Maddalena

In un recente articolo del nostro magazine (“Poco da gasarsi”, di Marina Ruberto) abbiamo evidenziato – ammettiamolo, anche molto a malincuore – una certa evidente e generale povertà di contenuti nella proposta musicale giovanile italiana.

Subito dopo la pubblicazione, però, abbiamo scoperto per caso Maddalena e potremmo ricrederci…così l’abbiamo raggiunta per un’intervista.

Ciao Maddalena, innanzitutto complimenti: ci è capitato di vedere/ascoltare il video della tua canzone “Anxiety is A Modern Cliché” e, dal punto di vista musicale, è davvero un bel brano. Piace al primo ascolto, Il refrain ti entra subito in testa. Anche il video è molto ben confezionato, dalle atmosfere raffinate e coerenti con il testo della canzone, a partire dal titolo. Titolo che ovviamente, ci incuriosisce non poco, soprattutto tenendo conto del fatto che hai solo vent’anni o poco più.

“Anxiety is a Modern Cliché” di Maddalena – video ufficiale

Grazie, partiamo dal video: mi fa particolarmente piacere il fatto che lo abbiate apprezzato. Per me è fondamentale associare le immagini alla musica e viceversa. Le diverse espressioni artistiche devono poter comunicare tra loro…e per me sarà così certamente anche in futuro. Il video è artigianale, realizzato da un gruppo di amici – tutti giovani – con un budget davvero irrisorio. Ma ci abbiamo messo tanto entusiasmo e, soprattutto di questi tempi, è stato davvero bello lavorare e interagire con altre persone.

Ribadisco i complimenti, alla luce di quanto mi dici, ancor più convinti: il risultato è di ottimo livello. Non sembra affatto un prodotto “amatoriale”..

Con la passione, il prodotto amatoriale può riuscire più d’impatto rispetto agli standard professionali, talora freddini. Come la torta della nonna, spesso più buona di quella della pasticceria…

Vent’anni… di che tipo di ansia ci parli, ci racconti, anzi, ci canti? Quella “classica” degli ex adolescenti che si affacciano alla vita e non sanno ancora cosa faranno da grandi, quella legata alla paura di perdere la magia della culla “…tranquillo, siam qui noi” (per citare “gli anni” degli 883)? O c’è qualcos’altro che noi, ben al di fuori della tua generazione, non riusciamo proprio a percepire?

Riguardo l’ansia…senz’altro esiste una componente individuale, che è specifica per ciascuno di noi, e attiene all’intimo vissuto di ogni individuo; e di questa ovviamente e per pudore e rispetto, non mi sognerei mai di parlare; ma certamente esiste anche un’ansia generazionale…di quella sì che si può parlare, quella si può e si deve affrontare; e vorrei condividere questo sforzo con gli altri, per tentare di superarla. Riconoscendola, riconoscendoci e comunicando tra noi, grazie anche a linguaggi, segni e comportamenti comuni. E anche con le canzoni.   

L’ansia della mia generazione, la generazione “Z”, è connotata dalla solitudine e dal rapporto quasi esclusivo, alienante con gli schermi degli smartphones e dei pc. Personalmente mi reputo fortunata, credo di essere una persona socievole, ma ho sentito la necessità di aprire uno spazio di condivisione anonima sul mio profilo instagram proprio per poter far esprimere” liberamente delle proprie ansie chi ne ha bisogno, e non ne riesce a parlare vis-a-vis con nessuno.. E stanno uscendo delle cose pazzesche. Per molti è liberatorio. Li capisco, anche se per me la terapia migliore rimane comunque la musica. E la condivisione.

Però…però, la frase del tuo brano “i miei amici prendono i miei pensieri e li trasformano in problemi seri” è una frase rivelatrice: dal punto di vista di una ventenne, l’ansia della quale parli è allora in gran parte autoprodotta, ingigantita? Riuscite quindi a prendere le misure alle vostre paure, rapportandole alla vostra generazione? Oppure già vi state facendo carico di tutti i problemi del mondo, passati presenti e futuri, avendo già realizzato che le generazioni a voi precedenti hanno semplicemente aggravato i problemi invece di risolverli? E che quindi ve la dovrete cavare da soli?

Beh, sì, effettivamente in ognuno di noi c’è uno spazio di rispetto che non dovrebbe, ma – spesso per affetto – viene invaso; a me capita proprio con gli amici che, abituati al mio carattere estroverso, mi esortano a tirar fuori anche quello che proprio non esiste. In questo senso sì, talvolta si esagera un po’…ma sempre meglio così che non comunicare/condividere affatto.

L’immagine – anche visiva – che proponi, di indubbia classe, è lontana anni luce da quella mainstream: non si ritrovano le minime tracce di aggressività, ma la tua sicurezza emerge forse ancor di più, proprio perché non sembri aver timore di rendere pubbliche le tue fragilità. E i tuoi vezzi: di sicuro ti piacciono anelli ed orecchini, molto presenti nel video. Li hai disegnati tu?

Sono molto contenta che tu l’abbia notato. Se ti riferisci ad un certo rap, alla trap, pur nel rispetto di ogni tipo di espressione artistica, davvero mi sento molto lontana da quei linguaggi. Siamo bombardati da contenuti aggressivi che forse non ci fanno male, ma certamente non ci elevano. Si può affrontare tutto con una giusta dose di leggerezza. Ed ironia. Qualcuno mi ha detto: “figo, tu “poppizzi” l’ansia” (geniale! ndr). Ecco, davvero si può parlare di tutto, ma la volgarità e la violenza no, non le voglio accogliere nei miei testi e nella mia modalità di scrittura.

Riguardo invece i monili, mi sono presentata nel video esattamente come sono nella realtà: vestiti semplici e anelli, bracciali, orecchini—-sono creazioni che mi piacciono molto, disegnate da altri miei amici e per questo li indosso ancor più volentieri.

