando snervati e stressati oltre ogni umana sopportazione.

Ed è proprio l’atto lesivo ripetuto, stante la condanna alla reazione, quello da crocifiggere, rappresentando la mano che arma la proverbiale pistola, una mancanza di rispetto e una grave carenza attitudinale all’umana interazione sociale.

Una mancanza di rispetto! Eccolo il nodo gordiano nel ragionamento.

La violenza è sempre sbagliata, per quanto la reazione, atta a contrastarla o a contenerla, a volte sia legittima (è infatti prevista come tale dal codice penale) e altre sia sproporzionata (eccesso colposo). Ma ciò che troppo spesso estromettiamo dal ragionamento, è il rispetto per l’altro, che nell’azione lesiva ripetuta e continua, quasi sistematica, viene omesso, negato, stravolto e calpestato. Come calpestata è la pazienza di colui che, quella mancanza di rispetto, sopporta e subisce, finché la misura è colma e scocca la proverbiale scintilla.

Come una goccia che a poco a poco, scava la roccia. Anche a quella roccia salterebbero i nervi, se solo li avesse.

Una questione di rispetto. Forse aveva ragione Bukowski quando, probabilmente stanco dei rimproveri e degli appunti mossi al suo atteggiamento, senza che venisse contestualmente analizzata la causa scatenante la reazione, scriveva: “La manipolazione è quando ti rimproverano per la tua reazione alla loro mancanza di rispetto”. Una citazione che, seppur leggermente fuori contesto, ci è utile a chiarire il concetto.

Certo, la violenza è sempre sbagliata (e tre!), anche quando è una risposta snervata a quella subita, seppur solo verbale o di atteggiamento, perché siamo esseri fallibili, soggetti alla neurochimica del nostro cervello e alla cultura ambientale che c’impone un codice comportamentale. E abbiamo una pazienza, tutt’altro che illimitata e, al pari nostro, umanamente fallibile.

Per questo prevenire è meglio che curare, laddove la prevenzione assume le sembianze di un comportamento rispettoso dell’altro e delle sue istanze, spesso legittime e motivate.

Forse è proprio nella prevenzione, nel buon gesto a prescindere, la quadratura del cerchio, se solo fossimo disposti a sostituire la fallace astrazione della legittima difesa (anche e soprattutto nel caso del suo eccesso colposo), con una più moderna e inclusiva, oltreché concreta, idea di legittimo rispetto preventivo, potenzialmente più capace di edificare un’agognata, nuova e migliore, società civile.


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.

Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




Il silenzio delle labbra cucite non è silenzio.


La cultura del “pensiero correttissimo” che dilaga ormai negli Stati Uniti e che rende i campus luoghi di censura e ipersensibilità, è stata riportata in primo piano dall’incidente di percorso della Commissione Europea alla Parità che, attraverso il documento “Linee guida per la comunicazione inclusiva” ha in qualche modo squalificato, a causa di una mancanza di buon senso e una certa approssimazione culturale, contenuti che ovviamente meritano la massima attenzione.

Cosa c’è nel documento?

Nelle 32 pagine di Linee guida, si affrontano i temi considerati più sensibili: c’è una parte relativa al linguaggio di genere, in cui si invita a preferire espressioni più neutre. Ad esempio, a meno di una preferenza esplicitata già dalla persona a cui ci si rivolge, evitare di usare “Miss o Mrs” e preferire “Dear colleagues”, “cari colleghi”, che in inglese non ha genere. Anche nel caso della disabilità i suggerimenti vanno nella direzione di non identificare la persona con la sua menomazione: non parlare di “disabili” ma di “persone con disabilità”. Allo stesso modo, per la diversità di culto : “Quando comunichiamo, potremmo inconsciamente ricadere nell’uso delle forme apprese nel linguaggio– si legge nel testo. Invece di seguire stereotipi dannosi, dobbiamo sforzarci e aprirci a un atteggiamento espansivo di connessione. Qualsiasi lingua che esprima intolleranza o giudizio verso un gruppo religioso, alimenta stereotipi”. 