Dei contenuti di indubbio spessore ne abbiamo già parlato e una sola canzone certamente non basta a delineare un’artista, ma ti senti già una cantautrice? Abbiamo letto da qualche parte che ti piace Rino Gaetano…

Rino? Lo amo follemente. Sono cresciuta a pane e cantautori italiani. Anche perché l’italiano è la lingua più bella del mondo e sono orgogliosa delle mie radici. Pur se canto anche in inglese…

Appunto l’inglese: tornando alla tua canzone, non saprei dirti il perché, ma il sound mi riporta al brit-pop primi ’80. O forse ancor più a Battiato, con gli incisi in inglese. E per l’indubbia l’ironia che si coglie tra i solchi. C’è anche lui tra i tuoi artisti di riferimento? E chi ti piace, tra colleghe e i colleghi? Con chi divideresti volentieri il palco?

Si. Battiato è per me il Maestro (con la M maiuscola). Ha portato l’elettronica in Italia, e ha avuto il coraggio di proporre qualcosa di diverso, ma in maniera autentica e originale. E’ proprio lui l’esempio perfetto di come si possa essere autenticamente originali. E non paraculi. Tra i contemporanei, il sogno inconfessabile e irraggiungibile, anzi già confessato, è Billie Eilish; tra quelli pseudorealizzabili: risposta secca, c’è Asaf Avidan, un artista israeliano.. penso che le nostre voci possano davvero “matchare” molto bene e penso proprio di martellarlo di mail fino all’esasperazione, allo sfinimento, per poter realizzare qualcosa insieme.

Ammettiamo di non conoscerlo affatto ma rimediamo immediatamente: qui il link alla sua splendida “One Day”, e qui la prossima sua data all’Auditorium PdM.

Maddalena, in attesa di condividere il palco con Asaf, cosa pensi di fare per promuovere maggiormente la tua canzone, in attesa che finisca il prima possibile questo orrendo periodo di pandemia? Hai un canale Youtube, utilizzi i social?  

Non ti nascondo che è non è facile!…un passo alla volta; siamo solo all’inizio di un percorso. Molta rassegna stampa, (e grazie a Valentina, la mia agente); c’è la distribuzione Universal…d’altra parte bisogna aver pazienza: il video è appena uscito, e, più che dai social, inaspettatamente sto ottenendo delle belle soddisfazioni dalle radio. Sono molto contenta, il mondo della radio mi piace moltissimo.

Per finire, cosa bolle in pentola? Stai già scrivendo altre canzoni?

Si, sto scrivendo nuove canzoni, naturalmente un singolo per volta – non è più tempo di album – Naturalmente, vi terrò aggiornati.

Grazie Maddalena, ci contiamo davvero!

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La natura del futuro

(Un racconto di Federico Fossi)

Appena la vidi, attraverso la finestra di vetro rettangolare che separava il corridoio dalla sua stanza, rimasi impietrito. La prima cosa che mi colpì furono i suoi occhi bravi, due stagni frizzanti di colore verde oliva.

Il naso esemplare, la bocca socchiusa in un sorriso ingegnoso, si dimenava sulla grande poltrona di stoffa chiara, segno che i pensieri spinosi avevano ceduto il passo al gioco. Non si accorse di me.

Mentre due rigagnoli di lacrime silenziose cominciavano a scivolare sul mio volto mi resi conto dell’estensione delle sue gambe, delle sue braccia, delicate e vibranti come giovani rami, elastici e armoniosi. I capelli, corti, si scomponevano e ricomponevano delicatamente in uno sfavillio biondo intenso del color del miele. Non avrei mai potuto vedere creatura più straordinaria di lei.

Non potevo conoscere con precisione la sua età, ma mi resi istantaneamente conto che erano troppi gli anni passati lontano da lei, almeno cinque, forse sei. Questa poteva essere la sua età.

Non posso dirti quanto tempo sono rimasto a contemplare quell’incanto smisurato. Ricordo solo che ad un tratto, quasi come per riprendere fiato, ho voltato il capo alla mia sinistra. Il dottor Alfa, che fino a quell’istante si era tenuto rispettosamente in disparte mi fece un cenno di comprensione con il capo e mi invitò a seguirlo nel suo ufficio. Mi incamminai stentatamente dietro di lui continuando a guardare verso la finestra rettangolare, sempre più piccola.

Non è facile spiegarti come mi sentivo in quel momento, era come se tutte le cellule del mio corpo stessero reclamando un diritto, quello del legame più forte, il diritto della natura. Il dottor Alfa mi fece accomodare e, dopo aver avvicinato la sua poltrona alla mia, si sedette a sua volta davanti a me.

“Come si sente?” mi domandò con tono rassicurante.

Non sapevo cosa dire, forse non avevo voglia di parlare con lui. Era un estraneo. Dopo qualche istante di pausa mi feci forza, deglutii a fatica, e cosciente del fatto che quell’uomo era lì per aiutarmi risposi: “… mi sento… è il giorno più importante della mia vita, cosa devo fare dottore?”

“ecco – mi porse un foglio di carta – riempia questo modulo adesso”

Burocrazia. Pensavo che da queste parti ne se fossero ormai liberati. Riempii il modulo con i dettagli personali richiesti, la data, e lo firmai. Era una semplice registrazione della mia visita, mi spiegò il dottor Alfa. “si, si… certo, capisco” risposi consegnando il modulo. In quel momento mi accorsi che ero nervoso e che anche io adesso, proprio come Lei, non riuscivo a stare fermo con le gambe, le mani, le braccia, i piedi, gli occhi.

“Posso offrirle un bicchiere d’acqua?”

“Grazie, si… si, grazie mille” risposi. Mentre bevevo il dottore si accomodò davanti al suo computer e digitò qualcosa sulla tastiera. Poi si alzò e tornò a sedersi davanti a me. “Si sente pronto per entrare?” mi domandò. 

“Sono pronto, andiamo.” dissi.

Seguii nuovamente il dottore nella semioscurità del corridoio. Non feci neanche in tempo a posare nuovamente gli occhi su di Lei che il dottor Alfa aveva già aperto la porta “prego, torno a prenderla fra venti minuti, vedrà che andrà tutto bene”, mi sorrise.

Entrai, sentii la porta che delicatamente veniva chiusa dietro di me. La bimba si irrigidì e mi guardò dritta negli occhi.

“Ciao piccola mia…”

“… sono… babbo”.

Alla Clinica 8, sulle alture di Bergmann, era possibile incontrare chi viveva in una dimensione alternativa.

Lei era mia figlia. Non era mai nata, ma era viva davanti a me. Ora.

(illustrazione dell’Autore)

Federico Fossi

(Sono nato a Roma nel 1969. Appena in tempo per vedere lo sbarco sulla Luna e Woodstock. Lavoro nella comunicazione per un’Agenzia delle Nazioni Unite e nel tempo libero mi piace disegnare, dipingere, e a volte anche scrivere)




Renzo Nissim: tra de Pisis, Lucio Battisti, Renzo Arbore e la Scuola Romana.

Renzo Nissim, Cupola di Santa Maria del Fiore, 1991. Olio su tavola.

Chiunque si interessi anche superficialmente di pittura, conosce certamente il nome di Filippo de Pisis, nome d’arte di Luigi Tibertelli (1896 – 1956). Ma anche i conoscitori più appassionati difficilmente sanno che Renzo Nissim (1907 – 1997) può considerarsi con cognizione di causa il suo ultimo, e talvolta degno, epigono. Anche nell’ecletticità: il ferrarese Filippo, laureato in lettere, è stato scrittore, poeta, critico d’arte e pittore; Il fiorentino Renzo, avvocato, musicista, giornalista radiofonico e televisivo, conduttore, commediografo….e pittore.

Nissim, per sua stessa ammissione, considerava De Pisis come il principale Maestro di riferimento: certo, cercando di distanziarsi dal suo stile (…non sempre ci è riuscito) ma, pur con risultati altalenanti, l’impronta del grande ferrarese è evidente.

Renzo Nissim, Cupola di San Pietro in Vaticano, 1992. Olio su tavola.

I due si erano anche conosciuti personalmente, quando Renzo acquistò delle opere direttamente dal Maestro: episodio raccontato dallo stesso Nissim nella sua interessante, divertente e consigliabilissima autobiografia “In cerca del domani: un’avventura autobiografica”, nella quale si narrano le peripezie di un giovane avvocato fiorentino, radiato dall’albo a seguito delle leggi razziali e costretto ad emigrare negli Stati Uniti, dove venne a contatto con molti artisti per poi diventare un commentatore radiofonico per varie emittenti, tra le quali “Voice of America”. Tornato in Italia alla fine dei ’50, proseguì in patria la sua carriera radiofonica e di musicista, oltre che come autore e conduttore di programmi musicali.

Renzo Nissim, Fori, 1993. Olio su tela.

Riguardo questo aspetto, tanto per far capire meglio il personaggio, vi proponiamo un siparietto televisivo del 1969. Il programma era “Speciale per voi”, condotto da Renzo Arbore. Renzo Nissim, schietto “comme d’habitude”, non le manda a dire, proprio “in faccia”, nientemeno che a… Lucio Battisti! In quell’occasione, ferocemente criticato per la sua voce.. 😉

Ma qui ci interessa soprattutto il Renzo Nissim pittore. Oltre a De Pisis, facile rintracciare anche l’influenza di Orfeo Tamburi (nella sua prima fase romana), Scipione e Mafai. Insomma, della Scuola Romana.

Renzo Nissim, Basilica della Salute, 1992. Olio su tavola.

Non tutta la produzione di Nissim può considerarsi memorabile; ma le vedute dei primi ’90 (quando l’autore era già oltre gli 80 anni) sono certamente meritevoli di una certa attenzione; e soprattutto tra le opere di questo periodo abbiamo scelto quelle da pubblicare, insieme a quelle degli “esordi” …da ultracinquantenne!

Renzo Nissim, San Pietro in Vaticano, 1993. Olio su tela.
Renzo Nissim, Bacino di San Marco, 1992. Olio su tavola.

Renzo Nissim, Cupola di Santa Maria del Fiore, tecnica mista su carta, 1958.




Semper fidelis

(di Damiana Ernesto)

Semper Fidelis, motto dei marines statunitensi, è il tatuaggio che Leo – il protagonista maschile del libro – porta tatuato sulle mani.

Ex marine, lavora in un poligono di tiro e con le armi ci è cresciuto. Savannah, l’altra protagonista, a quattordici anni ha visto la morte in faccia: ma questo – ora che lavora a New York nella redazione di un giornale – non le impedisce di credere nei sogni e sperare, un domani, di firmare un suo articolo. Non immagina ancora che il primo incarico che le sarà affidato sarà intorno alle armi, proprio il tema che mai avrebbe voluto trattare.

Due mondi lontanissimi quelli di Leo e Savannah, che quando si ritroveranno vicini a causa del lavoro, daranno vita, con la loro diversità, alla coinvolgente e appassionante storia che segna le pagine del libro e le loro vite stesse. Questa vicinanza, inizialmente quasi forzata, farà dapprima affiorare i ricordi dolorosi che entrambi si portano dietro. Leo ha perso il suo migliore amico durante una missione di guerra dopo l’11 settembre e dopo poco suo fratello in una rapina; il papà di Savannah è scomparso invece in un massacro scolastico, e le cicatrici che lei porta sul corpo le ricordano sempre il dolore causato da quelle armi. Entrambi si renderanno conto pian piano che avranno bisogno l’uno dell’altra per far pace con il passato e guardare al futuro con occhi diversi.

La scrittura scorrevole, dettagliata e ricca di aneddoti, è la chiave vincente per far emergere i caratteri dei protagonisti in tutte le sfumature, complesse ma compatibili a tal punto da dar luogo un un profondo intrecciarsi delle loro vite.

Semper Fidelis, edito da Triskell Edizioni, ma disponibile anche in formato kindle, segna l’esordio ufficiale come scrittrice di Erika Pomella, nata a Roma e laureata in Saperi e Tecniche dello Spettacolo Cinematografico a La Sapienza. Dopo la laurea  ha seguito un corso di specializzazione in montaggio, firmando inoltre per numerose testate online numerosi articoli su spettacolo,  cinema e libri. La Pomella ha collaborato inoltre all’organizzazione della prima edizione del festival del cinema francese in Italia.