Per la Commissione bisogna dunque “considerare la diversità di culture, stili di vita, religioni” in tutti i contesti realizzando una comunicazione che tenga conto dei diversi tipi di celebrazioni e rituali popolari in diverse parti dell’UE.

Come in tutti i capitoli, anche in quello relativo alla diversità religiosa vengono forniti suggerimenti: “Evitate di pensare che tutti siano cristiani. Non tutti celebrano le feste cristiane, siate sensibili al fatto che le persone seguono diverse religioni e calendari”. E ancora: “Negli esempi e nelle storie non usate nomi che siano tipici di un’unica religione”. Nelle raccomandazioni fornite viene suggerito di cambiare la frase “le feste di Natale possono essere stressanti” con “il periodo delle feste può essere stressante“. E così via..

L’Europa, e lo dicono i numeri, è sempre più culturalmente e demograficamente complessa. 450 milioni di abitanti, di cui 25 milioni sono cittadini di paesi extraeuropei e 4 milioni nati al di fuori dai confini dell’Unione stessa.

Una complessità culturale che la sta esponendo ai venti della “Woke Culture”.

Woke è sinonimo di “vigile allerta” nella lotta contro le “ingiustizie della maggioritaria e prepotente cultura dei maschi bianchi”, che penalizza gli afroamericani, le donne, le identità sessuali diverse da quelle biologiche e così via.

Negli ultimi due anni la Woke Culture è sbarcata in Gran Bretagna e in Francia, e da li sta prendendo piede un po’ ovunque.

In un contesto già indebolito dalla Brexit e dai sovranismi reazionari di alcuni paesi dell’est europeo, la Comunità Europea e gli stati membri dovranno fare appello alle migliori risorse culturali e politiche per contrastare un fenomeno che si presenta come l’inizio di un nuovo squadrismo culturale che rischia di diventare pericoloso.

Perché è pericolosa? Innanzi tutto perché tutti possono essere sottoposti ad una sorta di giudizio degli attivisti del movimento, che possono accusare una persona di discriminazione razziale, sociale e sessuale, partendo da pubblicazioni o libri, ma anche più semplicemente da mail, battute, o discussioni che avvengono anche durante incontri privati.

Una forma di sottile delazione in pratica.

La Woke Culture è una forma di censura morale e pubblica nei confronti di soggetti ritenuti colpevoli di idee e comportamenti disallineati da valori considerati progressisti e, in generale, politicamente corretti.

Una forma di censura che arriva a vietare in alcuni casi anche di poter esprimere pubblicamente idee non conformi alla pubblica opinione, non allineati al pensare comune, delegittimando coloro i quali non la pensano in maniera conforme alla massa, anche in maniera dialetticamente violenta, sui social o sui media tradizionali.

Nei casi più estremi gli ideologi della woke culture affermano l’inutilità della lettura di testi di autori non conformi ai canoni woke – è in questi casi è inevitabile il rimando alle lugubri immagini dei roghi dove i nazisti bruciavano i libri e i quadri di autori considerati decadenti e non conformi alle parole d’ordine della nuova Germania del Terzo Reich.

Una matrice comune, dunque, che ricorda quanto avvenuto agli albori delle ideologie totalitarie del secolo scorso è che si basa esattamente su questo: il rifiuto del dialogo e del confronto. 

La mancanza di un confronto con la diversità e la creatività nelle sue molteplici forme di espressione è la strada che ci conduce contro chi è diverso da noi, nei tempi, nei gusti, nelle passioni, e in generale nella cultura.

L’identità culturale, pur non essendo un dogma intangibile, è il punto di partenza per aprirsi comunque ad un confronto, e rimane il primo mattone per costruire il destino comune di una società che voglia proiettarsi nel futuro

Si tratta di un tema cruciale che invitiamo ad approfondire, perché le società umane stanno cambiando molto e molto velocemente, ad una velocità che non si era mai vista prima nella storia.

[Redazione Fuori] 





Quando le informazioni mancano, le voci crescono.

di Valentina Serafin 

La credibilità delle fonti che forniscono informazioni e la qualità dei contenuti stessi, in un modello di società come la nostra, immersa totalmente in una comunicazione disordinata e non sempre verificabile, è ancor più messa in discussione da una sterminata disponibilità di strumenti comunicativi e una quasi totale mancanza di forme di intermediazione.

Lo sviluppo di idee che si trasformano in decisioni e poi successivamente in azioni, non può prescindere dalla disponibilità di informazioni corrette e verificate.

Le informazioni devono necessariamente essere disponibili in forma comprensibile, nel modo più chiaro possibile, senza distorsioni e in forma tale da poterne verificare l’attendibilità.

E’ ormai un mondo diverso: la produzione e la condivisione delle informazioni si è praticamente ridotta in tempo reale. Il modo di comunicare è totalmente cambiato, il tono, la forma del linguaggio, la grafia stessa e alcune parole hanno totalmente perso o cambiato significato.

E’ innegabile che siamo di fronte ad una vera e propria rivoluzione culturale, linguistica e comportamentale. Siamo noi stessi gli artefici e allo stesso tempo i destinatari.

La cultura, ad esempio, una volta era destinata ad ambienti circoscritti, così come il mondo della ricerca, di cui oggi si parla in particolare, e dunque anche molti altri settori, oggi, sono chiamati loro malgrado a confrontarsi con una platea sterminata di commentatori ed “esperti” , che possono sostenere teorie non supportate da dati scientifici, e renderle immediatamente pubbliche, trovando anche , ma non solo, attraverso i nuovi media ampia risonanza, consenso e seguito.

Naturalmente non è solo storia recente: attraverso una comunicazione distorta per uso strumentale sono nate, cresciute e prosperate ideologie che hanno fatto la drammatica storia del mondo.

Ma oggi è ancora più semplice indirizzare comportamenti e decisioni su argomenti anche molto delicati, pensiamo alla alimentazione, la salute, con il rischio di conseguenze drammatiche.

Il dissenso critico va sempre dimostrato e verificato, applicando il metodo scientifico, e non ricorrendo ad una narrazione accattivante e persuasiva, ma priva di dati.

Quando accade questo, il pifferaio magico è in grado di incantare il seguito di topini, farli entrare in un mondo di teorie, supposizioni, quanto meno discutibili, e farsi seguire verso destinazioni pericolose e rischiose per loro e la comunità che intendono rappresentare.

La responsabilità della comunicazione condivisa, la competenza per poterne parlare, dovrebbero sempre essere il punto di partenza senza le quali non è nemmeno il caso di mettersi in cammino.

Una buona ed efficace comunicazione, capace di sapersi muovere con strumenti e contenuti credibili,  e all’interno di un campo di competenza riconosciuto e riconoscibile, favorisce la crescita di cittadini consapevoli ed informati, e permette loro di comprendere la complessità che caratterizza la nostra Società attuale, esercitando anche una importantissima funzione formativa.

Non stiamo parlando di semplificare concetti e dati che per loro natura devono essere inseriti in griglie complesse ed interpretabili da professionisti del campo, ma saper fornire strumenti idonei per interpretare una mole di informazioni affinchè l’affollamento informativo, amplificato dai vari media, non si trasformi in un incomprensibile rumore di fondo che non aiuta ad orientarsi.

Strumenti capaci di unire e integrare culture e «mondi» diversi, capaci di intrigare e interessare i «nativi» e i «tardivi» digitali. 

Perché per tutti l’accesso alle conoscenze, alle informazioni, al riscontro delle fonti sono strumenti necessari per sviluppare la comprensione critica dei dati e l’usabilità degli stessi. 


Valentina Serafin collabora con PIUATHENA ed ha una esperienza pluriennale come Presentatrice, Conduttrice TV e Speaker radiofonica, acquisita collaborando con le più importanti realtà del settore.