La melanzana di David

Incontro David (David D’Amore) dopo qualche anno che non ci si vedeva.

Oggi capisco che quella che sembrava una forma di contestazione formale era una visione del futuro.

Ricordiamo brevemente i vecchi tempi e ci proiettiamo sull’oggi. Anzi, verso il domani.

D. Il nudo continua ad essere al centro delle tue opere. Perché la scelta dominante e quasi ossessiva di figure, diciamo, svestite? 
R.Credo che rappresentando il corpo si possa lavorare sulla mente. Il corpo come mezzo per scavare nel profondo a patto che il profondo esista. Il richiamo del corpo è sempre irresistibile, i tramonti possono essere stupendi, una notte stellata può essere molto romantica, ma vuoi mettere un bel paio di chiappe? 

D.  La tua produzione artistica è enorme. Disegni, incisioni, dipinti, fotografie, musica. Da cosa nasce l’esigenza di creare così tanto materiale? 
R.  Per uno che non sa fare niente l’arte era l’unico mezzo per passare il tempo. In genere le idee più brillanti mi vengono quando, in sella al mio motorino, percorro le strade di campagna in cerca di una grotta in cui infilarmi per qualche ora. 

D.  Sembra quasi che tu voglia, nei tuoi lavori, confermare una sorta di nichilismo dell’essere umano, enfatizzando  l’inutilità della ripetitività.

R.   Non sono un misantropo, in me, purtroppo, è più presente il vizio della filantropia.  

D.  Non credi che la misantropia sia una sorta di ispirazione per un Artista? Eppure  l’arte dovrebbe essere fruita dalla gente, da un pubblico. Non è un controsenso?
R.  Siamo esseri fallibili e soprattutto volubili. A causa delle nostre altalenanti vicende quotidiane  un giorno siamo fieri filantropi e il giorno dopo siamo misantropi convinti. In genere negli artisti subentra la misantropia quando si è incompresi o sottovalutati.

D.  Tu utilizzi il corpo come un contenitore, un oggetto, e lo associ sempre ad oggetti esterni a lui, come se volessi mettere in risalto la incomunicabilità delle due realtà. Questo genera una sensazione di violenza estetica, blasfema, ma con un obiettivo poetico.

R.  Sono un pessimo esempio per le nuove generazioni, lo ammetto. Nella prossima vita giuro che dipingerò solo prati in fiore e fotograferò esclusivamente località sciistiche con annessi impianti di risalita. Il termine che hai coniato, ”blasfemia poetica”, mi piace, potrebbe essere il titolo della mia prossima fotografia.

D.  Ho visto che spesso nelle tue opere compare l’immagine di una melanzana, o cucita o dipinta. Perché hai scelto proprio quell’ortaggio? 

R.  Ho scelto la melanzana per motivi estetici, non filosofici o esoterici. I riflessi sul corpo liscio di una melanzana sono fantastici da dipingere e anche da fotografare. Una mia foto del 1998, intitolata “Dissidente”, rappresenta una melanzana con un profondo taglio ricucito chirurgicamente. 

D.  Ti sei sentito o ti senti influenzato da alcuni artisti, da alcuni autori, anche letterari, nel tuo modo di produrre?
R.  L’espressionismo nordico mi ha molto attratto, ma troppe sono le cose che mi affascinano, potrei fare un elenco infinito di pittori, musicisti, registi, scrittori e fotografi importanti per la mia crescita artistica. Tra i pittori al momento ammiro il Guariento e Dierick  Bouts.  

D. Esiste un modus operandi di procedere per costruire e dare vita alle tue opere?
R.  Durante il giorno ho delle vere e proprie visioni ad occhi apertiSubito corro nel mio studio, ricreo la scena che ho visto e la fotografo. La foto rappresenta una sorta di appunto sul quale posso poi lavorare di nuovo per migliorarla.

D.Che rapporto hai con le tue opere una volta create?”   

 R.Il  rapporto con le mie opere è difficile, a volte arrivo a odiarle.   

D.  Credi nell’uomo?
R.  Ci vorrebbero cento vite per tentare di decifrare la natura umana. Io di vita ne ho solo una e cerco di dedicarla a cose più elementari e piacevoli. 

D.  C’è qualcosa che non hai ancora fatto e che ti piacerebbe fare? 
R.  Mi piacerebbe essere un artista ricco e famoso, possibilmente senza vocazione, che dipinge, suona o fotografa solo per il mercato

D.  L’amore è sopravvalutato? 
R.  Si, come tutti i vizi e le perversioni. 

D.  La morte è qualcosa di liberatorio? 
R.  Se tutto va bene, a noi umani ci attende l’inferno.

https://davidamore.weebly.com/




BO it! – Bologna, creativi a raccolta

(di Annalisa Rosati)

Logo e locandina della seconda edizione del Concorso

Il 2020 è stato per tutti un anno di forte rottura rispetto alla quotidianità e alle consuetudini a cui eravamo abituati: istruzione, lavoro, interessi, progetti, relazioni e affetti, tutti aspetti fondamentali delle nostre vite che sono stati di colpo interrotti e fermamente messi in discussione. Insomma, un game changer come si direbbe nell’universo nerd. Al loro posto, però, di abitudini ne sono nate altre, come fare il pane in casa o collegarsi con gli altri via device. E insieme alle abitudini abbiamo esplorato anche nuovi interessi: il bistrattato jogging, le passeggiate nella natura, i giochi da tavolo.

E’ sulla base di questo assunto che BO it! – Immaginando Bologna ha lanciato il tema per la sua seconda edizione: una call for artist per ripensare e – letteralmente – ridisegnare l’immagine di una città partendo da uno dei suoi simboli.

Nato proprio a Bologna nel 2018, BO it! è il concorso internazionale di illustrazione che mira a valorizzare la città di Bologna attraverso un’interpretazione artistica e creativa delle icone che la identificano, quali monumenti e altri simboli: Bologna descritta da chi la abita, da chi la immagina, da chi la scopre come turista e da chi ci arriva come migrante.

Dopo il successo della prima edizione, che ha visto la partecipazione di oltre 300 opere da tutto il mondo, la seconda edizione vede come protagonista i portici di Bologna: sagoma che rende omaggio alla candidatura come patrimonio dell’umanità UNESCO della città e che viene proposta ai creativi per la loro interpretazione artistica.

dettaglio della sagoma – traccia del concorso BO it!

“Bologna è sempre stata all’avanguardia e aperta alle innovazioni: una realtà che ha sempre raccolto prontamente gli stimoli, accolto e tradotto i cambiamenti in atto nella società” dichiara il direttivo di BO it! “Le tante difficoltà conseguenti alla pandemia in atto ci obbligano a ripensare il nostro modo di vivere la quotidianità, il lavoro e il rapporto con la città e la comunità. In questo scenario, le associazioni coinvolte nel progetto hanno scelto di rappresentare la nuova sagoma del 2021 come un unico grande abbraccio all’intera città: i portici di Bologna. È un invito a condividere le emozioni vissute durante il lockdown e le speranze e i desideri per la ripartenza.”

Il bando internazionale, che si chiuderà il 28 marzo 2021, è rivolto a tutti senza limiti di età; ed è possibile partecipare in modo individuale o collettivo. Una giuria qualificata selezionerà le 30 opere finaliste, che saranno esposte al pubblico in una mostra urbana realizzata in concomitanza con la Bologna Children’s Book Fair – Fiera del Libro per Ragazzi (14-17 giugno 2021). Tra le novità di questa edizione, i tre premi che saranno assegnati ai tre vincitori: Primo Premio “Città di Bologna” del valore di 1.200€, il Secondo Premio “Città dei Portici” del valore di 600€ e il Terzo Premio con un kit tecnico offerto da Maimeri.

Il progetto è accompagnato da un percorso di masterclass e laboratori, sia on-line che in presenza nel rispetto delle linee guida anti-covid19, volti a promuovere l’inclusività e la partecipazione di giovani creativi non professionisti e persone con bisogni particolari, come migranti o persone con disabilità.

“BO it!” è un’iniziativa culturale promossa dalle associazioni Il Civico 32 e MenoPerMeno, con il contributo della Fondazione Del Monte di Bologna e Ravenna e COOP Adriatica, promossa e sostenuta da Comune di Bologna, Bologna Welcome, Fiera del Libro per Ragazzi, Maimeri, Galleria Millenium, CotaBo, in collaborazione con Accademia di Belle Arti di Bologna, Cooperativa Nazareno e Autori di Immagini.

La seconda edizione del concorso, avviato con il Patrocinio del Comune di Bologna, rientra tra le iniziative per la Candidatura UNESCO dei Portici di Bologna.

CONTATTI:

boitcontest@gmail.com

www.bo-it.org




Le installazioni di Anghelopoulos, Micaela Legnaioli e Fabiana Roscioli per la Collettiva Rome Art Week “We as Nature”

(di Sabrina Consolini)

Per il primo numero di questa rivista online vogliamo dare spazio alla più importante manifestazione di Arte Contemporanea che si è tenuta a Roma a fine 2020: la IV ed. di Rome Art Week (dal 26 al 31 ottobre) che a causa delle restrizioni del DpCM ha visto annullati, all’ultimo, i tantissimi degli oltre 100 eventi espositivi in programma che sono visibili (per tutto il 2021) a 360° sul sito www.romeartweek.com. Dei 350 artisti italiani che hanno partecipato a RAW 2020, in 50 sono invece presenti alla Collettiva prevista per l’Opening, “We as Nature”, un progetto della curatrice Roberta Melasecca che fa riferimento all’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. La Collettiva a cura di Roberta Melasecca, con la collaborazione dei curatori Fabio Milani e Sabrina Consolini si è tenuta presso gli spazi dell’Hotel Ripa Roma e Ripa Place. Tra i 50 artisti partecipanti troviamo alcuni nomi celebri dell’arte contemporanea come Achille Pace, Piero Gilardi, Tancredi Fornasetti e Achille Perilli che si sono confrontati con opere su tela, sculture e installazioni, per indagare il rapporto tra uomo e natura. A catturare il nostro sguardo, perché più concettuali, sono state soprattutto alcune opere di noti e raffinati artisti internazionali: Anghelopoulos, Micaela Legnaioli e Fabiana Roscioli.

All’ingresso nella hall dell’Hotel erano esposte due installazioni: quella di Anghelopoulos “Stazione di posta-Riappropriazione” sottotitolo Sedia con lettere (2019) è composta da semplici oggetti in legno: un bancale (oggetto simbolo del mercato globale su cui vengono trasportate le merci), una vecchia sedia in legno (che è memoria del nostro passato, dei nostri anziani e della vita semplice nelle campagne) e da un cumolo di lettere intagliate (con cui i bimbi imparano le lettere dell’alfabeto e a scrivere il loro nome). Questi semplici elementi, di legno naturale, rappresentano per Anghelopoulos un punto di sosta, di osservazione per l’uomo viaggiatore – sia nel senso di “post-azione”, ovvero nuovo insediamento, con uno spirito pionieristico, quindi con volontà di ricostruzione di una umanità che deve ripartire dalla Natura e dalla Comunicazione, autentica, tra esseri umani. La base per quella ricostruzione di un Nuovo Umanesimo -indicato dal sociologo Zygmunt Bauman- che è urgente e necessaria e che deve compiersi dalle ceneri delle rovine della comunicazione contemporanea. Una comunicazione che attraverso l’uso eccessivo dei social e dei media è spesso omologata, banalizzata, urlata e che non comunica più le cose davvero importanti. Ecco allora che la Stazione di posta di Anghelopoulos è un’occasione per fermarsi e riappropriarsi dei significati, soprattutto delle parole, dei simboli -a partire dai più elementari- e successivamente dei gesti che possono generare azioni complesse e socialmente significative.