L’amore quando c’era – Chiara Gamberale

Un libro ben scelto ti salva da qualsiasi cosa. 

Persino da te stesso”

Illustrazione di Anna La Tati Cervetto
Rubrica a cura di Sara Balzotti_

Casa editrice: Mondadori 

Data di pubblicazione: 05 maggio 2020

Genere: narrativa 


L ‘amore quando c’era racconta momenti di vita di coppia che in un modo o nell’altro abbiamo vissuto tutti, dietro ai quali si nascondono dinamiche legate ad un rapporto con noi stessi non del tutto risolto o a traumi ancora sanguinanti.

Amanda è single e non riesce a instaurare rapporti di coppia duraturi; qualcosa la rende inquieta e non riesce a darsi le giuste risposte.

Un giorno la donna propone un tema sulla felicità ai suoi alunni; i lavori che le vengono restituiti le fanno scattare qualcosa che la obbligano a guardarsi dentro alla ricerca di quello che non riesce a farla stare bene.

Almeno una volta è successo a tutti noi; nei momenti in cui ci sentiamo fragili, e un pò soli, ci guardiamo indietro alla ricerca della persona che abbiamo amato e con la quale non abbiamo più rapporti. 

Dopo tanti anni impulsivamente Amanda decide di mandare una mail al suo ex fidanzato, Tommaso, con il quale aveva vissuto una storia d’amore molto intensa ma che aveva lasciato all’improvviso, senza motivazioni evidenti.

Amanda gli scrive per inviargli le sue condoglianze per la perdita del padre.

Inizia così uno scambio di corrispondenza virtuale, all’inizio dai toni formali dove l’uomo apprezza il pensiero della ex e pone la conversazione su un tono distaccato.

Entrambi si ricordano l’affetto provato reciprocamente; Amanda è cosciente del dolore causato a Tommaso quando lo lasciò improvvisamente.

Tommaso è sposato e ha due bambini: una vita all’apparenza perfetta.

È proprio l’affetto che li ha legati a far aumentare la confidenza delle conversazioni; il mezzo informatico, senza contatto umano, rende più semplice lasciarsi andare a confidenze, momenti di riflessione e ricordi di una passione vissuta.

Piano piano la vita familiare e coniugale di Tommaso non si presenta più così soddisfacente e completa.

Perché i figli mettono così in difficoltà i coniugi?

I due protagonisti resisteranno alla tentazione di rivedersi?

Armanda riuscirà a trovare la sua serenità?

I temi affrontati Chiara Gamberale non sono nuovi e risultano già dibattuti sotto tanti punti di vista; leggerli fa sempre comunque riflettere e ci fa buttare un occhio sullo stato della nostra quotidianità…!


Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!

A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.

https://www.francesia.it/freetime/consigli-di-lettura/




Sublima le tue imperfezioni.

di Valeria Frascatore_

Di norma i tasti sono complessivamente ottantotto: cinquantadue bianchi e trentasei neri.

Alt, non è un indovinello! Perché ne sarebbe troppo scontata la soluzione.

Il pensiero corre alla gamma di combinazioni musicalmente possibili e alla nostra vita, il cui ritmo viene scandito dalle dita che si muovono, abili, sulla tastiera, in una mirabile alternanza di contrasti e conflittualità di opposti in grado,però, di realizzare un’idea di convivenza armonica tra quei tasti bianchi e neri.

Un tremito sottile scuote il corpo e l’anima mentre, rapiti, sperimentiamo la strabiliante familiarità delle vibrazioni del suono realizzando che ci rianima e ci consola:qualche volta induce perfino a iniziare a canticchiare il motivo accennato dallo strumento. Succede a tutti e non si richiede affatto di dar prova della perfetta intonazione per partecipare a una forma di esibizione corale.

La melodia ci fa sentire vivi, vivi nel presente…nel qui e ora.

Pure la vita va vissuta così: ricordando sempre che ci sono momenti in cui il mondo deve rimanere ad attenderci fuori. Non importa se per un minuto o per un’ora.