Di fronte, troviamo l’installazione di Fabiana Roscioli “Paradiso e Inferno” (1989) che è composta da un dipinto su un grande pannello. L’opera è davvero molto raffinata e realizzata sui toni naturali dell’ocra, dell’azzurro e del verde muschio su uno fondo dorato che raffigura, accanto ad elementi decorativi naturali, un grande uovo. Quest’ultimo che è il simbolo della vita che compare insieme alla Colomba è stato scelto per la collettiva dall’artista, come opera-simbolo della forza rigeneratrice, necessaria all’uomo, per una Vita in Armonia e Pace con la Natura. L’opera è poggiata su di una vecchia sedia in paglia con alcuni rami con foglie, bacche e fiori.

L’altra grande installazione di Micaela Legnaioli “Foglie nel vento” (2019) posta nel Ripa Place è costituita da un muro bianco e da ventidue foglie, tutte di forma e dimensioni differenti, così come diversa è la loro provenienza. Le foglie, poste l’una accanto all’altra, sono realizzate in gesso e resina, di colore bianco, per sottolinearne l’omogeneità nella loro diversità. La vicinanza delle foglie è casuale e provvisoria. Quando arriverà il vento spargerà le foglie ognuna in un’altra collocazione. La foglia simboleggia l’ineluttabilità del cambiamento e del rinnovamento. Le foglie hanno poteri curativi e protettivi. Le foglie rappresentano noi esseri umani, tutti diversi, vicini ma in balìa del vento della vita che ci porta in posti a noi sconosciuti. Il muro bianco è il luogo dove idealmente viviamo e rappresenta il nostro destino invisibile: assume spessore e materia attraverso le foglie che sembrano emergere. Il muro, dove temporaneamente siamo appesi, sottintende per le foglie il dato casuale del trovarsi in un punto piuttosto che in un altro.  Ad essere raffigurato è un luogo mentale per descrivere l’incertezza del destino degli esseri umani. “Il bianco ci colpisce come un grande silenzio che ci sembra assoluto” scriveva Kandinskij. Il bianco come astrazione e sottrazione. Bianco è il muro e bianche sono le foglie, diverse nella forma, come una storia di destini e silenzi differenti. La certezza di trovarsi a lungo in un posto custodito o in una situazione confortevole non esiste. Noi tutti, nel tempo che ci è dato vivere, come le foglie, viaggiamo nel mondo indipendentemente dalla nostra volontà. Cerchiamo di controllare e scegliere il nostro viaggio ma, forze più grandi di noi, stabiliscono il nostro percorso. L’artista Micaela Legnaioli vuole far riflettere sul fatto involontario e l’accidentalità del trovarsi in un determinato luogo a causa dell’imprevedibilità della vita che, come il vento con le foglie, scompagina, sposta e rimescola decidendo il destino di ognuno.

https://it.linkedin.com/in/sabrina-consolini-3b691419/it-it




Il suono intrappolato

Al centro: Infiltration Homogen für Konzertflügel, Joseph Beuys, 1966. Paris, Centre Pompidou.

(di Cristiana Caserta)

Joseph Beuys amava il feltro, fin da quando, pilota nella Seconda guerra mondiale, abbattuto dal nemico e precipitato col suo aereo in Crimea, sperimenta il freddo e rischia di morire assiderato: lo salva un gruppo di nomadi tartari, curandolo con antiche pratiche mediche. Di feltro era il suo cappello, iconico, che ne sottolineava lo sguardo fermo.

Ricoperta di feltro è anche una delle sue opere più famose: Infiltrazione omogenea per pianoforte a coda (1966), a Parigi, Centre Georges Pompidou.

L’installazione consiste in un pianoforte interamente avvolto nel feltro grigio. Il suo interesse risiede non soltanto nella rete di concetti che ha presieduto alla sua ideazione e realizzazione, ma al dialogo che è capace di intessere con altre immagini. L’immagine del pianoforte ‘incappottato’ – così apparentemente eccentrica – è capace di attrarre altre immagini, e aggregarle. Come in una Tavola del Bilderatlas di Aby Warburg, il geniale storico dell’arte tedesco che aveva ideato un Atlante di immagini, organizzate in Tavole – su ciascuna tavola un montaggio fotografico di riproduzioni di opere diverse, ritagli di giornale, etichette e altro – intorno a motivi, temi iconografici.

Di che parla infatti Infiltrazione omogenea? Del suono. E del silenzio. Il pianoforte è, come altre ‘opere’ di Beuys, un oggetto che racconta la sua storia. Questa storia è fatta di suono e di silenzio: di suono, perché il pianoforte può produrlo: anzi, è costruito per produrre un suono; di silenzio, o di ‘suono in potenza’, che è ciò che accade quando lo strumento non è usato, quando nessuno esercita su di esso un’attività creativa. Ma l’installazione dice più di questo: il suono del piano è intrappolato dentro un panno di feltro.

Se un pianoforte ha sempre un suono potenziale, “in questo caso – dice Beuys – invece non è possibile nessun suono e il pianoforte è condannato al silenzio. (…) Infiltrazione omogenea descrive il carattere e la struttura del feltro, così il piano diventa un deposito omogeneo di suono con la capacità di filtrare il suono attraverso il feltro. L’aggancio con la posizione dell’uomo è indicato dalle due croci rosse che stanno a significare emergenza, il pericolo che ci minaccia se rimaniamo in silenzio”.

Il pianoforte non è dunque semplicemente non-usato, è messo proprio a tacere, “muto, sofferente”, volontariamente intrappolato nel feltro. Il feltro: isolante nei confronti del calore, dell’energia e del suono.

Cioè: silenzio non è semplicemente l’assenza di suono; la sua impossibilità è creata artificialmente attraverso l’isolamento. E il feltro è la materia che racconta questo isolamento.

[Beuys prese parte al movimento Fluxus, che portò in Europa le concezioni del Neodadaismo americano a partire dagli anni ’50; ma si ricollega anche a Tatlin e all’Avanguardia russa degli anni della Rivoluzione d’Ottobre. L’artista sovietico sperimenta viene l’interdizione della voce, della rappresentazione del movimento, di tutto ciò che può alludere al cambiamento dello stato di cose. Tatlin tende allora a far muovere letteralmente le persone, gli oggetti, le luci. Prendendo spunto dall’esperienza teatrale. Questa nuova grammatica artistica è presupposta dalle installazioni di Beuys e dalla riflessione sul silenzio imposto.]
Da Infiltrazione omogenea si deve fare un salto indietro di qualche migliaio di
anni per imbattersi in alcune immagini che lasciano perplessi gli studiosi.
Nella pittura vascolare greca alcuni eroi del mito appaiono raffigurati in una
strana posizione: seduti, in pensiero, col busto piegato in avanti e la mano
posata sul capo. Nulla di strano. Ma anche: avvolti nei mantelli,
letteralmente imbacuccati (che siano mantelli, cioè feltro o lana, e non velo lo sappiamo per certo: i pittori greci erano maestri nella resa pittorica della trasparenza).
Sorprendentemente, è spesso raffigurato in questo atteggiamento il guerriero per eccellenza: Achille. In diversi momenti della sua breve e gloriosa vita raffigurati dai ceramografi, l’eroe sta seduto, ammantato.
Una postura che toglie al corpo ogni possibilità di movimento, ogni agilità.

In Omero, cioè nel testo da cui quelle immagini dipendono, non c’è niente del genere. Achille è seduto, sì, ma non avvolto nel mantello.
Il ceramografo, anonimo, pensato di rendere figurativamente in questo modo il silenzio sdegnato dell’eroe, il versante sonoro della sua ira. Cioè l’assenza di sonorità. Sia quando soffre per l’affronto di essere privato della schiava Briseide, prelevata dalla sua tenda per essere donata ad Agamennone; sia quando gioca a dadi con Odisseo che vuole convincerlo a riprendere la guerra,

o quando la madre Teti lo consola per la morte di Patroclo, amico adorato; in tutte queste occasioni Achille è ‘sordo’ ad ogni tentativo di persuasione e incapace di articolare parola, muto. Solo e in disparte, mentre intorno a sé infuria la battaglia, Achille è isolato, invisibile. E perciò, in figura: ammantato.
[In gioco, nell’ira di Achille, c’è più di uno sgarbo ricevuto. Egli ha subito una ferita profonda, che sfigura
non il corpo ma l’onore, che i Greci chiamavano timé: privato della sua donna, il suo “dono”, egli è ridotto
all’impotenza tout court.]

Completiamo la Tavola col fotogramma di un film di Giovanni Veronesi di qualche anno fa: Manuale
d’amore 2. Capitoli successivi.
È un dialogo fra il protagonista Ernesto (Carlo Verdone) e Fulvio, un conduttore radiofonico (Claudio
Bisio).
Ernesto è un uomo di mezz’età, con un matrimonio noioso ed una vita abitudinaria, improvvisamente
sconvolta dall’arrivo di Cecilia, giovane, bella, abbandonata dal padre.
Inizia una intensa e passionale relazione.
Una scena del film ci mostra Ernesto e Cecilia sulla terrazza di un palazzo popolare, fra i fili del bucato e i panni appesi, che si nascondono sotto un lenzuolo (Veronesi gioca con la scena in terrazza di Una giornata particolare con Loren e Mastroianni.) Ed ecco perché, malato e tornato infine dalla moglie, Ernesto racconta – a Fulvio in diretta radiofonica – la fine della storia in questo modo (corsivi miei):
Fulvio: “No no Ernesto, non mollare adesso eh! Regalaci ancora un’immagine”.
Ernesto: “Ma che ne so Fulvio, che ne so… Io non avevo mai tradito mia moglie e da quel giorno non l’ho fatto più, però, ogni tanto, quando litighiamo e ho voglia di sentirmi un po’ infedele, vengo qua su in questa terrazza, prendo un lenzuolo e me lo metto in testa, poi recito quella poesia. ‘C’è la neve nei miei
ricordi / c’è sempre la neve / e mi diventa bianco il cervello / se non la smetto di ricordare’”.
Le immagini intanto scorrono su Ernesto che si copre la testa con un lenzuolo.

Fuori, il mondo con le sue rassicuranti noiose abitudini. La trappola matrimoniale ha silenziato la voce di
Ernesto ed essa si può esprimere soltanto dentro lo spazio del lenzuolo. E si esprime con le parole di lei,
in poesia, la poesia di Cecilia. Rivive empaticamente il mondo interiore di Cecilia e trova in esso la voce
perduta.
Ma che ne è del suono di Achille? Ebbene in Omero, quando l’eroe decide di partecipare infine alla
battaglia, di mettere da parte l’ira, egli si alza in piedi (era stato sempre seduto, durante la sua ira) a capo
scoperto, disarmato e si fa vedere dai nemici dall’alto di un fossato:
“Tre volte sopra il fossato gridò alto Achille glorioso,
tre volte furon sconvolti i Troiani e gli illustri alleati”
Non sfugga la precisazione “tre volte …. tre volte”: è la corrispondenza fra il gettito di voce e la reazione
dei nemici. La voce di Achille – quando decide di usarla – non è inutile, il suo grido non è frastuono né
schiamazzo, non cade invano: ogni sua emissione ha il suo effetto, l’effetto per cui è stata prodotta.
Resta “muto, sofferente” solo il pianoforte. Necessariamente. Da questo punto di vista, la piena fruizione
di una installazione come Infiltrazione omogena coinciderebbe con la sua distruzione in quanto opera d’arte:
l’unico gesto creativamente compatibile con Infiltrazione omogena è infatti quello di liberare il pianoforte
dal feltro e infine suonare.
Chissà che Beuys non se lo aspettasse!

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https://independent.academia.edu/CristianaCaserta




Creativa per Caso: Anna La Tati Cervetto

Era da tempo che volevo incontrare Anna La Tati Cervetto.

Avevo scoperto i suoi disegni su Linkedin prima, e poi mi sono messo a seguire il suo profilo su Instagram.

Ho provato a contattarla e lei si è subito dimostrata una persona aperta e solare, il tipo di persona che in una telefonata riesce a darti l’impressione di conoscerla da sempre.

Una telefonata che ha aperto un mondo tutto da scoprire.