E noi dobbiamo favorire questo salvifico isolamento senza sviluppare sensi di colpa, affinché ogni angolo della nostra mente possa essere permeato da energia: quella che ciascuno di noi è perfettamente in grado di irradiare mentre, con un’inconfondibile – a tratti goffa – presenza, cerca di farsi strada nel mondo.

Possiamo limitarci ad ascoltare un’armonia che si sviluppa attraverso l’alternanza del bianco e del nero, oppure scegliere di comporla e suonarla in prima persona, decidendo dove condurrà noi e il nostro pubblico.

Non è una valutazione agevole e, spesso, passa attraverso il dubbio, il pianto e l’incapacità di frenare i contristati sussulti di un cuore frastornato che,però, trova sempre il modo di tornare a palpitare quando la musica è nuova, intensa e struggente.

Una vita veramente libera è innanzitutto una vita responsabile e alla conquista di sé stessi , di uno spazio in cui la coscienza delle proprie, infinite potenzialità espressive si identifica con l’affermazione incondizionata dell’IO che, senza alcuna pretesa di egotismo, emerge dall’ombra del qualunquismo e dell’ovvietà e, appunto, vive.

L’uomo è libero quando trova l’incastro giusto rispetto al puzzle dell’esistenza: quello che si sceglie da solo, non quello che altri vorrebbero scegliere per lui.

La libertà non è preda di facili seduzioni, rifugge dalle convenzioni, dagli standard e dai luoghi comuni ma il motivo non risiede in una diversità che ha del mostruoso o del ridicolo: in fondo, è un privilegio essere dotati di un patrimonio spirituale attraverso il quale poter sancire il proprio distacco da un mondo manovrato a dovere dalla logica della privazione, dello stantio e del nulla più assoluto.

Il pericolo vero,tutt’al più, è subire una coazione, diretta e indiretta, della propria volontà: essere pilotati come marionette, da chi, facendo leva sulla disistima di sè e sulla sfiducia nelle proprie capacità, dimostra di non arrendersi all’idea che si possa vivere affrancati e non omologati.

Al contrario, chi si affranca, si salva sempre e necessita di un rigeneramento emozionale continuo per non perdere di vista il bisogno, quasi ancestrale, di stabilità che dovrebbe rappresentare l’ideale traguardo dell’esistenza.

E quell’angosciosa inquietudine che, irrimediabilmente, ci assale astraendoci dall’anonimo cortometraggio di una realtà in cui, senza accorgercene, stiamo vegetando  – e non vivendo – va coltivata, perché ci sta avvertendo che la musica è cambiata e noi non la stiamo ascoltando.

Se, dall’esterno, sopraggiunge un tocco indulgente sui tasti bianchi e neri, consente di non farci smarrire il senso della melodia e di non rinunciare alla musicalità che accompagnano i singoli vissuti, ma alla fine tocca a noi dover gestire le energie, gli obiettivi, l’ardita ripidezza di alcune scale musicali.

Insomma, bisogna essere disposti a salire su una montagna russa con la consapevolezza che ne scenderemo completamente – ma positivamente – stravolti.

Come quei pianisti, un po’ invasati,che accompagnano l’esecuzione dei loro brani con movenze smodate:veri e propri spasmi, che sembrano interessare tutto il corpo e non solo le dita delle mani.

A prima vista sembrano pazzi: in realtà, sono i veri vincenti…quelli che,della vita, hanno capito tutto.

Il pianoforte ha una precisa collocazione rispetto all’ambiente in cui la sua musica risuonerà:dobbiamo imparare a pensare a noi allo stesso modo.

Perciò, è auspicabile che il pianto duri solo il tempo di un concerto per lasciare il posto, nel domani, a un sorriso pieno, schietto e disimpegnato che si vada a disegnare, lieve lieve, sul volto:sarà il sorriso di chi, grazie al suono di una melodia finalmente riconoscibile, avrà imparato a esercitare e a far valere il proprio diritto a vivere da persona libera.


Valeria Frascatore_

Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.