Abbiamo concordato una intervista via zoom come siamo abituati a fare in questo periodo della nostra vita, ripromettendoci di incontrarci appena sarà possibile.

Una intervista non è bastata, andrebbero fatte più puntate per raccontare la storia di Anna. Non è detto che non succederà in futuro.

Parte il video e quasi senza salutarci, mi dice subito una cosa che sarà il filo conduttore di tutta la chiacchierata.

“Sono una Creativa per Caso!”

Oggi si parla spesso di legge di attrazione che governa la nostra vita.

Tutto ciò che accade nella nostra vita e in generale nel mondo, ha un preciso senso ed è la conseguenza di una o più cause.

E le cause le creiamo noi.

Chiedo ad Anna se si senta responsabile di ciò che lei è oggi.

Naturalmente si. Ma non sottovaluto l’influenza che l’Universo ha nei miei confronti. Ho iniziato a lavorare come grafico, quando studiavo medicina veterinaria all’università. Potevo essere una veterinaria, ma forse il Caso ha deciso diversamente, strano no?

E invece?

E invece negli anni novanta sono stata l’assistente di importanti Art Director e questo mi ha consentito di ingentilire, migliorare, affinare e raffinare le mie capacità e competenze tecniche ed artistiche.

Parliamo di una realtà che forse non esiste più. Immagino Agenzie dove si disegnava a mano e i bozzetti erano materici e si presentavano di persona..

Infatti. Erano i tempi della Milano da Bere, le Agenzie di comunicazione famose dove facevi nottata. Ma fine anni 90 il Web e le sue grandi possibilità espressive, mi hanno letteralmente affascinata. Anzi. Irresistibilmente affascinata. Così, sono diventata Web Designer.

Possiamo dire che quella è stata la svolta?

Possiamo dire che così ho iniziato a disegnare. E l’ho fatto, pescando in quel pozzo di creativa interiorità di pensieri, affetti e aspirazioni che, domina, governa e guida la mia intera esistenza.

Il disegno come esperienza terapeutica, dove quello che si riesce a tirare fuori da se stessi è una creatività che magari esiste da sempre, ma sopisce nel profondo dell’Anima?

Esatto. Disegnare per me è scoprire e accedere a quella parte di me stessa che resta nell’ombra. Attingere, senza giudizio , al giardino delle meraviglie nascoste. Ciò che nutre la mia creatività è una curiosità inesauribile, inesausta e rinnovabile che di recente – mi ha portato ad esplorare più a fondo, il mondo delle illustrazioni e della colorazione digitale.

Ci sono particolari tecniche che usa?

Amo le tecniche miste, i collage, le sovrapposizioni, i colori e le materie che si miscelano, si scontrano e parlano.

Una sperimentazione continua, possiamo dire così?

Si, esattamente. In tutte le mie espressioni, dagli impaginati al crochet, l’aspetto più interessante per me è la sperimentazione. Lasciarmi condurre laddove parlano i colori e le forme.

Molti dei suoi lavori fanno riferimento al filone ucronico, o almeno figurativamente ipotizzano come sarebbe stato il passato se il futuro fosse arrivato prima. E’ un “caso”?

No! Frequento con passione lo stile Steam Punk perché mi riconosco nella spinta esploratrice della tecnologia anacronistica, nelle macchine fantastiche che ti aprono possibilità infinite.
Una simbologia potente, capace di creare ogni progresso e meraviglia.

Alcuni elementi grafici sono ricorrenti per contenuti e forme. Una sua opera è riconoscibilissima.

Amo le composizioni estreme, fatte di geometrie e forme libere.
Le cerco, le studio e le applico anche nei miei disegni… disegni che parlano di donne e mondi liberi, alle volte oscuri, in cui cercare risposte e liberazione da pensieri bisbetici che vogliono – e devono –
essere ascoltati.

Che tecnica usa?

Tutti i miei lavori sono realizzati usando Procreate, Fresco e Photoshop per la colorazione e rifinitura dei bozzetti.  Sketches realizzati normalmente a matita, ma spesso anche e direttamente utilizzando Fresco o Procreate per i quali ho personalizzato pennelli basati su mie matite e inchiostri.

Tutti i lavori di Anna sono bellissimi. Li intravedo alle sue spalle, più o meno visibili, alcuni li riconosco per averli visti postati sul suo profilo.

Mi piacerebbe averne uno originale in regalo. Non ho il coraggio di chiederlo ma immagino di riceverlo con una dedica e la sua firma, che è anche il suo Logo..

Ah, dimenticavo. Il mio Logo nasce dall’ inchiostro impertinente, che si è rovesciato su un foglio. Anche questo, è successo – ancora una volta – per Caso.

… un segno dell’universo? Ma il caso, poi, esiste?

https://annalatati.myportfolio.com/welcome-guy




I bambini non si toccano

Ci siamo imbattuti per puro caso in questa intervista, ci siamo incuriositi, abbiamo letto il libro (disponibile anche su Amazon in formato kindle)

Che dire? Non tradisce le attese, si vede che l’autore Stefano Montalto in questa opera prima (ben maturata, lui non sembra certo di primo pelo) ne ha passate abbastanza – sui campi da Rugby e pure “fuori” – da poterne raccontare almeno una parte in maniera romanzata.

Intervista a Stefano Montalto, autore di “I bambini non si toccano”

Ah, vorremmo aggiungere che (al di là di quanto asserito dallo stesso scrittore durante l’intervista) i protagonisti di questo romanzo di avventure mozzafiato in giro per il mondo – Paul e Abu Bakr, l’uno italo-scozzese e l’altro nigeriano, “uomini veri” senza macchia e senza paura – vengono comunque messi in secondo piano dal risalto dei personaggi femminili Sarah e Brigid, dipinte a metà tra Beatrice (sì, quella di Dante) e Lara Croft (no, qui Dante non c’entra).

Si legge, appunto tra le righe ma neanche tanto, che a Stefano le Donne piacciono. E molto.

E come secondo noi (anche) alle Donne piacerà il libro.

Firmato: le redattrici di “Fuori” 😉

(anteprima disponibile su Amazon.it)

https://www.stefano-montalto.com/